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Storia d’impresa per capire meglio il presente

Il racconto della Società anonima raffinerie sarde

Capire il presente anche sulla scorta del passato. Metodo d’azione importante. Che vale per “mettere al sicuro” in termini di conoscenze anche la pianificazione d’impresa. Applicazione, in altri termini, dell’indicazione – sempre saggia -, della necessità di imparare anche dagli errori. Apprendere delle vicende passate anche delle imprese più significative, è quindi cosa utile. Sempre. Per questo è utile leggere “La Saras. Quarant’anni di strategia petrolifera familiare tra storia d’impresa e storia del lavoro (1962-2001)”, contributo di ricerca di William Mazzaferro (Università di Torino)  apparso recentemente su IMPRESE E STORIA.

L’intento dell’articolo è ben sintetizzato nelle prime righe: rispondere ad una duplice esigenza e cioè “quella di colmare un oggettivo vuoto storiografico” e, dall’altra, “quella di comprendere le ragioni alla base del successo della Saras (Società anonima raffinerie sarde)”.

Caso tra l’altro particolare, quello della Saras identificata come “un’azienda che è riuscita non solo ad inserirsi in un mercato caratterizzato dalla presenza di notevoli ostacoli all’ingresso ma che, nel tempo, ha saputo anche affrontare efficacemente molte difficoltà, fino ad arrivare a gestire quella che è attualmente la più grande raffineria petrolifera attiva in Italia”.

Mazzaferro, ripercorre quindi le vicende aziendali di Saras dal 1962 all’inizio del XXI° secolo, ragionando sulle caratteristiche di fondo dell’azienda indicata come uno degli esempi di imprese del cosiddetto “quarto capitalismo” e in particolare: una forte internazionalizzazione, una dimensione media in termini di addetti, una origine che affonda le radici nella storia e una proprietà familiare. Ne emerge così un racconto interessante per aggiungere un tassello alla conoscenza di come si è formata l’attuale realtà industriale (tra l’altro in un comparto delicato come quello dell’energia).

La Saras. Quarant’anni di strategia petrolifera familiare tra storia d’impresa e storia del lavoro (1962-2001) 

William Mazzaferro
IMPRESE E STORIA, Fascicolo 2022/46

Il racconto della Società anonima raffinerie sarde

Capire il presente anche sulla scorta del passato. Metodo d’azione importante. Che vale per “mettere al sicuro” in termini di conoscenze anche la pianificazione d’impresa. Applicazione, in altri termini, dell’indicazione – sempre saggia -, della necessità di imparare anche dagli errori. Apprendere delle vicende passate anche delle imprese più significative, è quindi cosa utile. Sempre. Per questo è utile leggere “La Saras. Quarant’anni di strategia petrolifera familiare tra storia d’impresa e storia del lavoro (1962-2001)”, contributo di ricerca di William Mazzaferro (Università di Torino)  apparso recentemente su IMPRESE E STORIA.

L’intento dell’articolo è ben sintetizzato nelle prime righe: rispondere ad una duplice esigenza e cioè “quella di colmare un oggettivo vuoto storiografico” e, dall’altra, “quella di comprendere le ragioni alla base del successo della Saras (Società anonima raffinerie sarde)”.

Caso tra l’altro particolare, quello della Saras identificata come “un’azienda che è riuscita non solo ad inserirsi in un mercato caratterizzato dalla presenza di notevoli ostacoli all’ingresso ma che, nel tempo, ha saputo anche affrontare efficacemente molte difficoltà, fino ad arrivare a gestire quella che è attualmente la più grande raffineria petrolifera attiva in Italia”.

Mazzaferro, ripercorre quindi le vicende aziendali di Saras dal 1962 all’inizio del XXI° secolo, ragionando sulle caratteristiche di fondo dell’azienda indicata come uno degli esempi di imprese del cosiddetto “quarto capitalismo” e in particolare: una forte internazionalizzazione, una dimensione media in termini di addetti, una origine che affonda le radici nella storia e una proprietà familiare. Ne emerge così un racconto interessante per aggiungere un tassello alla conoscenza di come si è formata l’attuale realtà industriale (tra l’altro in un comparto delicato come quello dell’energia).

La Saras. Quarant’anni di strategia petrolifera familiare tra storia d’impresa e storia del lavoro (1962-2001) 

William Mazzaferro
IMPRESE E STORIA, Fascicolo 2022/46

L’abbondanza lascia il posto all’abbastanza

La raccolta di saggi 2023 del Centro Einaudi fornisce una prospettiva possibile per i sistemi sociali ed economici mondiali

Illusi dall’abbondanza, i sistemi sociali ed economici occidentali si sono ritrovati a dover fare i conti con un’economia e delle prospettive ben diverse da quelle di solo qualche anno fa. E’ qualcosa che ha investito bene o male tutti: semplici cittadini, imprese, istituzioni, organizzazioni sociali ed economiche. Qualcosa che va compreso a fondo. Anche solo per non farsi illusioni. Partendo da una constatazione: il grado di complessità ha raggiunto livelli altissimi. Leggere la consueta raccolta di analisi condotta dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino (con il sostegno di Intesa Sanpaolo), serve allora per affrontare questa complessità con un bagaglio di conoscenze utili ad iniziare a capire.

“Dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’ abbastanza” – è questo il titolo della raccolta di saggi predisposta dal Centro quest’anno -, dice tutto dal titolo e si dipana in quattro tappe e una conclusione. Il lavoro di Mario Deaglio, che ha curato il volume insieme ad una squadra di economisti raccolti attorno al Centro Einaudi, prende le mosse da una serie di considerazioni. Prima di tutto che il sistema degli scambi e degli equilibri internazionali che si era esteso a tutto il mondo prima della crisi finanziaria del 2008-2009 è ormai cosa affidata alla storia. Poi che la successiva tempesta economico-sociale, geopolitica, climatica che stiamo ancora attraversando ci ha proiettati in un mondo che possiamo chiamare “postglobale”, caratterizzato dal parziale abbandono delle regole del libero mercato, dall’incentivazione al ritorno in patria delle industrie nazionali e dalla necessità – e contemporanea difficoltà – a tradurre in piani concreti i progetti “verdi”. Infine che quanto accaduto dall’inizio della guerra Russia-Ucraina e a seguito delle tensioni Cina-USA, sta ulteriormente complicando uno scenario già abbastanza serio.

Il libro quindi inizia con una analisi del “crepuscolo della globalizzazione” per poi passare a porre attenzione sui punti deboli di Stati Uniti ed Europa per arrivare ad approfondire le molte guerre che di fatto – seppur con formule diverse – ripropongono il confronto della “guerra fredda”. Nelle conclusioni viene quindi posta una domanda. La frattura globale che si sta aprendo porterà a un’atmosfera mondiale di grande ostilità? Provocherà un rallentamento strutturale della crescita o sarà solo un sussulto temporaneo? Fedele allo spirito di serietà degli studi condotti dal Centro Einaudi, il libro non fornisce una risposta univoca ma una serie di scenari accomunati però da una constatazione: dobbiamo  dimenticarci i tempi spensierati, e in parte irresponsabili, in cui eravamo convinti di vivere una condizione di facile abbondanza, cercando invece di costruire, ad iniziare dall’ambiente, una “età dell’abbastanza”, nella quale si possa vivere ragionevolmente bene. Una prospettiva che il lavoro curato da Deaglio non dà come impossibile.

Dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’ abbastanza

Mario Deaglio (a cura di)

Guerini e associati, 2023

La raccolta di saggi 2023 del Centro Einaudi fornisce una prospettiva possibile per i sistemi sociali ed economici mondiali

Illusi dall’abbondanza, i sistemi sociali ed economici occidentali si sono ritrovati a dover fare i conti con un’economia e delle prospettive ben diverse da quelle di solo qualche anno fa. E’ qualcosa che ha investito bene o male tutti: semplici cittadini, imprese, istituzioni, organizzazioni sociali ed economiche. Qualcosa che va compreso a fondo. Anche solo per non farsi illusioni. Partendo da una constatazione: il grado di complessità ha raggiunto livelli altissimi. Leggere la consueta raccolta di analisi condotta dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino (con il sostegno di Intesa Sanpaolo), serve allora per affrontare questa complessità con un bagaglio di conoscenze utili ad iniziare a capire.

“Dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’ abbastanza” – è questo il titolo della raccolta di saggi predisposta dal Centro quest’anno -, dice tutto dal titolo e si dipana in quattro tappe e una conclusione. Il lavoro di Mario Deaglio, che ha curato il volume insieme ad una squadra di economisti raccolti attorno al Centro Einaudi, prende le mosse da una serie di considerazioni. Prima di tutto che il sistema degli scambi e degli equilibri internazionali che si era esteso a tutto il mondo prima della crisi finanziaria del 2008-2009 è ormai cosa affidata alla storia. Poi che la successiva tempesta economico-sociale, geopolitica, climatica che stiamo ancora attraversando ci ha proiettati in un mondo che possiamo chiamare “postglobale”, caratterizzato dal parziale abbandono delle regole del libero mercato, dall’incentivazione al ritorno in patria delle industrie nazionali e dalla necessità – e contemporanea difficoltà – a tradurre in piani concreti i progetti “verdi”. Infine che quanto accaduto dall’inizio della guerra Russia-Ucraina e a seguito delle tensioni Cina-USA, sta ulteriormente complicando uno scenario già abbastanza serio.

Il libro quindi inizia con una analisi del “crepuscolo della globalizzazione” per poi passare a porre attenzione sui punti deboli di Stati Uniti ed Europa per arrivare ad approfondire le molte guerre che di fatto – seppur con formule diverse – ripropongono il confronto della “guerra fredda”. Nelle conclusioni viene quindi posta una domanda. La frattura globale che si sta aprendo porterà a un’atmosfera mondiale di grande ostilità? Provocherà un rallentamento strutturale della crescita o sarà solo un sussulto temporaneo? Fedele allo spirito di serietà degli studi condotti dal Centro Einaudi, il libro non fornisce una risposta univoca ma una serie di scenari accomunati però da una constatazione: dobbiamo  dimenticarci i tempi spensierati, e in parte irresponsabili, in cui eravamo convinti di vivere una condizione di facile abbondanza, cercando invece di costruire, ad iniziare dall’ambiente, una “età dell’abbastanza”, nella quale si possa vivere ragionevolmente bene. Una prospettiva che il lavoro curato da Deaglio non dà come impossibile.

Dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’ abbastanza

Mario Deaglio (a cura di)

Guerini e associati, 2023

“Risuona”, la serie podcast di Fondazione Pirelli e Chora Media

Risuona”, la serie podcast di Fondazione Pirelli e Chora Media con Gino De Crescenzo, in arte Pacifico.
Un progetto formativo sui temi del lavoro e della cultura d’impresa

 Da oggi la serie podcast “Risuona”, prodotta da Chora Media e promossa da Fondazione Pirelli, è disponibile con un episodio a settimana sulle principali piattaforme audio free (Spotify, Apple Podcast, Spreaker, Google Podcast).

La voce narrante è quella di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico, cantante, musicista e autore. Ha scritto per e con Andrea Bocelli, Giorgia, Gianni Morandi, Ennio Morricone, Ornella Vanoni e Zucchero, tra gli altri.

Nel corso di quattro episodi, percorrendo in bicicletta le strade di Milano, Pacifico racconta storie di lavoro, cultura d’impresa e dell’innovazione, tra ricordi e testimonianze, e con il supporto di materiali provenienti dal nostro Archivio Storico che evocano risonanze tra le sfide del passato e quelle del futuro.

Milano diventa nella narrazione il paradigma di una storia italiana, tra vocazione industriale e approccio alla cultura come servizio pubblico, dagli anni della ricostruzione e poi del boom economico, passando attraverso la crisi energetica, fino alla narrazione della contemporaneità.

Attraversando su due ruote alcuni luoghi simbolo del capoluogo lombardo – come l’Arena Civica, il Grattacielo Pirelli, il Piccolo Teatro, la Stazione Centrale – i suoni della città si intrecciano alle voci e alle testimonianze dei protagonisti del mondo dell’università, della ricerca, del design, della musica e delle imprese. Gli echi delle fatiche di Gino Bartali al Giro d’Italia si sovrappongono alle note dei “pianoforti preparati” di John Cage e David Tudor: viti, biglie, cucchiaini, pinze per biancheria, cannucce di bambù, ingranaggi di orologeria; le parole di Dino Buzzati si accordano ai rumori della produzione, dalla fabbrica tradizionale all’industria 4.0.

E tutto “risuona”, per riflettere sul passato e sul presente della cultura dell’impresa e del lavoro, e per provare a immaginare, e costruire, il futuro.

Risuona”, la serie podcast di Fondazione Pirelli e Chora Media con Gino De Crescenzo, in arte Pacifico.
Un progetto formativo sui temi del lavoro e della cultura d’impresa

 Da oggi la serie podcast “Risuona”, prodotta da Chora Media e promossa da Fondazione Pirelli, è disponibile con un episodio a settimana sulle principali piattaforme audio free (Spotify, Apple Podcast, Spreaker, Google Podcast).

La voce narrante è quella di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico, cantante, musicista e autore. Ha scritto per e con Andrea Bocelli, Giorgia, Gianni Morandi, Ennio Morricone, Ornella Vanoni e Zucchero, tra gli altri.

Nel corso di quattro episodi, percorrendo in bicicletta le strade di Milano, Pacifico racconta storie di lavoro, cultura d’impresa e dell’innovazione, tra ricordi e testimonianze, e con il supporto di materiali provenienti dal nostro Archivio Storico che evocano risonanze tra le sfide del passato e quelle del futuro.

Milano diventa nella narrazione il paradigma di una storia italiana, tra vocazione industriale e approccio alla cultura come servizio pubblico, dagli anni della ricostruzione e poi del boom economico, passando attraverso la crisi energetica, fino alla narrazione della contemporaneità.

Attraversando su due ruote alcuni luoghi simbolo del capoluogo lombardo – come l’Arena Civica, il Grattacielo Pirelli, il Piccolo Teatro, la Stazione Centrale – i suoni della città si intrecciano alle voci e alle testimonianze dei protagonisti del mondo dell’università, della ricerca, del design, della musica e delle imprese. Gli echi delle fatiche di Gino Bartali al Giro d’Italia si sovrappongono alle note dei “pianoforti preparati” di John Cage e David Tudor: viti, biglie, cucchiaini, pinze per biancheria, cannucce di bambù, ingranaggi di orologeria; le parole di Dino Buzzati si accordano ai rumori della produzione, dalla fabbrica tradizionale all’industria 4.0.

E tutto “risuona”, per riflettere sul passato e sul presente della cultura dell’impresa e del lavoro, e per provare a immaginare, e costruire, il futuro.

Guardare in alto, sempre

Condensato in un libro il dialogo tra un filosofo e un tecnologo su cultura e tecnica

Cultura politecnica. Cultura omnicomprensiva del produrre e progredire con attenzione e rispetto. Delle persone e dell’ambiente. Cultura per tutti. Che porta a guardare in alto e non solo indietro e in basso. E’ sempre difficile – ma affascinante -, il ragionamento attorno alle nuove tecnologie, al progresso, all’uomo nelle sue diverse espressioni, alle modalità per sciogliere i nodi del presente e tessere una buona stoffa per il futuro. Eppure, è un ragionamento da condurre. E c’è chi riesce meglio di altri nel compito.

E’ il caso di Maurizio Ferraris e Guido Saracco (filosofo il primo, ingegnere chimico il secondo), che hanno provato con il loro “Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova”, a tracciare una strada inconsueta per arrivare in poco meno di duecento pagine ad una sintesi tentata da molti e raggiunta da pochissimi.

Il libro è, tutto sommato, riassunto nelle due affermazioni poste subito in copertina: “Il farmaco più potente a disposizione della scimmia nuda è la tecnica, e la tecnica più potente è il capitale. L’alleanza tra tecnologia e umanesimo può potenziare questo capitale a beneficio di tutti, trasformandolo in un patrimonio dell’umanità”. Capitale, dunque. Che i due autori declinano in varie forme, partendo dalle rispettive esperienze di studio e di vita: la filosofia da una parte e la tecnica dall’altra. Il risultato è un percorso verso l’alto, caratterizzato da una serie di tappe. Preso atto che si deve fare i conti con un “ascensore da riparare” per far progredite l’umanità, gli autori si concentrano sul capitale visto come miglior strumento per quanto occorre intraprendere. Uno strumento del tutto particolare: tecnologico certamente, ma anche semantico (attento cioè al contenuto e al significato), sintattico (quindi attento alla struttura e ai meccanismi per mezzo dei quali agisce), e poi ancora umano (e cioè basato sulla straordinarietà dell’essere umano in tutte le sue varie manifestazioni). Un capitale attento anche agli aspetti ecologici del suo agire oltre che a quelli scientifici e tecnologici; e non dimentico dei tratti propri dell’umanità per arrivare a realizzare due principi di fondo: “Da ognuno secondo la sua capacità. A ognuno secondo i suoi bisogni”.

Quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire – è il messaggio che Ferraris e Saracco lanciano ai chi legge -, tanto più l’umanità procederà positivamente lungo la strada del progresso.

Il libro di Maurizio Ferraris e Guido Saracco è una visione positiva delle capacità della tecnologia vista come qualcosa che appartiene all’umanità dalle sue origini, e che contiene la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future. A patto che questa tecnologia venga adoperata con attenzione e saggezza.

“Tecnosofia” non è certamente una lettura facilissima, ma è una lettura da affrontare. Da parte di tutti. Una lettura da compiere senza preconcetti e scevra da luoghi comuni. Bellissimo uno dei passaggi finali del libro: “Il progresso non è la ricerca di un bene che nel mondo non si dà mai pienamente, ma è una fuga senza fine dal male; e al gioco facile di guardare in basso bisogna sostituire quello più difficile di manutenere e migliorare l’alto”.

Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova

Maurizio Ferraris, Guido Saracco

Laterza, 2023

Condensato in un libro il dialogo tra un filosofo e un tecnologo su cultura e tecnica

Cultura politecnica. Cultura omnicomprensiva del produrre e progredire con attenzione e rispetto. Delle persone e dell’ambiente. Cultura per tutti. Che porta a guardare in alto e non solo indietro e in basso. E’ sempre difficile – ma affascinante -, il ragionamento attorno alle nuove tecnologie, al progresso, all’uomo nelle sue diverse espressioni, alle modalità per sciogliere i nodi del presente e tessere una buona stoffa per il futuro. Eppure, è un ragionamento da condurre. E c’è chi riesce meglio di altri nel compito.

E’ il caso di Maurizio Ferraris e Guido Saracco (filosofo il primo, ingegnere chimico il secondo), che hanno provato con il loro “Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova”, a tracciare una strada inconsueta per arrivare in poco meno di duecento pagine ad una sintesi tentata da molti e raggiunta da pochissimi.

Il libro è, tutto sommato, riassunto nelle due affermazioni poste subito in copertina: “Il farmaco più potente a disposizione della scimmia nuda è la tecnica, e la tecnica più potente è il capitale. L’alleanza tra tecnologia e umanesimo può potenziare questo capitale a beneficio di tutti, trasformandolo in un patrimonio dell’umanità”. Capitale, dunque. Che i due autori declinano in varie forme, partendo dalle rispettive esperienze di studio e di vita: la filosofia da una parte e la tecnica dall’altra. Il risultato è un percorso verso l’alto, caratterizzato da una serie di tappe. Preso atto che si deve fare i conti con un “ascensore da riparare” per far progredite l’umanità, gli autori si concentrano sul capitale visto come miglior strumento per quanto occorre intraprendere. Uno strumento del tutto particolare: tecnologico certamente, ma anche semantico (attento cioè al contenuto e al significato), sintattico (quindi attento alla struttura e ai meccanismi per mezzo dei quali agisce), e poi ancora umano (e cioè basato sulla straordinarietà dell’essere umano in tutte le sue varie manifestazioni). Un capitale attento anche agli aspetti ecologici del suo agire oltre che a quelli scientifici e tecnologici; e non dimentico dei tratti propri dell’umanità per arrivare a realizzare due principi di fondo: “Da ognuno secondo la sua capacità. A ognuno secondo i suoi bisogni”.

Quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire – è il messaggio che Ferraris e Saracco lanciano ai chi legge -, tanto più l’umanità procederà positivamente lungo la strada del progresso.

Il libro di Maurizio Ferraris e Guido Saracco è una visione positiva delle capacità della tecnologia vista come qualcosa che appartiene all’umanità dalle sue origini, e che contiene la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future. A patto che questa tecnologia venga adoperata con attenzione e saggezza.

“Tecnosofia” non è certamente una lettura facilissima, ma è una lettura da affrontare. Da parte di tutti. Una lettura da compiere senza preconcetti e scevra da luoghi comuni. Bellissimo uno dei passaggi finali del libro: “Il progresso non è la ricerca di un bene che nel mondo non si dà mai pienamente, ma è una fuga senza fine dal male; e al gioco facile di guardare in basso bisogna sostituire quello più difficile di manutenere e migliorare l’alto”.

Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova

Maurizio Ferraris, Guido Saracco

Laterza, 2023

Perché cercare la sostenibilità

Un intervento appena pubblicato fornisce una sintesi chiara ed efficace di un tema complesso e in evoluzione

 

Sostenibilità prima di tutto. Obiettivo condiviso da tutti, di cui, tuttavia, solo alcuni comprendono ragioni e percorsi. Ad iniziare dalla risposta alla prima domanda ce deve essere posta: perché è così importante per le imprese “essere sostenibili”?. E’ attorno a questo nodo di questioni che ragiona “La sfida della sostenibilità nella prospettiva delle imprese”, contributo di Marco Frey (direttore del Laboratorio SUM e Prorettore alla Terza Missione della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa oltre che presidente del Global Compact Network Italia), pubblicato di recente in un numero speciale della Rivista  semestrale Ordine di Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Roma.

Frey scrive: “Le imprese sono oggi sempre più chiamate ad essere protagoniste delle sfide della sostenibilità. Il processo di riconoscimento del loro ruolo si è intensificato progressivamente negli ultimi trent’anni. (…) Ma quali sono le ragioni per cui nelle imprese oggi la sostenibilità sta diventando un fattore strategico chiave che gli stessi amministratori delegati delle maggiori imprese considerano nella visione di lungo periodo dell’evoluzione dei modelli di business?”. Solo questione di cultura d’impresa? Ci si potrebbe chiedere, oppure anche d’altro?

Per Frey i motivi del successo della sostenibilità come obiettivo d’impresa sono sostanzialmente tre: il significato e il peso in termini di reputazione, la prospettiva in termini di scenari evolutivi dell’impresa stessa, l’evoluzione del mercato e dell’ambiente sociale nei quali l’impresa deve muoversi.

La ricerca di Frey, quindi, si muove indagando i contenuti di questi aspetti e sottolineandone i legami reciproci, ponendo esempi pratici, ricordando i passaggi istituzionale più importanti. Ne deriva un quadro complesso e dinamico di uno dei punti cruciali che deve affrontare ogni organizzazione della produzione che voglia darsi un futuro concreto e positivo.

L’intervento di Marco Frey non aggiunge nulla di nuovo allo stato delle indagini sulla sostenibilità nelle imprese, ma ha il grande merito di fornire una sintesi chiara e concisa di un tema troppo spesso presentato confusamente e parzialmente.

La sfida della sostenibilità nella prospettiva delle imprese

Marco Frey

TELOS, Rivista  semestrale Ordine di Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Roma, 4/2022

Un intervento appena pubblicato fornisce una sintesi chiara ed efficace di un tema complesso e in evoluzione

 

Sostenibilità prima di tutto. Obiettivo condiviso da tutti, di cui, tuttavia, solo alcuni comprendono ragioni e percorsi. Ad iniziare dalla risposta alla prima domanda ce deve essere posta: perché è così importante per le imprese “essere sostenibili”?. E’ attorno a questo nodo di questioni che ragiona “La sfida della sostenibilità nella prospettiva delle imprese”, contributo di Marco Frey (direttore del Laboratorio SUM e Prorettore alla Terza Missione della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa oltre che presidente del Global Compact Network Italia), pubblicato di recente in un numero speciale della Rivista  semestrale Ordine di Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Roma.

Frey scrive: “Le imprese sono oggi sempre più chiamate ad essere protagoniste delle sfide della sostenibilità. Il processo di riconoscimento del loro ruolo si è intensificato progressivamente negli ultimi trent’anni. (…) Ma quali sono le ragioni per cui nelle imprese oggi la sostenibilità sta diventando un fattore strategico chiave che gli stessi amministratori delegati delle maggiori imprese considerano nella visione di lungo periodo dell’evoluzione dei modelli di business?”. Solo questione di cultura d’impresa? Ci si potrebbe chiedere, oppure anche d’altro?

Per Frey i motivi del successo della sostenibilità come obiettivo d’impresa sono sostanzialmente tre: il significato e il peso in termini di reputazione, la prospettiva in termini di scenari evolutivi dell’impresa stessa, l’evoluzione del mercato e dell’ambiente sociale nei quali l’impresa deve muoversi.

La ricerca di Frey, quindi, si muove indagando i contenuti di questi aspetti e sottolineandone i legami reciproci, ponendo esempi pratici, ricordando i passaggi istituzionale più importanti. Ne deriva un quadro complesso e dinamico di uno dei punti cruciali che deve affrontare ogni organizzazione della produzione che voglia darsi un futuro concreto e positivo.

L’intervento di Marco Frey non aggiunge nulla di nuovo allo stato delle indagini sulla sostenibilità nelle imprese, ma ha il grande merito di fornire una sintesi chiara e concisa di un tema troppo spesso presentato confusamente e parzialmente.

La sfida della sostenibilità nella prospettiva delle imprese

Marco Frey

TELOS, Rivista  semestrale Ordine di Dottori commercialisti e degli esperti contabili di Roma, 4/2022

Milano smart, tra grattacieli e business district, va in cerca di migliori equilibri sociali e culturali 

Uno sguardo che si rivolga oggi su Milano, curioso e spregiudicato (nel senso etimologo del termine: privo di pregiudizi, cioè), non può non cogliere uno straordinario fervore di iniziative. Immobiliari e urbanistiche, oltre che finanziarie e imprenditoriali. Progetti, idee, investimenti. Per una città che ama definirsi smart (qualunque cosa voglia dire: tecnologicamente sofisticata e furba, intelligente ed elegante, sostenibile e aperta al futuro). Per una metropoli comunque strategicamente al centro di uno straordinario rettangolo produttivo tra i più dinamici dell’Europa, lungo i due assi autostradali A1/A4, dal Nord continentale al Mediterraneo, dall’Ovest atlantico all’Est proiettato verso l’Asia. Una metropoli, d’altronde, fedele al suo nome: Mediolanum, Medium Terrae.

Quali iniziative? Basta scorrere le cronache dei giornali per averne frequenti aggiornamenti. La partenza del progetto della Magnifica Fabbrica, i nuovi laboratori del Teatro alla Scala e del Parco della Lambretta, finanziati con i fondi del Pnrr là dove sorgevano gli stabilimenti della Innocenti a Lambrate, luogo simbolo del boom economico (leggere “Gli anni del nostro incanto” di Giuseppe Lupo, Marsilio, per averne un solido ricordo o una suggestiva idea). Oppure il trasferimento di Metanopoli, gli uffici della Snam Eni (metanodotti) voluti da Enrico Mattei nei primi anni Cinquanta, dal sud di San Donato al nuovo quartiere high tech a Porta Romana-Vettabia, là dove ci sono già la Fondazione Prada e i palazzi del business district Symbiosis e dove sorgeranno il nuovo Villaggio Olimpico in vista delle gare di Milano-Cortina 2026, uno snodo di trasporti urbani da “Smart Station” e una “Foresta sospesa”, una lunga “passeggiata verde” ispirata all’High Line di New York.

In pieno centro storico, proprio accanto a piazza Sant’Ambrogio, partono i lavori di ristrutturazione della ex caserma di polizia “Garibaldi”, che diventerà il nuovo campus green dell’Università Cattolica. E vanno avanti le operazioni per dodici nuovi grattacieli, tra cantieri già aperti e progetti approvati, a Lampugnano e a Porta Nuova (dove c’è già l’appuntito grattacielo Unicredit di Cesar Pelli su piazza Gae Aulenti ed è stato appena ultimato il “Nido verticale”, la Torre Unipol progettata da Mario Cucinella), mentre Stefano Boeri disegna una nuova distesa da “bosco verticale” che si allunga sui terreni della ex stazione ferroviaria di Porta Genova).
Nel cuore di Milano, a poche centinaia di metri dal Duomo e dall’Università Statale (ospitata nel magnifico ex Ospedale Maggiore rinascimentale, progettato dall’architetto Filarete in via Festa del Perdono), vanno verso il completamento gli impegnativi lavori di ristrutturazione di un edificio simbolo, la Torre Velasca. Tutt’attorno, un’elegante isola pedonale, che coinvolgerà anche il palazzo di Assolombarda, progettato nei primi anni Sessanta da Gio Ponti, l’architetto del Grattacielo Pirelli.
Guardando a queste relazioni tra storia e innovazione, tradizione e cambiamento, ha proprio ragione, dunque, Francesco Micheli, uomo di finanza e di cultura, quando propone di candidare il centro storico di Milano come “patrimonio Unesco” (Corriere della Sera, 1 giugno): un “patrimonio dell’umanità” da preservare, valorizzare e su cui dunque continuare a investire.

La città che cresce. La “città che sale”, giocando con la memoria delle opere di Umberto Boccioni e degli altri futuristi, in una delle stagioni più fervide della storia milanese, all’inizio del Novecento delle fabbriche e della scienza. Ma anche la città che si allarga e si pensa “grande”, metropolitana, aperta. Come testimonia il progetto di Milano-Sesto, una delle maggiori ristrutturazioni immobiliari d’Europa sulle ex Acciaierie Falck, un progetto da 5 miliardi di valore per ospitare servizi, uffici, una “città della salute”, spazi verdi, impianti sportivi ed edifici da housing sociale, con un occhio di particolare attenzione per gli studenti.
“La città va allargata, più servizi in periferia”, sostiene Regina De Albertis, presidentessa di Assimpredil Ance, l’associazione delle imprese edili di Milano, Monza e Brianza”. Ma “senza svuotare la città”, aggiunge Gabriele Pasqui, docente di Politiche Urbane al Politecnico, preoccupato per la carenza di scelte di politica urbanistica che evitino che il centro ampio della città sia abbandonato alle sole logiche di un “mercato” che, facendo salire i prezzi di abitazioni, negozi e uffici, renda Milano, anche al di là della cerchia delle Mura spagnole, un posto esclusivo per alti redditi. Il rischio da evitare è l’emarginazione e l’espulsione di persone dei ceti medi e popolari, rompendo quella miscela sociale che da sempre è stata la caratteristica positiva di una civitas produttiva e inclusiva, competitiva e solidale, forte per industria e finanza ma anche per cultura, ricerca, innovazione e accoglienza.
Eccola, dunque, la Milano in movimento. Con le opportunità, qui maggiori che nel resto d’Italia. E con i problemi (di costo delle case e della vita in generale, rischi speculativi, euforia da “mille luci” che nascondono nuove e vecchie povertà, violenza diffusa, disagio crescente, fratture negli antichi e solidi patti sociali di convivenza, etc. di cui abbiamo più volte parlato in questi blog, con l’ultimo, dedicato alla Milano principale città universitaria italiana, proprio la scorsa settimana).

Il Comune, con il sindaco Beppe Sala e la Regione Lombardia, con il Governatore Attilio Fontana, cercano un dialogo produttivo, al di là delle differenti appartenenze politiche, su servizi, stimoli agli investimenti, strumenti efficaci di governo del territorio.La buona politica e l’efficienza amministrazione sono indispensabili.
Ma proprio di fronte a tanto dinamismo e a una così acuta serie di questioni economiche e sociali, serve di più. Un incremento dell’attitudine, comunque diffusa, al dialogo tra pubblico e privato, istituzioni e imprese, coinvolgendo anche tutto il mondo del “terzo settore”, dal volontariato alle organizzazioni sociali. E la diffusione e l’approfondimento di un dibattito sincero sul futuro sostenibile di Milano, considerandola come “metropoli”, “città grande”, “città aperta” o anche “città infinita”, come ama dire un sociologo acuto, Aldo Bonomi, proprio secondo lo schema del territorio della “macro-regione A1/A4” di cui abbiamo detto.

Milano dialogante, Milano hub di conoscenza, intraprendenza, innovazione, sostenibilità. Non tanto Milano locomotiva, né tantomeno “città Stato”, facendo leva sui tanti primati. Ma Milano cuore delle relazioni e delle interconnessioni. Nella capacità di tenere insieme metropoli e provincia, territori diversi, culture europee e mediterranee.
Ci sono in corso iniziative significative, da approfondire. Per esempio, il rilancio del Nord Ovest, il tradizionale “triangolo industriale” fra Milano, Torino e Genova, su cui stanno lavorando le associazioni imprenditoriali delle tre città, approfondendone gli intrecci produttivi, culturali e sociali, consapevoli che il muoversi insieme amplifica stanziamenti ed effetti positivi degli investimenti del Pnrr. O, anche, la scelta del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini (un circuito di relazioni tra imprenditori, professionisti, personalità delle istituzioni e della cultura) di attribuire un’onorificenza da “ambasciatori” al sindaco di Bergamo Giorgio Gori e a quello di Genova Marco Bucci. Nel segno di rapporti e dialoghi, scelte comuni e iniziative da promuovere. In un campo di gioco comune: l’Europa.

(Foto Getty Images)

Uno sguardo che si rivolga oggi su Milano, curioso e spregiudicato (nel senso etimologo del termine: privo di pregiudizi, cioè), non può non cogliere uno straordinario fervore di iniziative. Immobiliari e urbanistiche, oltre che finanziarie e imprenditoriali. Progetti, idee, investimenti. Per una città che ama definirsi smart (qualunque cosa voglia dire: tecnologicamente sofisticata e furba, intelligente ed elegante, sostenibile e aperta al futuro). Per una metropoli comunque strategicamente al centro di uno straordinario rettangolo produttivo tra i più dinamici dell’Europa, lungo i due assi autostradali A1/A4, dal Nord continentale al Mediterraneo, dall’Ovest atlantico all’Est proiettato verso l’Asia. Una metropoli, d’altronde, fedele al suo nome: Mediolanum, Medium Terrae.

Quali iniziative? Basta scorrere le cronache dei giornali per averne frequenti aggiornamenti. La partenza del progetto della Magnifica Fabbrica, i nuovi laboratori del Teatro alla Scala e del Parco della Lambretta, finanziati con i fondi del Pnrr là dove sorgevano gli stabilimenti della Innocenti a Lambrate, luogo simbolo del boom economico (leggere “Gli anni del nostro incanto” di Giuseppe Lupo, Marsilio, per averne un solido ricordo o una suggestiva idea). Oppure il trasferimento di Metanopoli, gli uffici della Snam Eni (metanodotti) voluti da Enrico Mattei nei primi anni Cinquanta, dal sud di San Donato al nuovo quartiere high tech a Porta Romana-Vettabia, là dove ci sono già la Fondazione Prada e i palazzi del business district Symbiosis e dove sorgeranno il nuovo Villaggio Olimpico in vista delle gare di Milano-Cortina 2026, uno snodo di trasporti urbani da “Smart Station” e una “Foresta sospesa”, una lunga “passeggiata verde” ispirata all’High Line di New York.

In pieno centro storico, proprio accanto a piazza Sant’Ambrogio, partono i lavori di ristrutturazione della ex caserma di polizia “Garibaldi”, che diventerà il nuovo campus green dell’Università Cattolica. E vanno avanti le operazioni per dodici nuovi grattacieli, tra cantieri già aperti e progetti approvati, a Lampugnano e a Porta Nuova (dove c’è già l’appuntito grattacielo Unicredit di Cesar Pelli su piazza Gae Aulenti ed è stato appena ultimato il “Nido verticale”, la Torre Unipol progettata da Mario Cucinella), mentre Stefano Boeri disegna una nuova distesa da “bosco verticale” che si allunga sui terreni della ex stazione ferroviaria di Porta Genova).
Nel cuore di Milano, a poche centinaia di metri dal Duomo e dall’Università Statale (ospitata nel magnifico ex Ospedale Maggiore rinascimentale, progettato dall’architetto Filarete in via Festa del Perdono), vanno verso il completamento gli impegnativi lavori di ristrutturazione di un edificio simbolo, la Torre Velasca. Tutt’attorno, un’elegante isola pedonale, che coinvolgerà anche il palazzo di Assolombarda, progettato nei primi anni Sessanta da Gio Ponti, l’architetto del Grattacielo Pirelli.
Guardando a queste relazioni tra storia e innovazione, tradizione e cambiamento, ha proprio ragione, dunque, Francesco Micheli, uomo di finanza e di cultura, quando propone di candidare il centro storico di Milano come “patrimonio Unesco” (Corriere della Sera, 1 giugno): un “patrimonio dell’umanità” da preservare, valorizzare e su cui dunque continuare a investire.

La città che cresce. La “città che sale”, giocando con la memoria delle opere di Umberto Boccioni e degli altri futuristi, in una delle stagioni più fervide della storia milanese, all’inizio del Novecento delle fabbriche e della scienza. Ma anche la città che si allarga e si pensa “grande”, metropolitana, aperta. Come testimonia il progetto di Milano-Sesto, una delle maggiori ristrutturazioni immobiliari d’Europa sulle ex Acciaierie Falck, un progetto da 5 miliardi di valore per ospitare servizi, uffici, una “città della salute”, spazi verdi, impianti sportivi ed edifici da housing sociale, con un occhio di particolare attenzione per gli studenti.
“La città va allargata, più servizi in periferia”, sostiene Regina De Albertis, presidentessa di Assimpredil Ance, l’associazione delle imprese edili di Milano, Monza e Brianza”. Ma “senza svuotare la città”, aggiunge Gabriele Pasqui, docente di Politiche Urbane al Politecnico, preoccupato per la carenza di scelte di politica urbanistica che evitino che il centro ampio della città sia abbandonato alle sole logiche di un “mercato” che, facendo salire i prezzi di abitazioni, negozi e uffici, renda Milano, anche al di là della cerchia delle Mura spagnole, un posto esclusivo per alti redditi. Il rischio da evitare è l’emarginazione e l’espulsione di persone dei ceti medi e popolari, rompendo quella miscela sociale che da sempre è stata la caratteristica positiva di una civitas produttiva e inclusiva, competitiva e solidale, forte per industria e finanza ma anche per cultura, ricerca, innovazione e accoglienza.
Eccola, dunque, la Milano in movimento. Con le opportunità, qui maggiori che nel resto d’Italia. E con i problemi (di costo delle case e della vita in generale, rischi speculativi, euforia da “mille luci” che nascondono nuove e vecchie povertà, violenza diffusa, disagio crescente, fratture negli antichi e solidi patti sociali di convivenza, etc. di cui abbiamo più volte parlato in questi blog, con l’ultimo, dedicato alla Milano principale città universitaria italiana, proprio la scorsa settimana).

Il Comune, con il sindaco Beppe Sala e la Regione Lombardia, con il Governatore Attilio Fontana, cercano un dialogo produttivo, al di là delle differenti appartenenze politiche, su servizi, stimoli agli investimenti, strumenti efficaci di governo del territorio.La buona politica e l’efficienza amministrazione sono indispensabili.
Ma proprio di fronte a tanto dinamismo e a una così acuta serie di questioni economiche e sociali, serve di più. Un incremento dell’attitudine, comunque diffusa, al dialogo tra pubblico e privato, istituzioni e imprese, coinvolgendo anche tutto il mondo del “terzo settore”, dal volontariato alle organizzazioni sociali. E la diffusione e l’approfondimento di un dibattito sincero sul futuro sostenibile di Milano, considerandola come “metropoli”, “città grande”, “città aperta” o anche “città infinita”, come ama dire un sociologo acuto, Aldo Bonomi, proprio secondo lo schema del territorio della “macro-regione A1/A4” di cui abbiamo detto.

Milano dialogante, Milano hub di conoscenza, intraprendenza, innovazione, sostenibilità. Non tanto Milano locomotiva, né tantomeno “città Stato”, facendo leva sui tanti primati. Ma Milano cuore delle relazioni e delle interconnessioni. Nella capacità di tenere insieme metropoli e provincia, territori diversi, culture europee e mediterranee.
Ci sono in corso iniziative significative, da approfondire. Per esempio, il rilancio del Nord Ovest, il tradizionale “triangolo industriale” fra Milano, Torino e Genova, su cui stanno lavorando le associazioni imprenditoriali delle tre città, approfondendone gli intrecci produttivi, culturali e sociali, consapevoli che il muoversi insieme amplifica stanziamenti ed effetti positivi degli investimenti del Pnrr. O, anche, la scelta del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini (un circuito di relazioni tra imprenditori, professionisti, personalità delle istituzioni e della cultura) di attribuire un’onorificenza da “ambasciatori” al sindaco di Bergamo Giorgio Gori e a quello di Genova Marco Bucci. Nel segno di rapporti e dialoghi, scelte comuni e iniziative da promuovere. In un campo di gioco comune: l’Europa.

(Foto Getty Images)

Pirelli in Messico,
fabbrica di cultura

“Pirelli no es sòlo una fàbrica de llantas, es una cultura”. “Pirelli non è solo una fabbrica di pneumatici, è una cultura”. È racchiuso in questa frase il senso profondo della presenza di Pirelli in Messico, contenuto nella pubblicazione che nel 2022 ha celebrato i dieci anni del primo stabilimento “con la P Lunga” in questo Paese. Un passo importante del cammino di Pirelli in Messico, preceduto dall’apertura, nel 2004, di una sede commerciale per l’importazione e la distribuzione nelle Americhe dei prodotti in gomma in arrivo dall’Europa. Un percorso che – occorre sottolinearlo – parte da molto lontano.

All’inizio del XX secolo, infatti, era già stato Alberto Pirelli, uno dei figli di Giovanni Battista fondatore dell’azienda, a esplorare la possibilità nelle Americhe di reperire il miglior caoutchouc. Viaggi di avvicinamento a un continente dalle grandi possibilità che sono i prodromi, circa cento anni dopo, per la decisione prima di aprire officine e sedi commerciali e, poi, nel 2010 per investire in uno stabilimento produttivo, con l’obiettivo di coprire di fatto tutto il mercato americano.

L’11 novembre 2011 il primo pneumatico Pirelli viene prodotto dalla fabbrica di Silao: un anno dopo Felipe Calderon, presidente del Messico, inaugura lo stabilimento che inizia a produrre ufficialmente.

Marco Tronchetti Provera, proprio nella pubblicazione che celebra i primi dieci anni di presenza produttiva nel paese centroamericano, scrive: “Questo è un paese che offre eccellenti opportunità tanto per la positiva dinamica della domanda locale, come per la sua posizione strategica, essendo una base industriale ideale”. Produzione, dunque, realizzata nel punto strategico per lo sviluppo di nuovi mercati. Ma senza dimenticare lo spirito della P Lunga.

Dopo il 2012, infatti, Pirelli compie altri passi significativi. Nel 2015 viene inaugurato l’Istituto di Formazione Pirelli Messico, nel 2016 viene annunciato un ampliamento dello stabilimento di Silao, nel 2022 viene creato il Centro di ricerca, sviluppo e innovazione sempre a Silao. Così, a fianco della tecnologia e della ricerca, Pirelli in Messico ha valorizzato le persone e ha continuato a porre attenzione alla sostenibilità oltre che alla sicurezza sul lavoro.

Sicurezza, appunto, ma anche qualità, impegno, passione e collaborazione. Cultura del lavoro Pirelli, in tutte le fabbriche del mondo.

“Pirelli no es sòlo una fàbrica de llantas, es una cultura”. “Pirelli non è solo una fabbrica di pneumatici, è una cultura”. È racchiuso in questa frase il senso profondo della presenza di Pirelli in Messico, contenuto nella pubblicazione che nel 2022 ha celebrato i dieci anni del primo stabilimento “con la P Lunga” in questo Paese. Un passo importante del cammino di Pirelli in Messico, preceduto dall’apertura, nel 2004, di una sede commerciale per l’importazione e la distribuzione nelle Americhe dei prodotti in gomma in arrivo dall’Europa. Un percorso che – occorre sottolinearlo – parte da molto lontano.

All’inizio del XX secolo, infatti, era già stato Alberto Pirelli, uno dei figli di Giovanni Battista fondatore dell’azienda, a esplorare la possibilità nelle Americhe di reperire il miglior caoutchouc. Viaggi di avvicinamento a un continente dalle grandi possibilità che sono i prodromi, circa cento anni dopo, per la decisione prima di aprire officine e sedi commerciali e, poi, nel 2010 per investire in uno stabilimento produttivo, con l’obiettivo di coprire di fatto tutto il mercato americano.

L’11 novembre 2011 il primo pneumatico Pirelli viene prodotto dalla fabbrica di Silao: un anno dopo Felipe Calderon, presidente del Messico, inaugura lo stabilimento che inizia a produrre ufficialmente.

Marco Tronchetti Provera, proprio nella pubblicazione che celebra i primi dieci anni di presenza produttiva nel paese centroamericano, scrive: “Questo è un paese che offre eccellenti opportunità tanto per la positiva dinamica della domanda locale, come per la sua posizione strategica, essendo una base industriale ideale”. Produzione, dunque, realizzata nel punto strategico per lo sviluppo di nuovi mercati. Ma senza dimenticare lo spirito della P Lunga.

Dopo il 2012, infatti, Pirelli compie altri passi significativi. Nel 2015 viene inaugurato l’Istituto di Formazione Pirelli Messico, nel 2016 viene annunciato un ampliamento dello stabilimento di Silao, nel 2022 viene creato il Centro di ricerca, sviluppo e innovazione sempre a Silao. Così, a fianco della tecnologia e della ricerca, Pirelli in Messico ha valorizzato le persone e ha continuato a porre attenzione alla sostenibilità oltre che alla sicurezza sul lavoro.

Sicurezza, appunto, ma anche qualità, impegno, passione e collaborazione. Cultura del lavoro Pirelli, in tutte le fabbriche del mondo.

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Perché innovare non basta

Pubblicato da poco un libro che analizza le relazioni tra innovazione tecnologica e essere umano

 

Innovare prima di tutto. Dettato ormai scontato per tutte le imprese (e per tutti gli uomini d’impresa). Nuove tecnologie per assicurarsi lo sviluppo. E tecnologie sempre più efficaci ed efficienti, veloci, razionali e di successo. Passano anche da questi assunti buona parte delle indicazioni che al giorno d’oggi si danno per indicare la strada giusta verso il benessere (d’impresa e sociale), così come per il successo. Innovare, dunque, come strategia d’eccellenza. Approccio certamente corretto per molti aspetti, ma che, spesso, dimentica il ruolo degli essere umani in quanto tali e in quanto utilizzatori delle nuove tecnologie. Difetto d’analisi e di previsione che, spesso, porta al fallimento della stessa innovazione. Tornare quindi a porre l’uomo al centro, è strategia saggia oltre che efficace.

Può essere questo il messaggio – condivisibile – di “Confidenze digitali. Vizi e virtù dell’innovazione tecnologica”, libro di circa 150 pagine scritto con vivacità da Massimiano Bucchi che mette a frutto la sua esperienza di ordinario di scienza e tecnologia oltre che di divulgatore di temi scientifici in Italia e all’estero.

Bucchi parte da una constatazione: il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope, anzi, strabico. Si focalizza solo sulla novità tecnologica e dimentica l’altra metà della questione: gli esseri umani e il loro modo di utilizzare la tecnologia. Da questa constatazione Bucchi compie un viaggio narrativo che tocca innovazioni ormai entrate nella nostra consuetudine di vita e di lavoro e altre ancora in nuce. Si tratta di 24 capitoli brevi, ognuno dei quali tocca un tema che ha anche fare con l’innovazione tecnologica rivolta ai singoli così come alle comunità e alle imprese. Scavando nell’esperienza portata da molte innovazioni, l’autore chiarisce quindi il forte nesso tra la tecnologia e l’uso che se ne fa e, soprattutto, l’utilizzatore. Ma non solo. Ragionando tra passato, presente e futuro, Bucchi mette in luce le relazioni tra innovazione e essere umano scoprendone le visioni parziali e distorte, le alterazioni e gli errori nell’uso. E chiarendo perché non tutte le innovazioni funzionano per davvero.

E’ un libro tutto da leggere quello scritto da Massimiano Bucchi, e magari da avere sul tavolo di lavoro per chi di innovazione si occupa.

Confidenze digitali. Vizi e virtù dell’innovazione tecnologica

Massimiano Bucchi

il Mulino, 2023

Pubblicato da poco un libro che analizza le relazioni tra innovazione tecnologica e essere umano

 

Innovare prima di tutto. Dettato ormai scontato per tutte le imprese (e per tutti gli uomini d’impresa). Nuove tecnologie per assicurarsi lo sviluppo. E tecnologie sempre più efficaci ed efficienti, veloci, razionali e di successo. Passano anche da questi assunti buona parte delle indicazioni che al giorno d’oggi si danno per indicare la strada giusta verso il benessere (d’impresa e sociale), così come per il successo. Innovare, dunque, come strategia d’eccellenza. Approccio certamente corretto per molti aspetti, ma che, spesso, dimentica il ruolo degli essere umani in quanto tali e in quanto utilizzatori delle nuove tecnologie. Difetto d’analisi e di previsione che, spesso, porta al fallimento della stessa innovazione. Tornare quindi a porre l’uomo al centro, è strategia saggia oltre che efficace.

Può essere questo il messaggio – condivisibile – di “Confidenze digitali. Vizi e virtù dell’innovazione tecnologica”, libro di circa 150 pagine scritto con vivacità da Massimiano Bucchi che mette a frutto la sua esperienza di ordinario di scienza e tecnologia oltre che di divulgatore di temi scientifici in Italia e all’estero.

Bucchi parte da una constatazione: il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope, anzi, strabico. Si focalizza solo sulla novità tecnologica e dimentica l’altra metà della questione: gli esseri umani e il loro modo di utilizzare la tecnologia. Da questa constatazione Bucchi compie un viaggio narrativo che tocca innovazioni ormai entrate nella nostra consuetudine di vita e di lavoro e altre ancora in nuce. Si tratta di 24 capitoli brevi, ognuno dei quali tocca un tema che ha anche fare con l’innovazione tecnologica rivolta ai singoli così come alle comunità e alle imprese. Scavando nell’esperienza portata da molte innovazioni, l’autore chiarisce quindi il forte nesso tra la tecnologia e l’uso che se ne fa e, soprattutto, l’utilizzatore. Ma non solo. Ragionando tra passato, presente e futuro, Bucchi mette in luce le relazioni tra innovazione e essere umano scoprendone le visioni parziali e distorte, le alterazioni e gli errori nell’uso. E chiarendo perché non tutte le innovazioni funzionano per davvero.

E’ un libro tutto da leggere quello scritto da Massimiano Bucchi, e magari da avere sul tavolo di lavoro per chi di innovazione si occupa.

Confidenze digitali. Vizi e virtù dell’innovazione tecnologica

Massimiano Bucchi

il Mulino, 2023

L’impresa “sostenibile”, regole e prospettive

Raccolta dall’Università Sapienza una serie di ricerche attorno ad uno dei temi più importanti per lo sviluppo

 

Sostenibilità come traguardo di ogni organizzazione della produzione che voglia dirsi attenta ai temi dell’oggi. Traguardo raggiungibile, certo, ma da comprendere bene prima di intraprendere il cammino verso di esso. La questione è tutto sommato semplice ma non per questo facile da risolvere: conciliare la necessità di far bene impresa dal punto di vista economico (e sociale), e quella di rendere ciò che si fa compatibile con quella tutela dell’ambiente e delle sue risorse che è sempre di più nodo fondamentale per lo sviluppo. Servono, in tutto questo, anche regole precise. Ed è qui che si è esercitato un gruppo di studio che fa capo alle attività di dottorato in Diritto privato del mercato svolte in alcuni atenei italiani. Indagini che hanno trovato un nucleo di coordinamento nel Laboratorio Essence-Lab2, e che hanno prodotto una prima serie di studi coordinato da Giuseppina Capaldo (Università Sapienza).

“Iniziativa economica privata e mercato unico sostenibile” raccoglie così una prima serie di ricerche svolte per soddisfare la necessità di approfondire e ricostruire la sostenibilità – nelle sue declinazioni ambientale, economica e sociale – e il principio di sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di tratteggiare le basi del diritto privato della sostenibilità.

La raccolta inizia con un inquadramento del tema relativo alla governance degli enti privati nell’ambito del mercato unico sostenibile per arrivare poi ad un approfondimento delle relazioni tra “economia circolare” e “beni comuni”. Le ricerche passano quindi ad approfondire i tratti più affini al diritto: il contratto “ecologicamente orientato”, i contratti “a causa solidale”, il percorso verso un diritto del “consumo sostenibile”, la questione degli investimenti, delle scelte e delle regole, quella relativa all’informazione dovuta al consumatore.

L’insieme delle ricerche raccolte da Capaldo, costituisce una buona base per delineare, anche dal punto di vista del diritto, quella cultura dell’impresa sostenibile nell’ambito europeo che necessita sempre di più di regole chiare e applicabili.

Iniziativa economica privata e mercato unico sostenibile

Giuseppina Capaldo (a cura di)

Materiali e documenti, Sapienza University Press, 2023

Raccolta dall’Università Sapienza una serie di ricerche attorno ad uno dei temi più importanti per lo sviluppo

 

Sostenibilità come traguardo di ogni organizzazione della produzione che voglia dirsi attenta ai temi dell’oggi. Traguardo raggiungibile, certo, ma da comprendere bene prima di intraprendere il cammino verso di esso. La questione è tutto sommato semplice ma non per questo facile da risolvere: conciliare la necessità di far bene impresa dal punto di vista economico (e sociale), e quella di rendere ciò che si fa compatibile con quella tutela dell’ambiente e delle sue risorse che è sempre di più nodo fondamentale per lo sviluppo. Servono, in tutto questo, anche regole precise. Ed è qui che si è esercitato un gruppo di studio che fa capo alle attività di dottorato in Diritto privato del mercato svolte in alcuni atenei italiani. Indagini che hanno trovato un nucleo di coordinamento nel Laboratorio Essence-Lab2, e che hanno prodotto una prima serie di studi coordinato da Giuseppina Capaldo (Università Sapienza).

“Iniziativa economica privata e mercato unico sostenibile” raccoglie così una prima serie di ricerche svolte per soddisfare la necessità di approfondire e ricostruire la sostenibilità – nelle sue declinazioni ambientale, economica e sociale – e il principio di sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di tratteggiare le basi del diritto privato della sostenibilità.

La raccolta inizia con un inquadramento del tema relativo alla governance degli enti privati nell’ambito del mercato unico sostenibile per arrivare poi ad un approfondimento delle relazioni tra “economia circolare” e “beni comuni”. Le ricerche passano quindi ad approfondire i tratti più affini al diritto: il contratto “ecologicamente orientato”, i contratti “a causa solidale”, il percorso verso un diritto del “consumo sostenibile”, la questione degli investimenti, delle scelte e delle regole, quella relativa all’informazione dovuta al consumatore.

L’insieme delle ricerche raccolte da Capaldo, costituisce una buona base per delineare, anche dal punto di vista del diritto, quella cultura dell’impresa sostenibile nell’ambito europeo che necessita sempre di più di regole chiare e applicabili.

Iniziativa economica privata e mercato unico sostenibile

Giuseppina Capaldo (a cura di)

Materiali e documenti, Sapienza University Press, 2023

Milano è la principale città universitaria italiana: un primato che chiede case, servizi e buona politica

Milano, ai tanti primati (l’economia, il lavoro, la cultura dei grandi teatri e musei, l’editoria, la sanità efficiente, la moda e il design) ne aggiunge un altro: è la principale città universitaria italiana, con i 211mila studenti iscritti, un terzo dei quali arriva dalle altre regioni italiane e l’11% è straniero. Città attrattiva, dunque. Non solo per capitali, imprese e idee. Ma anche per ragazze e ragazzi intraprendenti, in cerca di migliori occasioni di conoscenza, professione e vita.
Vita? Ecco, qui si svela un primo nodo critico. Ci sono ancora migliori occasioni di vita a Milano? E la città attrattiva è davvero anche inclusiva?
Lo è sempre stata, accogliente e solidale, partendo dall’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano nel 1018 (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”) e arrivando agli anni Ottanta del Novecento con l’epopea positiva della “Milano da bere” (parafrasando una straordinaria campagna pubblicitaria di Marco Mignani per l’Amaro Ramazzotti, vitalità frenetica e sofisticata eleganza, con buon senso civile). Ma adesso, come testimoniano le riflessioni critiche e autocritiche in corso sui giornali di carta (compreso l’ultimo, bellissimo numero di “Città”, appena pubblicato e presentato al Teatro Franco Parenti) e sui media digitali, cresce un disagio diffuso per l’amplificarsi dei divari sociali, per il contrasto tra le tendenze al lusso più clamoroso (i valori immobiliari in impetuosa crescita, il costo della vita, i consumi vistosi) e le difficoltà che colpiscono non solo gli strati sociali più popolari ma anche i ceti medi.

“Qui Milano, la città del lusso: studenti in tenda e le suite nell’ex seminario. E i nuovi poveri fuggono”, titola il “Corriere della Sera” (26 maggio), raccontando prezzi e vezzi di un super hotel in corso Venezia, sorto là dove c’era un austero luogo di studio dell’Arcivescovado.
Ecco, “gli studenti in tenda”, per tornare ai primati e alle contraddizioni della città universitaria da cui siamo partiti. In tenda, davanti al Politecnico, per protestare contro il caro-affitti e le faticose condizioni di vita di chi viene a Milano per studiare e dunque, nella relazione tra Milano, l’Italia e il mondo, può fare da motore di sviluppo. Sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, se oltre alla cultura universitaria di qualità, gli studenti potranno fare tesoro della tradizione milanese che ha sempre saputo tenere insieme produttività e responsabilità civile, competitività e solidarietà. Un processo oggi in crisi.
C’è un problema di orizzonti e contenuti formativi (opportunamente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando la figura di don Milani nel centesimo anniversario della sua nascita, ha insistito sui temi della qualità della scuola, come strumento di conoscenza e formazione al bene comune e alla responsabilità della cittadinanza). E c’è un problema di numeri: troppo pochi laureati in Italia, troppi “neet” (ragazzi che non studiano e non lavorano) molti analfabeti di ritorno e diplomati incapaci, appena usciti dalla scuola superiore, di comprendere un testo e fare operazioni matematiche di medio livello (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E dunque, in questo contesto, la protesta degli studenti di Milano e le voci critiche sul futuro della formazione, proprio nella città capitale per gli studi universitari, impongono una riflessione che non ha affatto dimensioni locali ma investe tutti il sistema Paese.

Ma guardiamo meglio i dati sulla Milano universitaria, raccolti ed elaborati dal Mheo (Milan Higher Education Observatory), nato all’Università Statale in collaborazione con il Consorzio Universitario Cineca e la Deloitte e fa parte di Musa, l’ecosistema dell’Innovazione all’interno della Missione Istruzione e Ricerca del Pnrr (che proprio sulla scuola dovrebbe fare raggiungere all’Italia obiettivi ambiziosi di riforma ed efficacia della formazione).
Con l’autorevolezza di una banca dati ben aggiornata (gli ultimi dati fanno riferimento al 2022), il Mheo documenta come in Lombardia ci siano 65 istituzioni di formazione terziaria (come in tutto il Portogallo), con 15 università (8 a Milano), 15 Agam (gli Istituti di alta formazione artistica e musicale, come l’Accademia di Brera e il Conservatorio) e 24 Its Academy (gli Istituti Tecnici Superiori, in grande espansione, anche per iniziativa di Fondazioni nate dal mondo delle imprese, in cerca di persone di qualità e robusta formazione tecnico-scientifica).
Sempre i dati del Mheo dicono che i 211mila studenti “milanesi” sono il 12,1% di tutti gli universitari italiani del triennio (cui c’è da aggiungere il 6,8% degli altri lombardi) e il 14,7% degli iscritti alle lauree magistrali. Le prime quattro università per immatricolati sono Statale, Politecnico e Cattolica. E la quarta è telematica, eCampus, rivelando una tendenza alla crescita della “formazione a distanza di cui bisognerà tenere sempre più conto (il lock down durante l’epidemia da Covid19 ha fatto da acceleratore).

C’è ancora un dato su cui riflettere: solo un corso di studi su quattro, a Milano, è ad accesso libero. Gli altri sono tutti a numero chiuso. Segno di una difficoltà degli atenei e delle altre accademie di rispondere positivamente alle tante domande di formazione che arrivano sia dall’Italia che dal resto del mondo (le università più ricercate sono il Politecnico e la Bocconi).
Ecco dunque il tema posto dai dati e dalle proteste studentesche: come e con quali servizi fare fronte a un’attrattività che è fonte di ricchezza sociale, culturale e civile ma che nel tempo può diventare un boomerang, caratterizzando Milano come spazio da city users, in cui formarsi ma da cui fuggire.
L’obiettivo, dunque, è ridarle solidità, radici robuste e profonde di cultura riformista e industriale, seguendo la lezione, cara alle imprese migliori e alle tradizioni di una borghesia produttiva con forte spirito civico, d’un “umanesimo industriale” che oggi si declina anche in “umanesimo digitale”. Fermando o limitando, per come si può, la deriva dell’esasperazione degli “eventi” che trasformano Milano in “una grande vetrina, una gigantesca performance” (la critica è del sociologo Giampaolo Nuvolati, “la Repubblica”, 28 maggio).

La sfida è dunque culturale, politica e sociale. Di riqualificazione urbanistica (usando bene le opportunità offerte dalle grandi aree un tempo industriali e in via di riqualificazione e dal ridisegno e dal rilancio dei sette grandi ex scali ferroviari). Di politiche abitative (contrastando o comunque limitando gli “affitti brevi” per il turismo “mordi e fuggi”, come peraltro già succede positivamente a Parigi e Berlino). Di strutture per la mobilità. E di servizi. Rendendo Milano, anche per i suoi studenti, vivibile, accessibile, stimolante. Accogliente. Attrattiva e inclusiva, appunto.
Il futuro, come ben sappiamo, sta nelle prospettive dell’economia della conoscenza. E tutta l’industria italiana è ben orientata in questa direzione. Milano prima città universitaria del Paese non può sprecare l’occasione di esserne un buon motore, in un virtuoso sistema di relazioni con altri atenei, italiani ed europei.

(foto Getty Images)

Milano, ai tanti primati (l’economia, il lavoro, la cultura dei grandi teatri e musei, l’editoria, la sanità efficiente, la moda e il design) ne aggiunge un altro: è la principale città universitaria italiana, con i 211mila studenti iscritti, un terzo dei quali arriva dalle altre regioni italiane e l’11% è straniero. Città attrattiva, dunque. Non solo per capitali, imprese e idee. Ma anche per ragazze e ragazzi intraprendenti, in cerca di migliori occasioni di conoscenza, professione e vita.
Vita? Ecco, qui si svela un primo nodo critico. Ci sono ancora migliori occasioni di vita a Milano? E la città attrattiva è davvero anche inclusiva?
Lo è sempre stata, accogliente e solidale, partendo dall’editto del vescovo Ariberto d’Intimiano nel 1018 (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”) e arrivando agli anni Ottanta del Novecento con l’epopea positiva della “Milano da bere” (parafrasando una straordinaria campagna pubblicitaria di Marco Mignani per l’Amaro Ramazzotti, vitalità frenetica e sofisticata eleganza, con buon senso civile). Ma adesso, come testimoniano le riflessioni critiche e autocritiche in corso sui giornali di carta (compreso l’ultimo, bellissimo numero di “Città”, appena pubblicato e presentato al Teatro Franco Parenti) e sui media digitali, cresce un disagio diffuso per l’amplificarsi dei divari sociali, per il contrasto tra le tendenze al lusso più clamoroso (i valori immobiliari in impetuosa crescita, il costo della vita, i consumi vistosi) e le difficoltà che colpiscono non solo gli strati sociali più popolari ma anche i ceti medi.

“Qui Milano, la città del lusso: studenti in tenda e le suite nell’ex seminario. E i nuovi poveri fuggono”, titola il “Corriere della Sera” (26 maggio), raccontando prezzi e vezzi di un super hotel in corso Venezia, sorto là dove c’era un austero luogo di studio dell’Arcivescovado.
Ecco, “gli studenti in tenda”, per tornare ai primati e alle contraddizioni della città universitaria da cui siamo partiti. In tenda, davanti al Politecnico, per protestare contro il caro-affitti e le faticose condizioni di vita di chi viene a Milano per studiare e dunque, nella relazione tra Milano, l’Italia e il mondo, può fare da motore di sviluppo. Sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, se oltre alla cultura universitaria di qualità, gli studenti potranno fare tesoro della tradizione milanese che ha sempre saputo tenere insieme produttività e responsabilità civile, competitività e solidarietà. Un processo oggi in crisi.
C’è un problema di orizzonti e contenuti formativi (opportunamente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando la figura di don Milani nel centesimo anniversario della sua nascita, ha insistito sui temi della qualità della scuola, come strumento di conoscenza e formazione al bene comune e alla responsabilità della cittadinanza). E c’è un problema di numeri: troppo pochi laureati in Italia, troppi “neet” (ragazzi che non studiano e non lavorano) molti analfabeti di ritorno e diplomati incapaci, appena usciti dalla scuola superiore, di comprendere un testo e fare operazioni matematiche di medio livello (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E dunque, in questo contesto, la protesta degli studenti di Milano e le voci critiche sul futuro della formazione, proprio nella città capitale per gli studi universitari, impongono una riflessione che non ha affatto dimensioni locali ma investe tutti il sistema Paese.

Ma guardiamo meglio i dati sulla Milano universitaria, raccolti ed elaborati dal Mheo (Milan Higher Education Observatory), nato all’Università Statale in collaborazione con il Consorzio Universitario Cineca e la Deloitte e fa parte di Musa, l’ecosistema dell’Innovazione all’interno della Missione Istruzione e Ricerca del Pnrr (che proprio sulla scuola dovrebbe fare raggiungere all’Italia obiettivi ambiziosi di riforma ed efficacia della formazione).
Con l’autorevolezza di una banca dati ben aggiornata (gli ultimi dati fanno riferimento al 2022), il Mheo documenta come in Lombardia ci siano 65 istituzioni di formazione terziaria (come in tutto il Portogallo), con 15 università (8 a Milano), 15 Agam (gli Istituti di alta formazione artistica e musicale, come l’Accademia di Brera e il Conservatorio) e 24 Its Academy (gli Istituti Tecnici Superiori, in grande espansione, anche per iniziativa di Fondazioni nate dal mondo delle imprese, in cerca di persone di qualità e robusta formazione tecnico-scientifica).
Sempre i dati del Mheo dicono che i 211mila studenti “milanesi” sono il 12,1% di tutti gli universitari italiani del triennio (cui c’è da aggiungere il 6,8% degli altri lombardi) e il 14,7% degli iscritti alle lauree magistrali. Le prime quattro università per immatricolati sono Statale, Politecnico e Cattolica. E la quarta è telematica, eCampus, rivelando una tendenza alla crescita della “formazione a distanza di cui bisognerà tenere sempre più conto (il lock down durante l’epidemia da Covid19 ha fatto da acceleratore).

C’è ancora un dato su cui riflettere: solo un corso di studi su quattro, a Milano, è ad accesso libero. Gli altri sono tutti a numero chiuso. Segno di una difficoltà degli atenei e delle altre accademie di rispondere positivamente alle tante domande di formazione che arrivano sia dall’Italia che dal resto del mondo (le università più ricercate sono il Politecnico e la Bocconi).
Ecco dunque il tema posto dai dati e dalle proteste studentesche: come e con quali servizi fare fronte a un’attrattività che è fonte di ricchezza sociale, culturale e civile ma che nel tempo può diventare un boomerang, caratterizzando Milano come spazio da city users, in cui formarsi ma da cui fuggire.
L’obiettivo, dunque, è ridarle solidità, radici robuste e profonde di cultura riformista e industriale, seguendo la lezione, cara alle imprese migliori e alle tradizioni di una borghesia produttiva con forte spirito civico, d’un “umanesimo industriale” che oggi si declina anche in “umanesimo digitale”. Fermando o limitando, per come si può, la deriva dell’esasperazione degli “eventi” che trasformano Milano in “una grande vetrina, una gigantesca performance” (la critica è del sociologo Giampaolo Nuvolati, “la Repubblica”, 28 maggio).

La sfida è dunque culturale, politica e sociale. Di riqualificazione urbanistica (usando bene le opportunità offerte dalle grandi aree un tempo industriali e in via di riqualificazione e dal ridisegno e dal rilancio dei sette grandi ex scali ferroviari). Di politiche abitative (contrastando o comunque limitando gli “affitti brevi” per il turismo “mordi e fuggi”, come peraltro già succede positivamente a Parigi e Berlino). Di strutture per la mobilità. E di servizi. Rendendo Milano, anche per i suoi studenti, vivibile, accessibile, stimolante. Accogliente. Attrattiva e inclusiva, appunto.
Il futuro, come ben sappiamo, sta nelle prospettive dell’economia della conoscenza. E tutta l’industria italiana è ben orientata in questa direzione. Milano prima città universitaria del Paese non può sprecare l’occasione di esserne un buon motore, in un virtuoso sistema di relazioni con altri atenei, italiani ed europei.

(foto Getty Images)

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