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Persone da valorizzare, non da gestire

Appena pubblicato un libro sull’HR che allarga pratica e orizzonti di un’area fondamentale delle imprese

Donne e uomini al lavoro nelle imprese. Risorse fondamentali per il successo. Risorse da “gestire” un tempo e da “valorizzare” oggi. Con gli approcci corretti. E’ attorno a questo nodo di problemi che ruota “Le 5 lenti dell’HR” il libro di Alessandro Rimassa appena pubblicato.

Il volume parte da una constatazione: per molto tempo la “direzione del personale” è stata considerata solo una funzione laterale, sussidiaria, a disposizione di qualcos’altro o qualcun altro; un ruolo a supporto, per lo più privo di obiettivi realmente misurabili. Poi si è passati a parlare di “HR manager” e ora, con parole ancor più pregnanti, di Chief People Officer e People&Culture Manager. Accanto all’evoluzione dei termini, si sono evoluti anche compiti e caratteristiche del “capo del personale”. Un cambio di funzioni e di cultura che deve essere ancora esplorato e compreso. E che, per capire meglio, è sintetizzabile in un percorso: dalla gestione delle assunzioni e dei licenziamenti alla cura delle persone nei luoghi di lavoro.

Partendo da tutto questo, Rimassa sottolinea come chi ha la responsabilità di guidare un’organizzazione ha bisogno delle persone per riuscire a realizzare la strategia e far crescere il business, ma prima ancora ha bisogno di costruire una “strategia per le persone”. E’ un cambiamento ancora una volta culturale quello che occorre. Ripensando prima di tutto quanto il ruolo di chi si occupa delle persone sia complesso e sfidante e che la cosiddetta funzione HR non può più rimanere secondaria.

Il libro quindi propone a di “indossare cinque lenti diverse”– una dopo l’altra e spesso insieme – quella del design per progettare il prodotto migliore per le esigenze delle persone e dell’azienda; quella del marketing per creare esperienze uniche che permettano ai dipendenti non solo di restare ma anche di voler essere i primi testimonial dell’impresa; quella del learning per guidare un processo di apprendimento continuo; quella della technology per investire su digitalizzazione e accessibilità delle informazioni; quella del wellbeing per costruire ambienti lavorativi in cui tutti stiano bene e siano più soddisfatti e quindi più produttivi, trovando una propria dimensione che sia insieme umana e professionale.

Quanto scritto da Alessandro Rimassa cerca di sintetizzare tutto questo usando un linguaggio preciso e tecnico, non sempre facilissimo ma sempre utile e che per questo deve essere letto con grande attenzione. Un libro, quello di Rimassa, che può dare molto a chi ha davvero l’impegno di valorizzare le persone che lavorano in un’impresa.

Le 5 lenti dell’HR

Alessandro Rimassa

Egea, 2023

Appena pubblicato un libro sull’HR che allarga pratica e orizzonti di un’area fondamentale delle imprese

Donne e uomini al lavoro nelle imprese. Risorse fondamentali per il successo. Risorse da “gestire” un tempo e da “valorizzare” oggi. Con gli approcci corretti. E’ attorno a questo nodo di problemi che ruota “Le 5 lenti dell’HR” il libro di Alessandro Rimassa appena pubblicato.

Il volume parte da una constatazione: per molto tempo la “direzione del personale” è stata considerata solo una funzione laterale, sussidiaria, a disposizione di qualcos’altro o qualcun altro; un ruolo a supporto, per lo più privo di obiettivi realmente misurabili. Poi si è passati a parlare di “HR manager” e ora, con parole ancor più pregnanti, di Chief People Officer e People&Culture Manager. Accanto all’evoluzione dei termini, si sono evoluti anche compiti e caratteristiche del “capo del personale”. Un cambio di funzioni e di cultura che deve essere ancora esplorato e compreso. E che, per capire meglio, è sintetizzabile in un percorso: dalla gestione delle assunzioni e dei licenziamenti alla cura delle persone nei luoghi di lavoro.

Partendo da tutto questo, Rimassa sottolinea come chi ha la responsabilità di guidare un’organizzazione ha bisogno delle persone per riuscire a realizzare la strategia e far crescere il business, ma prima ancora ha bisogno di costruire una “strategia per le persone”. E’ un cambiamento ancora una volta culturale quello che occorre. Ripensando prima di tutto quanto il ruolo di chi si occupa delle persone sia complesso e sfidante e che la cosiddetta funzione HR non può più rimanere secondaria.

Il libro quindi propone a di “indossare cinque lenti diverse”– una dopo l’altra e spesso insieme – quella del design per progettare il prodotto migliore per le esigenze delle persone e dell’azienda; quella del marketing per creare esperienze uniche che permettano ai dipendenti non solo di restare ma anche di voler essere i primi testimonial dell’impresa; quella del learning per guidare un processo di apprendimento continuo; quella della technology per investire su digitalizzazione e accessibilità delle informazioni; quella del wellbeing per costruire ambienti lavorativi in cui tutti stiano bene e siano più soddisfatti e quindi più produttivi, trovando una propria dimensione che sia insieme umana e professionale.

Quanto scritto da Alessandro Rimassa cerca di sintetizzare tutto questo usando un linguaggio preciso e tecnico, non sempre facilissimo ma sempre utile e che per questo deve essere letto con grande attenzione. Un libro, quello di Rimassa, che può dare molto a chi ha davvero l’impegno di valorizzare le persone che lavorano in un’impresa.

Le 5 lenti dell’HR

Alessandro Rimassa

Egea, 2023

Globalizzazione come e dove

Il Direttore generale di Banca d’Italia sintetizza in una lucida esposizione storia e attualità delle relazioni internazionali

 

La globalizzazione come qualcosa da comprendere prima di tutto, e poi da gestire correttamente. Per non lasciare nessuno indietro. E per non farsi sorpassare dagli eventi. Occorre, ancora un volta, avere gli strumenti giusti. Per questo serve leggere “Globalizzazione e frammentazione” che Luigi Federico Signorini (Direttore generale di Banca d’Italia) ha scritto per l’incontro “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani” del Polo Universitario delle Scienze Sociali di Firenze che si è svolto all’inizio di aprile 2023.

Signorini delinea in poche pagine quanto accaduto negli ultimi decenni, con attenzione particolare all’economia ma guardando anche agli altri aspetti del sistema sociale mondiale. E comincia subito con una precisazione che pone chiarezza sul tema: “La parola ‘globalizzazione’ – spiega -, può significare cose diverse in contesti diversi o secondo punti di vista alternativi. La globalizzazione intesa nel suo senso più ampio investe aspetti non solo economici, ma anche tecnologici, sociali, culturali, politici; aspetti che non è facile separare. Allo stesso modo ha generato e genera critiche, entusiasmi e paure che non sono ascrivibili a una sola dimensione – sia essa economica, sociale o tecnologica. Fatta questa premessa, credo che seguire l’evoluzione di questo processo dal punto di vista dell’economista permetta di coglierne alcuni aspetti importanti che possono contribuire al nostro dibattito di oggi, indicando, o almeno cercando di indicare, i rischi del presente e le prospettive di domani”.

Fatta questa premessa, il Direttore generale della Banca d’Italia, racconta quanto accaduto grosso modo negli ultimi vent’anni, ponendo, per ogni passaggio (ed è certamente un merito), pochi numeri e molti ragionamenti comprensibili a chi legge. E precisando alcuni punti spesso trascurati. “Considerando l’intero genere umano come un’unica comunità – viene sottolineato -, la riduzione della disuguaglianza realizzata negli ultimi decenni è stata in realtà straordinaria e il contributo della globalizzazione a questo fenomeno innegabile. Ma l’andamento della disuguaglianza all’interno dei paesi, soprattutto dei paesi avanzati, è, a dir poco, assai più controverso”.

E’ una globalizzazione non lineare e non omogenea, quindi, quella che delinea Signorini fornendo a chi legge gli elementi per comprendere e valutare. E arrivando fino all’oggi caratterizzato dall’irrompere sulla scena del conflitto Russia-Ucraina.

Quanto scritto da Signorini è così non solo un esempio di lucida analisi ma anche uno strumento essenziale per capire cosa accade intorno a noi. Da leggere da conservare.

Globalizzazione e frammentazione

Luigi Federico Signorini

Incontro “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani”, Polo Universitario delle Scienze Sociali, Firenze, 5 aprile 2023

Il Direttore generale di Banca d’Italia sintetizza in una lucida esposizione storia e attualità delle relazioni internazionali

 

La globalizzazione come qualcosa da comprendere prima di tutto, e poi da gestire correttamente. Per non lasciare nessuno indietro. E per non farsi sorpassare dagli eventi. Occorre, ancora un volta, avere gli strumenti giusti. Per questo serve leggere “Globalizzazione e frammentazione” che Luigi Federico Signorini (Direttore generale di Banca d’Italia) ha scritto per l’incontro “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani” del Polo Universitario delle Scienze Sociali di Firenze che si è svolto all’inizio di aprile 2023.

Signorini delinea in poche pagine quanto accaduto negli ultimi decenni, con attenzione particolare all’economia ma guardando anche agli altri aspetti del sistema sociale mondiale. E comincia subito con una precisazione che pone chiarezza sul tema: “La parola ‘globalizzazione’ – spiega -, può significare cose diverse in contesti diversi o secondo punti di vista alternativi. La globalizzazione intesa nel suo senso più ampio investe aspetti non solo economici, ma anche tecnologici, sociali, culturali, politici; aspetti che non è facile separare. Allo stesso modo ha generato e genera critiche, entusiasmi e paure che non sono ascrivibili a una sola dimensione – sia essa economica, sociale o tecnologica. Fatta questa premessa, credo che seguire l’evoluzione di questo processo dal punto di vista dell’economista permetta di coglierne alcuni aspetti importanti che possono contribuire al nostro dibattito di oggi, indicando, o almeno cercando di indicare, i rischi del presente e le prospettive di domani”.

Fatta questa premessa, il Direttore generale della Banca d’Italia, racconta quanto accaduto grosso modo negli ultimi vent’anni, ponendo, per ogni passaggio (ed è certamente un merito), pochi numeri e molti ragionamenti comprensibili a chi legge. E precisando alcuni punti spesso trascurati. “Considerando l’intero genere umano come un’unica comunità – viene sottolineato -, la riduzione della disuguaglianza realizzata negli ultimi decenni è stata in realtà straordinaria e il contributo della globalizzazione a questo fenomeno innegabile. Ma l’andamento della disuguaglianza all’interno dei paesi, soprattutto dei paesi avanzati, è, a dir poco, assai più controverso”.

E’ una globalizzazione non lineare e non omogenea, quindi, quella che delinea Signorini fornendo a chi legge gli elementi per comprendere e valutare. E arrivando fino all’oggi caratterizzato dall’irrompere sulla scena del conflitto Russia-Ucraina.

Quanto scritto da Signorini è così non solo un esempio di lucida analisi ma anche uno strumento essenziale per capire cosa accade intorno a noi. Da leggere da conservare.

Globalizzazione e frammentazione

Luigi Federico Signorini

Incontro “Geopolitica, geodemografia e il mondo di domani”, Polo Universitario delle Scienze Sociali, Firenze, 5 aprile 2023

Il Pil cresce e la “nave Italia” va. Ora servono politiche per la produttività e le infrastrutture

E la nave va. Dando corpo all’efficace metafora racchiusa nel titolo d’un esemplare film di Federico Fellini, l’Italia continua a navigare. Nonostante tutto. Nonostante le zavorre d’una burocrazia poco efficiente e di una giustizia lenta e sbilenca. Nonostante la ruggine che rallenta gli ingranaggi della nostra produttività, sempre agli ultimi posti in Europa. Nonostante la precarietà che avvilisce il mondo del lavoro, soprattutto delle giovani generazioni e delle donne (come ha giustamente ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso per il Primo Maggio). Nonostante un debito pubblico sempre più alto, anche in rapporto al Prodotto Interno Lordo, che continua a essere un inquietante elemento di fragilità per tutto il sistema Italia e per i nostri equilibri sociali e dunque politici.

Che la nave vada lo dicono gli ultimi dati sul Pil, che segnalano una crescita dello 0,5% nel primo trimestre ‘23, superiore alle attese, migliore di quella di Francia e Germania e comunque tale da fare salire allo 0,8% la crescita già acquisita per l’anno in corso, con la possibilità di arrivare a un buon 1% alla fine del ‘23 (meglio delle previsioni preoccupate del FMI e della Banca d’Italia).
Soffiano “venti favorevoli sulla rotta dell’economia italiana”, commenta il Centro Studi di Confindustria, soddisfatto, tra l’altro, che il calo del prezzo del gas “alimenti la fiducia” di cittadini e imprese, dato che incide positivamente sulla riduzione dell’inflazione (che resta comunque ancora alta, con effetti negativi sul potere d’acquisto e dunque sulla qualità della vita di milioni di famiglie).
Quest’aumento del Pil – documenta l’Istat – dipende un po’ da tutti i fatturi, dalla domanda interna e dall’export, dalla manifattura e dai servizi (a cominciare dal turismo).
La domanda chiave, adesso, è “come non perdere il treno della crescita?” Su “Il Foglio” (30 aprile) Dario Di Vico ammonisce giustamente sulla necessità di non sprecare l’occasione degli investimenti stimolati dal Pnrr e di non disperdere risorse in tagli delle tasse e vantaggi redistribuivi a ceti sociali particolari, ma di puntare con incisività politica sulle infrastrutture (materiali e digitali), in cui l’Italia mostra ancora allarmanti carenze (scuola e formazione, salute e ospedali, ferrovie e porti, reti di telecomunicazione, a cominciare dagli investimenti sul 5G su cui il governo continua a mostrare lentezze e indecisioni).
Ecco il punto chiave che sia il governo che le forze politiche e sociali si devono dimostrare in grado di affrontare positivamente, anche per rinsaldare il ruolo fondamentale dell’Italia nel contesto della Ue (anche chiudendo finalmente il capitolo della ratifica del Mes, la cui mancanza ci indebolisce e ci fa perdere credibilità).

La crescita del Pil in questo inizio di ‘23 riporta alla ribalta le considerazioni già ampiamente fatte a proposito della straordinaria dinamica dell’economia italiana nel ‘21 e nel ‘22, con un Pil in aumento, nei due anni, di quasi l’11%, come nei tempi d’oro del “boom” degli anni Cinquanta e Sessanta. Una prestazione dovuta in gran parte alle imprese che hanno investito, innovato, conquistato spazio sui mercati internazionali e colto in pieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali, grazie anche agli intelligenti ed efficaci stimoli fiscali di “Industria4.0”.
La lezione vale ancora oggi. C’è bisogno di agevolare la twin transition ambientale e digitale, in cui molte imprese e intere filiere produttive sono già impegnate. E dare risposte di buon governo agli attori economici più intraprendenti.
Su come fare, c’è un’ampia letteratura economica, che il ministro Giorgetti, peraltro, conosce bene. E ci sono le indicazioni concrete, fattive, che vengono da Confindustria e dalle associazioni territoriali più coinvolte nei processi di sviluppo, dall’Assolombarda all’Unione Industriali di Torino, dalle organizzazioni di Emilia e Veneto alle rappresentanze di categoria (meccatronica, avionica, chimica, farmaceutica, agro-alimentare, etc.).
Di cos’hanno bisogno, dunque, le imprese, per continuare a fare da motore di sviluppo sostenibile, lavoro, benessere, cambiamento? L’elenco è ben noto.
Hanno bisogno di Europa, con politiche europee industriali e fiscali e con scelte comuni per le materie prime, la sicurezza e la difesa. Un europeismo che non si esaurisce nel pur essenziale “atlantismo” e che, ferme restando le relazioni speciali di alleanza e di convergenza di valori e interessi con gli Usa, deve essere motore di confronto positivo con la Cina, con l’India e gli altri protagonisti dello scenario internazionale, dal Sud America all’Africa.
Le imprese hanno bisogno di persone e dunque di processi di formazione di lungo periodo, di attrazione di risorse umane qualificate o comunque ben qualificabili e di una intelligente gestione dell’immigrazione.
Hanno bisogno di scelte politiche e culturali che rafforzino e rilancino il “made in Italy” nel mondo (ben al di là delle banalità e degli stereotipi provinciali del “tipico” italiano). E dunque di indicazioni di politica estera e di politica culturale, con la valorizzazione di una caratteristica distintiva di straordinaria qualità: la nostra “cultura politecnica” che sa unire saperi umanisti e conoscenze scientifiche, gusto della “bellezza” e attitudine all’innovazione high tech.

Le imprese, insomma, hanno bisogno di sicurezze di lungo periodo, per poter investire e consolidare la propria competitività. Con stimoli fiscali per la produttività (cui legare retribuzioni e premi di rendimento, migliorando nettamente il potere d’acquisto dei lavoratori). E con un robusto supporto per fare andare avanti le condizioni di crescita dei mercati aperti e di una condizione di efficace concorrenza (evitando, finalmente, cedimenti a corporazioni e categorie protette, come rivela la partita ancora aperta delle concessioni balneari).
Ha ragione Confindustria quando, consapevole di limiti da superare (con una spesa pubblica finalmente produttiva) e opportunità da cogliere, insiste sulla necessità di affrontare il tema del debito pubblico, riducendolo progressivamente (come peraltro indica la riforma del nuovo Patto di Stabilità Ue) e di portare dunque il sistema Paese fuori dai rischi che un giudizio negativo delle agenzie internazionali di rating e di grandi operatori finanziari mondiali renda particolarmente oneroso il finanziamento del debito stesso, sottraendo risorse sia ai servizi per i cittadini sia agli investimenti pubblici per lo sviluppo (le recenti valutazioni perplesse di Goldman Sachs sui titoli italiani suonano da campanello d’allarme).
In sintesi: la nave Italia va, con soddisfazione generale. Ma si naviga tra secche e scogli, in mari infidi. Non sono ammessi errori.

(foto Getty Images)

E la nave va. Dando corpo all’efficace metafora racchiusa nel titolo d’un esemplare film di Federico Fellini, l’Italia continua a navigare. Nonostante tutto. Nonostante le zavorre d’una burocrazia poco efficiente e di una giustizia lenta e sbilenca. Nonostante la ruggine che rallenta gli ingranaggi della nostra produttività, sempre agli ultimi posti in Europa. Nonostante la precarietà che avvilisce il mondo del lavoro, soprattutto delle giovani generazioni e delle donne (come ha giustamente ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso per il Primo Maggio). Nonostante un debito pubblico sempre più alto, anche in rapporto al Prodotto Interno Lordo, che continua a essere un inquietante elemento di fragilità per tutto il sistema Italia e per i nostri equilibri sociali e dunque politici.

Che la nave vada lo dicono gli ultimi dati sul Pil, che segnalano una crescita dello 0,5% nel primo trimestre ‘23, superiore alle attese, migliore di quella di Francia e Germania e comunque tale da fare salire allo 0,8% la crescita già acquisita per l’anno in corso, con la possibilità di arrivare a un buon 1% alla fine del ‘23 (meglio delle previsioni preoccupate del FMI e della Banca d’Italia).
Soffiano “venti favorevoli sulla rotta dell’economia italiana”, commenta il Centro Studi di Confindustria, soddisfatto, tra l’altro, che il calo del prezzo del gas “alimenti la fiducia” di cittadini e imprese, dato che incide positivamente sulla riduzione dell’inflazione (che resta comunque ancora alta, con effetti negativi sul potere d’acquisto e dunque sulla qualità della vita di milioni di famiglie).
Quest’aumento del Pil – documenta l’Istat – dipende un po’ da tutti i fatturi, dalla domanda interna e dall’export, dalla manifattura e dai servizi (a cominciare dal turismo).
La domanda chiave, adesso, è “come non perdere il treno della crescita?” Su “Il Foglio” (30 aprile) Dario Di Vico ammonisce giustamente sulla necessità di non sprecare l’occasione degli investimenti stimolati dal Pnrr e di non disperdere risorse in tagli delle tasse e vantaggi redistribuivi a ceti sociali particolari, ma di puntare con incisività politica sulle infrastrutture (materiali e digitali), in cui l’Italia mostra ancora allarmanti carenze (scuola e formazione, salute e ospedali, ferrovie e porti, reti di telecomunicazione, a cominciare dagli investimenti sul 5G su cui il governo continua a mostrare lentezze e indecisioni).
Ecco il punto chiave che sia il governo che le forze politiche e sociali si devono dimostrare in grado di affrontare positivamente, anche per rinsaldare il ruolo fondamentale dell’Italia nel contesto della Ue (anche chiudendo finalmente il capitolo della ratifica del Mes, la cui mancanza ci indebolisce e ci fa perdere credibilità).

La crescita del Pil in questo inizio di ‘23 riporta alla ribalta le considerazioni già ampiamente fatte a proposito della straordinaria dinamica dell’economia italiana nel ‘21 e nel ‘22, con un Pil in aumento, nei due anni, di quasi l’11%, come nei tempi d’oro del “boom” degli anni Cinquanta e Sessanta. Una prestazione dovuta in gran parte alle imprese che hanno investito, innovato, conquistato spazio sui mercati internazionali e colto in pieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali, grazie anche agli intelligenti ed efficaci stimoli fiscali di “Industria4.0”.
La lezione vale ancora oggi. C’è bisogno di agevolare la twin transition ambientale e digitale, in cui molte imprese e intere filiere produttive sono già impegnate. E dare risposte di buon governo agli attori economici più intraprendenti.
Su come fare, c’è un’ampia letteratura economica, che il ministro Giorgetti, peraltro, conosce bene. E ci sono le indicazioni concrete, fattive, che vengono da Confindustria e dalle associazioni territoriali più coinvolte nei processi di sviluppo, dall’Assolombarda all’Unione Industriali di Torino, dalle organizzazioni di Emilia e Veneto alle rappresentanze di categoria (meccatronica, avionica, chimica, farmaceutica, agro-alimentare, etc.).
Di cos’hanno bisogno, dunque, le imprese, per continuare a fare da motore di sviluppo sostenibile, lavoro, benessere, cambiamento? L’elenco è ben noto.
Hanno bisogno di Europa, con politiche europee industriali e fiscali e con scelte comuni per le materie prime, la sicurezza e la difesa. Un europeismo che non si esaurisce nel pur essenziale “atlantismo” e che, ferme restando le relazioni speciali di alleanza e di convergenza di valori e interessi con gli Usa, deve essere motore di confronto positivo con la Cina, con l’India e gli altri protagonisti dello scenario internazionale, dal Sud America all’Africa.
Le imprese hanno bisogno di persone e dunque di processi di formazione di lungo periodo, di attrazione di risorse umane qualificate o comunque ben qualificabili e di una intelligente gestione dell’immigrazione.
Hanno bisogno di scelte politiche e culturali che rafforzino e rilancino il “made in Italy” nel mondo (ben al di là delle banalità e degli stereotipi provinciali del “tipico” italiano). E dunque di indicazioni di politica estera e di politica culturale, con la valorizzazione di una caratteristica distintiva di straordinaria qualità: la nostra “cultura politecnica” che sa unire saperi umanisti e conoscenze scientifiche, gusto della “bellezza” e attitudine all’innovazione high tech.

Le imprese, insomma, hanno bisogno di sicurezze di lungo periodo, per poter investire e consolidare la propria competitività. Con stimoli fiscali per la produttività (cui legare retribuzioni e premi di rendimento, migliorando nettamente il potere d’acquisto dei lavoratori). E con un robusto supporto per fare andare avanti le condizioni di crescita dei mercati aperti e di una condizione di efficace concorrenza (evitando, finalmente, cedimenti a corporazioni e categorie protette, come rivela la partita ancora aperta delle concessioni balneari).
Ha ragione Confindustria quando, consapevole di limiti da superare (con una spesa pubblica finalmente produttiva) e opportunità da cogliere, insiste sulla necessità di affrontare il tema del debito pubblico, riducendolo progressivamente (come peraltro indica la riforma del nuovo Patto di Stabilità Ue) e di portare dunque il sistema Paese fuori dai rischi che un giudizio negativo delle agenzie internazionali di rating e di grandi operatori finanziari mondiali renda particolarmente oneroso il finanziamento del debito stesso, sottraendo risorse sia ai servizi per i cittadini sia agli investimenti pubblici per lo sviluppo (le recenti valutazioni perplesse di Goldman Sachs sui titoli italiani suonano da campanello d’allarme).
In sintesi: la nave Italia va, con soddisfazione generale. Ma si naviga tra secche e scogli, in mari infidi. Non sono ammessi errori.

(foto Getty Images)

Tutto iniziò con la ricerca del cautchouc. Pirelli in Brasile

“Carissimo papà…”. La storia di Pirelli in Brasile inizia oltre cento anni fa con Alberto Pirelli, inviato dal padre Giovanni Battista in Sud America per documentare le condizioni delle piantagioni di cautchouc. Viaggi di esplorazione che il giovane Pirelli racconta con trasporto al padre in lettere dattiloscritte – conservate nel nostro Archivio Storico – che sono resoconti dettagliati di persone e ambienti naturali, accompagnati da fotografie per descrivere le condizioni di produzione e le possibilità di sviluppo per l’azienda. È il caso della bellissima lettera che Alberto scrive il 13 novembre 1912 e che contiene tutta la passione per l’impresa, unita a uno spirito di osservazione non comune.

La presenza della Pirelli in Brasile si concretizza nel 1929 con l’acquisto della “Companhia Nacional de Artefactos de Cobre”, azienda per la produzione di conduttori elettrici che costituisce il primo nucleo produttivo brasiliano. Da lì in avanti la storia della P lunga nel Paese sudamericano è fatta di sviluppi tecnologici ed estro comunicativo. Un incontro tra la cultura d’impresa Pirelli e la cultura Brasileira.

Per capire meglio, occorre però tornare davvero agli inizi. Dal 1929 in poco più di un decennio, Pirelli “raddoppia”. Nel 1941 nasce infatti la Pirelli S.A. Companhia Industrial, che ai cavi aggiunge la produzione di pneumatici. Presidente della società è Giorgio Pirelli, il terzogenito di Giovanni Battista. In poco tempo, allo stabilimento di Santo Andrè, alle porte di San Paolo, si aggiungono quelli Campinas, Gravataí, vicino a Porto Alegre, e poi ancora quello di Sumaré. Qui, tra l’altro, viene costruita la prima pista sudamericana per le prove pneumatici. Ultimo, in ordine di tempo, è lo stabilimento di Feira de Santana che, attivo dal 1986, è caratterizzato da una particolare attenzione alla compatibilità ambientale della produzione.

Come si diceva, la presenza di Pirelli in Brasile è segnata, pressoché da sempre, da un felice connubio tra cultura Pirelli e cultura brasiliana. E tra le migliori manifestazioni di questo legame – che si ritrovano nel nostro archivio – c’è Noticias Pirelli, la rivista aziendale che inizia a uscire nel 1956, pochi anni dopo l’italiana Fatti e Notizie. È nelle pagine di Noticias che scorre tutta la vita dell’azienda in Brasile: dalle visite in fabbrica per rispondere alla domanda “Onde trabalha papai?”, alle feste di Natale oppure di Pasqua. Così come i resoconti delle numerose attività più spiccatamente culturali che trasformano la fabbrica in uno scenario ideale per rappresentazioni di teatro, mostre, dibattiti letterari: negli stabilimenti Pirelli passa così buona parte della cultura brasiliana del momento. Ugualmente, attraverso Noticias viene dato conto delle innumerevoli manifestazioni sportive animate dal CAP – Club Atlético Pirelli.

Esplorazione e tecnologie, dunque. Senza dimenticare il contributo che il Brasile ha dato anche nell’ambito della comunicazione. Power is Nothing Without Control ha segnato la storia della comunicazione Pirelli ma, in generale, della comunicazione a tutto tondo. E l’immagine del calciatore brasiliano Ronaldo Luís Nazário de Lima “Il fenomeno”, in una sequenza mozzafiato di goal che termina svelando il suo segreto – il battistrada Pirelli sotto i piedi -, è il cuore dell’edizione 1998 della campagna pubblicitaria ideata dall’agenzia Young & Rubicam che aveva già visto come protagonisti altri atleti a partire dal pluricampione olimpico Carl Lewis.

Pirelli in Brasile, come espressione di un legame forte tra due paesi. Non per nulla nel 2016 proprio la Pirelli, in occasione di una visita di Stato, ha illuminato con il tricolore il Cristo Redentore del Corcovado.

Un segno visibile dell’attenzione forte dell’azienda per questo paese, un’attenzione fatta di continui investimenti per rendere sempre più competitiva la produzione di pneumatici. La presenza di Pirelli in Brasile oggi conta gli stabilimenti di Campinas e Feira de Santana, per la produzione di pneumatici per autovettura e di Gravataí, specializzata in pneumatici per motociclette. Il viaggio della gomma continua, anche oltre Oceano.

“Carissimo papà…”. La storia di Pirelli in Brasile inizia oltre cento anni fa con Alberto Pirelli, inviato dal padre Giovanni Battista in Sud America per documentare le condizioni delle piantagioni di cautchouc. Viaggi di esplorazione che il giovane Pirelli racconta con trasporto al padre in lettere dattiloscritte – conservate nel nostro Archivio Storico – che sono resoconti dettagliati di persone e ambienti naturali, accompagnati da fotografie per descrivere le condizioni di produzione e le possibilità di sviluppo per l’azienda. È il caso della bellissima lettera che Alberto scrive il 13 novembre 1912 e che contiene tutta la passione per l’impresa, unita a uno spirito di osservazione non comune.

La presenza della Pirelli in Brasile si concretizza nel 1929 con l’acquisto della “Companhia Nacional de Artefactos de Cobre”, azienda per la produzione di conduttori elettrici che costituisce il primo nucleo produttivo brasiliano. Da lì in avanti la storia della P lunga nel Paese sudamericano è fatta di sviluppi tecnologici ed estro comunicativo. Un incontro tra la cultura d’impresa Pirelli e la cultura Brasileira.

Per capire meglio, occorre però tornare davvero agli inizi. Dal 1929 in poco più di un decennio, Pirelli “raddoppia”. Nel 1941 nasce infatti la Pirelli S.A. Companhia Industrial, che ai cavi aggiunge la produzione di pneumatici. Presidente della società è Giorgio Pirelli, il terzogenito di Giovanni Battista. In poco tempo, allo stabilimento di Santo Andrè, alle porte di San Paolo, si aggiungono quelli Campinas, Gravataí, vicino a Porto Alegre, e poi ancora quello di Sumaré. Qui, tra l’altro, viene costruita la prima pista sudamericana per le prove pneumatici. Ultimo, in ordine di tempo, è lo stabilimento di Feira de Santana che, attivo dal 1986, è caratterizzato da una particolare attenzione alla compatibilità ambientale della produzione.

Come si diceva, la presenza di Pirelli in Brasile è segnata, pressoché da sempre, da un felice connubio tra cultura Pirelli e cultura brasiliana. E tra le migliori manifestazioni di questo legame – che si ritrovano nel nostro archivio – c’è Noticias Pirelli, la rivista aziendale che inizia a uscire nel 1956, pochi anni dopo l’italiana Fatti e Notizie. È nelle pagine di Noticias che scorre tutta la vita dell’azienda in Brasile: dalle visite in fabbrica per rispondere alla domanda “Onde trabalha papai?”, alle feste di Natale oppure di Pasqua. Così come i resoconti delle numerose attività più spiccatamente culturali che trasformano la fabbrica in uno scenario ideale per rappresentazioni di teatro, mostre, dibattiti letterari: negli stabilimenti Pirelli passa così buona parte della cultura brasiliana del momento. Ugualmente, attraverso Noticias viene dato conto delle innumerevoli manifestazioni sportive animate dal CAP – Club Atlético Pirelli.

Esplorazione e tecnologie, dunque. Senza dimenticare il contributo che il Brasile ha dato anche nell’ambito della comunicazione. Power is Nothing Without Control ha segnato la storia della comunicazione Pirelli ma, in generale, della comunicazione a tutto tondo. E l’immagine del calciatore brasiliano Ronaldo Luís Nazário de Lima “Il fenomeno”, in una sequenza mozzafiato di goal che termina svelando il suo segreto – il battistrada Pirelli sotto i piedi -, è il cuore dell’edizione 1998 della campagna pubblicitaria ideata dall’agenzia Young & Rubicam che aveva già visto come protagonisti altri atleti a partire dal pluricampione olimpico Carl Lewis.

Pirelli in Brasile, come espressione di un legame forte tra due paesi. Non per nulla nel 2016 proprio la Pirelli, in occasione di una visita di Stato, ha illuminato con il tricolore il Cristo Redentore del Corcovado.

Un segno visibile dell’attenzione forte dell’azienda per questo paese, un’attenzione fatta di continui investimenti per rendere sempre più competitiva la produzione di pneumatici. La presenza di Pirelli in Brasile oggi conta gli stabilimenti di Campinas e Feira de Santana, per la produzione di pneumatici per autovettura e di Gravataí, specializzata in pneumatici per motociclette. Il viaggio della gomma continua, anche oltre Oceano.

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Celebriamo la Giornata mondiale del libro

Il 23 aprile è il giorno in cui, secondo la tradizione, nel 1616 scomparvero tre autori considerati pilastri della letteratura mondiale: William Shakespeare, Miguel de Cervantes e Inca Garcilaso de la Vega. Una data scelta dall’UNESCO nel 1996 per celebrare la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, con l’obiettivo di promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale attraverso il copyright. L’UNESCO ha deciso di istituire questa ricorrenza con l’idea che la lettura sia un elemento fondamentale per la costruzione di un dialogo tra popoli, che consenta di superare le incertezze e le incomprensioni legate a un mondo in cui il cambiamento sociale è sempre più rapido e il contatto con culture diverse sempre più frequente.

La passione per i libri è da oltre un secolo uno degli aspetti principali della Cultura d’Impresa della Pirelli, da lungo tempo impegnata nella promozione della lettura. Basti pensare alla lunga tradizione bibliotecaria dell’azienda. Già il fondatore Giovanni Battista Pirelli inizia, alla fine dell’Ottocento, a raccogliere testi di carattere specialistico, successivamente confluiti in quella che oggi è la Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli, custodita presso la nostra Fondazione. Nel corso del Novecento nascono anche le biblioteche aziendali. La prima, una biblioteca circolante a disposizione del personale iscritto al “Dopolavoro Aziendale Pirelli”, viene creata già alla fine degli anni Venti del Novecento. Nel 1957 viene aperta una nuova biblioteca che arriva a contenere oltre 11.000 volumi. Oggi Pirelli mantiene viva questa lunga tradizione di luogo dinamico attraverso le tre biblioteche dell’Headquarters di Milano Bicocca, dello stabilimento di Bollate e del Polo Industriale di Settimo Torinese.

Fondazione Pirelli ha inoltre dato vita a numerose iniziative legate al mondo dei libri e della lettura, come “Parole Insieme – Le conversazioni della Biblioteca Pirelli”, il ciclo di incontri con gli scrittori rivolto ai dipendenti, o le collaborazioni con BookCity Milano, #ioleggoperché e con la Fondazione Il Campiello. Nel 2021 Fondazione Pirelli ha infatti ideato con quest’ultima il Premio Campiello Junior, un riconoscimento letterario per opere italiane di narrativa e poesia rivolte ai ragazzi.

La giornata del libro è quindi una ricorrenza da celebrare per Pirelli, ricordando le migliaia di pagine dei libri delle sue biblioteche e le parole degli autori con cui ha collaborato nel corso degli anni, iniziando dai grandi nomi della letteratura e del giornalismo che hanno scritto sulle pagine della Rivista Pirelli, come Dino Buzzati, Italo Calvino, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Eugenio Montale, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, fino ad arrivare agli autori ed editori che hanno partecipato alle iniziative di promozione della lettura organizzate da Fondazione Pirelli negli ultimi anni, come Alessandro Robecchi, Luigi Garlando, Gianni Biondillo, Fabio Cremonesi, Eugenia Dubini, Giorgio Fontana, Enzo Gentile, Giuseppe Lupo, Marco Malvaldi, Marco Politi, Remo Rapino, Giulia Caminito, Bernardo Zannoni e molti altri

Un impegno che prosegue, nella convinzione che la lettura, in qualunque luogo e a qualsiasi età, contribuisca a formare persone consapevoli, che possano costruire un futuro migliore.

Il 23 aprile è il giorno in cui, secondo la tradizione, nel 1616 scomparvero tre autori considerati pilastri della letteratura mondiale: William Shakespeare, Miguel de Cervantes e Inca Garcilaso de la Vega. Una data scelta dall’UNESCO nel 1996 per celebrare la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, con l’obiettivo di promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale attraverso il copyright. L’UNESCO ha deciso di istituire questa ricorrenza con l’idea che la lettura sia un elemento fondamentale per la costruzione di un dialogo tra popoli, che consenta di superare le incertezze e le incomprensioni legate a un mondo in cui il cambiamento sociale è sempre più rapido e il contatto con culture diverse sempre più frequente.

La passione per i libri è da oltre un secolo uno degli aspetti principali della Cultura d’Impresa della Pirelli, da lungo tempo impegnata nella promozione della lettura. Basti pensare alla lunga tradizione bibliotecaria dell’azienda. Già il fondatore Giovanni Battista Pirelli inizia, alla fine dell’Ottocento, a raccogliere testi di carattere specialistico, successivamente confluiti in quella che oggi è la Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli, custodita presso la nostra Fondazione. Nel corso del Novecento nascono anche le biblioteche aziendali. La prima, una biblioteca circolante a disposizione del personale iscritto al “Dopolavoro Aziendale Pirelli”, viene creata già alla fine degli anni Venti del Novecento. Nel 1957 viene aperta una nuova biblioteca che arriva a contenere oltre 11.000 volumi. Oggi Pirelli mantiene viva questa lunga tradizione di luogo dinamico attraverso le tre biblioteche dell’Headquarters di Milano Bicocca, dello stabilimento di Bollate e del Polo Industriale di Settimo Torinese.

Fondazione Pirelli ha inoltre dato vita a numerose iniziative legate al mondo dei libri e della lettura, come “Parole Insieme – Le conversazioni della Biblioteca Pirelli”, il ciclo di incontri con gli scrittori rivolto ai dipendenti, o le collaborazioni con BookCity Milano, #ioleggoperché e con la Fondazione Il Campiello. Nel 2021 Fondazione Pirelli ha infatti ideato con quest’ultima il Premio Campiello Junior, un riconoscimento letterario per opere italiane di narrativa e poesia rivolte ai ragazzi.

La giornata del libro è quindi una ricorrenza da celebrare per Pirelli, ricordando le migliaia di pagine dei libri delle sue biblioteche e le parole degli autori con cui ha collaborato nel corso degli anni, iniziando dai grandi nomi della letteratura e del giornalismo che hanno scritto sulle pagine della Rivista Pirelli, come Dino Buzzati, Italo Calvino, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Eugenio Montale, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, fino ad arrivare agli autori ed editori che hanno partecipato alle iniziative di promozione della lettura organizzate da Fondazione Pirelli negli ultimi anni, come Alessandro Robecchi, Luigi Garlando, Gianni Biondillo, Fabio Cremonesi, Eugenia Dubini, Giorgio Fontana, Enzo Gentile, Giuseppe Lupo, Marco Malvaldi, Marco Politi, Remo Rapino, Giulia Caminito, Bernardo Zannoni e molti altri

Un impegno che prosegue, nella convinzione che la lettura, in qualunque luogo e a qualsiasi età, contribuisca a formare persone consapevoli, che possano costruire un futuro migliore.

L’economia della mutua assistenza

La ristampa di un classico del pensiero economico come occasione per ripensare mercato e produzione

 

Il mercato come espressione di una “mutua assistenza” per la soddisfazione di “reciproci bisogni”. E i commerci come relazioni e non come contrapposizioni. E la “felicità pubblica” come fine della (buona) economia. Economia attenta all’uomo. Economia civile, appunto. Temi dell’oggi che si ritrovano – e si riscoprono – nel dibattito economico di qualche secolo fa con un grande precursore come Antonio Genovesi del quale sono state appena ripubblicate le “Lezioni di economia civile”.

Genovesi, eclettico pensatore napoletano, può essere a ragione considerato uno dei fondatori della moderna scienza economica. Dimenticato dai più per troppo tempo, Genovesi fu primo in Europa a ricoprire una cattedra di economia (istituita a Napoli nel 1754). Ed è proprio dal suo corso che il libro ha preso forma (tanto da essere diviso in due parti, per il primo e per il secondo semestre).

Economia, dunque, osservata e spiegata da un punto di vista simile ma non uguale a quello dell’economia classica per eccellenza, quella di Adam Smith che grosso modo negli stessi anni scriveva la sua “Ricchezza delle nazioni”. Economia simile perché Genovesi condivide con Smith la stessa critica del mondo feudale e la convinzione che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più egualitario e più libero. Poi però le visioni divergono. Da un lato lo scozzese ha una visione pessimistica dell’uomo improntata all’individualismo degli interessi (il bene comune è affidato alla “mano invisibile” del mercato). Dall’altro, il napoletano è convinto che la persona sia frutto dell’equilibrio di due forze: quelle dell’interesse per sé e della solidarietà sociale. L’uomo per Genovesi è una realtà fatta di relazioni che servono per la reciprocità. In altri termini, Smith vede la parte egoistica dell’uomo, Genovesi quella relazionale.

Su questo fondamento sono costruite le “Lezioni” che ragionano non solo di mercato, scambi, profitti, prezzi  e altro ancora, ma allargano il discorso sulla vita civile, sulle sue regole, sulle virtù civili e arrivano a definire i “beni comuni” come fondamento della società. Per i quali proprio l’economia deve lavorare.

La ristampa della “Lezioni” – con un ampio saggio di Luigino Bruni e di Stefano Zamagni -, consente adesso di apprezzare una visione dell’economia pensata nel Settecento ma che appare ancora più attuale oggi. Scrive il Genovesi nelle prime pagine come gli “studi d’economia civile sieno utili a tutte le classi degli uomini di una culta e polita società”. Gran libro quello del Genovesi, libro da leggere e rileggere con la consapevolezza di poter essere tutti un po’ suoi allievi. Ed è una gran fortuna.

Lezioni di economia civile

Antonio Genovesi

Vita e Pensiero, 2023

La ristampa di un classico del pensiero economico come occasione per ripensare mercato e produzione

 

Il mercato come espressione di una “mutua assistenza” per la soddisfazione di “reciproci bisogni”. E i commerci come relazioni e non come contrapposizioni. E la “felicità pubblica” come fine della (buona) economia. Economia attenta all’uomo. Economia civile, appunto. Temi dell’oggi che si ritrovano – e si riscoprono – nel dibattito economico di qualche secolo fa con un grande precursore come Antonio Genovesi del quale sono state appena ripubblicate le “Lezioni di economia civile”.

Genovesi, eclettico pensatore napoletano, può essere a ragione considerato uno dei fondatori della moderna scienza economica. Dimenticato dai più per troppo tempo, Genovesi fu primo in Europa a ricoprire una cattedra di economia (istituita a Napoli nel 1754). Ed è proprio dal suo corso che il libro ha preso forma (tanto da essere diviso in due parti, per il primo e per il secondo semestre).

Economia, dunque, osservata e spiegata da un punto di vista simile ma non uguale a quello dell’economia classica per eccellenza, quella di Adam Smith che grosso modo negli stessi anni scriveva la sua “Ricchezza delle nazioni”. Economia simile perché Genovesi condivide con Smith la stessa critica del mondo feudale e la convinzione che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più egualitario e più libero. Poi però le visioni divergono. Da un lato lo scozzese ha una visione pessimistica dell’uomo improntata all’individualismo degli interessi (il bene comune è affidato alla “mano invisibile” del mercato). Dall’altro, il napoletano è convinto che la persona sia frutto dell’equilibrio di due forze: quelle dell’interesse per sé e della solidarietà sociale. L’uomo per Genovesi è una realtà fatta di relazioni che servono per la reciprocità. In altri termini, Smith vede la parte egoistica dell’uomo, Genovesi quella relazionale.

Su questo fondamento sono costruite le “Lezioni” che ragionano non solo di mercato, scambi, profitti, prezzi  e altro ancora, ma allargano il discorso sulla vita civile, sulle sue regole, sulle virtù civili e arrivano a definire i “beni comuni” come fondamento della società. Per i quali proprio l’economia deve lavorare.

La ristampa della “Lezioni” – con un ampio saggio di Luigino Bruni e di Stefano Zamagni -, consente adesso di apprezzare una visione dell’economia pensata nel Settecento ma che appare ancora più attuale oggi. Scrive il Genovesi nelle prime pagine come gli “studi d’economia civile sieno utili a tutte le classi degli uomini di una culta e polita società”. Gran libro quello del Genovesi, libro da leggere e rileggere con la consapevolezza di poter essere tutti un po’ suoi allievi. Ed è una gran fortuna.

Lezioni di economia civile

Antonio Genovesi

Vita e Pensiero, 2023

Responsabilità sociale e sostenibilità d’impresa

Una tesi discussa a Padova affronta in modo chiaro due temi controversi e dibattuti

Sviluppo attento all’ambiente e ruolo delle imprese nel territorio e nel sistema sociale in cui agiscono. Binomio importante (sempre di più) e ormai noto (ma forse non abbastanza esplorato). Come tutte le grandi idee dell’oggi: nei discorsi di tutti ma, spesso, in modo superficiale. Per capire, servono sintesi efficaci come quella che ha composto Lorenzo Visentini con il suo lavoro di laurea discusso presso l’Università di Padova Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata.

“L’evoluzione della sostenibilità nei processi economici” – questo il titolo della ricerca – è una onesta sintesi dei temi dello sviluppo sostenibile e della responsabilità sociale d’impresa oltre che delle loro relazioni.

L’idea alla base del lavoro è che “il tema della sostenibilità, non solo nella sua accezione ambientale, è un argomento che tende ad essere sempre più al centro sia della vita quotidiana delle persone, sia di aziende e imprese. Queste ultime in particolare tendono ad essere maggiormente coinvolte nel dibattito sull’argomento, specie da quando essere sostenibili è diventato non più un obiettivo, ma un punto di partenza per potersi dire competitivi sul mercato”. Per affrontare i ragionamenti sulla compatibilità ambientale e sociale delle imprese insieme a quelli della loro responsabilità, Visentini parte dapprima dal concetto di sviluppo sostenibile e, in un capitolo successivo, da quello di responsabilità sociale d’impresa per poi arrivare all’esame dal punto di vista dei cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Ne emerge una quadro nel quale sono disegnati i tratti di argomenti che suscitano forti dibattiti, spesso controversi, ma sempre stimolanti e fonti di ricchezza.

La messa a punto di temi complessi e controversi che Visentini riesce a proporre a chi legge, rappresenta un buon vademecum sullo stato dell’arte di questi ambiti di dibattito che toccano anche la gestione e la cultura d’impresa.

L’evoluzione della sostenibilità nei processi economici

Lorenzo Visentini

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata Corso di Laurea Magistrale in Scienze della formazione continua, 2023

Una tesi discussa a Padova affronta in modo chiaro due temi controversi e dibattuti

Sviluppo attento all’ambiente e ruolo delle imprese nel territorio e nel sistema sociale in cui agiscono. Binomio importante (sempre di più) e ormai noto (ma forse non abbastanza esplorato). Come tutte le grandi idee dell’oggi: nei discorsi di tutti ma, spesso, in modo superficiale. Per capire, servono sintesi efficaci come quella che ha composto Lorenzo Visentini con il suo lavoro di laurea discusso presso l’Università di Padova Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata.

“L’evoluzione della sostenibilità nei processi economici” – questo il titolo della ricerca – è una onesta sintesi dei temi dello sviluppo sostenibile e della responsabilità sociale d’impresa oltre che delle loro relazioni.

L’idea alla base del lavoro è che “il tema della sostenibilità, non solo nella sua accezione ambientale, è un argomento che tende ad essere sempre più al centro sia della vita quotidiana delle persone, sia di aziende e imprese. Queste ultime in particolare tendono ad essere maggiormente coinvolte nel dibattito sull’argomento, specie da quando essere sostenibili è diventato non più un obiettivo, ma un punto di partenza per potersi dire competitivi sul mercato”. Per affrontare i ragionamenti sulla compatibilità ambientale e sociale delle imprese insieme a quelli della loro responsabilità, Visentini parte dapprima dal concetto di sviluppo sostenibile e, in un capitolo successivo, da quello di responsabilità sociale d’impresa per poi arrivare all’esame dal punto di vista dei cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Ne emerge una quadro nel quale sono disegnati i tratti di argomenti che suscitano forti dibattiti, spesso controversi, ma sempre stimolanti e fonti di ricchezza.

La messa a punto di temi complessi e controversi che Visentini riesce a proporre a chi legge, rappresenta un buon vademecum sullo stato dell’arte di questi ambiti di dibattito che toccano anche la gestione e la cultura d’impresa.

L’evoluzione della sostenibilità nei processi economici

Lorenzo Visentini

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata Corso di Laurea Magistrale in Scienze della formazione continua, 2023

Milano tra successi della Design Week e timori per i nuovi disagi sociali

Eccola, la Design Week di Milano, per la 61° volta al suo tradizionale appuntamento di metà aprile, di anno in anno più affollata, dinamica, ricca di incontri e di affari. Eccola in scena, come il più importante appuntamento mondiale dell’arredamento, tra esposizioni al Salone del Mobile in Fiera ed eventi del Fuorisalone che coinvolgono oramai venti quartieri, dai “distretti” centrali di Brera e Tortona alle vivaci periferie ai margini di Lambrate.

Eccole, la sintesi originali tra “cultura del progetto” e “cultura del prodotto”, grazie a un dialogo che via via si intensifica e si qualifica tra antichi e nuovi protagonisti internazionali del design e imprese costruttrici che proprio in Lombardia e soprattutto a Milano e in Brianza vantano eccellenze produttive non solo nell’arredo, ma anche nella metalmeccanica: i mobili “alto di gamma” che colpiscono i pubblici più sofisticati di New York e Shanghai e le cerniere d’acciaio che ne consentono un perfetto e durevole funzionamento.

“Milano pigliatutto”, sintetizza “la Repubblica” (18 aprile), documentando come “eventi, esposizioni, personaggi, show room e aree coinvolte in città non sono mai state così numerose” come in questa Settimana del Design. Ecco, appunto, i numeri: 1.200 eventi, 1.962 espositori, 327mila visitatori attesi, il 65% dei quali stranieri, con una robusta presenza americana e cinese (erano 262mila lo scorso anno), un indotto generato sul territorio di 223,2 milioni di euro, il 37% in più della scorsa edizione (secondo stime della Confcommercio).

Milano attrattiva di talenti e business, dunque. Milano punto di riferimento di un settore tra i più competitivi del made in Italy. Ma anche Milano che, proprio nel vortice delle grandi manifestazioni, dall’arredamento alla moda, mostra non tanto al grande pubblico internazionale quanto soprattutto ai suoi abitanti alcune crepe che, dietro “le mille luci”, rivelano disagi e tensioni che fanno temere, nel medio-lungo periodo, una crisi del suo attuale modo di stare alla ribalta dell’economia e della società. Come sottolinea, in efficace sintesi, proprio il “Corriere della Sera”, in un editoriale di Dario Di Vico sul Salone del Mobile (17 aprile): “Mentre si celebrano le virtù dell’attrattività, si fa largo il fantasma di una città che smarrisce la sua inclusività”.

Cerchiamo allora di capire meglio, nella consapevolezza che “il corso delle cose è sinuoso” (Maurice Merleau-Ponty) e che è caratteristica tipica delle metropoli più dinamiche crescere tra contrasti e contraddizioni, fratture e conflitti, rispetto ai quali tocca sia alla politica e alla pubblica amministrazione sia alla sensibilità sociale della società civile proporre e attuare riforme e rimedi che ne smussino incisivamente spigoli e ruvidità.

Guardiamo alcuni numeri, dunque, per ragionare con consapevolezza dei fenomeni. L’industria italiana  dell’arredo, con le sue 16mila imprese e oltre 125mila addetti, ha avuto nel ’22 un fatturato di 28,1 miliardi di euro, con una crescita dell’11% sull’anno precedente. E le previsioni della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo parlano di una crescita del settore, tra il 2019 (pre Covid, dunque) e il 2025 del 42,4%. Un progresso straordinario, di una realtà che vale il 3,4% della manifattura italiana ma connota fortemente l’immagine dell’Italia all’estero e contribuisce a rafforzare la percezione di qualità e affidabili di tutto il made in Italy.

Il 60% delle imprese italiane è concentrato soprattutto in Lombardia e poi in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna. Ma ci sono importanti presenze anche nel Sud, in Campania e in Puglia (il “distretto del salotto” ad Altamura, per esempio). E attorno all’industria girano oltre 20mila professionisti nel mondo della progettazione e dei servizi, con una forte spinta alla creatività sui prodotti, i materiali, le tante evoluzioni di una “qualità del vivere italiano” che trova riscontri positivi sempre più netti in tutto il mondo.

La conferma sta nelle pagine del Report “Design Economy” curato da Fondazione Symbola, Deloitte Private e PoliDesign (con il supporto dell’Adi, l’Associazione del Design Industriale che promuove “Il Compasso d’Oro”, il massimo riconoscimento del settore) e che mostra come l’Italia sia prima in Europa per numero di aziende, fatturato e addetti, superando anche il principale concorrente, la Germania (“Il Sole24Ore”, 15 aprile).

Un primato europeo importante, costruito nel tempo e oggi fondato anche sulla sostenibilità ambientale e sociale delle imprese produttrici, nei distretti e nelle filiere, come leva fondamentale di competitività. Commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “L’identificazione di un prodotto sostenibile come prodotto di qualità migliore è una molla formidabile dell’economia italiana. La transizione è una grande opportunità. Ma bisogna guardarla capendo i punti di forza del Paese. E proprio il design è uno di questi”.

Milano, che di questi processi è capitale, ne vive i vantaggi e ne alimenta lo sviluppo. Come una vera e propria global city forte della straordinaria capacità di ibridare cultura e manifattura, progettualità e qualità dei prodotti, tecnologie avanzate e senso della bellezza, ricerca scientifica e conoscenze umanistiche, consapevolezza della storia industriale e sguardo verso il futuro.

Milano solida. Milano attrattiva. Milano talentuosa e dinamica.

Ma anche, com’è nella sua tradizione, Milano ancora inclusiva?

Ecco il punto della riflessione critica che oramai da tempo occupa parte rilevante delle riflessioni di chi ha a cuore proprio il destino di Milano e dei suoi equilibri economici e sociali e che vede, con fondato allarme, l’esplodere del costo della vita, a cominciare da quello che riguarda la casa.

Il boom dei valori immobiliari, sia per gli acquisti che per gli affitti, rischia di allontanare dalla città i ceti medi, le giovani coppie di professionisti e creativi, gli studenti e i professori delle dieci università che fanno da motore della “economia della conoscenza” e da collante sociale.

E sono appunto i cosiddetti “grandi eventi” a incidere in modo distorto sul mercato delle abitazioni.

Un dato, per riflettere: le ricerche di alloggi su Airbnb tra luglio e dicembre 2022 sono cresciute del duemila per cento e in occasione del Salone del mobile il “prezzo di tendenza” di 181 euro a notte è raddoppiato o addirittura triplicato nei “distretti del design”, superando quota 500 euro (“Corriere della Sera”). In queste condizioni, cresce il fenomeno degli “affitti brevi” e altamente redditizi, si paralizza il mercato degli affitti regolari di lungo periodo. Milano diventa uno spazio urbano da city users saltuari e perde cittadini. Modifica le tradizioni di accoglienza. Si svuota dei valori di comunità. Nel tempo, rischia il deperimento sociale, il degrado civile.

Il fenomeno è oramai da tempo al centro del discorso pubblico milanese. Trova ascolto attento nelle stanze della pubblica amministrazione guidata dal sindaco Beppe Sala ma anche negli altri

Comuni dell’area metropolitana. Suscita riflessioni sui limiti da imporre per gli “affitti brevi” (Parigi ha preso da tempo misure nette di contenimento) e sulla necessità di politiche e scelte urbanistiche per il social housing. Con un obiettivo strategico chiaro: rivitalizzare nei tempi nuovi la tradizione milanese del legame forte tra produttività e inclusività, competitività economica internazionale e solidarietà sociale.

Milano, insomma, sostiene Dario Di Vico, “può riprendere in mano il suo destino, può pensare di gestire la sua evoluzione di città globale guardando in faccia ai problemi vecchi e a quelli nuovi che la modernità diseguale inevitabilmente crea, può riannodare i fili che si sono spezzati e rammendare i legami sociali laddove si sono scuciti. L’errore che non deve commettere chi può contribuire fattivamente a questo processo è girarsi dall’altra parte e pensare cinicamente che sia da preferire il pilota automatico”.

(foto Getty Images)

Eccola, la Design Week di Milano, per la 61° volta al suo tradizionale appuntamento di metà aprile, di anno in anno più affollata, dinamica, ricca di incontri e di affari. Eccola in scena, come il più importante appuntamento mondiale dell’arredamento, tra esposizioni al Salone del Mobile in Fiera ed eventi del Fuorisalone che coinvolgono oramai venti quartieri, dai “distretti” centrali di Brera e Tortona alle vivaci periferie ai margini di Lambrate.

Eccole, la sintesi originali tra “cultura del progetto” e “cultura del prodotto”, grazie a un dialogo che via via si intensifica e si qualifica tra antichi e nuovi protagonisti internazionali del design e imprese costruttrici che proprio in Lombardia e soprattutto a Milano e in Brianza vantano eccellenze produttive non solo nell’arredo, ma anche nella metalmeccanica: i mobili “alto di gamma” che colpiscono i pubblici più sofisticati di New York e Shanghai e le cerniere d’acciaio che ne consentono un perfetto e durevole funzionamento.

“Milano pigliatutto”, sintetizza “la Repubblica” (18 aprile), documentando come “eventi, esposizioni, personaggi, show room e aree coinvolte in città non sono mai state così numerose” come in questa Settimana del Design. Ecco, appunto, i numeri: 1.200 eventi, 1.962 espositori, 327mila visitatori attesi, il 65% dei quali stranieri, con una robusta presenza americana e cinese (erano 262mila lo scorso anno), un indotto generato sul territorio di 223,2 milioni di euro, il 37% in più della scorsa edizione (secondo stime della Confcommercio).

Milano attrattiva di talenti e business, dunque. Milano punto di riferimento di un settore tra i più competitivi del made in Italy. Ma anche Milano che, proprio nel vortice delle grandi manifestazioni, dall’arredamento alla moda, mostra non tanto al grande pubblico internazionale quanto soprattutto ai suoi abitanti alcune crepe che, dietro “le mille luci”, rivelano disagi e tensioni che fanno temere, nel medio-lungo periodo, una crisi del suo attuale modo di stare alla ribalta dell’economia e della società. Come sottolinea, in efficace sintesi, proprio il “Corriere della Sera”, in un editoriale di Dario Di Vico sul Salone del Mobile (17 aprile): “Mentre si celebrano le virtù dell’attrattività, si fa largo il fantasma di una città che smarrisce la sua inclusività”.

Cerchiamo allora di capire meglio, nella consapevolezza che “il corso delle cose è sinuoso” (Maurice Merleau-Ponty) e che è caratteristica tipica delle metropoli più dinamiche crescere tra contrasti e contraddizioni, fratture e conflitti, rispetto ai quali tocca sia alla politica e alla pubblica amministrazione sia alla sensibilità sociale della società civile proporre e attuare riforme e rimedi che ne smussino incisivamente spigoli e ruvidità.

Guardiamo alcuni numeri, dunque, per ragionare con consapevolezza dei fenomeni. L’industria italiana  dell’arredo, con le sue 16mila imprese e oltre 125mila addetti, ha avuto nel ’22 un fatturato di 28,1 miliardi di euro, con una crescita dell’11% sull’anno precedente. E le previsioni della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo parlano di una crescita del settore, tra il 2019 (pre Covid, dunque) e il 2025 del 42,4%. Un progresso straordinario, di una realtà che vale il 3,4% della manifattura italiana ma connota fortemente l’immagine dell’Italia all’estero e contribuisce a rafforzare la percezione di qualità e affidabili di tutto il made in Italy.

Il 60% delle imprese italiane è concentrato soprattutto in Lombardia e poi in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna. Ma ci sono importanti presenze anche nel Sud, in Campania e in Puglia (il “distretto del salotto” ad Altamura, per esempio). E attorno all’industria girano oltre 20mila professionisti nel mondo della progettazione e dei servizi, con una forte spinta alla creatività sui prodotti, i materiali, le tante evoluzioni di una “qualità del vivere italiano” che trova riscontri positivi sempre più netti in tutto il mondo.

La conferma sta nelle pagine del Report “Design Economy” curato da Fondazione Symbola, Deloitte Private e PoliDesign (con il supporto dell’Adi, l’Associazione del Design Industriale che promuove “Il Compasso d’Oro”, il massimo riconoscimento del settore) e che mostra come l’Italia sia prima in Europa per numero di aziende, fatturato e addetti, superando anche il principale concorrente, la Germania (“Il Sole24Ore”, 15 aprile).

Un primato europeo importante, costruito nel tempo e oggi fondato anche sulla sostenibilità ambientale e sociale delle imprese produttrici, nei distretti e nelle filiere, come leva fondamentale di competitività. Commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “L’identificazione di un prodotto sostenibile come prodotto di qualità migliore è una molla formidabile dell’economia italiana. La transizione è una grande opportunità. Ma bisogna guardarla capendo i punti di forza del Paese. E proprio il design è uno di questi”.

Milano, che di questi processi è capitale, ne vive i vantaggi e ne alimenta lo sviluppo. Come una vera e propria global city forte della straordinaria capacità di ibridare cultura e manifattura, progettualità e qualità dei prodotti, tecnologie avanzate e senso della bellezza, ricerca scientifica e conoscenze umanistiche, consapevolezza della storia industriale e sguardo verso il futuro.

Milano solida. Milano attrattiva. Milano talentuosa e dinamica.

Ma anche, com’è nella sua tradizione, Milano ancora inclusiva?

Ecco il punto della riflessione critica che oramai da tempo occupa parte rilevante delle riflessioni di chi ha a cuore proprio il destino di Milano e dei suoi equilibri economici e sociali e che vede, con fondato allarme, l’esplodere del costo della vita, a cominciare da quello che riguarda la casa.

Il boom dei valori immobiliari, sia per gli acquisti che per gli affitti, rischia di allontanare dalla città i ceti medi, le giovani coppie di professionisti e creativi, gli studenti e i professori delle dieci università che fanno da motore della “economia della conoscenza” e da collante sociale.

E sono appunto i cosiddetti “grandi eventi” a incidere in modo distorto sul mercato delle abitazioni.

Un dato, per riflettere: le ricerche di alloggi su Airbnb tra luglio e dicembre 2022 sono cresciute del duemila per cento e in occasione del Salone del mobile il “prezzo di tendenza” di 181 euro a notte è raddoppiato o addirittura triplicato nei “distretti del design”, superando quota 500 euro (“Corriere della Sera”). In queste condizioni, cresce il fenomeno degli “affitti brevi” e altamente redditizi, si paralizza il mercato degli affitti regolari di lungo periodo. Milano diventa uno spazio urbano da city users saltuari e perde cittadini. Modifica le tradizioni di accoglienza. Si svuota dei valori di comunità. Nel tempo, rischia il deperimento sociale, il degrado civile.

Il fenomeno è oramai da tempo al centro del discorso pubblico milanese. Trova ascolto attento nelle stanze della pubblica amministrazione guidata dal sindaco Beppe Sala ma anche negli altri

Comuni dell’area metropolitana. Suscita riflessioni sui limiti da imporre per gli “affitti brevi” (Parigi ha preso da tempo misure nette di contenimento) e sulla necessità di politiche e scelte urbanistiche per il social housing. Con un obiettivo strategico chiaro: rivitalizzare nei tempi nuovi la tradizione milanese del legame forte tra produttività e inclusività, competitività economica internazionale e solidarietà sociale.

Milano, insomma, sostiene Dario Di Vico, “può riprendere in mano il suo destino, può pensare di gestire la sua evoluzione di città globale guardando in faccia ai problemi vecchi e a quelli nuovi che la modernità diseguale inevitabilmente crea, può riannodare i fili che si sono spezzati e rammendare i legami sociali laddove si sono scuciti. L’errore che non deve commettere chi può contribuire fattivamente a questo processo è girarsi dall’altra parte e pensare cinicamente che sia da preferire il pilota automatico”.

(foto Getty Images)

Celebrare i successi “ad arte”.
I diplomi nella storia delle Industrie Pirelli tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta

È datato 1894 ed è rilasciato ai “Signori Pirelli & C.” dalle Esposizioni Riunite di Milano per “l’ardita e unica iniziativa italiana nell’industria dei cavi” il più antico diploma d’onore —conservato tra i documenti che ricostruiscono la storia delle Industrie Pirelli. Il primo di una lunga serie di riconoscimenti e attestati ottenuti dall’azienda per la partecipazione a fiere ed esposizioni, ma anche a gare e competizioni sportive. Stampati con la tecnica della litografia su carta pregiata, di dimensioni variabili fino ad arrivare a 50 x 70 cm, i diplomi sono spesso impreziositi da decorazioni o disegni, talvolta firmati. Negli anni Venti domina uno stile liberty e Art déco, come nel diploma n. 1447, conferito per la partecipazione dell’azienda alla seconda mostra campionaria eritrea del 1925 e firmato da Giulio Casanova, architetto e artista bolognese specializzato in decorazione a ornato, o in quello firmato G. Valerio, rilasciato al Dopolavoro Pirelli per il piazzamento al secondo posto alla Coppa Donatello di football, nel 1928.

A inizio anni Trenta diversi sono i diplomi realizzati da artisti e illustratori che si erano accostati alla tecnica dell’incisione collaborando alla rivista “L’Eroica”, fondata nel 1911 a La Spezia: Publio Morbiducci è autore del diploma n. 1643, ottenuto alla Fiera campionaria di Tripoli nel 1930; Adalberto Migliorati realizza il diploma di benemerenza n. 1700, conferito ad Alberto Pirelli dalla Esposizione Internazionale di Fonderia di Milano del 1931; Francesco Fortunato Gamba è autore del diploma assegnato alla Società Italiana Pirelli in qualità di socio fondatore della Casa di Redenzione Sociale della Compagnia di San Paolo a Milano Niguarda, datato 1932.

I diplomi relativi alla partecipazione dell’azienda alla Fiera di Padova nel 1934 e 1935 sono realizzati dal pittore Antonio Menegazzo, in arte Amen, illustratore e cartellonista padovano, che nel secondo dopoguerra si dedica alla pittura per poi emigrare in Sud America e negli Stati Uniti, dove raggiunge la fama diventando un pittore molto amato dalle star del cinema americano. “Amen” è autore anche di una pubblicità per la vernice per pneumatici Gumax, probabilmente una ditta partecipata dalla Pirelli, come sembra suggerire l’enorme pneumatico Stella Bianca dipinto con la vernice, oggi conservato presso la Collezione Salce di Treviso. Tra i nomi che ricorrono nella pubblicità Pirelli anche quelli di Manlio Parrini, autore dei diplomi del Salone aeronautico alla Fiera di Milano, e Armando Pomi, che firma il diploma al Dopolavoro Pirelli, classificatosi sesto nella seconda categoria al Torneo E. Massei, nel 1931.

Nella serie dei diplomi spiccano anche due artisti belgi: Antoine “Anto” Carte e Louis Buisseret, autori di due diplomi di Grand Prix ottenuti rispettivamente all’Esposizione internazionale di Anversa del 1930 e di Bruxelles del 1935.
Preziosi documenti che testimoniano i successi dell’impresa, e il suo legame di lunga data con il mondo dell’arte e dell’illustrazione.

È datato 1894 ed è rilasciato ai “Signori Pirelli & C.” dalle Esposizioni Riunite di Milano per “l’ardita e unica iniziativa italiana nell’industria dei cavi” il più antico diploma d’onore —conservato tra i documenti che ricostruiscono la storia delle Industrie Pirelli. Il primo di una lunga serie di riconoscimenti e attestati ottenuti dall’azienda per la partecipazione a fiere ed esposizioni, ma anche a gare e competizioni sportive. Stampati con la tecnica della litografia su carta pregiata, di dimensioni variabili fino ad arrivare a 50 x 70 cm, i diplomi sono spesso impreziositi da decorazioni o disegni, talvolta firmati. Negli anni Venti domina uno stile liberty e Art déco, come nel diploma n. 1447, conferito per la partecipazione dell’azienda alla seconda mostra campionaria eritrea del 1925 e firmato da Giulio Casanova, architetto e artista bolognese specializzato in decorazione a ornato, o in quello firmato G. Valerio, rilasciato al Dopolavoro Pirelli per il piazzamento al secondo posto alla Coppa Donatello di football, nel 1928.

A inizio anni Trenta diversi sono i diplomi realizzati da artisti e illustratori che si erano accostati alla tecnica dell’incisione collaborando alla rivista “L’Eroica”, fondata nel 1911 a La Spezia: Publio Morbiducci è autore del diploma n. 1643, ottenuto alla Fiera campionaria di Tripoli nel 1930; Adalberto Migliorati realizza il diploma di benemerenza n. 1700, conferito ad Alberto Pirelli dalla Esposizione Internazionale di Fonderia di Milano del 1931; Francesco Fortunato Gamba è autore del diploma assegnato alla Società Italiana Pirelli in qualità di socio fondatore della Casa di Redenzione Sociale della Compagnia di San Paolo a Milano Niguarda, datato 1932.

I diplomi relativi alla partecipazione dell’azienda alla Fiera di Padova nel 1934 e 1935 sono realizzati dal pittore Antonio Menegazzo, in arte Amen, illustratore e cartellonista padovano, che nel secondo dopoguerra si dedica alla pittura per poi emigrare in Sud America e negli Stati Uniti, dove raggiunge la fama diventando un pittore molto amato dalle star del cinema americano. “Amen” è autore anche di una pubblicità per la vernice per pneumatici Gumax, probabilmente una ditta partecipata dalla Pirelli, come sembra suggerire l’enorme pneumatico Stella Bianca dipinto con la vernice, oggi conservato presso la Collezione Salce di Treviso. Tra i nomi che ricorrono nella pubblicità Pirelli anche quelli di Manlio Parrini, autore dei diplomi del Salone aeronautico alla Fiera di Milano, e Armando Pomi, che firma il diploma al Dopolavoro Pirelli, classificatosi sesto nella seconda categoria al Torneo E. Massei, nel 1931.

Nella serie dei diplomi spiccano anche due artisti belgi: Antoine “Anto” Carte e Louis Buisseret, autori di due diplomi di Grand Prix ottenuti rispettivamente all’Esposizione internazionale di Anversa del 1930 e di Bruxelles del 1935.
Preziosi documenti che testimoniano i successi dell’impresa, e il suo legame di lunga data con il mondo dell’arte e dell’illustrazione.

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L’impresa-mecenate

Approfondite in una tesi discussa all’Università di Padova le complesse relazioni tra organizzazioni della produzione e cultura

Imprese accanto alla cultura. Imprenditori attenti non solo al semplice profitto. E fabbriche che diventano non solo luoghi di produzione, fatica e lavoro ma anche d’altro. In altri termini, il mecenate che diventa impresa. Evoluzione ultima della buona cultura del produrre, l’impresa che si pone accanto agli artisti e alle manifestazioni d’arte è fenomeno da studiare e da sviluppare. E per questo può essere utile leggere “Mecenatismo industriale dall’800 a oggi. Il caso Veneto tra identità storica e comunicazione presente”, tesi discussa da Luca Turato nell’ambito del Corso di laurea magistrale in strategie della comunicazione presso l’Università di Padova.

La ricerca parte da una domanda. Il concetto di mecenatismo è stato legato per molto tempo al rapporto tra un mecenate e un’artista, ma nel momento in cui il mecenate diventa un’impresa cosa accade alla concezione di mecenatismo? E il ragionamento continua puntualizzando che – a differenza del tradizionale mecenatismo -, il rapporto impresa-cultura presenta numerose sfumature che compongono “un interessante caso di studio per comprendere quali siano modalità e finalità di questo rapporto”.

Turato inizia quindi il suo lavoro con una sintesi storica delle relazioni mecenate-artista per passare poi ad un approfondimento del mecenatismo industriale dall’800 ad oggi. Successivamente, viene presa in considerazione la situazione attuale del fenomeno guardando più da vicino “l’industria culturale”, le esperienze  non-profit, il ruolo delle sovvenzioni e quello dei musei d’impresa.

Un ulteriore livello di approfondimento – spiega quindi l’autore -, viene inserito attraverso l’analisi di uno specifico caso di studio – le imprese venete – sulla base di una ricerca specifica condotta attraverso un osservatorio costituito da Confindustria Veneto che ha svolto un censimento del mecenatismo industriale nel 2016 e nel 2022.

Tra le conclusioni di Turato anche un’indicazione: le imprese che si accostano alla cultura, possono farlo non solo per motivi etico-morali ma anche per dare concretezza ad una responsabilità sociale nei confronti dei territori che può diventare fondamento di nuove relazioni tra i sistemi della produzione e quelli sociali.

Mecenatismo industriale dall’800 a oggi. Il caso Veneto tra identità storica e comunicazione presente

Luca Turato

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, Dipartimento Studi Storici, Geografici e dell’Antichità, Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2023

 

Approfondite in una tesi discussa all’Università di Padova le complesse relazioni tra organizzazioni della produzione e cultura

Imprese accanto alla cultura. Imprenditori attenti non solo al semplice profitto. E fabbriche che diventano non solo luoghi di produzione, fatica e lavoro ma anche d’altro. In altri termini, il mecenate che diventa impresa. Evoluzione ultima della buona cultura del produrre, l’impresa che si pone accanto agli artisti e alle manifestazioni d’arte è fenomeno da studiare e da sviluppare. E per questo può essere utile leggere “Mecenatismo industriale dall’800 a oggi. Il caso Veneto tra identità storica e comunicazione presente”, tesi discussa da Luca Turato nell’ambito del Corso di laurea magistrale in strategie della comunicazione presso l’Università di Padova.

La ricerca parte da una domanda. Il concetto di mecenatismo è stato legato per molto tempo al rapporto tra un mecenate e un’artista, ma nel momento in cui il mecenate diventa un’impresa cosa accade alla concezione di mecenatismo? E il ragionamento continua puntualizzando che – a differenza del tradizionale mecenatismo -, il rapporto impresa-cultura presenta numerose sfumature che compongono “un interessante caso di studio per comprendere quali siano modalità e finalità di questo rapporto”.

Turato inizia quindi il suo lavoro con una sintesi storica delle relazioni mecenate-artista per passare poi ad un approfondimento del mecenatismo industriale dall’800 ad oggi. Successivamente, viene presa in considerazione la situazione attuale del fenomeno guardando più da vicino “l’industria culturale”, le esperienze  non-profit, il ruolo delle sovvenzioni e quello dei musei d’impresa.

Un ulteriore livello di approfondimento – spiega quindi l’autore -, viene inserito attraverso l’analisi di uno specifico caso di studio – le imprese venete – sulla base di una ricerca specifica condotta attraverso un osservatorio costituito da Confindustria Veneto che ha svolto un censimento del mecenatismo industriale nel 2016 e nel 2022.

Tra le conclusioni di Turato anche un’indicazione: le imprese che si accostano alla cultura, possono farlo non solo per motivi etico-morali ma anche per dare concretezza ad una responsabilità sociale nei confronti dei territori che può diventare fondamento di nuove relazioni tra i sistemi della produzione e quelli sociali.

Mecenatismo industriale dall’800 a oggi. Il caso Veneto tra identità storica e comunicazione presente

Luca Turato

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, Dipartimento Studi Storici, Geografici e dell’Antichità, Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2023

 

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