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Michele Ferrero, mito e realtà

Appena pubblicato un libro che ripercorre la vicenda di uno degli imprenditori più importanti del Novecento 

La vita di un imprenditore (d’eccezione) raccontata attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto. Pochi numeri. Altrettanto poche analisi economiche e gestionali. Moltissime testimonianze. E il metodo con cui Salvatore Giannella ha provato a raccontare la vita di Michele Ferrero, cioè di chi quasi dal nulla ha creato un colosso dell’industria dolciaria, che, con i suoi prodotti, ha segnato intere generazioni e costruito un modello di consumo. “Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore” è un libro che dice tutto già dal titolo: si parla di un imprenditore attraverso i suoi principi di vita e di lavoro. E si racconta l’evoluzione di una delle aziende più importanti al mondo, almeno nel settore in cui agisce (ma non solo). Giannella ha davvero scritto una sorta di reportage percorrendo la vita di Ferrero attraverso una serie importante di testimonianze tratte dalle interviste di decine di persone che hanno vissuto fianco a fianco con “il signor Michele”. Un metodo faticoso ma fruttuoso, che Giannella spiega rifacendosi a quel grande giornalista (e scrittore) che è stato Dino Buzzati e che spiegava: “La prima, sicura regola del mestiere di cronista per far scendere i grandi uomini e le grandi donne dal loro piedistallo così da farli apparire comuni mortali, quali infatti sono, consiste nell’andare sul posto del personaggio da raccontare, raccogliere la massima quantità possibile di testimonianze, di citazioni e di note, tampinare una quantità di persone, rendersi invisi per l’insistenza, sgobbare: insomma, scavare”. Tutto per arrivare a capire, e quindi raccontare, vita e metodo di un mito. Perché proprio questo è stato ed è Michele Ferrero. Il risultato dello “scavare” di Giannella è un libro di poco meno di trecento pagine leggibilissime, dalle quali si cerca di far emergere i tratti di un personaggio dalle intuizioni geniali, con una visione internazionale e la capacità di ascoltare gli altri. Un mito per davvero – comunque -, fatto anche da un’attenzione certosina alla qualità dei prodotti, alle esigenze dei consumatori, al benessere dei dipendenti. Riservato quasi fino all’eccesso, Michele Ferrero e la sua particolare cultura d’impresa si delineano per alcuni tratti peculiari: l’innovazione nei metodi di produzione, l’attenzione ai valori umani e quindi alla responsabilità sociale dell’azione imprenditoriale.Un libro tutto da leggere quello di Giannella, ricordando che i miti sono irripetibili ma possono insegnare molto a tutti.

Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore
Salvatore Giannella
Salani Editore, 2023

Appena pubblicato un libro che ripercorre la vicenda di uno degli imprenditori più importanti del Novecento 

La vita di un imprenditore (d’eccezione) raccontata attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto. Pochi numeri. Altrettanto poche analisi economiche e gestionali. Moltissime testimonianze. E il metodo con cui Salvatore Giannella ha provato a raccontare la vita di Michele Ferrero, cioè di chi quasi dal nulla ha creato un colosso dell’industria dolciaria, che, con i suoi prodotti, ha segnato intere generazioni e costruito un modello di consumo. “Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore” è un libro che dice tutto già dal titolo: si parla di un imprenditore attraverso i suoi principi di vita e di lavoro. E si racconta l’evoluzione di una delle aziende più importanti al mondo, almeno nel settore in cui agisce (ma non solo). Giannella ha davvero scritto una sorta di reportage percorrendo la vita di Ferrero attraverso una serie importante di testimonianze tratte dalle interviste di decine di persone che hanno vissuto fianco a fianco con “il signor Michele”. Un metodo faticoso ma fruttuoso, che Giannella spiega rifacendosi a quel grande giornalista (e scrittore) che è stato Dino Buzzati e che spiegava: “La prima, sicura regola del mestiere di cronista per far scendere i grandi uomini e le grandi donne dal loro piedistallo così da farli apparire comuni mortali, quali infatti sono, consiste nell’andare sul posto del personaggio da raccontare, raccogliere la massima quantità possibile di testimonianze, di citazioni e di note, tampinare una quantità di persone, rendersi invisi per l’insistenza, sgobbare: insomma, scavare”. Tutto per arrivare a capire, e quindi raccontare, vita e metodo di un mito. Perché proprio questo è stato ed è Michele Ferrero. Il risultato dello “scavare” di Giannella è un libro di poco meno di trecento pagine leggibilissime, dalle quali si cerca di far emergere i tratti di un personaggio dalle intuizioni geniali, con una visione internazionale e la capacità di ascoltare gli altri. Un mito per davvero – comunque -, fatto anche da un’attenzione certosina alla qualità dei prodotti, alle esigenze dei consumatori, al benessere dei dipendenti. Riservato quasi fino all’eccesso, Michele Ferrero e la sua particolare cultura d’impresa si delineano per alcuni tratti peculiari: l’innovazione nei metodi di produzione, l’attenzione ai valori umani e quindi alla responsabilità sociale dell’azione imprenditoriale.Un libro tutto da leggere quello di Giannella, ricordando che i miti sono irripetibili ma possono insegnare molto a tutti.

Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore
Salvatore Giannella
Salani Editore, 2023

Imprese sociali a tutto tondo

Una ricerca di INAPP mette a fuoco natura e capacità d’azione di una particolare forma di produzione

 

Imprese sociali, ma imprese comunque. Seppur particolari. Quasi dimenticate, e adesso riscoperte. Da studiare e comprendere. In fondo è da queste considerazioni che prende le mosse Le imprese sociali: organizzazioni dell’economia sociale nello sviluppo dei territori e delle comunità, ricerca di  Sabina Polidori e Massimo Lori pubblicata da poco in un Working Paper INAPP.

Polidori e Lori (rispettivamente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche e di Istat), lavorano specificando che la cornice di riferimento dell’indagine è la constatazione del ritorno di interesse nel dibattito politico-istituzionale pubblico, nazionale ed europeo, delle realtà dell’economia sociale. Un’attenzione che ha tra le cause anche il Codice del Terzo settore, oltre che il Piano d’azione europeo per l’economia sociale, ma anche l’oggettiva efficacia di questa particolare modalità di fare impresa.

L’indagine ha l’obiettivo di mettere a fuoco le imprese sociali sotto più punti di vista, partendo – spiegano i due autori -, dalla disamina delle stesse nel contesto dell’economia sociale anche dal punto di vista concettuale. La ricerca prosegue quindi con un’analisi quantitativa per mostrare la rilevanza e il peso economico di questa categoria di organizzazioni osservate sulla base delle loro principali caratteristiche strutturali (localizzazione geografica, dimensioni etc.). Un accento particolare, infine, viene posto sull’amministrazione condivisa delle imprese sociali: strumento anch’esso innovativo, anche per le politiche pubbliche rivolte al comparto.

Il lavoro di Polidori e Lori delinea così una particolare organizzazione della produzione importante anche dal punto di vista della cultura del produrre. Nelle conclusioni della ricerca si legge: “Le imprese sociali tendono infatti a massimizzare l’impatto sociale sotto un vincolo di sostenibilità economica, invertendo i fattori della funzione obiettivo dei modelli aziendali ‘tradizionali’”.

Le imprese sociali: organizzazioni dell’economia sociale nello sviluppo dei territori e delle comunità

Sabina Polidori, Massimo Lori

Working Paper INAPP, n. 102

Una ricerca di INAPP mette a fuoco natura e capacità d’azione di una particolare forma di produzione

 

Imprese sociali, ma imprese comunque. Seppur particolari. Quasi dimenticate, e adesso riscoperte. Da studiare e comprendere. In fondo è da queste considerazioni che prende le mosse Le imprese sociali: organizzazioni dell’economia sociale nello sviluppo dei territori e delle comunità, ricerca di  Sabina Polidori e Massimo Lori pubblicata da poco in un Working Paper INAPP.

Polidori e Lori (rispettivamente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche e di Istat), lavorano specificando che la cornice di riferimento dell’indagine è la constatazione del ritorno di interesse nel dibattito politico-istituzionale pubblico, nazionale ed europeo, delle realtà dell’economia sociale. Un’attenzione che ha tra le cause anche il Codice del Terzo settore, oltre che il Piano d’azione europeo per l’economia sociale, ma anche l’oggettiva efficacia di questa particolare modalità di fare impresa.

L’indagine ha l’obiettivo di mettere a fuoco le imprese sociali sotto più punti di vista, partendo – spiegano i due autori -, dalla disamina delle stesse nel contesto dell’economia sociale anche dal punto di vista concettuale. La ricerca prosegue quindi con un’analisi quantitativa per mostrare la rilevanza e il peso economico di questa categoria di organizzazioni osservate sulla base delle loro principali caratteristiche strutturali (localizzazione geografica, dimensioni etc.). Un accento particolare, infine, viene posto sull’amministrazione condivisa delle imprese sociali: strumento anch’esso innovativo, anche per le politiche pubbliche rivolte al comparto.

Il lavoro di Polidori e Lori delinea così una particolare organizzazione della produzione importante anche dal punto di vista della cultura del produrre. Nelle conclusioni della ricerca si legge: “Le imprese sociali tendono infatti a massimizzare l’impatto sociale sotto un vincolo di sostenibilità economica, invertendo i fattori della funzione obiettivo dei modelli aziendali ‘tradizionali’”.

Le imprese sociali: organizzazioni dell’economia sociale nello sviluppo dei territori e delle comunità

Sabina Polidori, Massimo Lori

Working Paper INAPP, n. 102

La scuola italiana funziona bene alle elementari, ma poi degrada, mettendo in crisi economia e società  

Sono bravi, i bambini e le bambine delle scuole elementari italiane. Bravi a leggere e capire bene quello che viene insegnato. Più dei loro coetanei tedeschi, francesi e spagnoli. Poi, però, man mano che si va avanti negli studi, le cose peggiorano. Sino ad arrivare a una situazione drammatica: uno studente su due arriva alla fine delle scuole superiori senza avere le competenze base in italiano, matematica e inglese.

Per dirla in sintesi: crescendo, si disimpara. Sino ad arrivare al paradosso per cui l’analfabetismo di ritorno (unito all’analfabetismo funzionale e cioè all’incapacità di usare in modo efficace le competenze di base – lettura, scrittura, calcolo – per muoversi autonomamente nella società contemporanea) tocca il 47%: quasi un italiano su due.

Eccola, la fotografia della crisi dell’istruzione e, dunque, della cittadinanza consapevole e della partecipazione democratica, dello sviluppo economico e della responsabilità sociale. La fotografia della crisi profonda dell’Italia.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Secondo l’indagine Iea Pirls 2021, coordinata dal Boston College e presentata nei giorni scorsi all’Accademia dei Lincei a Roma, il 97% dei bambini italiani di nove anni sa leggere correttamente un testo e capirne il senso. L’indagine è stata condotta in 57 paesi al mondo, coinvolgendo 400mila studenti, 380mila genitori e 20mila insegnanti. I primi paesi sono, nell’ordine, Singapore (573 punti), Hong Kong, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia. Poi, ecco l’Italia, con un punteggio di 537, superiore a quello dei bambini di Germania (524), Spagna (521), Francia (514) e così via continuando. La media Ue è 527.

Per i bambini italiani, insomma, è un buon risultato. E a tenere alta la media contribuiscono anche in Italia più le bambine, con una differenza di 7 punti rispetto ai bambini (un dato su cui riflettere, insistendo su queste attitudini anche man mano che si va avanti negli studi, insistendo sulle materie Stem, quelle scientifiche, in cui le ragazze si ritrovano svantaggiate, per sgradevole eredità di disattenzioni e pregiudizi contro di loro).

A guardare meglio, comunque, si scopre che i problemi non mancano. C’è un arretramento di 11 punti rispetto a cinque anni fa (anche come conseguenza del “vuoto” d’apprendimento determinato dal Covid). E cresce ancora il peso dei divari territoriali, con il Mezzogiorno in affanno (36 punti di differenza con il Nord, in grave aumento rispetto ai 12 del 2006).

Bisogna insistere sulla qualità e la diffusione dell’istruzione, dunque. Spendendo bene i fondi del Pnrr destinati appunto, principalmente, ai giovani e alla loro formazione (“Next Generation”, si chiama appunto il Recovery Plan della Ue). E considerando la scuola, la ricerca scientifica, la cultura come cardini fondamentali della qualità della vita civile e sociale dell’Italia e del suo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, in una stagione dominata dalla “economia della conoscenza”.

Ecco un punto chiave: la competitività del sistema Paese è strettamente legata alla nostra capacità di innovazione. E l’innovazione, al tempo dell’Intelligenza Artificiale, comunque declinata, ha bisogno di formazione. Scolastica, naturalmente, dalle elementari all’università (e che le scuole elementari funzionino bene, come abbiamo visto, è un’ottima notizia). E post scolastica: una formazione che durerà tutta la vita (life long learning, si dice in gergo economico). “In un mondo in cui le competenze invecchiano rapidamente, la sfida per il mondo dell’educazione è insegnare a imparare”, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione e dell’Università e adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Imparare cosa? Recuperare la migliore tradizione italiana e insistere sulle sinergie tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, passione per la bellezza e gusto per l’innovazione tecnologica. La lezione greca e latina, aperta e dialettica. E l’intelligenza progettuale e critica di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Galileo Galilei. Attenzione alla tradizione non come “custodia delle ceneri”ma come cardine per il cambiamento. Un sapere “politecnico”. Rileggere Primo Levi e i suoi straordinari “La chiave a stella” sulla meccanica e “Il sistema periodico” sulla chimica per averne riprova.

Un’indicazione di grande interesse, in questa direzione, arriva da Napoli, al centro di un progetto curato dalla Fondazione Agnelli, dal Politecnico di Torino e dalla Lego Foundation per insegnare matematica nelle scuole elementari, usando come stimolo il gioco con i mattoncini di Lego. E’ il progetto Matabì (matematica e abilità, appunto), con il coinvolgimento di 88 classi elementari in tutta Italia, 30 delle quali a Napoli. L’obiettivo: fare crescere la conoscenza scientifica e matematica, guardando soprattutto alle bambine, per cercare di evitare fin da subito i rischi del divario di genere (i laureati in discipline scientifiche, per mille abitanti tra i 20 e 29 anni, sono 13,3 ragazze e 19,4 ragazzi in Italia, contro una media Ue rispettivamente di 14,9 e 27,9 e una condizione della Germania di 13,2 e 34,7).

Un divario di conoscenza e di genere che incide profondamente sulla produttività dell’Italia. Un divario da ridurre drasticamente, proprio per rafforzare lo sviluppo economico e sociale del Paese, fondato su un “made in Italy” fatto da innovazione, tecnologie sofisticate, qualità e sostenibilità dei prodotti e servizi (meccatronica, automotive, chimica, farmaceutica, aerospazio, nautica, automazione industriale, robotica, gomma, oltre che i tradizionali settori dell’agroindustria, dell’abbigliamento e dell’arredo). E che ha nelle filiere specializzate e nelle imprese medie e medio-grandi (le nostre “multinazionali tascabili”) i propri asset di crescita. Asset che chiedono intraprendenza e creatività. Insomma, conoscenza.

(Foto Getty Images)

Sono bravi, i bambini e le bambine delle scuole elementari italiane. Bravi a leggere e capire bene quello che viene insegnato. Più dei loro coetanei tedeschi, francesi e spagnoli. Poi, però, man mano che si va avanti negli studi, le cose peggiorano. Sino ad arrivare a una situazione drammatica: uno studente su due arriva alla fine delle scuole superiori senza avere le competenze base in italiano, matematica e inglese.

Per dirla in sintesi: crescendo, si disimpara. Sino ad arrivare al paradosso per cui l’analfabetismo di ritorno (unito all’analfabetismo funzionale e cioè all’incapacità di usare in modo efficace le competenze di base – lettura, scrittura, calcolo – per muoversi autonomamente nella società contemporanea) tocca il 47%: quasi un italiano su due.

Eccola, la fotografia della crisi dell’istruzione e, dunque, della cittadinanza consapevole e della partecipazione democratica, dello sviluppo economico e della responsabilità sociale. La fotografia della crisi profonda dell’Italia.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Secondo l’indagine Iea Pirls 2021, coordinata dal Boston College e presentata nei giorni scorsi all’Accademia dei Lincei a Roma, il 97% dei bambini italiani di nove anni sa leggere correttamente un testo e capirne il senso. L’indagine è stata condotta in 57 paesi al mondo, coinvolgendo 400mila studenti, 380mila genitori e 20mila insegnanti. I primi paesi sono, nell’ordine, Singapore (573 punti), Hong Kong, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia. Poi, ecco l’Italia, con un punteggio di 537, superiore a quello dei bambini di Germania (524), Spagna (521), Francia (514) e così via continuando. La media Ue è 527.

Per i bambini italiani, insomma, è un buon risultato. E a tenere alta la media contribuiscono anche in Italia più le bambine, con una differenza di 7 punti rispetto ai bambini (un dato su cui riflettere, insistendo su queste attitudini anche man mano che si va avanti negli studi, insistendo sulle materie Stem, quelle scientifiche, in cui le ragazze si ritrovano svantaggiate, per sgradevole eredità di disattenzioni e pregiudizi contro di loro).

A guardare meglio, comunque, si scopre che i problemi non mancano. C’è un arretramento di 11 punti rispetto a cinque anni fa (anche come conseguenza del “vuoto” d’apprendimento determinato dal Covid). E cresce ancora il peso dei divari territoriali, con il Mezzogiorno in affanno (36 punti di differenza con il Nord, in grave aumento rispetto ai 12 del 2006).

Bisogna insistere sulla qualità e la diffusione dell’istruzione, dunque. Spendendo bene i fondi del Pnrr destinati appunto, principalmente, ai giovani e alla loro formazione (“Next Generation”, si chiama appunto il Recovery Plan della Ue). E considerando la scuola, la ricerca scientifica, la cultura come cardini fondamentali della qualità della vita civile e sociale dell’Italia e del suo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, in una stagione dominata dalla “economia della conoscenza”.

Ecco un punto chiave: la competitività del sistema Paese è strettamente legata alla nostra capacità di innovazione. E l’innovazione, al tempo dell’Intelligenza Artificiale, comunque declinata, ha bisogno di formazione. Scolastica, naturalmente, dalle elementari all’università (e che le scuole elementari funzionino bene, come abbiamo visto, è un’ottima notizia). E post scolastica: una formazione che durerà tutta la vita (life long learning, si dice in gergo economico). “In un mondo in cui le competenze invecchiano rapidamente, la sfida per il mondo dell’educazione è insegnare a imparare”, sostiene Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione e dell’Università e adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Imparare cosa? Recuperare la migliore tradizione italiana e insistere sulle sinergie tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, passione per la bellezza e gusto per l’innovazione tecnologica. La lezione greca e latina, aperta e dialettica. E l’intelligenza progettuale e critica di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Galileo Galilei. Attenzione alla tradizione non come “custodia delle ceneri”ma come cardine per il cambiamento. Un sapere “politecnico”. Rileggere Primo Levi e i suoi straordinari “La chiave a stella” sulla meccanica e “Il sistema periodico” sulla chimica per averne riprova.

Un’indicazione di grande interesse, in questa direzione, arriva da Napoli, al centro di un progetto curato dalla Fondazione Agnelli, dal Politecnico di Torino e dalla Lego Foundation per insegnare matematica nelle scuole elementari, usando come stimolo il gioco con i mattoncini di Lego. E’ il progetto Matabì (matematica e abilità, appunto), con il coinvolgimento di 88 classi elementari in tutta Italia, 30 delle quali a Napoli. L’obiettivo: fare crescere la conoscenza scientifica e matematica, guardando soprattutto alle bambine, per cercare di evitare fin da subito i rischi del divario di genere (i laureati in discipline scientifiche, per mille abitanti tra i 20 e 29 anni, sono 13,3 ragazze e 19,4 ragazzi in Italia, contro una media Ue rispettivamente di 14,9 e 27,9 e una condizione della Germania di 13,2 e 34,7).

Un divario di conoscenza e di genere che incide profondamente sulla produttività dell’Italia. Un divario da ridurre drasticamente, proprio per rafforzare lo sviluppo economico e sociale del Paese, fondato su un “made in Italy” fatto da innovazione, tecnologie sofisticate, qualità e sostenibilità dei prodotti e servizi (meccatronica, automotive, chimica, farmaceutica, aerospazio, nautica, automazione industriale, robotica, gomma, oltre che i tradizionali settori dell’agroindustria, dell’abbigliamento e dell’arredo). E che ha nelle filiere specializzate e nelle imprese medie e medio-grandi (le nostre “multinazionali tascabili”) i propri asset di crescita. Asset che chiedono intraprendenza e creatività. Insomma, conoscenza.

(Foto Getty Images)

Quale modernità?

L’ultima fatica letteraria di Giuseppe Lupo ripercorre il Novecento delle fabbriche e pone la necessità di un racconto diverso del passato

Modernità e tradizione. Progresso e povertà. Sviluppo e declino. Paradiso e inferno. Potrebbero essere molti altri i binomi di opposti – che cambiano di volta in volta ed a seconda della posizione di guarda -, in grado di caratterizzare le letture del presente e il cammino dal passato (senza dimenticare, naturalmente, la prospettiva, anch’essa differente, del futuro). Analisi complessa, quella della modernità. Analisi che, comunque, deve essere condotta da chi voglia essere consapevole davvero dell’epoca in cui vive. Ed è per tutto questo che serve leggere “La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana”, ultima fatica letteraria di Giuseppe Lupo.

Lupo ripercorre il Novecento – il secolo della modernità, appunto -, che ha impresso una svolta epocale all’economia e alla politica, ha inciso nel tessuto culturale e sociale del nostro paese (e non solo), infrangendo equilibri secolari, mandando in frantumi la linea di continuità tra passato e futuro. Fino al salto decisivo: il tramonto della civiltà contadina e l’avvento dell’industrializzazione. Una corsa verso il futuro, quella del secolo scorso, che Lupo analizza attraverso i racconti che ne sono stati fatti. E dando voce ad alcune delle figure più rappresentative di questi racconti: da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini (solo per citarne alcune tra le tante). E senza dimenticare quel controverso rapporto tra umanesimo e scienza nella narrativa di fabbrica e nei periodici aziendali del secondo dopoguerra. Tutto per arrivare all’oggi caratterizzato dal “realismo liquido”, dal proletariato che non esiste più nelle forme di una volta, dalle molte fragilità del lavoro e dalle prospettive incerte e confuse. E tutto per arrivare a chiedersi se non sia meglio cambiare decisamente visuale e arrivare ad una controlettura della modernità che sia originale, alternativa, progettuale, e che aspiri a modificare il mondo, a, si spiega nel libro, “recidere il cordone ombelicale con il secolo terribile e maestoso di cui ci sentiamo ancora figli”.
E’ denso e bello il libro scritto da Giuseppe Lupo: pagine da leggere con grande attenzione, non sempre facili ma certo affascinanti e utili.

La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana
Giuseppe Lupo
Marsilio Editori, 2023

L’ultima fatica letteraria di Giuseppe Lupo ripercorre il Novecento delle fabbriche e pone la necessità di un racconto diverso del passato

Modernità e tradizione. Progresso e povertà. Sviluppo e declino. Paradiso e inferno. Potrebbero essere molti altri i binomi di opposti – che cambiano di volta in volta ed a seconda della posizione di guarda -, in grado di caratterizzare le letture del presente e il cammino dal passato (senza dimenticare, naturalmente, la prospettiva, anch’essa differente, del futuro). Analisi complessa, quella della modernità. Analisi che, comunque, deve essere condotta da chi voglia essere consapevole davvero dell’epoca in cui vive. Ed è per tutto questo che serve leggere “La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana”, ultima fatica letteraria di Giuseppe Lupo.

Lupo ripercorre il Novecento – il secolo della modernità, appunto -, che ha impresso una svolta epocale all’economia e alla politica, ha inciso nel tessuto culturale e sociale del nostro paese (e non solo), infrangendo equilibri secolari, mandando in frantumi la linea di continuità tra passato e futuro. Fino al salto decisivo: il tramonto della civiltà contadina e l’avvento dell’industrializzazione. Una corsa verso il futuro, quella del secolo scorso, che Lupo analizza attraverso i racconti che ne sono stati fatti. E dando voce ad alcune delle figure più rappresentative di questi racconti: da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini (solo per citarne alcune tra le tante). E senza dimenticare quel controverso rapporto tra umanesimo e scienza nella narrativa di fabbrica e nei periodici aziendali del secondo dopoguerra. Tutto per arrivare all’oggi caratterizzato dal “realismo liquido”, dal proletariato che non esiste più nelle forme di una volta, dalle molte fragilità del lavoro e dalle prospettive incerte e confuse. E tutto per arrivare a chiedersi se non sia meglio cambiare decisamente visuale e arrivare ad una controlettura della modernità che sia originale, alternativa, progettuale, e che aspiri a modificare il mondo, a, si spiega nel libro, “recidere il cordone ombelicale con il secolo terribile e maestoso di cui ci sentiamo ancora figli”.
E’ denso e bello il libro scritto da Giuseppe Lupo: pagine da leggere con grande attenzione, non sempre facili ma certo affascinanti e utili.

La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana
Giuseppe Lupo
Marsilio Editori, 2023

Benessere e cultura, binomio inscindibile

Una ricerca pubblicata da poco analizza il legame profondo tra attività culturali e “buona vita”

Si tratta di una sintesi che, partendo dall’economia, cerca di delineare le diverse strade per la “costruzione del benessere” in un decennio di storia italiana. Vengono quindi affrontati svariati ambiti, oltre a quello economico, come quelli sanitari, culturali, psicologici.

Il benessere come elemento fondante di una “buona vita”. E la cultura come strumento per arrivare ad un benessere più completo e permeante la vita di ognuno di noi. Binomio importante. Anche per le imprese e per la realizzazione di quella cultura d’impresa e del produrre che si pone come obiettivo non il solo profitto. Binomio che può trovare maggiore affermazione  quando viene studiato attraverso un’indagine che sia scientificamente fondata. E’ quanto hanno cercato di fare Giorgio Tavano Blessi, Federica Viganò e Enzo Grossi con “Il ruolo della cultura nella costruzione del benessere. Evidenze a livello nazionale 2008-2018”, ricerca appena pubblicata su Sociologia urbana e rurale.

Tavano Blessi e i suoi colleghi partono da una considerazione: la dimensione del benessere è sempre di più all’attenzione degli studi accademici, in quanto rilevante rispetto al functioning personale e collettivo. Se si condivide questo assunto, si deduce che quanto determina “il benessere” è anche un potenziale elemento di analisi e successivamente di politica del territorio e delle comunità che lo vivono.

La ricerca, quindi, indaga sugli elementi che costituiscono il benessere psicologico individuale per arrivare ad individuare quelli più determinanti rispetto ad altri. Un percorso, questo, condotto su due piani: prima di tutto l’approfondimento della letteratura sul tema e, poi, una indagine statistica in due momenti (2008 e 2018) per quantificare il peso dei fattori che producono benessere e quindi valutarne il cambiamento.

Lo studio permette così di verificare come la cultura, intesa come le attività svolte dall’individuo nel tempo libero, assuma un ruolo fondativo e si configuri come una delle determinanti più rilevanti del benessere individuale, manifestando, pertanto in modo evidente, il ruolo che tale risorsa può giocare come potenziale strumento proprio per le politiche di territorio al servizio dell’individuo e della società. Un ambito, quest’ultimo, nel quale hanno tra l’altro un ruolo importante le azioni collegate alla responsabilità sociale d’impresa.

Il ruolo della cultura nella costruzione del benessere. Evidenze a livello nazionale 2008-2018

Giorgio Tavano Blessi, Federica Viganò, Enzo Grossi

Sociologia urbana e rurale, 2023/130

Una ricerca pubblicata da poco analizza il legame profondo tra attività culturali e “buona vita”

Si tratta di una sintesi che, partendo dall’economia, cerca di delineare le diverse strade per la “costruzione del benessere” in un decennio di storia italiana. Vengono quindi affrontati svariati ambiti, oltre a quello economico, come quelli sanitari, culturali, psicologici.

Il benessere come elemento fondante di una “buona vita”. E la cultura come strumento per arrivare ad un benessere più completo e permeante la vita di ognuno di noi. Binomio importante. Anche per le imprese e per la realizzazione di quella cultura d’impresa e del produrre che si pone come obiettivo non il solo profitto. Binomio che può trovare maggiore affermazione  quando viene studiato attraverso un’indagine che sia scientificamente fondata. E’ quanto hanno cercato di fare Giorgio Tavano Blessi, Federica Viganò e Enzo Grossi con “Il ruolo della cultura nella costruzione del benessere. Evidenze a livello nazionale 2008-2018”, ricerca appena pubblicata su Sociologia urbana e rurale.

Tavano Blessi e i suoi colleghi partono da una considerazione: la dimensione del benessere è sempre di più all’attenzione degli studi accademici, in quanto rilevante rispetto al functioning personale e collettivo. Se si condivide questo assunto, si deduce che quanto determina “il benessere” è anche un potenziale elemento di analisi e successivamente di politica del territorio e delle comunità che lo vivono.

La ricerca, quindi, indaga sugli elementi che costituiscono il benessere psicologico individuale per arrivare ad individuare quelli più determinanti rispetto ad altri. Un percorso, questo, condotto su due piani: prima di tutto l’approfondimento della letteratura sul tema e, poi, una indagine statistica in due momenti (2008 e 2018) per quantificare il peso dei fattori che producono benessere e quindi valutarne il cambiamento.

Lo studio permette così di verificare come la cultura, intesa come le attività svolte dall’individuo nel tempo libero, assuma un ruolo fondativo e si configuri come una delle determinanti più rilevanti del benessere individuale, manifestando, pertanto in modo evidente, il ruolo che tale risorsa può giocare come potenziale strumento proprio per le politiche di territorio al servizio dell’individuo e della società. Un ambito, quest’ultimo, nel quale hanno tra l’altro un ruolo importante le azioni collegate alla responsabilità sociale d’impresa.

Il ruolo della cultura nella costruzione del benessere. Evidenze a livello nazionale 2008-2018

Giorgio Tavano Blessi, Federica Viganò, Enzo Grossi

Sociologia urbana e rurale, 2023/130

Il valore dei musei d’impresa: custodire memoria di creatività e lavoro per fare crescere l’economia

I musei sono l’ossatura solida d’una comunità, per testimoniarne la storia e dunque rendere possibile costruirne il futuro. E i musei e gli archivi d’impresa documentano la vitalità dell’intraprendenza, dell’intelligenza creativa, del lavoro e dell’innovazione d’una comunità attiva, produttiva, socialmente inclusiva. In quest’intreccio fertile tra memoria e innovazione, appunto, stanno le radici delle capacità di sviluppo dell’economia italiana, d’una manifattura di qualità e d’un sistema di servizi ad alta tecnologia apprezzati sui mercati internazionali.

Sono queste le considerazioni di fondo che ispirano l’assemblea di Museimpresa, in programma a Milano il 24 maggio nella sede della Fondazione Aem. E che, proprio quest’anno, fanno leva sulle parole chiave della Giornata Internazionale dei musei, in calendario il 18 maggio, secondo le indicazioni dell’Icom (l’International Council of Museum, fondato nel 1946 per sostenere la conservazione e valorizzazione dei patrimoni culturali): “Sostenibilità e benessere”. Sulla sostenibilità, ambientale e sociale, proprio le imprese italiane sono testimoni privilegiate sui mercati globali, facendone da tempo un asset della propria competitività. E lavoro e, appunto, diffusione e benessere, sono gli effetti positivi della vocazione industriale dell’Italia, secondo grande paese manifatturiero europeo, dopo la Germania.

Per capire meglio, si può partire dalla più recente definizione che l’Icom dà dei musei e che anche Museimpresa ha fatto propria: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale”. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, “i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.

Museo luogo vivo, strumento di approfondimento della storia e dell’esperienza umana. E veicolo di conoscenza diffusa. Uno spazio aperto, dialettico, democratico. E museo d’impresa come spazio in cui dare valore e prospettive alle culture materiali, secondo la lezione della scuola francese delle Annales, svincolando il racconto storico dalle sole dimensioni politiche e belliche. Le culture del lavoro, del cibo, degli scambi, della vita quotidiana, dell’attitudine al “fare, fare bene e fare del bene”. D’una tradizione diffusa nei territori italiani al “saper fare” che, proprio grazie anche all’impegno di Museimpresa, si va sempre più accompagnando al “far sapere”, rafforzando creatività e produttività.

C’è infatti una grande spinta alla crescita, scrivendo “una storia al futuro”. E musei e archivi si rivelano come veri e propri asset di competitività. Non solo per l’impresa protagonista. Ma anche per gli stakeholders. Con un intreccio tra consapevolezza dei valori del passato e capacità di costruire paradigmi di quello sviluppo che abbiamo già definito come sostenibile.

Creazione e innovazione, con la forza di un vero e proprio “orgoglio industriale”, sono appunto le caratteristiche fondamentali della nostra cultura d’impresa. E dunque memoria e racconto di un lungo, accidentato e complesso percorso attraverso le mutazioni di tecnologie produttive e prodotti, consumi e costumi. Perché l’impresa, come comunità di persone, è un attore sociale fondamentale della Storia. E il suo segno distintivo sta in una strategia ampia, che lega la “cultura politecnica” (sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche) ai processi produttivi, i linguaggi della comunicazione e del marketing ai prodotti. Con attenzione alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti, scrittori e poeti, architetti, registi e fotografi, grafici pubblicitari e designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.

Alla base di questa attività di Museimpresa (nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria e adesso forte di oltre 130 iscritti e sostenitori istituzionali) c’è, appunto, la convinzione, oramai consolidata, che le aziende siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e determinano sviluppo economico e sociale.

Negli archivi delle nostre imprese, infatti, è custodito e raccontato il patrimonio della sapienza manifatturiera e della qualità dei servizi, cardini d’una diffusa cultura economica, sociale e civile: documenti, fotografie, film, pubblicità, disegni tecnici, ma anche contratti e libretti di lavoro che raccontano la dimensione soprattutto umana del lavorare, con le diverse relazioni industriali, le testimonianze di rapporti e conflitti, l’evoluzione dei legami tra imprenditori, dirigenti, tecnici e maestranze operaie. Un capitale sociale che caratterizza ogni impresa e ne definisce la storia e l’identità. Il ritratto mobile d’una straordinaria umanità.

I musei sono l’ossatura solida d’una comunità, per testimoniarne la storia e dunque rendere possibile costruirne il futuro. E i musei e gli archivi d’impresa documentano la vitalità dell’intraprendenza, dell’intelligenza creativa, del lavoro e dell’innovazione d’una comunità attiva, produttiva, socialmente inclusiva. In quest’intreccio fertile tra memoria e innovazione, appunto, stanno le radici delle capacità di sviluppo dell’economia italiana, d’una manifattura di qualità e d’un sistema di servizi ad alta tecnologia apprezzati sui mercati internazionali.

Sono queste le considerazioni di fondo che ispirano l’assemblea di Museimpresa, in programma a Milano il 24 maggio nella sede della Fondazione Aem. E che, proprio quest’anno, fanno leva sulle parole chiave della Giornata Internazionale dei musei, in calendario il 18 maggio, secondo le indicazioni dell’Icom (l’International Council of Museum, fondato nel 1946 per sostenere la conservazione e valorizzazione dei patrimoni culturali): “Sostenibilità e benessere”. Sulla sostenibilità, ambientale e sociale, proprio le imprese italiane sono testimoni privilegiate sui mercati globali, facendone da tempo un asset della propria competitività. E lavoro e, appunto, diffusione e benessere, sono gli effetti positivi della vocazione industriale dell’Italia, secondo grande paese manifatturiero europeo, dopo la Germania.

Per capire meglio, si può partire dalla più recente definizione che l’Icom dà dei musei e che anche Museimpresa ha fatto propria: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale”. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, “i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.

Museo luogo vivo, strumento di approfondimento della storia e dell’esperienza umana. E veicolo di conoscenza diffusa. Uno spazio aperto, dialettico, democratico. E museo d’impresa come spazio in cui dare valore e prospettive alle culture materiali, secondo la lezione della scuola francese delle Annales, svincolando il racconto storico dalle sole dimensioni politiche e belliche. Le culture del lavoro, del cibo, degli scambi, della vita quotidiana, dell’attitudine al “fare, fare bene e fare del bene”. D’una tradizione diffusa nei territori italiani al “saper fare” che, proprio grazie anche all’impegno di Museimpresa, si va sempre più accompagnando al “far sapere”, rafforzando creatività e produttività.

C’è infatti una grande spinta alla crescita, scrivendo “una storia al futuro”. E musei e archivi si rivelano come veri e propri asset di competitività. Non solo per l’impresa protagonista. Ma anche per gli stakeholders. Con un intreccio tra consapevolezza dei valori del passato e capacità di costruire paradigmi di quello sviluppo che abbiamo già definito come sostenibile.

Creazione e innovazione, con la forza di un vero e proprio “orgoglio industriale”, sono appunto le caratteristiche fondamentali della nostra cultura d’impresa. E dunque memoria e racconto di un lungo, accidentato e complesso percorso attraverso le mutazioni di tecnologie produttive e prodotti, consumi e costumi. Perché l’impresa, come comunità di persone, è un attore sociale fondamentale della Storia. E il suo segno distintivo sta in una strategia ampia, che lega la “cultura politecnica” (sintesi originale di saperi umanistici e conoscenze scientifiche) ai processi produttivi, i linguaggi della comunicazione e del marketing ai prodotti. Con attenzione alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti, scrittori e poeti, architetti, registi e fotografi, grafici pubblicitari e designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.

Alla base di questa attività di Museimpresa (nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria e adesso forte di oltre 130 iscritti e sostenitori istituzionali) c’è, appunto, la convinzione, oramai consolidata, che le aziende siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e determinano sviluppo economico e sociale.

Negli archivi delle nostre imprese, infatti, è custodito e raccontato il patrimonio della sapienza manifatturiera e della qualità dei servizi, cardini d’una diffusa cultura economica, sociale e civile: documenti, fotografie, film, pubblicità, disegni tecnici, ma anche contratti e libretti di lavoro che raccontano la dimensione soprattutto umana del lavorare, con le diverse relazioni industriali, le testimonianze di rapporti e conflitti, l’evoluzione dei legami tra imprenditori, dirigenti, tecnici e maestranze operaie. Un capitale sociale che caratterizza ogni impresa e ne definisce la storia e l’identità. Il ritratto mobile d’una straordinaria umanità.

Campiello Junior 2023 Proclamati i due vincitori della seconda edizione del premio

Giovedì 11 maggio 2023 presso il Teatro Franco Parenti di Milano e la Fondazione Pirelli sono stati annunciati i vincitori della seconda edizione del Campiello Junior, il riconoscimento letterario ideato da Fondazione Pirelli e Fondazione Il Campiello.

La giuria popolare, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero, ha votato i sei libri finalisti per le due categorie 7-10 anni e 11-14 anni, scegliendo i due vincitori:

Nicola Cinquetti, L’incredibile notte di Billy Bologna, Lapis Edizioni, per la categoria 7-10;

Davide Rigiani, Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino, minimum fax, per la categoria 11-14.

Durante l’evento il giornalista e divulgatore scientifico Massimo Polidoro ha intervistato i sei finalisti e l’attrice Emilia Tiburzi ha dato vita alle parole dei loro libri.
Sono inoltre intervenuti Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premio Campiello, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Roberto Piumini, Presidente della Giuria di Selezione e Martino Negri, componente della Giuria di Selezione.

Per rivedere la premiazione clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Giovedì 11 maggio 2023 presso il Teatro Franco Parenti di Milano e la Fondazione Pirelli sono stati annunciati i vincitori della seconda edizione del Campiello Junior, il riconoscimento letterario ideato da Fondazione Pirelli e Fondazione Il Campiello.

La giuria popolare, composta da 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero, ha votato i sei libri finalisti per le due categorie 7-10 anni e 11-14 anni, scegliendo i due vincitori:

Nicola Cinquetti, L’incredibile notte di Billy Bologna, Lapis Edizioni, per la categoria 7-10;

Davide Rigiani, Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino, minimum fax, per la categoria 11-14.

Durante l’evento il giornalista e divulgatore scientifico Massimo Polidoro ha intervistato i sei finalisti e l’attrice Emilia Tiburzi ha dato vita alle parole dei loro libri.
Sono inoltre intervenuti Mariacristina Gribaudi, Presidente del Comitato di Gestione del Premio Campiello, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Roberto Piumini, Presidente della Giuria di Selezione e Martino Negri, componente della Giuria di Selezione.

Per rivedere la premiazione clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

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Parole per capire

Raccolti in un libro 16 vocaboli che aiutano la comprensione del passato e quindi dell’oggi

Comprendere come si può leggere il passato e coglierne complessità e multidimensionalità. Operazione che serve a tutti. E che accresce anche quella buona cultura del produrre che deve far parte integrante della cultura generale di ogni comunità. Saper leggere, dunque, il passato. Con strumenti chiari per tutti. Ed è questo traguardo che si raggiunge leggendo (e rileggendo) le pagine di Lessico della storia culturale, libro curato da Alberto Maria Banti, Vinzia Fiorino e Carlotta Sorba e appena pubblicato.

Il volume è costituito dalla raccolta di sedici parole chiave. Un lessico che, per mezzo di ogni vocabolo, ricostruisce come si sviluppano nuovi interrogativi, come emergono nuove fonti e nuove piste di indagine, come si aprono sguardi capaci di offrire uno spessore storico lungo a molti problemi che attraversano le società attuali, dai processi di omologazione della società di massa alle dinamiche che normano relazioni ed esclusioni sociali.

A scorrere davanti agli occhi di chi legge, sono quindi le parole: cibo, cultura di massa, cultura a stampa e culture scritte, cultura visuale, emozioni, famiglia, follia, genere, guerra, heritage/patrimonio, mass media, memoria, nazione, razza, sessualità, tecnoscienza. Vocaboli, tutti, che si intrecciano nel vissuto di un tempo e in quello di oggi. E che costituiscono davvero il tessuto da cucire insieme per una conoscenza del nostro essere comunità.

Banti, Fiorino e Sorba – con l’aiuto di una serie importante di collaboratori -, costruiscono così una sorta di manuale di viaggio, di guida alla comprensione del passato che aiuta anche a comprendere il presente. E costruire con consapevolezza il futuro. Un libro che, come ogni buona guida di viaggio, è bene avere sempre accanto. Come si è detto, leggendolo e rileggendolo.

 

Lessico della storia culturale

Alberto Maria Banti, Vinzia Fiorino e Carlotta Sorba (a cura di)

Laterza, 2023

Raccolti in un libro 16 vocaboli che aiutano la comprensione del passato e quindi dell’oggi

Comprendere come si può leggere il passato e coglierne complessità e multidimensionalità. Operazione che serve a tutti. E che accresce anche quella buona cultura del produrre che deve far parte integrante della cultura generale di ogni comunità. Saper leggere, dunque, il passato. Con strumenti chiari per tutti. Ed è questo traguardo che si raggiunge leggendo (e rileggendo) le pagine di Lessico della storia culturale, libro curato da Alberto Maria Banti, Vinzia Fiorino e Carlotta Sorba e appena pubblicato.

Il volume è costituito dalla raccolta di sedici parole chiave. Un lessico che, per mezzo di ogni vocabolo, ricostruisce come si sviluppano nuovi interrogativi, come emergono nuove fonti e nuove piste di indagine, come si aprono sguardi capaci di offrire uno spessore storico lungo a molti problemi che attraversano le società attuali, dai processi di omologazione della società di massa alle dinamiche che normano relazioni ed esclusioni sociali.

A scorrere davanti agli occhi di chi legge, sono quindi le parole: cibo, cultura di massa, cultura a stampa e culture scritte, cultura visuale, emozioni, famiglia, follia, genere, guerra, heritage/patrimonio, mass media, memoria, nazione, razza, sessualità, tecnoscienza. Vocaboli, tutti, che si intrecciano nel vissuto di un tempo e in quello di oggi. E che costituiscono davvero il tessuto da cucire insieme per una conoscenza del nostro essere comunità.

Banti, Fiorino e Sorba – con l’aiuto di una serie importante di collaboratori -, costruiscono così una sorta di manuale di viaggio, di guida alla comprensione del passato che aiuta anche a comprendere il presente. E costruire con consapevolezza il futuro. Un libro che, come ogni buona guida di viaggio, è bene avere sempre accanto. Come si è detto, leggendolo e rileggendolo.

 

Lessico della storia culturale

Alberto Maria Banti, Vinzia Fiorino e Carlotta Sorba (a cura di)

Laterza, 2023

Industria 4.0 al servizio dell’economia circolare

Pubblicata una ricerca che indaga le sinergie, positive, tra le applicazione digitali dei processi produttivi e la compatibilità ambientale degli stessi

Transizioni. Verso un’economia sempre più digitale. E verso un’economia sempre più “circolare”. Percorsi noti, che si intrecciano nella pratica, ma che devono ancora essere sostenuti da una analisi teorica che, soprattutto, ponga al centro le sinergie tra digitalizzazione e attenzione all’ambiente. E’ quanto hanno cercato di fare Derya Findik, Abdullah Tirgil e Fatih Cemil Özbuğday con la loro indagine Industry 4.0 as an enabler of circular economy practices: Evidence from European SMEs pubblicata recentemente.

L’indagine prende le mosse da una constatazione: mentre gli investimenti delle imprese nell’Industria 4.0 e l’adozione di pratiche di economia circolare sono considerati indispensabili per un’economia sostenibile, le sinergie derivanti dall’interazione di questi due aspetti hanno ricevuto un trattamento empirico meno sistematico.

La domanda è una sola. L’interazione tra investimenti lungo questi due sentieri di cambiamento delle organizzazioni della produzione, quali effetti sinergici può determinare? Un interrogativo importante e dalla risposta non scontata; anche se, come viene sottolineato dagli stessi autori della ricerca, si prevede che le transizioni “gemelle” si rafforzeranno a vicenda.

Ponendo attenzione particolare alla situazione delle piccole e medie imprese, la ricerca esamina gli effetti delle tecnologie Industria 4.0 sulle applicazioni dell’economia circolare delle PMI nei paesi dell’Unione europea. I risultati delle analisi econometriche forniscono evidenza di un effetto positivo statisticamente significativo delle tecnologie di Industria 4.0 sulle pratiche di economia circolare. Findik e i suoi colleghi aggiungono però anche dell’altro: questi risultati indicano la necessità di dare priorità nelle politiche economiche alla pianificazione della diffusione dei componenti di Industria 4.0 per migliorare e potenziare le pratiche di economia circolare delle PMI. Più in generale, inoltre, i risultati della ricerca indicano che le tecnologie di Industria 4.0 sono al servizio non solo delle strategie digitali e industriali delle imprese, ma anche delle loro strategie ambientali.

Industry 4.0 as an enabler of circular economy practices: Evidence from European SMEs

Derya Findik, Abdullah Tirgil, Fatih Cemil Özbuğday
Journal of Cleaner Production, Volume 410.

Pubblicata una ricerca che indaga le sinergie, positive, tra le applicazione digitali dei processi produttivi e la compatibilità ambientale degli stessi

Transizioni. Verso un’economia sempre più digitale. E verso un’economia sempre più “circolare”. Percorsi noti, che si intrecciano nella pratica, ma che devono ancora essere sostenuti da una analisi teorica che, soprattutto, ponga al centro le sinergie tra digitalizzazione e attenzione all’ambiente. E’ quanto hanno cercato di fare Derya Findik, Abdullah Tirgil e Fatih Cemil Özbuğday con la loro indagine Industry 4.0 as an enabler of circular economy practices: Evidence from European SMEs pubblicata recentemente.

L’indagine prende le mosse da una constatazione: mentre gli investimenti delle imprese nell’Industria 4.0 e l’adozione di pratiche di economia circolare sono considerati indispensabili per un’economia sostenibile, le sinergie derivanti dall’interazione di questi due aspetti hanno ricevuto un trattamento empirico meno sistematico.

La domanda è una sola. L’interazione tra investimenti lungo questi due sentieri di cambiamento delle organizzazioni della produzione, quali effetti sinergici può determinare? Un interrogativo importante e dalla risposta non scontata; anche se, come viene sottolineato dagli stessi autori della ricerca, si prevede che le transizioni “gemelle” si rafforzeranno a vicenda.

Ponendo attenzione particolare alla situazione delle piccole e medie imprese, la ricerca esamina gli effetti delle tecnologie Industria 4.0 sulle applicazioni dell’economia circolare delle PMI nei paesi dell’Unione europea. I risultati delle analisi econometriche forniscono evidenza di un effetto positivo statisticamente significativo delle tecnologie di Industria 4.0 sulle pratiche di economia circolare. Findik e i suoi colleghi aggiungono però anche dell’altro: questi risultati indicano la necessità di dare priorità nelle politiche economiche alla pianificazione della diffusione dei componenti di Industria 4.0 per migliorare e potenziare le pratiche di economia circolare delle PMI. Più in generale, inoltre, i risultati della ricerca indicano che le tecnologie di Industria 4.0 sono al servizio non solo delle strategie digitali e industriali delle imprese, ma anche delle loro strategie ambientali.

Industry 4.0 as an enabler of circular economy practices: Evidence from European SMEs

Derya Findik, Abdullah Tirgil, Fatih Cemil Özbuğday
Journal of Cleaner Production, Volume 410.

Il futuro di Milano sta nel sentirsi più civitas contro squilibri economici e fratture sociali 

Per parlare del futuro di Milano, in una stagione di radicali mutamenti dei contesti geopolitici, economici e socio-culturali, potrebbe essere utile ricordare che gli antichi romani, per parlare di “città”, usavano due ben diverse parole: urbs e civitas. La prima indicava l’insieme degli edifici e delle infrastrutture, le strade e le piazze, i palazzi del potere pubblico e i teatri, i templi e i mercati. La seconda, invece, riguardava la dimensione dei cives, dei cittadini, considerati come comunità resa viva dall’insieme dei diritti e dei doveri, politici e personali, che avevano a che fare con la cittadinanza e il suo status giuridico.

I luoghi. E le regole, i vincoli comunitari, i progetti.

I mattoni. E l’equilibrio giuridico e culturale su cui fondare il futuro.

Il latino, si sa, è lingua “precisa, essenziale”, inadeguata “a demagoghi e ciarlatani”, come amava ricordare un acuto scrittore maestro d’ironia, Giovanni Guareschi. E quella distinzione tra urbs e civitas, tra i luoghi fisici e l’anima giuridica, politica e culturale, oggi ci suggerisce che serve rilanciare proprio lo spirito della convivenza, della comunità, dell’appartenenza civile, delle norme e dei pensieri comuni per cercare di evitare che i rischi di degrado che in tanti avvertiamo travolgano questa nostra città che è ancora, nonostante tutto, così aperta, innovativa, europea, densa di intraprendenza e, contemporaneamente, di spirito sociale solidale. Per bloccare cioè un destino di strade e piazze affollate da city users e sempre meno abitate da cives, da cittadini.

Il dibattito sul futuro di Milano si è intensificato, negli ultimi mesi, sia sui quotidiani più autorevoli sia sui social media. Riguarda questioni che sono, naturalmente, generali sulla qualità della vita e del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, comprese le europee Londra e Parigi. Ma investe e rischia di travolgere soprattutto alcune caratteristiche che hanno fatto, nel corso del tempo, proprio di Milano un caso molto particolare: una città che non è capitale ma ha una proiezione internazionale di primissimo piano, un contesto demografico tutto sommato di medie dimensioni (1,4 milioni di abitanti) ma ben più ampio per relazioni metropolitane e intrecci di affari e scambi, un dinamismo sociale tutt’altro che provinciale e dunque originale nel contesto italiano, un intreccio di attività economiche e finanziarie di respiro globale che ne fanno centro di attenzioni per investimenti e progetti di multinazionali ma anche una spiccata tendenza all’integrazione sociale (lo stile civico milanese subito assorbito da chi vi arriva, come peraltro notavano già Alessandro Manzoni e Stendhal).

Milano città di relazioni e molteplicità, di diversità come ricchezza, di spirito da “milanesi si diventa” con un rapporto molto forte tra consapevolezza storica e inclinazione per l’innovazione, tra orgoglio ambrosiano e gusto dell’identità aperta, dialettica, meticcia. Contemporaneamente urbs e civitas.

Sono punti di forza ancora attuali, naturalmente. Ma messi in crisi da una serie di fenomeni recenti che stanno aprendo crepe e ferite. Quelle, appunto, di cui si discute.

Che fenomeni? L’alto e sempre crescente costo della vita, a cominciare dai valori immobiliari, dai prezzi delle case in vendita e in affitto, che tende ad allontanare verso le periferie o addirittura verso la provincia ceti medi, giovani coppie, settori sociali “creativi” e innovativi di non alto reddito. Una condizione generale di insicurezza, sia reale che “percepita” (ma la “percezione” rivela comunque un crescente disagio sociale diffuso). L’idea di una trasformazione che privilegia gli aspetti più vistosi della ricchezza esibita e dell’apparenza social, svalutando nell’opinione corrente la tradizionale laboriosità borghese e imprenditrice. Una pseudocultura dell’istante e del “presentismo” che va sostituendo l’inclinazione solida alla partecipazione culturale di qualità, su cui hanno fondato le loro radici teatri e spazi per la musica e l’arte. Insomma, le “mille luci” amate dai city users e dai retori della versione più superficiale di “the place to be” e non la robustezza e la lungimiranza dell’economia produttiva e della solidarietà sociale.

L’ultimo monito arriva da Ferruccio Resta, ex Rettore del Politecnico, che ricorda il patrimonio rappresentato dai 200mila studenti nelle università milanesi, sollecita politiche giovanili adeguate (formazione, opportunità di lavoro, mobilità facile, cultura stimolante, sport, vita sociale non dispendiosa) e mette in guardia Milano dal “rischio di fuga dei giovani se non investiamo su di loro” (Corriere della Sera, 6 maggio). Il dibattito è destinato, per fortuna, a continuare. Le sette tende piantate, nei giorni scorsi, da gruppi di studenti davanti al Politecnico per manifestare in modo simbolicamente visibile contro il caro-affitti sono una testimonianza che sta raccogliendo consensi e adesioni.

Ecco il punto. Milano ha bisogno di progetti. Di investimenti di ampio respiro. E di buona politica. Come aveva insegnato la cultura di governo illuminista dei Verri e di Beccaria e poi l’intelligenza economica e sociale di Carlo Cattaneo. E, in tempi più recenti, dal dopoguerra in poi, l’esempio di sindaci e politici ispirati dal riformismo socialista e laico e dal cattolicesimo sociale, il cui effetto positivo ancora si avverte con chiarezza e che può ispirare anche scelte delle attuali amministrazioni.

Milano, infatti, ancora oggi sa tenere insieme la qualità dell’amministrazione pubblica e l’autonomia economica di imprese private forti di una sofisticata cultura e capaci di “pensieri generali” e pratica di buoni valori civili. E continua ad avere spazi in cui fare crescere un discorso pubblico attento alla qualità della vita sociale e dello sviluppo economico. Tutte caratteristiche che, se messe a fattor comune, possono evitare il degrado dell’effimero e della “fiera delle vanità” dei nuovi ricchi, fragili, ombrosi, poco lungimiranti. Evitare che prevalga “il milanese imbruttito”. E trovi invece nuovo impulso la città borghese, produttiva, solidale. Con grande dignità.

Il dibattito pubblico economico, d’altronde, ha messo in luce da tempo la centralità della “qualità dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale”, rispetto all’ossessione della crescita quantitativa. Un numero crescente di imprese, pur attente ai profitti, insiste sui valori che interessano gli stakeholders (lavoratori, fornitori, consumatori, membri delle comunità con cui l’impresa ha rapporti) e non solo gli shareholders, gli azionisti. L’economia “civile” e “circolare” è al centro dell’attenzione anche delle organizzazioni imprenditoriali (a cominciare dall’Assolombarda).

Ci sono cioè tutte le condizioni perché a Milano abbiano ancora ruolo e peso le energie positive che costruiscono sviluppo di qualità. Una “città che sale”, come storia e rappresentazione artistica raccontano. E non una città che si gonfia in bolle speculative e crescenti e intollerabili disparità sociali.

Ci sono riferimenti positivi, su cui fare leva. Tanto per fare solo un esempio, la ristrutturazione dell’ex area Falck a Sesto San Giovanni, una delle più grandi operazioni di riqualificazione immobiliare d’Europa. Qui, dopo un’iniziale stagione d’attenzione per terziario e abitazioni di lusso, va avanti un nuovo accordo per privilegiare una vocazione residenziale a prezzi adatti per acquirenti di ceto medio e una quota rilevante di social housing con affitti a basso costo (adatti per esempio a studenti e giovani laureati). Sesto, tecnicamente, non è Milano, ma un comune autonomo. Della città metropolitana, comunque, fa parte. E gli attori dell’operazione, Hines, Coima di Manfredi Catella in buoni rapporti con le cooperative, Redo (Fondazione Cariplo e Cdp) e, come protagonista finanziario, Intesa San Paolo) sono protagonisti di primo piano della scena economica milanese. Il paradigma si può replicare e ampliare. E Comune e Regione possono trovare significative convergenze di buon governo. Evitando il degrado sociale e civile..

Di sentirsi civitas, ha infatti bisogno Milano. E, d’altronde, d’una Milano “civile” ha uno straordinario bisogno l’Italia.

(photo Getty Images)

Per parlare del futuro di Milano, in una stagione di radicali mutamenti dei contesti geopolitici, economici e socio-culturali, potrebbe essere utile ricordare che gli antichi romani, per parlare di “città”, usavano due ben diverse parole: urbs e civitas. La prima indicava l’insieme degli edifici e delle infrastrutture, le strade e le piazze, i palazzi del potere pubblico e i teatri, i templi e i mercati. La seconda, invece, riguardava la dimensione dei cives, dei cittadini, considerati come comunità resa viva dall’insieme dei diritti e dei doveri, politici e personali, che avevano a che fare con la cittadinanza e il suo status giuridico.

I luoghi. E le regole, i vincoli comunitari, i progetti.

I mattoni. E l’equilibrio giuridico e culturale su cui fondare il futuro.

Il latino, si sa, è lingua “precisa, essenziale”, inadeguata “a demagoghi e ciarlatani”, come amava ricordare un acuto scrittore maestro d’ironia, Giovanni Guareschi. E quella distinzione tra urbs e civitas, tra i luoghi fisici e l’anima giuridica, politica e culturale, oggi ci suggerisce che serve rilanciare proprio lo spirito della convivenza, della comunità, dell’appartenenza civile, delle norme e dei pensieri comuni per cercare di evitare che i rischi di degrado che in tanti avvertiamo travolgano questa nostra città che è ancora, nonostante tutto, così aperta, innovativa, europea, densa di intraprendenza e, contemporaneamente, di spirito sociale solidale. Per bloccare cioè un destino di strade e piazze affollate da city users e sempre meno abitate da cives, da cittadini.

Il dibattito sul futuro di Milano si è intensificato, negli ultimi mesi, sia sui quotidiani più autorevoli sia sui social media. Riguarda questioni che sono, naturalmente, generali sulla qualità della vita e del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, comprese le europee Londra e Parigi. Ma investe e rischia di travolgere soprattutto alcune caratteristiche che hanno fatto, nel corso del tempo, proprio di Milano un caso molto particolare: una città che non è capitale ma ha una proiezione internazionale di primissimo piano, un contesto demografico tutto sommato di medie dimensioni (1,4 milioni di abitanti) ma ben più ampio per relazioni metropolitane e intrecci di affari e scambi, un dinamismo sociale tutt’altro che provinciale e dunque originale nel contesto italiano, un intreccio di attività economiche e finanziarie di respiro globale che ne fanno centro di attenzioni per investimenti e progetti di multinazionali ma anche una spiccata tendenza all’integrazione sociale (lo stile civico milanese subito assorbito da chi vi arriva, come peraltro notavano già Alessandro Manzoni e Stendhal).

Milano città di relazioni e molteplicità, di diversità come ricchezza, di spirito da “milanesi si diventa” con un rapporto molto forte tra consapevolezza storica e inclinazione per l’innovazione, tra orgoglio ambrosiano e gusto dell’identità aperta, dialettica, meticcia. Contemporaneamente urbs e civitas.

Sono punti di forza ancora attuali, naturalmente. Ma messi in crisi da una serie di fenomeni recenti che stanno aprendo crepe e ferite. Quelle, appunto, di cui si discute.

Che fenomeni? L’alto e sempre crescente costo della vita, a cominciare dai valori immobiliari, dai prezzi delle case in vendita e in affitto, che tende ad allontanare verso le periferie o addirittura verso la provincia ceti medi, giovani coppie, settori sociali “creativi” e innovativi di non alto reddito. Una condizione generale di insicurezza, sia reale che “percepita” (ma la “percezione” rivela comunque un crescente disagio sociale diffuso). L’idea di una trasformazione che privilegia gli aspetti più vistosi della ricchezza esibita e dell’apparenza social, svalutando nell’opinione corrente la tradizionale laboriosità borghese e imprenditrice. Una pseudocultura dell’istante e del “presentismo” che va sostituendo l’inclinazione solida alla partecipazione culturale di qualità, su cui hanno fondato le loro radici teatri e spazi per la musica e l’arte. Insomma, le “mille luci” amate dai city users e dai retori della versione più superficiale di “the place to be” e non la robustezza e la lungimiranza dell’economia produttiva e della solidarietà sociale.

L’ultimo monito arriva da Ferruccio Resta, ex Rettore del Politecnico, che ricorda il patrimonio rappresentato dai 200mila studenti nelle università milanesi, sollecita politiche giovanili adeguate (formazione, opportunità di lavoro, mobilità facile, cultura stimolante, sport, vita sociale non dispendiosa) e mette in guardia Milano dal “rischio di fuga dei giovani se non investiamo su di loro” (Corriere della Sera, 6 maggio). Il dibattito è destinato, per fortuna, a continuare. Le sette tende piantate, nei giorni scorsi, da gruppi di studenti davanti al Politecnico per manifestare in modo simbolicamente visibile contro il caro-affitti sono una testimonianza che sta raccogliendo consensi e adesioni.

Ecco il punto. Milano ha bisogno di progetti. Di investimenti di ampio respiro. E di buona politica. Come aveva insegnato la cultura di governo illuminista dei Verri e di Beccaria e poi l’intelligenza economica e sociale di Carlo Cattaneo. E, in tempi più recenti, dal dopoguerra in poi, l’esempio di sindaci e politici ispirati dal riformismo socialista e laico e dal cattolicesimo sociale, il cui effetto positivo ancora si avverte con chiarezza e che può ispirare anche scelte delle attuali amministrazioni.

Milano, infatti, ancora oggi sa tenere insieme la qualità dell’amministrazione pubblica e l’autonomia economica di imprese private forti di una sofisticata cultura e capaci di “pensieri generali” e pratica di buoni valori civili. E continua ad avere spazi in cui fare crescere un discorso pubblico attento alla qualità della vita sociale e dello sviluppo economico. Tutte caratteristiche che, se messe a fattor comune, possono evitare il degrado dell’effimero e della “fiera delle vanità” dei nuovi ricchi, fragili, ombrosi, poco lungimiranti. Evitare che prevalga “il milanese imbruttito”. E trovi invece nuovo impulso la città borghese, produttiva, solidale. Con grande dignità.

Il dibattito pubblico economico, d’altronde, ha messo in luce da tempo la centralità della “qualità dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale”, rispetto all’ossessione della crescita quantitativa. Un numero crescente di imprese, pur attente ai profitti, insiste sui valori che interessano gli stakeholders (lavoratori, fornitori, consumatori, membri delle comunità con cui l’impresa ha rapporti) e non solo gli shareholders, gli azionisti. L’economia “civile” e “circolare” è al centro dell’attenzione anche delle organizzazioni imprenditoriali (a cominciare dall’Assolombarda).

Ci sono cioè tutte le condizioni perché a Milano abbiano ancora ruolo e peso le energie positive che costruiscono sviluppo di qualità. Una “città che sale”, come storia e rappresentazione artistica raccontano. E non una città che si gonfia in bolle speculative e crescenti e intollerabili disparità sociali.

Ci sono riferimenti positivi, su cui fare leva. Tanto per fare solo un esempio, la ristrutturazione dell’ex area Falck a Sesto San Giovanni, una delle più grandi operazioni di riqualificazione immobiliare d’Europa. Qui, dopo un’iniziale stagione d’attenzione per terziario e abitazioni di lusso, va avanti un nuovo accordo per privilegiare una vocazione residenziale a prezzi adatti per acquirenti di ceto medio e una quota rilevante di social housing con affitti a basso costo (adatti per esempio a studenti e giovani laureati). Sesto, tecnicamente, non è Milano, ma un comune autonomo. Della città metropolitana, comunque, fa parte. E gli attori dell’operazione, Hines, Coima di Manfredi Catella in buoni rapporti con le cooperative, Redo (Fondazione Cariplo e Cdp) e, come protagonista finanziario, Intesa San Paolo) sono protagonisti di primo piano della scena economica milanese. Il paradigma si può replicare e ampliare. E Comune e Regione possono trovare significative convergenze di buon governo. Evitando il degrado sociale e civile..

Di sentirsi civitas, ha infatti bisogno Milano. E, d’altronde, d’una Milano “civile” ha uno straordinario bisogno l’Italia.

(photo Getty Images)

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