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Corse

Ci sono due ali di folla il 10 agosto del 1907 a Parigi, per festeggiare il trionfo nel raid partito da Pechino. Hanno vinto il principe Scipione Borghese, il grande giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini e il meccanico Ettore Guizzardi.

Ha vinto la Itala, hanno vinto i pneumatici Pirelli che percorrono circa 17.000 chilometri in un’avventura che si legge tra le pagine del libro “La metà del mondo vista da un’automobile” del famoso cronista del quotidiano. La gara sancisce la vittoria di Pirelli e dei suoi prodotti e ne determina il suo successo internazionale. Da allora la Pirelli non si è più fermata, andando a vincere a Monza con l’Alfa Romeo di Brilli-Peri il Mondiale Grand Prix del 1925, trionfando su quattro e su due ruote, dal Giro d’Italia alla 6 Giorni di Sanremo.

Poi gli anni Cinquanta: da Brescia a Brescia sono Mille Miglia, passando da Roma. È il momento di Alberto Ascari: due Mondiali di Formula 1 con Pirelli e Ferrari. E anche oggi Pirelli continua a correre e a vincere: che siano Formula 1, Rally, Superbike, Motocross o Cycling, guardando sempre al domani.

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Ci sono due ali di folla il 10 agosto del 1907 a Parigi, per festeggiare il trionfo nel raid partito da Pechino. Hanno vinto il principe Scipione Borghese, il grande giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini e il meccanico Ettore Guizzardi.

Ha vinto la Itala, hanno vinto i pneumatici Pirelli che percorrono circa 17.000 chilometri in un’avventura che si legge tra le pagine del libro “La metà del mondo vista da un’automobile” del famoso cronista del quotidiano. La gara sancisce la vittoria di Pirelli e dei suoi prodotti e ne determina il suo successo internazionale. Da allora la Pirelli non si è più fermata, andando a vincere a Monza con l’Alfa Romeo di Brilli-Peri il Mondiale Grand Prix del 1925, trionfando su quattro e su due ruote, dal Giro d’Italia alla 6 Giorni di Sanremo.

Poi gli anni Cinquanta: da Brescia a Brescia sono Mille Miglia, passando da Roma. È il momento di Alberto Ascari: due Mondiali di Formula 1 con Pirelli e Ferrari. E anche oggi Pirelli continua a correre e a vincere: che siano Formula 1, Rally, Superbike, Motocross o Cycling, guardando sempre al domani.

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Origini

Il 28 gennaio 1872 viene costituita a Milano la società G.B. Pirelli & C. per la produzione di articoli in gomma elastica. Prima azienda in Italia a lavorare il caucciù, nasce dall’intraprendenza del giovane ingegnere Giovanni Battista Pirelli, originario di Varenna, ottavo di dieci figli di una famiglia di panettieri. Dopo i primi studi compiuti nella città natale e a Como, nel 1861 si trasferisce a Milano dove consegue nel 1870 la laurea in Ingegneria industriale presso il Politecnico.

Giovanni Battista porta l’azienda a svilupparsi rapidamente in Italia e all’estero e le lavorazioni si estendono fino a coprire una vasta gamma di prodotti in gomma tra cui cavi, articoli diversificati e soprattutto pneumatici. Affianca all’attività imprenditoriale l’impegno nella vita politica e civile diventando anche Senatore del Regno d’Italia nel 1909. Nel 1904 i figli Piero e Alberto vengono ufficialmente associati dal padre nella gerenza della società, in un momento di forte espansione anche all’estero nel settore dei cavi elettrici e telegrafici e con l’avvio della produzione di pneumatici. Piero si dedica agli aspetti organizzativi dell’azienda e ai rapporti con i lavoratori, mentre i viaggi e le relazioni fanno crescere in Alberto la consapevolezza dell’importanza dei rapporti internazionali e della conoscenza dei mercati esteri, e diventa uno degli imprenditori italiani più noti nel mondo.

Alla morte di Giovanni Battista, Alberto e il fratello Piero assumono rispettivamente il ruolo di Amministratore Delegato e Presidente, che manterranno anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1956 diventa Amministratore Delegato e Vice Presidente dell’azienda il figlio di Alberto, Leopoldo, uomo animato da un profondo senso di responsabilità imprenditoriale e attenzione umana alle persone che guiderà il Gruppo nel trentennio successivo contrassegnato da forti cambiamenti economici e sociali. Nel 1996 gli subentrerà alla Presidenza Marco Tronchetti Provera, ancora oggi Vice Presidente Esecutivo e Amministratore Delegato di Pirelli

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Il 28 gennaio 1872 viene costituita a Milano la società G.B. Pirelli & C. per la produzione di articoli in gomma elastica. Prima azienda in Italia a lavorare il caucciù, nasce dall’intraprendenza del giovane ingegnere Giovanni Battista Pirelli, originario di Varenna, ottavo di dieci figli di una famiglia di panettieri. Dopo i primi studi compiuti nella città natale e a Como, nel 1861 si trasferisce a Milano dove consegue nel 1870 la laurea in Ingegneria industriale presso il Politecnico.

Giovanni Battista porta l’azienda a svilupparsi rapidamente in Italia e all’estero e le lavorazioni si estendono fino a coprire una vasta gamma di prodotti in gomma tra cui cavi, articoli diversificati e soprattutto pneumatici. Affianca all’attività imprenditoriale l’impegno nella vita politica e civile diventando anche Senatore del Regno d’Italia nel 1909. Nel 1904 i figli Piero e Alberto vengono ufficialmente associati dal padre nella gerenza della società, in un momento di forte espansione anche all’estero nel settore dei cavi elettrici e telegrafici e con l’avvio della produzione di pneumatici. Piero si dedica agli aspetti organizzativi dell’azienda e ai rapporti con i lavoratori, mentre i viaggi e le relazioni fanno crescere in Alberto la consapevolezza dell’importanza dei rapporti internazionali e della conoscenza dei mercati esteri, e diventa uno degli imprenditori italiani più noti nel mondo.

Alla morte di Giovanni Battista, Alberto e il fratello Piero assumono rispettivamente il ruolo di Amministratore Delegato e Presidente, che manterranno anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1956 diventa Amministratore Delegato e Vice Presidente dell’azienda il figlio di Alberto, Leopoldo, uomo animato da un profondo senso di responsabilità imprenditoriale e attenzione umana alle persone che guiderà il Gruppo nel trentennio successivo contrassegnato da forti cambiamenti economici e sociali. Nel 1996 gli subentrerà alla Presidenza Marco Tronchetti Provera, ancora oggi Vice Presidente Esecutivo e Amministratore Delegato di Pirelli

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Dentro le imprese che vincono

Appena pubblicata una raccolta di saggi che cercano di arrivare al cuore della cultura d’impresa italiana

Perché alcune imprese sono uniche? E perché, soprattutto, le imprese italiane sono uniche? Domande non scontate e non retoriche le cui risposte, anzi, possono essere utili per imprenditori e manager che vogliono migliorare ciò che fanno, senza dire di chi, invece, vuole semplicemente comprendere i motivi di un successo diffuso e importante.

A tutto questo serve leggere “Il segreto italiano. Tutta la bellezza che c’è”, libro appena pubblicato e curato da Vittorio Coda nella sua veste di vicepresidente dell’Isvi (Istituto per i valori d’impresa che ha condotto la ricerca). Libro a metà tra la raccolta di saggi sull’impresa italiana e il viaggio a tappe tra alcune imprese italiane, “Il segreto italiano” ha una caratteristica dichiarata: essere frutto di una ricerca basata sugli strumenti dell’analisi gestionale con l’obiettivo di definire i caratteri dell’imprenditoria italiana d’eccellenza. Il traguardo dello studio è cioè quello di individuare quali siano le specificità delle aziende di primo piano e guida dell’intero sistema imprenditoriale nazionale. Specificità che vengono appunto sintetizzate nell’immagine del “segreto” inteso come quid che rende uniche le imprese del cosiddetto made in Italy. Anche quando si guardi alle numerose criticità legate al sistema-paese oppure alla congiuntura non favorevole. E’ lo stesso curatore a spiegare, all’inizio del libro, il perché della ricerca e cioè la “sorprendente constatazione dell’esistenza di imprese nate e cresciute in un contesto ostile all’intraprendere e che, ciò nonostante, in molteplici settori produttivi pongono l’Italia nelle primissime posizioni delle graduatorie europee e mondiali”. I diversi saggi del libro affrontano così temi cruciali come la “dedizione alla causa”, la capacità di “gestire il caos”, quella di gestire con efficacia le scelte, la maestria nella creazione di relazioni virtuose con il territorio, il significato dei distretti, l’imprenditorialità umanistica diffusa in numerose realtà, la diffusione di un “modello italiano” d’impresa nel tempo e nello spazio.

Il libro è anche in qualche modo ispirato da alcuni esempi fondamentali per capire meglio. Ad iniziare dalla Olivetti di Camillo e Adriano posta ancora oggi come emblema di un nuovo modo di fare impresa, in grado di contemperare le esigenze del profitto con quelle dell’avanzamento sociale.

“Segreto italiano”, dunque, come segreto (evidente a tutti) di una particolare cultura del produrre che nel tempo si evolve, si accresce e si diversifica e si diffonde nei territori oltre che essere elemento di competitività in tutto il mondo. Importante e significativo l’aver posto, ad iniziare dallo stesso titolo, il richiamo alla bellezza d’impresa. Libro da leggere con attenzione, quello curato da Vittorio Coda.

Il segreto italiano. Tutta la bellezza che c’è

Vittorio Coda (a cura di)

Treccani, 2023

Appena pubblicata una raccolta di saggi che cercano di arrivare al cuore della cultura d’impresa italiana

Perché alcune imprese sono uniche? E perché, soprattutto, le imprese italiane sono uniche? Domande non scontate e non retoriche le cui risposte, anzi, possono essere utili per imprenditori e manager che vogliono migliorare ciò che fanno, senza dire di chi, invece, vuole semplicemente comprendere i motivi di un successo diffuso e importante.

A tutto questo serve leggere “Il segreto italiano. Tutta la bellezza che c’è”, libro appena pubblicato e curato da Vittorio Coda nella sua veste di vicepresidente dell’Isvi (Istituto per i valori d’impresa che ha condotto la ricerca). Libro a metà tra la raccolta di saggi sull’impresa italiana e il viaggio a tappe tra alcune imprese italiane, “Il segreto italiano” ha una caratteristica dichiarata: essere frutto di una ricerca basata sugli strumenti dell’analisi gestionale con l’obiettivo di definire i caratteri dell’imprenditoria italiana d’eccellenza. Il traguardo dello studio è cioè quello di individuare quali siano le specificità delle aziende di primo piano e guida dell’intero sistema imprenditoriale nazionale. Specificità che vengono appunto sintetizzate nell’immagine del “segreto” inteso come quid che rende uniche le imprese del cosiddetto made in Italy. Anche quando si guardi alle numerose criticità legate al sistema-paese oppure alla congiuntura non favorevole. E’ lo stesso curatore a spiegare, all’inizio del libro, il perché della ricerca e cioè la “sorprendente constatazione dell’esistenza di imprese nate e cresciute in un contesto ostile all’intraprendere e che, ciò nonostante, in molteplici settori produttivi pongono l’Italia nelle primissime posizioni delle graduatorie europee e mondiali”. I diversi saggi del libro affrontano così temi cruciali come la “dedizione alla causa”, la capacità di “gestire il caos”, quella di gestire con efficacia le scelte, la maestria nella creazione di relazioni virtuose con il territorio, il significato dei distretti, l’imprenditorialità umanistica diffusa in numerose realtà, la diffusione di un “modello italiano” d’impresa nel tempo e nello spazio.

Il libro è anche in qualche modo ispirato da alcuni esempi fondamentali per capire meglio. Ad iniziare dalla Olivetti di Camillo e Adriano posta ancora oggi come emblema di un nuovo modo di fare impresa, in grado di contemperare le esigenze del profitto con quelle dell’avanzamento sociale.

“Segreto italiano”, dunque, come segreto (evidente a tutti) di una particolare cultura del produrre che nel tempo si evolve, si accresce e si diversifica e si diffonde nei territori oltre che essere elemento di competitività in tutto il mondo. Importante e significativo l’aver posto, ad iniziare dallo stesso titolo, il richiamo alla bellezza d’impresa. Libro da leggere con attenzione, quello curato da Vittorio Coda.

Il segreto italiano. Tutta la bellezza che c’è

Vittorio Coda (a cura di)

Treccani, 2023

Sussidiarietà d’impresa

Le attività del Terzo Settore tra economia e nuove regole giuridiche

Cultura della sussidiarietà e cultura d’impresa. Terzo Settore in relazione al resto della società. Organizzazioni per agire e produrre con efficienza, ma tenendo conto non solo del profitto. Terzo Settore, poi, da comprendere a fondo per una corretta gestione in base a regole condivise. E’ di fatto attorno a questo nodo di temi che ragiona Antonio Saporito (dottore di ricerca presso l’Università di Bergamo), con il suo “Le Fondazioni nel Terzo Settore”, intervento appena pubblicato su Società e Diritti.

Saporito analizza dal punto di vista giuridico la natura delle organizzazioni del Terzo Settore. Dopo aver chiaramente indicato l’origine dello stesso concetto, il saggio ne ripercorre il cammino legislativo per arrivare all’istituto delle fondazioni come strumento importante da applicare alle diverse realtà già presenti ma anche a quelle future.

In bilico tra norme per altri soggetti e la mancanza di norme specifiche, viene fatto notare, gli enti del Terzo Settore sono cresciuti e hanno assunto un ruolo fondamentale in alcuni comparti. La necessità di dar regole definite a questi tipi di attività (soddisfatta poi con un Codice del Terzo Settore), ha quindi chiarito il forte legame con quel principio di sussidiarietà sancito dalla stessa Costituzione italiana e fatto crescere la consapevolezza di una cultura del Terzo Settore diversa da quella economica ma non per questo in contrapposizione.

E’ così che quel particolare approccio all’intervento in economia e nella società che il Terzo Settore rappresenta, diventa patrimonio anche dal punto di vista giuridico. Scrive Saporito nelle sue conclusioni: “L’affermare che il non profit disvela uno dei tratti essenziali dei principi fondamentali della Costituzione significa che la sua presenza, attività e, quindi, disciplina giuridica merita una specifica considerazione e che, in caso di eventuale conflittualità, è il diritto dell’Ue a dover trovare delle forme e modi per integrare, al suo interno, questo ‘patrimonio costituzionale’ nazionale”.

Le Fondazioni nel Terzo Settore

Saporito Antonio

Società e Diritti, Rivista elettronica, 2023, VIII, n.15

Le attività del Terzo Settore tra economia e nuove regole giuridiche

Cultura della sussidiarietà e cultura d’impresa. Terzo Settore in relazione al resto della società. Organizzazioni per agire e produrre con efficienza, ma tenendo conto non solo del profitto. Terzo Settore, poi, da comprendere a fondo per una corretta gestione in base a regole condivise. E’ di fatto attorno a questo nodo di temi che ragiona Antonio Saporito (dottore di ricerca presso l’Università di Bergamo), con il suo “Le Fondazioni nel Terzo Settore”, intervento appena pubblicato su Società e Diritti.

Saporito analizza dal punto di vista giuridico la natura delle organizzazioni del Terzo Settore. Dopo aver chiaramente indicato l’origine dello stesso concetto, il saggio ne ripercorre il cammino legislativo per arrivare all’istituto delle fondazioni come strumento importante da applicare alle diverse realtà già presenti ma anche a quelle future.

In bilico tra norme per altri soggetti e la mancanza di norme specifiche, viene fatto notare, gli enti del Terzo Settore sono cresciuti e hanno assunto un ruolo fondamentale in alcuni comparti. La necessità di dar regole definite a questi tipi di attività (soddisfatta poi con un Codice del Terzo Settore), ha quindi chiarito il forte legame con quel principio di sussidiarietà sancito dalla stessa Costituzione italiana e fatto crescere la consapevolezza di una cultura del Terzo Settore diversa da quella economica ma non per questo in contrapposizione.

E’ così che quel particolare approccio all’intervento in economia e nella società che il Terzo Settore rappresenta, diventa patrimonio anche dal punto di vista giuridico. Scrive Saporito nelle sue conclusioni: “L’affermare che il non profit disvela uno dei tratti essenziali dei principi fondamentali della Costituzione significa che la sua presenza, attività e, quindi, disciplina giuridica merita una specifica considerazione e che, in caso di eventuale conflittualità, è il diritto dell’Ue a dover trovare delle forme e modi per integrare, al suo interno, questo ‘patrimonio costituzionale’ nazionale”.

Le Fondazioni nel Terzo Settore

Saporito Antonio

Società e Diritti, Rivista elettronica, 2023, VIII, n.15

Le visioni dell’arte e la chirurgia high tech, da Milano a Torino esempi per vivere meglio

Prendersi cura. Della salute. Della qualità della vita. Dello sviluppo. Costruire così le premesse per una “economia della felicità” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E avere dunque a cuore il benessere delle persone con cui entriamo in contatto.

Prendersi cura e avere a cuore, frasi essenziali, parenti tra loro, vengono in mente scorrendo le cronache dei giorni scorsi e leggendo di uno straordinario intervento di chirurgia per ridare la vista a un cieco alle Molinette di Torino e di un’originale scelta di combinare la visione di grandi opere d’arte con i percorsi medici all’Humanitas di Milano. Scienza e tecnologia d’avanguardia, da una parte. E, dall’altra, profonda sensibilità per le relazioni tra emozioni artistiche e reazioni terapeutiche. Inedite visioni di nuove sintesi culturali.

A Torino, le Molinette (struttura ospedaliera universitaria pubblica) sono da tempo un’eccellenza sanitaria di valore europeo. E lì l’equipe guidata da Michele Reibaldi e Vincenzo Sarnicola ha eseguito un autotrapianto dell’intera superficie oculare dell’occhio sinistro, spento ma in buone condizioni, sull’occhio destro, danneggiato anni fa da una malattia autoimmune. Una “prima” mondiale. Realizzata con successo: il paziente, un uomo di 83 anni, ha ricominciato a vedere. E dunque a vivere meglio.

L’idea di far vivere meglio le persone ricoverate ha guidato anche la scelta dei responsabili dell’Humanitas (struttura sanitaria privata) a Milano. Sulle pareti dei padiglioni del complesso di Rozzano ci sono gli ingrandimenti di 23 particolari da 15 opere di Raffaello, Piero della Francesca, Bellotto, Crivelli, Hayez e altri grandi artisti, perché “l’arte aiuta a curare”, come spiega Gianfelice Rocca, presidente dell’Humanitas.

Brera in Humanitas”, si chiama l’iniziativa. Perché appunto dalla Pinacoteca di Brera vengono le immagini che, riprodotte sui muri delle sale d’attesa e delle stanze degli ambulatori, regalano colori ed emozioni ai pazienti e ai loro parenti, ma anche ai medici e agli infermieri. Sostiene James Bradburne, direttore di Brera: “Portiamo la magia del museo dentro l’ospedale. E non semplicemente per decorare delle pareti bianche e sterili, ma per confortare e rassicurare le persone nella loro fragilità. Tutti entriamo in ospedale con la nostra umanità. E non c’è dunque posto migliore in cui mettere i nostri dipinti”. E ancora Rocca: “La bellezza aiuta a non perdere le radici quando si entra negli ospedali, che sono crocevia di bisogni”.

Bellezza come cura contro la fatica, il dolore, la paura. Arte come conforto. Ma anche come testimonianza che, proprio attraverso la rappresentazione del bello, si può cercare di costruire una via d’uscita dalla sofferenza della fragilità, un sollievo per la ferita della malattia, un lampo di luce nel buio del timore per la fine della vita.
Le storie di cronaca da Torino e da Milano, in qualche modo, convergono. E testimoniano come scienza e arte, tecnologia sofisticata e compassione (cum e patio: condividere un dolore) siano parti di uno stesso cammino d’umanità. Un percorso molto civile. Molto italiano.

Le “scienze della vita” ne sono una conferma. Tengono insieme sanità, alimentazione, formazione di alto livello, ricerca scientifica, industria farmaceutica, industria meccatronica e robotica (quelle sofisticate attrezzature per gli interventi chirurgici più complessi, per esempio), servizi digitali e applicazioni dell’Intelligenza artificiale (l’utilizzo dei dati su malattie e terapie aiuta a costruire itinerari adatti alle necessità dei pazienti, soprattutto per le “malattie rare” ma anche per costruire difese efficaci contro le future epidemie). E proprio nelle scienze della vita, grazie anche a una stretta collaborazione tra strutture pubbliche e attività private, l’Italia ha posizioni di primato, a livello europeo e internazionale.
Nonostante tutti i limiti, i difetti e le carenze note, il nostro sistema della salute è considerato in molti ambienti scientifici e medici come un paradigma positivo, cui fare riferimento.

Torniamo così alle parole da cui siamo partiti: cura e cuore. Che fanno da cardini dei pensieri positivi per provare a costruire i nuovi paradigmi di un’economia che metta in primo piano non solo e non tanto il valore economico per gli azionisti di un’impresa (profitti, corsi di Borsa) quanto soprattutto i valori su cui si fondano le prospettive dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. E’ necessario, infatti, guardare alla crescita economica misurata con il Pil, il prodotto interno lordo, metrica di quantità. Ma soprattutto fare leva sulla qualità di quella crescita, misurata con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile o con “l’indice di sviluppo umano” caro alle valutazioni dell’Onu.

Per ragionare sui nuovi equilibri, serve la razionalità economica. Ma è indispensabile soprattutto una solida e generosa “intelligenza del cuore”, in grado di andare oltre i confini dell’economia come “scienza triste” e dare risposte alle aspettative e all’incrocio originale di desideri, bisogni, responsabilità e progetti di uomini e donne considerati soprattutto come persone, non soltanto come produttori e consumatori.

Cura, dunque. Cuore. “I care”, come insegnava ai bambini dello sperduto e povero borgo di Barbiana don Lorenzo Milani, maestro di cultura popolare, generosità, spirito di comunità. La relazione con le tecnologie umanizzate e con la bellezza aiuta a vivere meglio.

(foto: Getty Images)

Prendersi cura. Della salute. Della qualità della vita. Dello sviluppo. Costruire così le premesse per una “economia della felicità” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). E avere dunque a cuore il benessere delle persone con cui entriamo in contatto.

Prendersi cura e avere a cuore, frasi essenziali, parenti tra loro, vengono in mente scorrendo le cronache dei giorni scorsi e leggendo di uno straordinario intervento di chirurgia per ridare la vista a un cieco alle Molinette di Torino e di un’originale scelta di combinare la visione di grandi opere d’arte con i percorsi medici all’Humanitas di Milano. Scienza e tecnologia d’avanguardia, da una parte. E, dall’altra, profonda sensibilità per le relazioni tra emozioni artistiche e reazioni terapeutiche. Inedite visioni di nuove sintesi culturali.

A Torino, le Molinette (struttura ospedaliera universitaria pubblica) sono da tempo un’eccellenza sanitaria di valore europeo. E lì l’equipe guidata da Michele Reibaldi e Vincenzo Sarnicola ha eseguito un autotrapianto dell’intera superficie oculare dell’occhio sinistro, spento ma in buone condizioni, sull’occhio destro, danneggiato anni fa da una malattia autoimmune. Una “prima” mondiale. Realizzata con successo: il paziente, un uomo di 83 anni, ha ricominciato a vedere. E dunque a vivere meglio.

L’idea di far vivere meglio le persone ricoverate ha guidato anche la scelta dei responsabili dell’Humanitas (struttura sanitaria privata) a Milano. Sulle pareti dei padiglioni del complesso di Rozzano ci sono gli ingrandimenti di 23 particolari da 15 opere di Raffaello, Piero della Francesca, Bellotto, Crivelli, Hayez e altri grandi artisti, perché “l’arte aiuta a curare”, come spiega Gianfelice Rocca, presidente dell’Humanitas.

Brera in Humanitas”, si chiama l’iniziativa. Perché appunto dalla Pinacoteca di Brera vengono le immagini che, riprodotte sui muri delle sale d’attesa e delle stanze degli ambulatori, regalano colori ed emozioni ai pazienti e ai loro parenti, ma anche ai medici e agli infermieri. Sostiene James Bradburne, direttore di Brera: “Portiamo la magia del museo dentro l’ospedale. E non semplicemente per decorare delle pareti bianche e sterili, ma per confortare e rassicurare le persone nella loro fragilità. Tutti entriamo in ospedale con la nostra umanità. E non c’è dunque posto migliore in cui mettere i nostri dipinti”. E ancora Rocca: “La bellezza aiuta a non perdere le radici quando si entra negli ospedali, che sono crocevia di bisogni”.

Bellezza come cura contro la fatica, il dolore, la paura. Arte come conforto. Ma anche come testimonianza che, proprio attraverso la rappresentazione del bello, si può cercare di costruire una via d’uscita dalla sofferenza della fragilità, un sollievo per la ferita della malattia, un lampo di luce nel buio del timore per la fine della vita.
Le storie di cronaca da Torino e da Milano, in qualche modo, convergono. E testimoniano come scienza e arte, tecnologia sofisticata e compassione (cum e patio: condividere un dolore) siano parti di uno stesso cammino d’umanità. Un percorso molto civile. Molto italiano.

Le “scienze della vita” ne sono una conferma. Tengono insieme sanità, alimentazione, formazione di alto livello, ricerca scientifica, industria farmaceutica, industria meccatronica e robotica (quelle sofisticate attrezzature per gli interventi chirurgici più complessi, per esempio), servizi digitali e applicazioni dell’Intelligenza artificiale (l’utilizzo dei dati su malattie e terapie aiuta a costruire itinerari adatti alle necessità dei pazienti, soprattutto per le “malattie rare” ma anche per costruire difese efficaci contro le future epidemie). E proprio nelle scienze della vita, grazie anche a una stretta collaborazione tra strutture pubbliche e attività private, l’Italia ha posizioni di primato, a livello europeo e internazionale.
Nonostante tutti i limiti, i difetti e le carenze note, il nostro sistema della salute è considerato in molti ambienti scientifici e medici come un paradigma positivo, cui fare riferimento.

Torniamo così alle parole da cui siamo partiti: cura e cuore. Che fanno da cardini dei pensieri positivi per provare a costruire i nuovi paradigmi di un’economia che metta in primo piano non solo e non tanto il valore economico per gli azionisti di un’impresa (profitti, corsi di Borsa) quanto soprattutto i valori su cui si fondano le prospettive dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. E’ necessario, infatti, guardare alla crescita economica misurata con il Pil, il prodotto interno lordo, metrica di quantità. Ma soprattutto fare leva sulla qualità di quella crescita, misurata con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile o con “l’indice di sviluppo umano” caro alle valutazioni dell’Onu.

Per ragionare sui nuovi equilibri, serve la razionalità economica. Ma è indispensabile soprattutto una solida e generosa “intelligenza del cuore”, in grado di andare oltre i confini dell’economia come “scienza triste” e dare risposte alle aspettative e all’incrocio originale di desideri, bisogni, responsabilità e progetti di uomini e donne considerati soprattutto come persone, non soltanto come produttori e consumatori.

Cura, dunque. Cuore. “I care”, come insegnava ai bambini dello sperduto e povero borgo di Barbiana don Lorenzo Milani, maestro di cultura popolare, generosità, spirito di comunità. La relazione con le tecnologie umanizzate e con la bellezza aiuta a vivere meglio.

(foto: Getty Images)

Pirelli apre il suo Headquarters per le Giornate FAI di Primavera 2023

Si è rinnovato, con l’apertura straordinaria dell’Headquarters di Milano-Bicocca, il sostegno e la partecipazione di Pirelli alle “Giornate FAI di Primavera 2023” organizzate dal FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano ETS).

Domenica 26 marzo 2023, dalle ore 10 alle ore 18, i tour guidati dallo staff di Fondazione Pirelli hanno accompagnato oltre 700 partecipanti alla scoperta del ricco patrimonio storico, artistico e culturale dell’azienda in un viaggio da fine Ottocento a oggi.

La visita dell’Headquarters ha previsto un percorso tra la Fondazione Pirelli (con i suoi quattro chilometri di documentazione custodita nell’Archivio Storico, la mostra “Pirelli, When History Builds The Future” e l’esposizione temporanea “Progettare la luce: Pirelli e l’architettura dei luoghi di lavoro”), la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi e l’Headquarters con la storica torre di raffreddamento, cuore del vecchio stabilimento e simbolo dei luoghi del lavoro.

Per ulteriori informazioni sulle Giornate FAI di Primavera 2023 è possibile consultare il sito: www.giornatefai.it.

Si è rinnovato, con l’apertura straordinaria dell’Headquarters di Milano-Bicocca, il sostegno e la partecipazione di Pirelli alle “Giornate FAI di Primavera 2023” organizzate dal FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano ETS).

Domenica 26 marzo 2023, dalle ore 10 alle ore 18, i tour guidati dallo staff di Fondazione Pirelli hanno accompagnato oltre 700 partecipanti alla scoperta del ricco patrimonio storico, artistico e culturale dell’azienda in un viaggio da fine Ottocento a oggi.

La visita dell’Headquarters ha previsto un percorso tra la Fondazione Pirelli (con i suoi quattro chilometri di documentazione custodita nell’Archivio Storico, la mostra “Pirelli, When History Builds The Future” e l’esposizione temporanea “Progettare la luce: Pirelli e l’architettura dei luoghi di lavoro”), la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi e l’Headquarters con la storica torre di raffreddamento, cuore del vecchio stabilimento e simbolo dei luoghi del lavoro.

Per ulteriori informazioni sulle Giornate FAI di Primavera 2023 è possibile consultare il sito: www.giornatefai.it.

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Industria, cultura, innovazione

Raccontata la storia di Finmeccanica-Leonardo, il gruppo posto come esempio di italianità industriale dell’eccellenza

Capacità tecnica e manifatturiera, ingegno e scienza, tecnologia e innovazione. E poi gusto per la bellezza, cultura capace di guardare oltre. Italianità industriale inimitabile, pur con le sue molte contraddizioni e inefficienze. E’ quanto racconta Paolo Bricco nel suo ultimo libro: “Leonardo. Motore industriale e frontiera tecnologica dell’Italia” da poco pubblicato.
Storia pluridecennale quella di Finmeccanica, ribattezzata Leonardo nel 2016, fondata nel 1948 che Bricco racconta con piglio da giornalista e precisione di storico. Partendo da un assunto dichiarato nelle prime pagine: “La storia italiana del Novecento ha tre costanti: l’attitudine profonda alla metamorfosi, la pulsione all’innovazione, la vocazione segreta ed esplicita alla bellezza. La vicenda di lungo periodo di Leonardo (…) rappresenta la combinazione di questi tre elementi”. E quindi, “il particolare per il tutto. Il tutto per il particolare. Leonardo è l’Italia. L’Italia è Leonardo”. Almeno quella industriale ed economica, che Bricco racconta attraverso i passaggi di vita di un grande gruppo d’impresa come è stato da sempre Finmeccanica-Leonardo. Con una propria cultura del produrre, che ne ha caratterizzato i passaggi, segnato le vicende, i successi e gli insuccessi.
Finmeccanica-Leonardo, dunque anche come espressione di una politica economica che, bene o male, ha fatto l’Italia del dopoguerra e che ancora oggi connota buona parte dell’industria nazionale. Certo, si capisce dalle pagine di Bricco, l’economia pubblica, di cui questo gruppo è stato ed è una componente fondamentale, si è dovuta confrontare con le esigenze del Sistema Italia e con le dinamiche dei mercati internazionali, ma soprattutto, al di là dei singoli settori, Finmeccanica-Leonardo ha mantenuto il Paese il più vicino possibile alle frontiere tecnologiche. Passando dalla manifattura alle competenze tecnologiche e scientifiche più raffinate ed avanzate.
Tutto raccontato da Bricco con passaggi ben caratterizzati: l’economia della ricostruzione e di pace, il boom economico e l’Alfa Romeo, la crisi energetica e l’Ansaldo, l’aviazione civile e militare, l’elettronica, lo spazio.
Storia sicuramente complessa quella che Bricco racconta nelle poco più di 200 pagine del suo libro, storia spesso contraddittoria, difficile, variegata ma comunque sempre affascinante. Storia al futuro, che proprio sull’esperienza di Leonardo può contare su una solida base di conoscenze e di capacità irriproducibili. Leggere le pagine di Paolo Bricco aiuta a capire tutto questo oltre che la particolare cultura d’impresa che ne deriva.

Leonardo. Motore industriale e frontiera tecnologica dell’Italia
Paolo Bricco
il Mulino, 2023

Raccontata la storia di Finmeccanica-Leonardo, il gruppo posto come esempio di italianità industriale dell’eccellenza

Capacità tecnica e manifatturiera, ingegno e scienza, tecnologia e innovazione. E poi gusto per la bellezza, cultura capace di guardare oltre. Italianità industriale inimitabile, pur con le sue molte contraddizioni e inefficienze. E’ quanto racconta Paolo Bricco nel suo ultimo libro: “Leonardo. Motore industriale e frontiera tecnologica dell’Italia” da poco pubblicato.
Storia pluridecennale quella di Finmeccanica, ribattezzata Leonardo nel 2016, fondata nel 1948 che Bricco racconta con piglio da giornalista e precisione di storico. Partendo da un assunto dichiarato nelle prime pagine: “La storia italiana del Novecento ha tre costanti: l’attitudine profonda alla metamorfosi, la pulsione all’innovazione, la vocazione segreta ed esplicita alla bellezza. La vicenda di lungo periodo di Leonardo (…) rappresenta la combinazione di questi tre elementi”. E quindi, “il particolare per il tutto. Il tutto per il particolare. Leonardo è l’Italia. L’Italia è Leonardo”. Almeno quella industriale ed economica, che Bricco racconta attraverso i passaggi di vita di un grande gruppo d’impresa come è stato da sempre Finmeccanica-Leonardo. Con una propria cultura del produrre, che ne ha caratterizzato i passaggi, segnato le vicende, i successi e gli insuccessi.
Finmeccanica-Leonardo, dunque anche come espressione di una politica economica che, bene o male, ha fatto l’Italia del dopoguerra e che ancora oggi connota buona parte dell’industria nazionale. Certo, si capisce dalle pagine di Bricco, l’economia pubblica, di cui questo gruppo è stato ed è una componente fondamentale, si è dovuta confrontare con le esigenze del Sistema Italia e con le dinamiche dei mercati internazionali, ma soprattutto, al di là dei singoli settori, Finmeccanica-Leonardo ha mantenuto il Paese il più vicino possibile alle frontiere tecnologiche. Passando dalla manifattura alle competenze tecnologiche e scientifiche più raffinate ed avanzate.
Tutto raccontato da Bricco con passaggi ben caratterizzati: l’economia della ricostruzione e di pace, il boom economico e l’Alfa Romeo, la crisi energetica e l’Ansaldo, l’aviazione civile e militare, l’elettronica, lo spazio.
Storia sicuramente complessa quella che Bricco racconta nelle poco più di 200 pagine del suo libro, storia spesso contraddittoria, difficile, variegata ma comunque sempre affascinante. Storia al futuro, che proprio sull’esperienza di Leonardo può contare su una solida base di conoscenze e di capacità irriproducibili. Leggere le pagine di Paolo Bricco aiuta a capire tutto questo oltre che la particolare cultura d’impresa che ne deriva.

Leonardo. Motore industriale e frontiera tecnologica dell’Italia
Paolo Bricco
il Mulino, 2023

Cultura d’impresa anche nelle crisi d’impresa

Pubblicata una ricerca che ragiona sulle situazioni difficili che attraversano le organizzazioni della produzione partendo dai verbali delle istituzioni coinvolte

Una matura cultura d’impresa anche quando l’impresa attraversa un periodo difficile. Anzi, in molti casi, soprattutto quando in un’organizzazione della produzione la crisi prende il posto dello sviluppo. Condizione che vale anche per l’ambiente nel quale l’impresa si muove, e per le istituzioni che lo caratterizzano. Nuove politiche industriali, dunque, necessarie non solo per generare lo sviluppo ma anche per arginare la crisi.

E’ attorno a questi temi che ragionano Matteo Gaddi e Nadia Garbellini con il loro intervento ospitato dal “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali” nel numero appena pubblicato.

“Crisi d’impresa: la necessità di nuove politiche industriali” – questo il titolo dell’articolo dei due ricercatori -, affronta il tema delle crisi d’impresa e della loro risoluzione da un particolare punto di vista: l’analisi dei verbali dei tavoli istituiti presso il Ministero dello Sviluppo economico. Una visuale particolare e inconsueta, che consente non solo di comprendere meglio le dinamiche concrete di ogni vicenda, ma anche di acquisire elementi nuovi sulla cultura civile e d’impresa con la quale queste situazioni vengono affrontate.

“L’analisi dei verbali dei tavoli istituiti presso il Ministero dello Sviluppo economico – viene spiegato dai due autori all’inizio dell’indagine -, evidenzia che la maggior parte delle crisi è imputabile ad aspetti strutturali del sistema economico-produttivo italiano”. Da qui una delle conclusioni più importanti dell’indagine: “Occorre quindi una politica industriale adeguata ad affrontare questi fenomeni in chiave di salvaguardia occupazionale e rafforzamento del tessuto produttivo attraverso strumenti di intervento pubblico”. Serve cioè una visione nuova delle crisi. Anche se quanto messo fino ad oggi a disposizione non manca di efficacia. Una condizione riconosciuta da Gaddi e Garbellini soprattutto con riferimento al Fondo di salvaguardia e al Fondo grandi imprese, seppur gravati da limiti e criticità. Ciò che invece appare mancare, è una condivisione concreta con tutti gli attori di ogni singola crisi d’impresa, un metodo di analisi e decisione che possa da un lato condurre ad una soluzione reale che, dall’altro, sia anche condivisa e accettabile. Si torna così all’inizio del ragionamento dei due ricercatori: anche per le crisi d’impresa, la presenza di una matura cultura del produrre, che tenga conto delle esigenze imprenditoriali così come di quelle del lavoro e del territorio, appare essere uno strumento determinante e insostituibile.

Crisi d’impresa: la necessità di nuove politiche industriali

Matteo Gaddi, Nadia Garbellini

Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2022/175

Pubblicata una ricerca che ragiona sulle situazioni difficili che attraversano le organizzazioni della produzione partendo dai verbali delle istituzioni coinvolte

Una matura cultura d’impresa anche quando l’impresa attraversa un periodo difficile. Anzi, in molti casi, soprattutto quando in un’organizzazione della produzione la crisi prende il posto dello sviluppo. Condizione che vale anche per l’ambiente nel quale l’impresa si muove, e per le istituzioni che lo caratterizzano. Nuove politiche industriali, dunque, necessarie non solo per generare lo sviluppo ma anche per arginare la crisi.

E’ attorno a questi temi che ragionano Matteo Gaddi e Nadia Garbellini con il loro intervento ospitato dal “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali” nel numero appena pubblicato.

“Crisi d’impresa: la necessità di nuove politiche industriali” – questo il titolo dell’articolo dei due ricercatori -, affronta il tema delle crisi d’impresa e della loro risoluzione da un particolare punto di vista: l’analisi dei verbali dei tavoli istituiti presso il Ministero dello Sviluppo economico. Una visuale particolare e inconsueta, che consente non solo di comprendere meglio le dinamiche concrete di ogni vicenda, ma anche di acquisire elementi nuovi sulla cultura civile e d’impresa con la quale queste situazioni vengono affrontate.

“L’analisi dei verbali dei tavoli istituiti presso il Ministero dello Sviluppo economico – viene spiegato dai due autori all’inizio dell’indagine -, evidenzia che la maggior parte delle crisi è imputabile ad aspetti strutturali del sistema economico-produttivo italiano”. Da qui una delle conclusioni più importanti dell’indagine: “Occorre quindi una politica industriale adeguata ad affrontare questi fenomeni in chiave di salvaguardia occupazionale e rafforzamento del tessuto produttivo attraverso strumenti di intervento pubblico”. Serve cioè una visione nuova delle crisi. Anche se quanto messo fino ad oggi a disposizione non manca di efficacia. Una condizione riconosciuta da Gaddi e Garbellini soprattutto con riferimento al Fondo di salvaguardia e al Fondo grandi imprese, seppur gravati da limiti e criticità. Ciò che invece appare mancare, è una condivisione concreta con tutti gli attori di ogni singola crisi d’impresa, un metodo di analisi e decisione che possa da un lato condurre ad una soluzione reale che, dall’altro, sia anche condivisa e accettabile. Si torna così all’inizio del ragionamento dei due ricercatori: anche per le crisi d’impresa, la presenza di una matura cultura del produrre, che tenga conto delle esigenze imprenditoriali così come di quelle del lavoro e del territorio, appare essere uno strumento determinante e insostituibile.

Crisi d’impresa: la necessità di nuove politiche industriali

Matteo Gaddi, Nadia Garbellini

Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2022/175

L’economia della felicità non premia l’Italia ma la sostenibilità trova nuovi sostenitori tra i consumatori e le imprese

“I soldi non danno la felicità”, proclama un vecchio modo di dire popolare. Nemmeno la loro assoluta mancanza, peraltro. C’è, semmai, da considerare l’importanza di una cosiddetta “economia della felicità”, calcolata dal World Happiness Report, pubblicato dalle Nazioni Unite e impegnato a misurare “la qualità della vita”, come obiettivo economico, politico e sociale. Soldi, benessere e felicità possono stare bene insieme.

Il World Happiness Report viene reso noto in occasione della “Giornata mondiale della felicità”, il 20 marzo di ogni anno, sulla base di un accordo raggiunto il 28 giugno del 2012 dai 193 Stati membri dell’Assemblea dell’Onu. E la classifica adesso vede in testa Finlandia, Danimarca e Islanda, seguite da Israele, Olanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo e Nuova Zelanda. L’Italia è al 33° posto, meno felice di Germania (al 16°) e Francia (al 21°). In coda, ci sono Sierra Leone, Libano e Afghanistan.

La classifica si basa su sei fattori: il supporto sociale, il reddito, la libertà nel poter compiere scelte di vita, la generosità e l’assenza di corruzione nel Paese. È discutibile, come ogni classifica. Si basa in gran parte sulla percezione degli intervistati (gli italiani sono notoriamente inclini a parlare male di sé e a lamentarsi). E’ fortemente influenzabile da fattori emotivi legati agli eventi di cronaca. Ma, fatte tutte le debite precisazioni e la tara di rito, è comunque profondamente indicativa. Non solo della percezione di sé e degli stati d’animo più diffusi di un Paese, ma soprattutto della necessità di calcolare non solo e non tanto la ricchezza, quando soprattutto il benessere. Un indicatore fondamentale verso cui orientare le politiche pubbliche (la spesa in sanità, istruzione, welfare, superamento di diseguaglianze e discriminazioni) ma anche gli investimenti delle imprese in produzioni sostenibili da punto di vista ambientale e sociale e attente alle esigenze di consumatori e stakeholders.

Se ne parlerà, nei prossimi giorni, durante il World Happiness Summit, a Como, dal 24 al 26 marzo, con la partecipazione di Karen Guggenheim, fondatrice dell’iniziativa e di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. “L’obiettivo deve essere una società più felice. E per raggiungerlo è necessario che le persone lo siano non solo individualmente, ma soprattutto aiutandosi l’un l’altra”, spiega Jeffrey Sachs, presidente di United Nations Sustainable Development Solutions Nerwork, uno degli economisti più attenti ai grandi temi della sostenibilità (“La Stampa”, 20 marzo).

Aggiunge John Helliwell, che con Sachs e Richard Layard ha intervistato un ampio campione di abitanti di oltre 150 Paesi, per redigere il Word Happiness Report: “C’è un cambiamento profondo in tutto il mondo: le persone riconoscono che il progresso non dovrebbe portare solo crescita economica a tutti i costi ma anche benessere e felicità”.

Andare oltre i parametri del Pil, dunque. Dare spazio non solo alla quantità della ricchezza prodotta, ma soprattutto alla qualità. “Misurare ciò che conta”, il benessere, appunto, per riprendere il titolo di un essenziale saggio di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand (Einaudi, 2021). Seguire le indicazioni del Bes (l’indice del “Benessere equo e sostenibile” elaborato dell’Istat per valutare le strategie degli investimenti pubblici di ogni Legge Finanziaria in Italia). Rendere, insomma, sempre più concrete le scelte per raggiungere i 17 “Sustainable Development Goals” degli Accordi Onu di Parigi.

L’Italia, nonostante non sia ufficialmente nelle prime file della “felicità”, proprio su questi temi rivela da tempo una sensibilità crescente, che orienta anche le strategie e i comportamenti delle imprese più responsabili, chiaramente convinte che l’impegno sincero e trasparente sulla sostenibilità sia un fattore fondamentale di produttività e competitività.

La conferma arriva da un recente Rapporto di Fondazione Symbola e Ipsos (”Corriere della Sera”, 20 marzo): i prodotti a minor impatto sono preferiti per la loro qualità dal 56% dei consumatori. “Si va sempre più decisamente verso un’economia a misura d’uomo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché “è iniziata una nuova era della sostenibilità, che tocca ogni settore e la società tutta, in modo trasversale”. E questa idea “non viene più percepita come un diktat calato dall’alto, ma diventa un obiettivo socialmente desiderabile e, per questo, anche più facilmente raggiungibile”.

Nei Rapporti di Symbola, da tempo, si documenta, per esempio, che le imprese più “coesive” sono anche quelle più competitive, anche sui mercati internazionali. E che le imprese italiane sono all’avanguardia in Europa sui temi dell’economia circolare e del riciclo, con effetti positivi sull’ambiente in generale, ma anche sul loro conto economico. L’aumento della sensibilità dei consumatori rafforza il processo. Con un miglioramento della coscienza politica diffusa.

Commenta Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos: “L’ambientalismo è uscito dalla dimensione del ‘no’ a tutti i costi ed è diventato un’opportunità di crescita economica come di beneficio per il singolo e la società. Ed è un fatto oramai chiaro che le imprese credibili in termini ambientali e sociali godano di una maggiore fidelizzazione da parte del consumatore e di una crescita più rapida”.

L’economia della felicità, in altri termini, ha una sua forte valenza etica. Ma anche un suo vantaggio. In sintesi: fare, fare bene, fare del bene.

(foto Getty Images)

“I soldi non danno la felicità”, proclama un vecchio modo di dire popolare. Nemmeno la loro assoluta mancanza, peraltro. C’è, semmai, da considerare l’importanza di una cosiddetta “economia della felicità”, calcolata dal World Happiness Report, pubblicato dalle Nazioni Unite e impegnato a misurare “la qualità della vita”, come obiettivo economico, politico e sociale. Soldi, benessere e felicità possono stare bene insieme.

Il World Happiness Report viene reso noto in occasione della “Giornata mondiale della felicità”, il 20 marzo di ogni anno, sulla base di un accordo raggiunto il 28 giugno del 2012 dai 193 Stati membri dell’Assemblea dell’Onu. E la classifica adesso vede in testa Finlandia, Danimarca e Islanda, seguite da Israele, Olanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo e Nuova Zelanda. L’Italia è al 33° posto, meno felice di Germania (al 16°) e Francia (al 21°). In coda, ci sono Sierra Leone, Libano e Afghanistan.

La classifica si basa su sei fattori: il supporto sociale, il reddito, la libertà nel poter compiere scelte di vita, la generosità e l’assenza di corruzione nel Paese. È discutibile, come ogni classifica. Si basa in gran parte sulla percezione degli intervistati (gli italiani sono notoriamente inclini a parlare male di sé e a lamentarsi). E’ fortemente influenzabile da fattori emotivi legati agli eventi di cronaca. Ma, fatte tutte le debite precisazioni e la tara di rito, è comunque profondamente indicativa. Non solo della percezione di sé e degli stati d’animo più diffusi di un Paese, ma soprattutto della necessità di calcolare non solo e non tanto la ricchezza, quando soprattutto il benessere. Un indicatore fondamentale verso cui orientare le politiche pubbliche (la spesa in sanità, istruzione, welfare, superamento di diseguaglianze e discriminazioni) ma anche gli investimenti delle imprese in produzioni sostenibili da punto di vista ambientale e sociale e attente alle esigenze di consumatori e stakeholders.

Se ne parlerà, nei prossimi giorni, durante il World Happiness Summit, a Como, dal 24 al 26 marzo, con la partecipazione di Karen Guggenheim, fondatrice dell’iniziativa e di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002. “L’obiettivo deve essere una società più felice. E per raggiungerlo è necessario che le persone lo siano non solo individualmente, ma soprattutto aiutandosi l’un l’altra”, spiega Jeffrey Sachs, presidente di United Nations Sustainable Development Solutions Nerwork, uno degli economisti più attenti ai grandi temi della sostenibilità (“La Stampa”, 20 marzo).

Aggiunge John Helliwell, che con Sachs e Richard Layard ha intervistato un ampio campione di abitanti di oltre 150 Paesi, per redigere il Word Happiness Report: “C’è un cambiamento profondo in tutto il mondo: le persone riconoscono che il progresso non dovrebbe portare solo crescita economica a tutti i costi ma anche benessere e felicità”.

Andare oltre i parametri del Pil, dunque. Dare spazio non solo alla quantità della ricchezza prodotta, ma soprattutto alla qualità. “Misurare ciò che conta”, il benessere, appunto, per riprendere il titolo di un essenziale saggio di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand (Einaudi, 2021). Seguire le indicazioni del Bes (l’indice del “Benessere equo e sostenibile” elaborato dell’Istat per valutare le strategie degli investimenti pubblici di ogni Legge Finanziaria in Italia). Rendere, insomma, sempre più concrete le scelte per raggiungere i 17 “Sustainable Development Goals” degli Accordi Onu di Parigi.

L’Italia, nonostante non sia ufficialmente nelle prime file della “felicità”, proprio su questi temi rivela da tempo una sensibilità crescente, che orienta anche le strategie e i comportamenti delle imprese più responsabili, chiaramente convinte che l’impegno sincero e trasparente sulla sostenibilità sia un fattore fondamentale di produttività e competitività.

La conferma arriva da un recente Rapporto di Fondazione Symbola e Ipsos (”Corriere della Sera”, 20 marzo): i prodotti a minor impatto sono preferiti per la loro qualità dal 56% dei consumatori. “Si va sempre più decisamente verso un’economia a misura d’uomo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché “è iniziata una nuova era della sostenibilità, che tocca ogni settore e la società tutta, in modo trasversale”. E questa idea “non viene più percepita come un diktat calato dall’alto, ma diventa un obiettivo socialmente desiderabile e, per questo, anche più facilmente raggiungibile”.

Nei Rapporti di Symbola, da tempo, si documenta, per esempio, che le imprese più “coesive” sono anche quelle più competitive, anche sui mercati internazionali. E che le imprese italiane sono all’avanguardia in Europa sui temi dell’economia circolare e del riciclo, con effetti positivi sull’ambiente in generale, ma anche sul loro conto economico. L’aumento della sensibilità dei consumatori rafforza il processo. Con un miglioramento della coscienza politica diffusa.

Commenta Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos: “L’ambientalismo è uscito dalla dimensione del ‘no’ a tutti i costi ed è diventato un’opportunità di crescita economica come di beneficio per il singolo e la società. Ed è un fatto oramai chiaro che le imprese credibili in termini ambientali e sociali godano di una maggiore fidelizzazione da parte del consumatore e di una crescita più rapida”.

L’economia della felicità, in altri termini, ha una sua forte valenza etica. Ma anche un suo vantaggio. In sintesi: fare, fare bene, fare del bene.

(foto Getty Images)

La P lunga oltre Manica

È di lunga data l’interesse di Pirelli per il Regno Unito. A partire dal fondatore Giovanni Battista Pirelli, che per il suo stabilimento in via Ponte Seveso a Milano acquista dei mescolatori per la gomma dalla Jos. Robinson & Co di Manchester, azienda leader nel settore. Da quel momento è un alternarsi di scambi di informazioni e suggestioni tra l’Italia e l’Inghilterra, tra Milano e poi Bicocca e Londra.

I viaggi dei Pirelli, poi dei loro più stretti collaboratori, si susseguono. Uno dei primi, come testimonia la relazione conservata nel nostro Archivio Storico, è di Alberto Pirelli, che tra il 29 novembre e il 5 dicembre 1909 esplora fabbriche e tecnologie locali e documenta la trasferta anche con lettere e telegrammi. A quel viaggio ne seguono numerosi altri, tutti raccontati con puntiglio da Alberto. E c’è un’idea ben precisa in mente: dare vita in Inghilterra a una serie di siti produttivi. “Abbiamo deciso” – dice Giovanni Battista Pirelli nel 1912 – “di erigere in Inghilterra uno stabilimento per la produzione di cavi sotterranei e conduttori elettrici in genere”. Dopo le esplorazioni, è l’inizio della presenza diretta dell’azienda. Si parte da un accordo con General Electric dal quale nasce, a Southampton, la Pirelli General Cable Work Ltd. Ma non si tratta solo di tecnologie da studiare e di stabilimenti da fondare.

Pirelli inizia presto anche a esportare prodotti. E non solo pneumatici. Come accade già a fine Ottocento con i tappeti di gomma elastica per pedane, carrozze, ingressi che vengono pubblicizzati nel primo catalogo generale dell’azienda del 1886. Prodotti che hanno molto successo oltre Manica. Nel primo catalogo per pavimenti e piastrelle datato 1912 si legge: “Il pavimento in gomma ha caratteristiche che lo rendono unico: estremamente resistente e durevole, grazie alla sua superficie liscia è facilmente lavabile e non trattiene polvere; elastico e morbido, attutisce i rumori e la varietà di colori e di decorazioni che si possono ottenere ne fa un prodotto adatto a rispondere a ogni esigenza di stile e di arredamento”.

Nel 1929 viene inaugurato lo stabilimento di Burton-on-Trent, luogo di produzione ma anche di sperimentazione. Nell’Archivio Storico è conservata una dettagliata relazione tecnica del 17 giugno 1938 inviata dalla “consorella Pirelli Ltd di Burton-on-Trent” circa le “prove con gomma plastificata eseguite”.

I pneumatici com’è naturale non vengono comunque dimenticati. Anche dal punto di vista della comunicazione. Sempre nell’Archivio sono conservate due fotografie del 1930 che raffigurano orgogliosamente un semi-pneumatico Pirelli montato su autobus “Leyland” a 26 posti di proprietà della Bishopston & Muston Motor Services Ltd di Swansea (Inghilterra), dopo un percorso di 100.000 miglia.

Ma il Regno Unito ha nella storia della comunicazione e del brand Pirelli un altro ruolo estremamente significativo. Nel 1964, infatti, la Pirelli UK Ltd dà vita a “The Cal”TM, il Calendario Pirelli: ormai un’icona della comunicazione d’impresa, che nasce come strumento di marketing per battere la concorrenza locale. “The Cal”TM diventa in breve tempo uno dei simboli dello stile Pirelli fatto di innovazione e modernità, di gusto e sfida. Qualcosa che accompagna l’azienda a livello globale fino ad oggi.

Appena un anno dopo “The Cal”TM nel 1965, a Eastleigh viene avviata la costruzione di uno stabilimento per produrre cavi ad alta tensione con le tecniche più moderne e, dopo altri tre anni, a Carlisle si inizia la produzione di pneumatici solo radiali.

Presenza alla quale prestano attenzione anche le istituzioni inglesi, a iniziare dalla Famiglia Reale. Nel 1929 il Principe di Galles visita gli stabilimenti di Burton on Trent: un evento testimoniato da un filmato conservato nell’Archivio che dà conto dell’attenzione del Principe alle lavorazioni condotte all’interno della fabbrica. Novant’anni dopo a Carlisle Carlo d’Inghilterra, il futuro re Carlo III, compie una analoga visita accompagnato da Marco Tronchetti Provera e ne apprezza l’alta tecnologia, con particolare attenzione agli aspetti legati all’ambiente e alla sostenibilità.

Tecnica d’eccellenza e ricerca, innovazione e diversificazione caratterizzano così i rapporti tra Pirelli  e l’Inghilterra: una storia lunga oltre un secolo, che oggi prosegue senza soste.

È di lunga data l’interesse di Pirelli per il Regno Unito. A partire dal fondatore Giovanni Battista Pirelli, che per il suo stabilimento in via Ponte Seveso a Milano acquista dei mescolatori per la gomma dalla Jos. Robinson & Co di Manchester, azienda leader nel settore. Da quel momento è un alternarsi di scambi di informazioni e suggestioni tra l’Italia e l’Inghilterra, tra Milano e poi Bicocca e Londra.

I viaggi dei Pirelli, poi dei loro più stretti collaboratori, si susseguono. Uno dei primi, come testimonia la relazione conservata nel nostro Archivio Storico, è di Alberto Pirelli, che tra il 29 novembre e il 5 dicembre 1909 esplora fabbriche e tecnologie locali e documenta la trasferta anche con lettere e telegrammi. A quel viaggio ne seguono numerosi altri, tutti raccontati con puntiglio da Alberto. E c’è un’idea ben precisa in mente: dare vita in Inghilterra a una serie di siti produttivi. “Abbiamo deciso” – dice Giovanni Battista Pirelli nel 1912 – “di erigere in Inghilterra uno stabilimento per la produzione di cavi sotterranei e conduttori elettrici in genere”. Dopo le esplorazioni, è l’inizio della presenza diretta dell’azienda. Si parte da un accordo con General Electric dal quale nasce, a Southampton, la Pirelli General Cable Work Ltd. Ma non si tratta solo di tecnologie da studiare e di stabilimenti da fondare.

Pirelli inizia presto anche a esportare prodotti. E non solo pneumatici. Come accade già a fine Ottocento con i tappeti di gomma elastica per pedane, carrozze, ingressi che vengono pubblicizzati nel primo catalogo generale dell’azienda del 1886. Prodotti che hanno molto successo oltre Manica. Nel primo catalogo per pavimenti e piastrelle datato 1912 si legge: “Il pavimento in gomma ha caratteristiche che lo rendono unico: estremamente resistente e durevole, grazie alla sua superficie liscia è facilmente lavabile e non trattiene polvere; elastico e morbido, attutisce i rumori e la varietà di colori e di decorazioni che si possono ottenere ne fa un prodotto adatto a rispondere a ogni esigenza di stile e di arredamento”.

Nel 1929 viene inaugurato lo stabilimento di Burton-on-Trent, luogo di produzione ma anche di sperimentazione. Nell’Archivio Storico è conservata una dettagliata relazione tecnica del 17 giugno 1938 inviata dalla “consorella Pirelli Ltd di Burton-on-Trent” circa le “prove con gomma plastificata eseguite”.

I pneumatici com’è naturale non vengono comunque dimenticati. Anche dal punto di vista della comunicazione. Sempre nell’Archivio sono conservate due fotografie del 1930 che raffigurano orgogliosamente un semi-pneumatico Pirelli montato su autobus “Leyland” a 26 posti di proprietà della Bishopston & Muston Motor Services Ltd di Swansea (Inghilterra), dopo un percorso di 100.000 miglia.

Ma il Regno Unito ha nella storia della comunicazione e del brand Pirelli un altro ruolo estremamente significativo. Nel 1964, infatti, la Pirelli UK Ltd dà vita a “The Cal”TM, il Calendario Pirelli: ormai un’icona della comunicazione d’impresa, che nasce come strumento di marketing per battere la concorrenza locale. “The Cal”TM diventa in breve tempo uno dei simboli dello stile Pirelli fatto di innovazione e modernità, di gusto e sfida. Qualcosa che accompagna l’azienda a livello globale fino ad oggi.

Appena un anno dopo “The Cal”TM nel 1965, a Eastleigh viene avviata la costruzione di uno stabilimento per produrre cavi ad alta tensione con le tecniche più moderne e, dopo altri tre anni, a Carlisle si inizia la produzione di pneumatici solo radiali.

Presenza alla quale prestano attenzione anche le istituzioni inglesi, a iniziare dalla Famiglia Reale. Nel 1929 il Principe di Galles visita gli stabilimenti di Burton on Trent: un evento testimoniato da un filmato conservato nell’Archivio che dà conto dell’attenzione del Principe alle lavorazioni condotte all’interno della fabbrica. Novant’anni dopo a Carlisle Carlo d’Inghilterra, il futuro re Carlo III, compie una analoga visita accompagnato da Marco Tronchetti Provera e ne apprezza l’alta tecnologia, con particolare attenzione agli aspetti legati all’ambiente e alla sostenibilità.

Tecnica d’eccellenza e ricerca, innovazione e diversificazione caratterizzano così i rapporti tra Pirelli  e l’Inghilterra: una storia lunga oltre un secolo, che oggi prosegue senza soste.

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