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L’industria è sconosciuta per i giovani, serve un nuovo racconto dell’impresa

I giovani italiani conoscono ben poco dell’industria. E comunque non la ritengono un posto in cui andare volentieri a lavorare. Il dato, inquietante se si pensa che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa subito dopo la Germania, emerge da un’indagine promossa da Federmeccanica, realizzata dal “Monitor sul lavoro” guidato da Daniele Marini, autorevole sociologo del lavoro, con Community Research Analysis. Dei 1.200 intervistati (un campione rappresentativo della popolazione italiana dai 18 anni in su), alla domanda di aggiungere un aggettivo alla parola “industria” la maggioranza (218 risposte, il 18,2%) ha detto “non so”: non è in grado cioè di esprimere un qualsiasi parere. Al secondo posto, ecco l’aggettivo “obsoleta” (61 risposte). Al terzo posto, “produttiva” (56 risposte) e al quarto, ecco il termine “sfruttamento” (38 risposte). Commenta Marini: “La narrazione di cosa rappresenti davvero la manifattura, nell’Italia di oggi, è uscita dallo schema cognitivo dei giovani”. “L’industria? Una sconosciuta”, sintetizza Dario Di Vico, che ha analizzato i dati sul “Corriere della Sera” (20 febbraio).

Da dove nascono questi giudizi? La maggioranza degli intervistati (45,4%) dichiara di avere maturato una valutazione sulla base della propria esperienza diretta di lavoratore o di discussioni con colleghi di lavoro. Il 54% si affida a informazioni avute innanzitutto dai mezzi di informazione tradizionali (Tv, quotidiani, radio per il 20%) e poi da social media e internet (soprattutto tra le giovani generazioni) e dalle “discussioni con familiari e amici”.

Un dato più confortante, in questo panorama di scarsa consapevolezza del peso reale dei soggetti economici, sta comunque nella fatto che la maggioranza degli intervistati (55,2%) auspichi sostegni per le imprese “perché contribuiscono alla crescita del paese e delle persone”. Un parere forte, apparentemente in contrasto con i tanti “non so” di cui abbiamo detto e che risulta ancora più netto tra i laureati (63,8%), gli studenti (67,8%) e chi fa un lavoro manuale (56,4%). Una quota di popolazione da valorizzare, approfondendone i giudizi.

La ricerca contiene altre interessanti considerazioni sul valore assegnato alla qualità del lavoro, all’importanza dell’equilibrio con la vita privata e alla “buona reputazione dell’impresa”, all’inclinazione a cambiare lavoro per questioni legate alla retribuzione e alla soddisfazione professionale e all’idea che “influencer e bloggher valgano più di artigiani, commercianti e insegnanti”.

Un mondo in evoluzione, dunque, soprattutto dopo le fratture sociali e le rivelazioni delle fragilità personali nella stagione del Covid. E a cui continuare a dare la massima attenzione, considerando soprattutto le inclinazioni delle generazioni più giovani.

Che l’industria non goda di un diffuso favore sociale non è, naturalmente, una novità. Era emerso con evidenza, per esempio, da una indagine Ipsos del 2009 sulle nuove generazioni e la manifattura in occasione della pubblicazione del libro “Orgoglio industriale” edito da Mondadori (“Preferisco dire che lavoro in un call center o in una boutique di moda che non in fabbrica”, era la sintesi). Gli orientamenti negativi erano stati confermati, l’anno successivo, da un analogo sondaggio sempre di Ipsos per Assolombarda. Poi, gli effetti della Grande Crisi finanziaria del 2009-2011, rivalutando l’economia reale, avevano cambiato parzialmente in positivo la percezione.

Adesso l’indagine promossa da Federmeccanica, proprio quando l’industria manifatturiera ha fatto da locomotiva della sorprendente crescita dell’economia italiana nel ‘21-‘22 costringe innanzitutto il mondo dell’impresa ma anche altri attori sociali e politici a riflettere sulle immagini prevalenti nel mondo del lavoro e nelle aspettative di ragazze e ragazzi, per rafforzare gli asset fondamentali dello sviluppo sostenibile.

Per quel che riguarda la cultura d’impresa e le rappresentanze industriali, insomma, è necessario insistere nella costruzione di un nuovo e migliore racconto dell’impresa stessa, a cominciare dall’intensificazione del rapporto con scuole e università (come fa per esempio da anni l’Aspen Institute Italia con l’iniziativa “Una bella impresa” fondata su incontri tra imprenditori e studenti degli istituti superiori in tutta Italia). Da un intervento su salari, stipendi e condizioni professionali. E da un rafforzamento della rappresentazione dei valori positivi dell’intraprendenza, dell’innovazione, della ricerca scientifica, delle opportunità di miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita offerte dalle nuove tecnologie nella twin transition ambientale e digitale. Insistendo sulla “fabbrica bella”, produttiva e sostenibile, come orizzonte di possibilità di crescita e di affermazione personale, sociale, culturale. Una sfida che proprio l’industria Italiana di qualità è in grado di giocare bene.

(foto Getty Images)

I giovani italiani conoscono ben poco dell’industria. E comunque non la ritengono un posto in cui andare volentieri a lavorare. Il dato, inquietante se si pensa che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa subito dopo la Germania, emerge da un’indagine promossa da Federmeccanica, realizzata dal “Monitor sul lavoro” guidato da Daniele Marini, autorevole sociologo del lavoro, con Community Research Analysis. Dei 1.200 intervistati (un campione rappresentativo della popolazione italiana dai 18 anni in su), alla domanda di aggiungere un aggettivo alla parola “industria” la maggioranza (218 risposte, il 18,2%) ha detto “non so”: non è in grado cioè di esprimere un qualsiasi parere. Al secondo posto, ecco l’aggettivo “obsoleta” (61 risposte). Al terzo posto, “produttiva” (56 risposte) e al quarto, ecco il termine “sfruttamento” (38 risposte). Commenta Marini: “La narrazione di cosa rappresenti davvero la manifattura, nell’Italia di oggi, è uscita dallo schema cognitivo dei giovani”. “L’industria? Una sconosciuta”, sintetizza Dario Di Vico, che ha analizzato i dati sul “Corriere della Sera” (20 febbraio).

Da dove nascono questi giudizi? La maggioranza degli intervistati (45,4%) dichiara di avere maturato una valutazione sulla base della propria esperienza diretta di lavoratore o di discussioni con colleghi di lavoro. Il 54% si affida a informazioni avute innanzitutto dai mezzi di informazione tradizionali (Tv, quotidiani, radio per il 20%) e poi da social media e internet (soprattutto tra le giovani generazioni) e dalle “discussioni con familiari e amici”.

Un dato più confortante, in questo panorama di scarsa consapevolezza del peso reale dei soggetti economici, sta comunque nella fatto che la maggioranza degli intervistati (55,2%) auspichi sostegni per le imprese “perché contribuiscono alla crescita del paese e delle persone”. Un parere forte, apparentemente in contrasto con i tanti “non so” di cui abbiamo detto e che risulta ancora più netto tra i laureati (63,8%), gli studenti (67,8%) e chi fa un lavoro manuale (56,4%). Una quota di popolazione da valorizzare, approfondendone i giudizi.

La ricerca contiene altre interessanti considerazioni sul valore assegnato alla qualità del lavoro, all’importanza dell’equilibrio con la vita privata e alla “buona reputazione dell’impresa”, all’inclinazione a cambiare lavoro per questioni legate alla retribuzione e alla soddisfazione professionale e all’idea che “influencer e bloggher valgano più di artigiani, commercianti e insegnanti”.

Un mondo in evoluzione, dunque, soprattutto dopo le fratture sociali e le rivelazioni delle fragilità personali nella stagione del Covid. E a cui continuare a dare la massima attenzione, considerando soprattutto le inclinazioni delle generazioni più giovani.

Che l’industria non goda di un diffuso favore sociale non è, naturalmente, una novità. Era emerso con evidenza, per esempio, da una indagine Ipsos del 2009 sulle nuove generazioni e la manifattura in occasione della pubblicazione del libro “Orgoglio industriale” edito da Mondadori (“Preferisco dire che lavoro in un call center o in una boutique di moda che non in fabbrica”, era la sintesi). Gli orientamenti negativi erano stati confermati, l’anno successivo, da un analogo sondaggio sempre di Ipsos per Assolombarda. Poi, gli effetti della Grande Crisi finanziaria del 2009-2011, rivalutando l’economia reale, avevano cambiato parzialmente in positivo la percezione.

Adesso l’indagine promossa da Federmeccanica, proprio quando l’industria manifatturiera ha fatto da locomotiva della sorprendente crescita dell’economia italiana nel ‘21-‘22 costringe innanzitutto il mondo dell’impresa ma anche altri attori sociali e politici a riflettere sulle immagini prevalenti nel mondo del lavoro e nelle aspettative di ragazze e ragazzi, per rafforzare gli asset fondamentali dello sviluppo sostenibile.

Per quel che riguarda la cultura d’impresa e le rappresentanze industriali, insomma, è necessario insistere nella costruzione di un nuovo e migliore racconto dell’impresa stessa, a cominciare dall’intensificazione del rapporto con scuole e università (come fa per esempio da anni l’Aspen Institute Italia con l’iniziativa “Una bella impresa” fondata su incontri tra imprenditori e studenti degli istituti superiori in tutta Italia). Da un intervento su salari, stipendi e condizioni professionali. E da un rafforzamento della rappresentazione dei valori positivi dell’intraprendenza, dell’innovazione, della ricerca scientifica, delle opportunità di miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita offerte dalle nuove tecnologie nella twin transition ambientale e digitale. Insistendo sulla “fabbrica bella”, produttiva e sostenibile, come orizzonte di possibilità di crescita e di affermazione personale, sociale, culturale. Una sfida che proprio l’industria Italiana di qualità è in grado di giocare bene.

(foto Getty Images)

Cultura del produrre con le ali

In un libro appena pubblicato la storia dell’industria aeronautica italiana

 

Alta tecnologia. E una grande capacità imprenditoriale. Voglia di futuro. E sforzo di guardare oltre gli orizzonti. L’industria aeronautica italiana è stata ed è tutto questo. Un esempio di cultura del produrre in un comparto complesso, spesso sottoposto agli effetti della storia e delle relazioni internazionali. Senza dire delle guerre. Passato e futuro, passando per il presente, dell’industria aeronautica italiana è raccontato da Francesca Fauri nel suo “Storia dell’industria aeronautica italiana. Dai primi velivoli a oggi” appena dato alle stampe.

Due appaiono essere le condizioni descritte da Fauri nel suo saggio: precocità e discontinuità. Perché, spiega l’autrice, la storia di questo comparto industriale ha un inizio precoce e un andamento discontinuo. Tutto sull’onda degli accadimenti nazionali e internazionali. Così, la Prima guerra mondiale fu un’occasione di sviluppo e di emancipazione dalla dipendenza estera. Il periodo tra le due guerre rappresentò poi un’ulteriore occasione di crescita per arrivare alla fine del secondo conflitto mondiale di fronte alla distruzione pressoché totale degli impianti. Tutto complicato dal divieto di costruire aeromobili previsto dal Trattato di pace, dalla preferenza per l’importazione di aerei alleati e dalla negazione dell’assistenza internazionale. Costi politici che si trasformarono in oneri economici dai quali faticosamente e coraggiosamente l’industria aeronautica italiana emerse nel lungo dopoguerra fino a Finmeccanica e alla nascita di Leonardo.

Ma il libro di Fauri (che insegna Storia economica e History of the World Economy and Migration nell’Università di Bologna), è da leggere non solo per la narrazione dei fatti materiali, quanto piuttosto per quella delle persone. Imprenditori pionieri e visionari (il caso raccontato per esteso è quello di Gianni Caproni e del suo gruppo), che hanno davvero segnato la storia non solo dell’industria del loro comparto. Esempi di ingegno e di calcolato rischio. Esempi un po’ per tutti. Leggere il libro di Francesca Fauri, è così un buon modo per addentrarsi in una particolare cultura d’impresa troppo spesso poco conosciuta.

Storia dell’industria aeronautica italiana. Dai primi velivoli a oggi

Francesca Fauri

il Mulino, 2023

In un libro appena pubblicato la storia dell’industria aeronautica italiana

 

Alta tecnologia. E una grande capacità imprenditoriale. Voglia di futuro. E sforzo di guardare oltre gli orizzonti. L’industria aeronautica italiana è stata ed è tutto questo. Un esempio di cultura del produrre in un comparto complesso, spesso sottoposto agli effetti della storia e delle relazioni internazionali. Senza dire delle guerre. Passato e futuro, passando per il presente, dell’industria aeronautica italiana è raccontato da Francesca Fauri nel suo “Storia dell’industria aeronautica italiana. Dai primi velivoli a oggi” appena dato alle stampe.

Due appaiono essere le condizioni descritte da Fauri nel suo saggio: precocità e discontinuità. Perché, spiega l’autrice, la storia di questo comparto industriale ha un inizio precoce e un andamento discontinuo. Tutto sull’onda degli accadimenti nazionali e internazionali. Così, la Prima guerra mondiale fu un’occasione di sviluppo e di emancipazione dalla dipendenza estera. Il periodo tra le due guerre rappresentò poi un’ulteriore occasione di crescita per arrivare alla fine del secondo conflitto mondiale di fronte alla distruzione pressoché totale degli impianti. Tutto complicato dal divieto di costruire aeromobili previsto dal Trattato di pace, dalla preferenza per l’importazione di aerei alleati e dalla negazione dell’assistenza internazionale. Costi politici che si trasformarono in oneri economici dai quali faticosamente e coraggiosamente l’industria aeronautica italiana emerse nel lungo dopoguerra fino a Finmeccanica e alla nascita di Leonardo.

Ma il libro di Fauri (che insegna Storia economica e History of the World Economy and Migration nell’Università di Bologna), è da leggere non solo per la narrazione dei fatti materiali, quanto piuttosto per quella delle persone. Imprenditori pionieri e visionari (il caso raccontato per esteso è quello di Gianni Caproni e del suo gruppo), che hanno davvero segnato la storia non solo dell’industria del loro comparto. Esempi di ingegno e di calcolato rischio. Esempi un po’ per tutti. Leggere il libro di Francesca Fauri, è così un buon modo per addentrarsi in una particolare cultura d’impresa troppo spesso poco conosciuta.

Storia dell’industria aeronautica italiana. Dai primi velivoli a oggi

Francesca Fauri

il Mulino, 2023

“La luce nelle architetture dell’industria” due percorsi guidati di Fondazione Pirelli per MuseoCity 2023

Fondazione Pirelli rinnova la sua partecipazione per il settimo anno consecutivo a MuseoCity, la manifestazione promossa dal Comune di Milano che dal 3 al 5 marzo 2023 coinvolgerà istituzioni e musei della città e anche alcune realtà fuori dai confini milanesi, con due iniziative che si svolgeranno il 3 marzo 2023, di cui una dedicata ai ragazzi.

Progettare la luce: Pirelli e l’architettura dei luoghi di lavoro

Ore 16.00 e 19.00 (due turni di vista – durata 60 minuti circa)

Una visita guidata dedicata alle architetture più rappresentative della Pirelli di ieri e di oggi. Attraverso i documenti d’archivio storici e contemporanei conservati in Fondazione i visitatori potranno scoprire la modernissima mensa aziendale degli anni Cinquanta progettata da Giulio Minoletti, il Grattacielo Pirelli di Gio Ponti, capolavoro dell’architettura milanese, l’Headquarters di Bicocca disegnato da Vittorio Gregotti che ingloba la ex torre di raffreddamento dello stabilimento, la “fabbrica bella” Pirelli di Settimo Torinese firmata da Renzo Piano e gli spazi rinnovati dello stabilimento Pirelli di Bollate.

Per iscriversi è necessario compilare il form a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 1° marzo 2023.

La luce nei luoghi di Pirelli: realizza una scatola magica

Laboratorio per ragazzi tra gli 8 e gli 11 anni

Ore 17.30 (durata 90 minuti circa)

Cos’hanno in comune una torre di raffreddamento, un altissimo grattacielo e una fabbrica circondata da colorati alberi di ciliegio? È la forte presenza della luce che le inonda, rendendo questi luoghi ancora più belli e accoglienti. Dopo aver visitato la Fondazione Pirelli, nel laboratorio i bambini potranno creare una “scatola magica” che si attiva grazie alla luce per poter proiettare i loro disegni.

Per iscriversi è necessario compilare il form a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 1° marzo 2023.

Ingresso visitatori: Fondazione Pirelli, Viale Sarca 220, Milano.

Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org.

Fondazione Pirelli rinnova la sua partecipazione per il settimo anno consecutivo a MuseoCity, la manifestazione promossa dal Comune di Milano che dal 3 al 5 marzo 2023 coinvolgerà istituzioni e musei della città e anche alcune realtà fuori dai confini milanesi, con due iniziative che si svolgeranno il 3 marzo 2023, di cui una dedicata ai ragazzi.

Progettare la luce: Pirelli e l’architettura dei luoghi di lavoro

Ore 16.00 e 19.00 (due turni di vista – durata 60 minuti circa)

Una visita guidata dedicata alle architetture più rappresentative della Pirelli di ieri e di oggi. Attraverso i documenti d’archivio storici e contemporanei conservati in Fondazione i visitatori potranno scoprire la modernissima mensa aziendale degli anni Cinquanta progettata da Giulio Minoletti, il Grattacielo Pirelli di Gio Ponti, capolavoro dell’architettura milanese, l’Headquarters di Bicocca disegnato da Vittorio Gregotti che ingloba la ex torre di raffreddamento dello stabilimento, la “fabbrica bella” Pirelli di Settimo Torinese firmata da Renzo Piano e gli spazi rinnovati dello stabilimento Pirelli di Bollate.

Per iscriversi è necessario compilare il form a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 1° marzo 2023.

La luce nei luoghi di Pirelli: realizza una scatola magica

Laboratorio per ragazzi tra gli 8 e gli 11 anni

Ore 17.30 (durata 90 minuti circa)

Cos’hanno in comune una torre di raffreddamento, un altissimo grattacielo e una fabbrica circondata da colorati alberi di ciliegio? È la forte presenza della luce che le inonda, rendendo questi luoghi ancora più belli e accoglienti. Dopo aver visitato la Fondazione Pirelli, nel laboratorio i bambini potranno creare una “scatola magica” che si attiva grazie alla luce per poter proiettare i loro disegni.

Per iscriversi è necessario compilare il form a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 1° marzo 2023.

Ingresso visitatori: Fondazione Pirelli, Viale Sarca 220, Milano.

Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org.

Intelligenza per produrre meglio

Condensati in un libro i principi generali e le applicazioni possibili della IA al Supply chain

Intelligenza artificiale per lavorare meglio. Assunto ormai d’uso comune, che, tuttavia, va compreso e approfondito sulla base delle singole condizioni d’impresa. È quanto compie Raffaele Secchi con il volume che ha curato: “Supply Chain management e intelligenza artificiale”. Un libro scritto a più mani il cui intento si capisce subito dal sottotitolo: “Migliorare i processi e la competitività aziendale”. Perché, secondo gli autori, a questo serve l’Intelligenza artificiale.

Secondo Secchi e i suoi collaboratori, l’intelligenza artificiale applicata alla gestione delle Operations e della Supply Chain rappresenta una straordinaria opportunità per la competitività delle aziende. Può infatti toccare in misura rilevante i costi, la produttività degli operatori e degli impianti, la qualità dei processi e dei prodotti, la gestione delle scorte e la loro riduzione,  i livelli di servizio.

Fin qui tutto bene, si direbbe. Ma Secchi e i suoi dimostrano che anche in questo caso occorre saper gestire bene la situazione è che non tutto è così scontato. I progetti di adozione dell’IA in ambito industriale, viene sottolineato, sono caratterizzati da livelli di complessità molto elevati, ed è indispensabile essere preparati per poter affrontare e governare la transizione da una gestione tradizionale a quella guidata dagli algoritmi.

Il libro inizia quindi con il tratteggiare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale per passare poi ad approfondire le applicazioni specifiche al tema e, quindi, una serie di casi aziendali concreti. Utili lungo le pagine i numerosi grafici e le molte tabelle che aiutano la lettura non sempre così facile.

Il libro si conclude con una sorta di “ricetta” utile per applicare per davvero l’Intelligenza artificiale nelle imprese. Un metodo che parte dal considerare le principali barriere all’applicazione dell’IA nelle organizzazioni della produzione e arriva a definire una serie di passaggi per superarle.

Supply Chain management e intelligenza artificiale

Secchi Raffaele (a cura di)

Guerini Next, 2022

 

Condensati in un libro i principi generali e le applicazioni possibili della IA al Supply chain

Intelligenza artificiale per lavorare meglio. Assunto ormai d’uso comune, che, tuttavia, va compreso e approfondito sulla base delle singole condizioni d’impresa. È quanto compie Raffaele Secchi con il volume che ha curato: “Supply Chain management e intelligenza artificiale”. Un libro scritto a più mani il cui intento si capisce subito dal sottotitolo: “Migliorare i processi e la competitività aziendale”. Perché, secondo gli autori, a questo serve l’Intelligenza artificiale.

Secondo Secchi e i suoi collaboratori, l’intelligenza artificiale applicata alla gestione delle Operations e della Supply Chain rappresenta una straordinaria opportunità per la competitività delle aziende. Può infatti toccare in misura rilevante i costi, la produttività degli operatori e degli impianti, la qualità dei processi e dei prodotti, la gestione delle scorte e la loro riduzione,  i livelli di servizio.

Fin qui tutto bene, si direbbe. Ma Secchi e i suoi dimostrano che anche in questo caso occorre saper gestire bene la situazione è che non tutto è così scontato. I progetti di adozione dell’IA in ambito industriale, viene sottolineato, sono caratterizzati da livelli di complessità molto elevati, ed è indispensabile essere preparati per poter affrontare e governare la transizione da una gestione tradizionale a quella guidata dagli algoritmi.

Il libro inizia quindi con il tratteggiare l’evoluzione dell’intelligenza artificiale per passare poi ad approfondire le applicazioni specifiche al tema e, quindi, una serie di casi aziendali concreti. Utili lungo le pagine i numerosi grafici e le molte tabelle che aiutano la lettura non sempre così facile.

Il libro si conclude con una sorta di “ricetta” utile per applicare per davvero l’Intelligenza artificiale nelle imprese. Un metodo che parte dal considerare le principali barriere all’applicazione dell’IA nelle organizzazioni della produzione e arriva a definire una serie di passaggi per superarle.

Supply Chain management e intelligenza artificiale

Secchi Raffaele (a cura di)

Guerini Next, 2022

 

Lavoro e istruzione, robot e cobot

Una serie di ricerche pubblicate da poche settimane fa il punto su uno dei temi di confine nelle relazioni tra innovazione tecnologica, formazione e lavoro

Automazione prima, digitalizzazione poi e, adesso, robot e cobot. Ecco i passi, alcuni tra i principali, che il lavoro e l’impresa hanno fatto in questi ultimi tempi. Passi tutti da capire anche se sono già stati compiuti. E passi non sempre facili, ma nemmeno totalmente apocalittici come alcuni temevano. Che si sia più o meno d’accordo comunque, l’uso dei robot e dei cobot (cioè dei robot che collaborano con l’uomo per condurre determinare operazioni) è, insieme all’intelligenza artificiale, l’ultima frontiera della produzione industriale (e non solo). Capire cosa sta accadendo, è fondamentale per tutti e soprattutto per chi, imprenditore o manager, si ritrova a dover governare oggi i processi produttivi utilizzando proprio la IA e altri nuovi approcci al tema.

E’ a questo proposito che serve leggere “Robot e cobot nell’impresa e nella scuola. Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation”, raccolta di 16 ricerche attorno al tema della presenza e dell’uso dei robot nei sistemi di produzione odierni ma anche nella scuola e nella formazione in senso lato.

Precisa la curatrice Daniela Robasto nell’introduzione: “Il volume prende le distanze da approcci tecno entusiasti o tecno critici assunti a priori e suggerisce un allontanamento da una prospettiva win win a qualunque costo che non riflette opportunamente su alcune tematiche cruciali nel sostenere i processi innovativi, tra cui la formazione dei lavoratori (…) le prospettive giuridiche connesse all’introduzione tecnologica (…)”. Obiettivo della raccolta di indagini, è quindi quello – partendo dall’attività condotta all’interno del progetto di ricerca nazionale TRADARS -, di descrivere e analizzare le potenzialità e gli aspetti operativi dei robot e dei cobot “nell’assistere le persone nello svolgimento di compiti più o meno complessi, ivi compreso l’apprendimento”.

L’insieme delle ricerche, quindi, spazia da un inquadramento generale del tema ad una serie di approfondimenti sulla presenza e l’uso di queste macchine sia nell’ambito della produzione che della formazione. Si parla così di transizione digitale, innovazione tecnologica e fiducia nei luoghi di lavoro, collaborazione uomo-macchina, potere educativo della robotica, big data e robot e altro ancora.

Chiaro, infine, il messaggio complessivo che emerge dalla serie di indagini: sempre più forti devono essere i legami e, prima ancora, le attenzioni che il mondo della formazione pone nei confronti di questi strumenti.

Bella la precisazione posta al termine dell’introduzione: “Il volume vuole essere, prima di tutto, un’occasione di dialogo”. Obiettivo che dovrebbe vale per qualsiasi ricerca e qualsiasi libro. Anche per quelli dedicati ai robot e ai cobot.

Robot e cobot nell’impresa e nella scuola. Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation

Daniela Robasto (a cura di)

Franco Angeli open access, 2022

Una serie di ricerche pubblicate da poche settimane fa il punto su uno dei temi di confine nelle relazioni tra innovazione tecnologica, formazione e lavoro

Automazione prima, digitalizzazione poi e, adesso, robot e cobot. Ecco i passi, alcuni tra i principali, che il lavoro e l’impresa hanno fatto in questi ultimi tempi. Passi tutti da capire anche se sono già stati compiuti. E passi non sempre facili, ma nemmeno totalmente apocalittici come alcuni temevano. Che si sia più o meno d’accordo comunque, l’uso dei robot e dei cobot (cioè dei robot che collaborano con l’uomo per condurre determinare operazioni) è, insieme all’intelligenza artificiale, l’ultima frontiera della produzione industriale (e non solo). Capire cosa sta accadendo, è fondamentale per tutti e soprattutto per chi, imprenditore o manager, si ritrova a dover governare oggi i processi produttivi utilizzando proprio la IA e altri nuovi approcci al tema.

E’ a questo proposito che serve leggere “Robot e cobot nell’impresa e nella scuola. Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation”, raccolta di 16 ricerche attorno al tema della presenza e dell’uso dei robot nei sistemi di produzione odierni ma anche nella scuola e nella formazione in senso lato.

Precisa la curatrice Daniela Robasto nell’introduzione: “Il volume prende le distanze da approcci tecno entusiasti o tecno critici assunti a priori e suggerisce un allontanamento da una prospettiva win win a qualunque costo che non riflette opportunamente su alcune tematiche cruciali nel sostenere i processi innovativi, tra cui la formazione dei lavoratori (…) le prospettive giuridiche connesse all’introduzione tecnologica (…)”. Obiettivo della raccolta di indagini, è quindi quello – partendo dall’attività condotta all’interno del progetto di ricerca nazionale TRADARS -, di descrivere e analizzare le potenzialità e gli aspetti operativi dei robot e dei cobot “nell’assistere le persone nello svolgimento di compiti più o meno complessi, ivi compreso l’apprendimento”.

L’insieme delle ricerche, quindi, spazia da un inquadramento generale del tema ad una serie di approfondimenti sulla presenza e l’uso di queste macchine sia nell’ambito della produzione che della formazione. Si parla così di transizione digitale, innovazione tecnologica e fiducia nei luoghi di lavoro, collaborazione uomo-macchina, potere educativo della robotica, big data e robot e altro ancora.

Chiaro, infine, il messaggio complessivo che emerge dalla serie di indagini: sempre più forti devono essere i legami e, prima ancora, le attenzioni che il mondo della formazione pone nei confronti di questi strumenti.

Bella la precisazione posta al termine dell’introduzione: “Il volume vuole essere, prima di tutto, un’occasione di dialogo”. Obiettivo che dovrebbe vale per qualsiasi ricerca e qualsiasi libro. Anche per quelli dedicati ai robot e ai cobot.

Robot e cobot nell’impresa e nella scuola. Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation

Daniela Robasto (a cura di)

Franco Angeli open access, 2022

Agenda delle buone notizie: l’industria sostenibile cresce e traina ancora la ripresa dell’economia

Agenda delle buone notizie, un’agenda “anticatastrofista”, per usare la brillante categoria analitica de “Il Foglio”, un po’ stanco della tendenza italiota alle facili lamentazioni. Ecco la prima notizia: il Master in Business Administration della SDA Bocconi di Milano è tra i primi sei al mondo, in base alla classifica del “Financial Times”, superando mostri sacri come Yale, Mit di Boston, Berkeley ma anche la London Business School e la Hec di Parigi. Ed ecco la seconda buona notizia: quattro grandi imprese italiane, Brembo, Intesa Sanpaolo, Italgas e Pirelli sono inserite nella lista mondiale delle 294 aziende con ‘rating A’ sulla lotta al cambiamento climatico, secondo l’organizzazione no profit Cdp (Carbon Disclosure Project): una conferma della sapiente strategia di chi ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale una leva di crescita (ne fanno fede anche le posizioni di vertice raggiunte nel Dow Jones Sustainability Index e nel Sustainability Yearbook ‘23 di S&P Global).

La terza buona notizia: secondo la Commissione Ue l’Italia crescerà nel 2023 dello 0,8%, più di Francia e Germania e comunque meglio dello 0,6% previsto poco tempo fa dal Fondo Monetario Internazionale.

La recessione, tanto temuta, non è più, adesso, d’attualità, come confermano pure le valutazioni della Banca d’Italia e di Confindustria. Dopo la crescita record dell’11% nel biennio post Covid ‘21-‘22, l’economia italiana va ancora avanti, trainata dalle imprese, quelle manifatturiere innanzitutto, che anche in tempi difficili hanno investito, retto le sfide dei mercati globali e della ricomposizione delle catene del valore, innovato prodotti e processi grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale e ai criteri di gestione data driven, usato bene le leve fiscali per stimolare l’Industria 4.0, creato lavoro e valore (profitti per gli azionisti, andamenti di Borsa per gli investitori) con una sapiente strategia che ha fatto perno sui valori sociali e, appunto sulla sostenibilità (come documentano i rapporti di Symbola sulla green economy).

Ecco dunque una sintesi delle tre buone notizie. C’è un sistema formativo d’eccellenza su cui fare leva (anche se restano i limiti d’una mano d’opera poco qualificata, con appena il 20% di laureati tra gli italiani tra i 25 e i 64 anni, contro il 32,8% della media Ue). Ci sono ottime imprese che sanno muoversi bene nella twin transition ambientale e digitale, rafforzando i propri asset di competitività. E il dinamismo industriale continua a fare, nonostante tutto, da motore di sviluppo.

Guardiamo meglio all’economia reale, dunque. E a un altro dato esemplare sulla crescita: nel ‘22 l’industria manifatturiera, secondo il Rapporto Prometeia-Intesa San Paolo, ha avuto ricavi per 1.200 miliardi, con un aumento di 164 miliardi rispetto all’anno precedente, anche grazie all’export che supera i 600 miliardi (“Il Sole24Ore”, 10 febbraio), con l’elettronica, il sistema moda e la farmaceutica a fare da traino. Anche le macchine utensili e robotica tirano la volata, come ricorda Marco Taisch, professore al Politecnico di Milano e autorevole esperto di Industria 4.0: il settore dell’automazione industriale, secondo i dati Ucimu (l’associazione di categoria) ha chiuso il ‘22 con una produzione superiore ai 7,2 miliardi, con un incremento del 14,6% sul ‘21 e si prepara a un ‘23 comunque positivo: hanno tirato bene il mercato interno (+27%: segno di una continuazione dei processi di innovazione dell’industria italiana) sia il mercato internazionale.

Ci sono anche altri dati su cui riflettere. Nel 2022, nonostante lo shock energetico, la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8% (dopo un rimbalzo del 12,8% nel 2021), mentre le manifatture di Germania e Francia hanno sofferto di più, con livelli produttivi ancora inferiori, a fine ‘22, al periodo pre-Covid. “La più robusta dinamica italiana è confermata dai dati dell’export di beni, in crescita più che nelle altre due economie e più della domanda mondiale”, rileva l’economista Sergio De Nardis su “InPiù” (13 febbraio).

Il boom dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, è stato attenuato dalla capacità di adattamento del settore, con un calo dell’intensità energetica: “Modifiche di composizione (contrazione dei comparti energivori), sforzi di risparmio e, presumibilmente, un’elasticità di sostituzione tra fonti energetiche più elevata di quel che si presumeva hanno consentito l’aggiustamento”, commenta De Nardis.

C’è dell’altro: una crescita di qualità e di efficienza produttiva. “Tra il 2007 e il 2020 – calcola ancora De Nardis – la nostra manifattura ha perso circa 112.000 imprese, quasi un quarto della sua iniziale consistenza. Un processo continuo e doloroso di erosione della base produttiva, non riscontrabile nelle altre economie”. Ma c’è stato anche “un mutamento in meglio”: la diminuzione del numero dei produttori “si è accompagnato all’innalzamento della produttività del settore per lo spostamento di risorse dalle unità peggiori alle più efficienti”. La conferma? Nell’aumento della quota di imprese esportatrici, caratterizzate da più elevata produttività, sul totale dei produttori. Una quota passata in un decennio dal 20 al 23%, mentre in Francia è rimasta stabile e in Germania si è ridotta.

Insiste De Nardis: “La resilienza manifatturiera ha dunque in Italia una coloritura specifica. E’ frutto di un aggiustamento strutturale di lungo periodo, tuttora in corso. Per questo motivo è sbagliato dire che i buoni risultati sono dovuti alla solita piccola pattuglia di imprese “super”, con una restante massa arretrata. Non è mai stata un’immagine adatta, meno che mai ora: è l’intero settore che si muove”.

Dall’analisi dei dati finora considerati sull’industria in generale, su alcuni settori (robotica e macchine utensili) e sulle scelte di sostenibilità come caratteristica produttiva e competitiva si ricava un’altra costante: una idea diffusa dell’innovazione non solo e non tanto come automazione high tech, ma come pensiero generale che investe prodotti e processi produttivi, materiali, servizi, linguaggi, criteri di governance e relazioni industriali. E che si traduce in un paio di formule di sintesi: la “cultura politecnica” delle nostre imprese, la loro originale inclinazione all’“umanesimo industriale”.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismi, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità proprio in nome della competitività del sistema Paese, con una lungimirante politica economica e industriale di respiro europeo.

L’orizzonte è quello di un’Italia attiva, produttiva, capace di futuro. Da valorizzare.

(foto Getty Images)

Agenda delle buone notizie, un’agenda “anticatastrofista”, per usare la brillante categoria analitica de “Il Foglio”, un po’ stanco della tendenza italiota alle facili lamentazioni. Ecco la prima notizia: il Master in Business Administration della SDA Bocconi di Milano è tra i primi sei al mondo, in base alla classifica del “Financial Times”, superando mostri sacri come Yale, Mit di Boston, Berkeley ma anche la London Business School e la Hec di Parigi. Ed ecco la seconda buona notizia: quattro grandi imprese italiane, Brembo, Intesa Sanpaolo, Italgas e Pirelli sono inserite nella lista mondiale delle 294 aziende con ‘rating A’ sulla lotta al cambiamento climatico, secondo l’organizzazione no profit Cdp (Carbon Disclosure Project): una conferma della sapiente strategia di chi ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale una leva di crescita (ne fanno fede anche le posizioni di vertice raggiunte nel Dow Jones Sustainability Index e nel Sustainability Yearbook ‘23 di S&P Global).

La terza buona notizia: secondo la Commissione Ue l’Italia crescerà nel 2023 dello 0,8%, più di Francia e Germania e comunque meglio dello 0,6% previsto poco tempo fa dal Fondo Monetario Internazionale.

La recessione, tanto temuta, non è più, adesso, d’attualità, come confermano pure le valutazioni della Banca d’Italia e di Confindustria. Dopo la crescita record dell’11% nel biennio post Covid ‘21-‘22, l’economia italiana va ancora avanti, trainata dalle imprese, quelle manifatturiere innanzitutto, che anche in tempi difficili hanno investito, retto le sfide dei mercati globali e della ricomposizione delle catene del valore, innovato prodotti e processi grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale e ai criteri di gestione data driven, usato bene le leve fiscali per stimolare l’Industria 4.0, creato lavoro e valore (profitti per gli azionisti, andamenti di Borsa per gli investitori) con una sapiente strategia che ha fatto perno sui valori sociali e, appunto sulla sostenibilità (come documentano i rapporti di Symbola sulla green economy).

Ecco dunque una sintesi delle tre buone notizie. C’è un sistema formativo d’eccellenza su cui fare leva (anche se restano i limiti d’una mano d’opera poco qualificata, con appena il 20% di laureati tra gli italiani tra i 25 e i 64 anni, contro il 32,8% della media Ue). Ci sono ottime imprese che sanno muoversi bene nella twin transition ambientale e digitale, rafforzando i propri asset di competitività. E il dinamismo industriale continua a fare, nonostante tutto, da motore di sviluppo.

Guardiamo meglio all’economia reale, dunque. E a un altro dato esemplare sulla crescita: nel ‘22 l’industria manifatturiera, secondo il Rapporto Prometeia-Intesa San Paolo, ha avuto ricavi per 1.200 miliardi, con un aumento di 164 miliardi rispetto all’anno precedente, anche grazie all’export che supera i 600 miliardi (“Il Sole24Ore”, 10 febbraio), con l’elettronica, il sistema moda e la farmaceutica a fare da traino. Anche le macchine utensili e robotica tirano la volata, come ricorda Marco Taisch, professore al Politecnico di Milano e autorevole esperto di Industria 4.0: il settore dell’automazione industriale, secondo i dati Ucimu (l’associazione di categoria) ha chiuso il ‘22 con una produzione superiore ai 7,2 miliardi, con un incremento del 14,6% sul ‘21 e si prepara a un ‘23 comunque positivo: hanno tirato bene il mercato interno (+27%: segno di una continuazione dei processi di innovazione dell’industria italiana) sia il mercato internazionale.

Ci sono anche altri dati su cui riflettere. Nel 2022, nonostante lo shock energetico, la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8% (dopo un rimbalzo del 12,8% nel 2021), mentre le manifatture di Germania e Francia hanno sofferto di più, con livelli produttivi ancora inferiori, a fine ‘22, al periodo pre-Covid. “La più robusta dinamica italiana è confermata dai dati dell’export di beni, in crescita più che nelle altre due economie e più della domanda mondiale”, rileva l’economista Sergio De Nardis su “InPiù” (13 febbraio).

Il boom dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, è stato attenuato dalla capacità di adattamento del settore, con un calo dell’intensità energetica: “Modifiche di composizione (contrazione dei comparti energivori), sforzi di risparmio e, presumibilmente, un’elasticità di sostituzione tra fonti energetiche più elevata di quel che si presumeva hanno consentito l’aggiustamento”, commenta De Nardis.

C’è dell’altro: una crescita di qualità e di efficienza produttiva. “Tra il 2007 e il 2020 – calcola ancora De Nardis – la nostra manifattura ha perso circa 112.000 imprese, quasi un quarto della sua iniziale consistenza. Un processo continuo e doloroso di erosione della base produttiva, non riscontrabile nelle altre economie”. Ma c’è stato anche “un mutamento in meglio”: la diminuzione del numero dei produttori “si è accompagnato all’innalzamento della produttività del settore per lo spostamento di risorse dalle unità peggiori alle più efficienti”. La conferma? Nell’aumento della quota di imprese esportatrici, caratterizzate da più elevata produttività, sul totale dei produttori. Una quota passata in un decennio dal 20 al 23%, mentre in Francia è rimasta stabile e in Germania si è ridotta.

Insiste De Nardis: “La resilienza manifatturiera ha dunque in Italia una coloritura specifica. E’ frutto di un aggiustamento strutturale di lungo periodo, tuttora in corso. Per questo motivo è sbagliato dire che i buoni risultati sono dovuti alla solita piccola pattuglia di imprese “super”, con una restante massa arretrata. Non è mai stata un’immagine adatta, meno che mai ora: è l’intero settore che si muove”.

Dall’analisi dei dati finora considerati sull’industria in generale, su alcuni settori (robotica e macchine utensili) e sulle scelte di sostenibilità come caratteristica produttiva e competitiva si ricava un’altra costante: una idea diffusa dell’innovazione non solo e non tanto come automazione high tech, ma come pensiero generale che investe prodotti e processi produttivi, materiali, servizi, linguaggi, criteri di governance e relazioni industriali. E che si traduce in un paio di formule di sintesi: la “cultura politecnica” delle nostre imprese, la loro originale inclinazione all’“umanesimo industriale”.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismi, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità proprio in nome della competitività del sistema Paese, con una lungimirante politica economica e industriale di respiro europeo.

L’orizzonte è quello di un’Italia attiva, produttiva, capace di futuro. Da valorizzare.

(foto Getty Images)

Filosofia d’impresa

Gli strumenti filosofici dell’analisi della realtà applicati all’agire delle organizzazioni della produzione

Gestire un’impresa con filosofia. L’indicazione può apparire paradossale, ma ha più di un fondamento di realtà. Anzi, di fronte alla complessità che imprenditori e manager devono affrontare ogni giorno, il bagaglio di strumenti per comprendere cosa sta accadendo che la filosofia può fornire, appare essere più che prezioso. Ne deriva, tra l’altro, una cultura del produrre non solo nuova ma anche affascinante è importante.

È attorno a questo modo di temi che ragiona Daniele Mattia con il suo “Executive philosophy. Un’evoluzione per manager, organizzazioni e filosofia”, libro appena pubblicato che prende le mosse da una serie di interrogativi.

L’autore, per esempio, si chiede il perché della filosofia nel management. E che cosa abbia a che vedere con l’evoluzione di manager e organizzazioni con i concetti filosofici. Su tutto poi una domanda. È sufficiente prendere in prestito qualche concetto o raccogliere una serie di pensieri per maturare un nuovo profilo manageriale, supportare le organizzazioni, oppure incidere realmente sulle questioni odierne?
Mattia traccia però una strada radicalmente diversa dal semplice accostamento tra gestione d’impresa e filosofia, perché riconsidera profondamente il pensiero evoluto e pone lo stesso al centro delle organizzazioni e dell’intera società contemporanea. E lo fa attraverso l’ideazione e applicazione di una nuova disciplina composta di visione, metodo e mezzi originali. Dal libro nascono infatti l’executive philosophy, e una nuova figura professionale, l’executive philosopher. L’obiettivo è un’evoluzione, non un semplice cambiamento, non lo sviluppo, non l’innovazione.

Il libro non si legge certo sempre con facilità, ma conduce per mano chi lo legge lungo un percorso che inizia dal considerare la realtà che imprenditori e manager hanno davanti nelle loro aziende per passare poi ad affrontare prima una serie di strumenti di conoscenza e analisi diversi dal consueto e, poi, un metodo di gestione fondato su una visione diversa della realtà d’impresa.

Libro non facile si è detto, ma importante da leggere. E che si conclude con una appello alla responsabilità che deve coinvolgere tutti. Scrive Daniele Mattia nelle ultime pagine: “Nella responsabilità viene accolto l’impegno alla simmetria, alla reciprocità: se siamo in grado di raccogliere i benefici di conseguenze, risultati o eventi positivi, dobbiamo anche essere pronti a condividere, simmetricamente, i danni e gli effetti negativi di questi, pagandone un conto se le cose non sono andate nel modo atteso oppure se, per l’appunto, è stato arrecato danno”.

Executive philosophy. Unevoluzione per manager, organizzazioni e filosofia

Daniele Mattia

Guerini NEXT, 2023

Gli strumenti filosofici dell’analisi della realtà applicati all’agire delle organizzazioni della produzione

Gestire un’impresa con filosofia. L’indicazione può apparire paradossale, ma ha più di un fondamento di realtà. Anzi, di fronte alla complessità che imprenditori e manager devono affrontare ogni giorno, il bagaglio di strumenti per comprendere cosa sta accadendo che la filosofia può fornire, appare essere più che prezioso. Ne deriva, tra l’altro, una cultura del produrre non solo nuova ma anche affascinante è importante.

È attorno a questo modo di temi che ragiona Daniele Mattia con il suo “Executive philosophy. Un’evoluzione per manager, organizzazioni e filosofia”, libro appena pubblicato che prende le mosse da una serie di interrogativi.

L’autore, per esempio, si chiede il perché della filosofia nel management. E che cosa abbia a che vedere con l’evoluzione di manager e organizzazioni con i concetti filosofici. Su tutto poi una domanda. È sufficiente prendere in prestito qualche concetto o raccogliere una serie di pensieri per maturare un nuovo profilo manageriale, supportare le organizzazioni, oppure incidere realmente sulle questioni odierne?
Mattia traccia però una strada radicalmente diversa dal semplice accostamento tra gestione d’impresa e filosofia, perché riconsidera profondamente il pensiero evoluto e pone lo stesso al centro delle organizzazioni e dell’intera società contemporanea. E lo fa attraverso l’ideazione e applicazione di una nuova disciplina composta di visione, metodo e mezzi originali. Dal libro nascono infatti l’executive philosophy, e una nuova figura professionale, l’executive philosopher. L’obiettivo è un’evoluzione, non un semplice cambiamento, non lo sviluppo, non l’innovazione.

Il libro non si legge certo sempre con facilità, ma conduce per mano chi lo legge lungo un percorso che inizia dal considerare la realtà che imprenditori e manager hanno davanti nelle loro aziende per passare poi ad affrontare prima una serie di strumenti di conoscenza e analisi diversi dal consueto e, poi, un metodo di gestione fondato su una visione diversa della realtà d’impresa.

Libro non facile si è detto, ma importante da leggere. E che si conclude con una appello alla responsabilità che deve coinvolgere tutti. Scrive Daniele Mattia nelle ultime pagine: “Nella responsabilità viene accolto l’impegno alla simmetria, alla reciprocità: se siamo in grado di raccogliere i benefici di conseguenze, risultati o eventi positivi, dobbiamo anche essere pronti a condividere, simmetricamente, i danni e gli effetti negativi di questi, pagandone un conto se le cose non sono andate nel modo atteso oppure se, per l’appunto, è stato arrecato danno”.

Executive philosophy. Unevoluzione per manager, organizzazioni e filosofia

Daniele Mattia

Guerini NEXT, 2023

L’impresa efficiente e sostenibile

La discussione dei grandi temi del momento dell’organizzazione della produzione in una tesi discussa recentemente

 

Fare bene impresa con un’attenzione in più alla sostenibilità ambientale e sociale di quello che si fa. Orizzonti plurimi d’azione. Che possono anche diventare un unico traguardo in grado, tra l’altro, di cambiare la stessa cultura del produrre.

E’ quanto ragiona Manuel Perrenchio con “Imprenditoria, occupazione e sostenibilità: la nuova frontiera del business sociale”, tesi discussa presso l’Università della Valle d’Aosta, Dipartimento di scienze umane e sociali, che fornisce un’istantanea interessante di un argomento complesso e in evoluzione.

Spiega lo stesso Perrenchio: “Alla base di questo studio vi è l’analisi delle caratteristiche, delle potenzialità e dei margini di sviluppo del nuovo modello imprenditoriale del business sociale nel quadro del panorama socio-economico contemporaneo”. Obiettivo principale dell’indagine è quello di porre “attenzione sulla dimensione sociale del fenomeno e sul rapporto particolare che intercorre tra esso e l’ambiente circostante”. A confluire nell’indagine sono temi e situazioni diverse: la sostenibilità ambientale ed economica, l’occupazione, la tecnologia e lo sviluppo dell’imprenditorialità. Altro traguardo è quello di dimostrare la compatibilità tra fini sociali dell’impresa e buona gestione della stessa. Perrenchio compie quindi tre passi: prima di tutto inquadra correttamente il significato di business sociale, poi ne approfondisce le possibilità collegandole alla tecnologia e alla sostenibilità ambientale oltre che all’occupazione, a chiudere l’indagine è poi un caso aziendale concreto che fornisce l’occasione per una prima verifica operativa dei temi teorici.

Scrive Perrenchio nelle sue conclusioni: “Il nuovo modello del business sociale è una tipologia d’impresa dal grande potenziale operativo e funzionale, soprattutto in ottica futura, quando sarà imperativo trovare soluzioni tempestive e concrete alle minacce dell’evoluzione umana. In particolare, esso ha mostrato un’incredibile efficienza tecnica nella presa in carico e nella risoluzione dei problemi sociali, maggiore rispetto ad ogni altra impresa senza scopo di lucro, spiegata per sua natura dalla grande capacità di adattamento ai bisogni della collettività. Il dinamismo del business sociale, nella sua posizione trasversale che gli permette di assorbire le caratteristiche più funzionali delle altre tipologie d’impresa, diventa uno strumento operativo molto appetibile in un ecosistema economico in continua evoluzione e porta con sé tutta una serie di caratteristiche vantaggiose e innovative”.

Il lavoro di indagine condotto da Manuel Perrenchio non contiene grandi elementi di novità sul tema, ma ha il grande merito di fissarne una quadro utile alla sua migliore comprensione.

Imprenditoria, occupazione e sostenibilità: la nuova frontiera del business sociale

Manuel Perrenchio

Tesi, Università della Valle d’Aosta Université de la Vallée d’Aoste. Dipartimento di scienze umane e sociali. Corso di laurea triennale in lingue e comunicazione per l’impresa e il turismo, 2022

La discussione dei grandi temi del momento dell’organizzazione della produzione in una tesi discussa recentemente

 

Fare bene impresa con un’attenzione in più alla sostenibilità ambientale e sociale di quello che si fa. Orizzonti plurimi d’azione. Che possono anche diventare un unico traguardo in grado, tra l’altro, di cambiare la stessa cultura del produrre.

E’ quanto ragiona Manuel Perrenchio con “Imprenditoria, occupazione e sostenibilità: la nuova frontiera del business sociale”, tesi discussa presso l’Università della Valle d’Aosta, Dipartimento di scienze umane e sociali, che fornisce un’istantanea interessante di un argomento complesso e in evoluzione.

Spiega lo stesso Perrenchio: “Alla base di questo studio vi è l’analisi delle caratteristiche, delle potenzialità e dei margini di sviluppo del nuovo modello imprenditoriale del business sociale nel quadro del panorama socio-economico contemporaneo”. Obiettivo principale dell’indagine è quello di porre “attenzione sulla dimensione sociale del fenomeno e sul rapporto particolare che intercorre tra esso e l’ambiente circostante”. A confluire nell’indagine sono temi e situazioni diverse: la sostenibilità ambientale ed economica, l’occupazione, la tecnologia e lo sviluppo dell’imprenditorialità. Altro traguardo è quello di dimostrare la compatibilità tra fini sociali dell’impresa e buona gestione della stessa. Perrenchio compie quindi tre passi: prima di tutto inquadra correttamente il significato di business sociale, poi ne approfondisce le possibilità collegandole alla tecnologia e alla sostenibilità ambientale oltre che all’occupazione, a chiudere l’indagine è poi un caso aziendale concreto che fornisce l’occasione per una prima verifica operativa dei temi teorici.

Scrive Perrenchio nelle sue conclusioni: “Il nuovo modello del business sociale è una tipologia d’impresa dal grande potenziale operativo e funzionale, soprattutto in ottica futura, quando sarà imperativo trovare soluzioni tempestive e concrete alle minacce dell’evoluzione umana. In particolare, esso ha mostrato un’incredibile efficienza tecnica nella presa in carico e nella risoluzione dei problemi sociali, maggiore rispetto ad ogni altra impresa senza scopo di lucro, spiegata per sua natura dalla grande capacità di adattamento ai bisogni della collettività. Il dinamismo del business sociale, nella sua posizione trasversale che gli permette di assorbire le caratteristiche più funzionali delle altre tipologie d’impresa, diventa uno strumento operativo molto appetibile in un ecosistema economico in continua evoluzione e porta con sé tutta una serie di caratteristiche vantaggiose e innovative”.

Il lavoro di indagine condotto da Manuel Perrenchio non contiene grandi elementi di novità sul tema, ma ha il grande merito di fissarne una quadro utile alla sua migliore comprensione.

Imprenditoria, occupazione e sostenibilità: la nuova frontiera del business sociale

Manuel Perrenchio

Tesi, Università della Valle d’Aosta Université de la Vallée d’Aoste. Dipartimento di scienze umane e sociali. Corso di laurea triennale in lingue e comunicazione per l’impresa e il turismo, 2022

La fuga dei giovani del Sud verso nord ed Europa. Riforme e investimenti per cambiare verso  

Gli italiani residenti all’estero, all’inizio del 2023, sono quasi 6 milioni. E 1,8 milioni hanno meno di trent’anni. Per raccontare i dati da un altro punto di vista, si può dire che il 10,7% della popolazione giovanile nazionale vive stabilmente in un altro paese: più di metà di loro ha scelto una città in Europa. L’Italia, già nettamente in crisi demografica, continua insomma a perdere i suoi giovani, che partono in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E, a segnare un record negativo, appunto per i giovani, sono le città del Mezzogiorno: Enna (477,5 ogni mille abitanti, un rapporto pari al quintuplo della media nazionale), Agrigento, Isernia, Potenza e poi, dopo la veneta Belluno, Caltanissetta, Vibo Valentia, Campobasso, Cosenza, Avellino… Fuggono anche i pensionati, sempre dalle città del Sud: Enna, Vibo, Isernia, Campobasso, Agrigento, Avellino, Potenza…

Si parte molto pure da Mantova, Rovigo e Lodi, dalle aree del Nord di minore intensità di sviluppo economico. E da Prato (dove però pesano molto i ritorni verso le famiglie d’origine in Cina di abitanti nati in Italia).

Lo rivelano i dati dell’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), elaborati dal ministero dell’Interno e anticipati da “Il Sole24Ore” (6 febbraio). La tendenza è in aumento: gli iscritti all’Aire, nel 2006 erano 3milioni 106mila, adesso sono 5milioni 933mila, il doppio, cioè, con 122mila nuove iscrizioni nel 2022 (un aumento del 2,2% rispetto al ‘21).

Ci sono altri movimenti demografici che meritano attenzione. Per esempio, quelli che dicono che in dieci anni il Mezzogiorno nel suo complesso ha perso oltre 500mila residenti, con una forte componente di ragazze e ragazzi dai 25 ai 34 anni. Lo documenta il quotidiano “Domani” (5 febbraio), titolando così: “La vera emergenza in Italia è la fuga dei giovani dal Sud”.

Sono dati noti, naturalmente. Testimonianze di tendenze che vanno avanti da tempo. Senza che questa grave ferita sociale abbia risposte politiche adeguate. Vale dunque la pena ricordarsene, ancora una volta, mentre si discute di riforma delle autonomie differenziate, di maggiore e migliore integrazione europea e dunque di necessità di fare tutto il possibile per cercare di affrontare quel divario tra Nord e Sud che nel corso del tempo è drammaticamente cresciuto (lo continuano a documentare le ricerche Svimez) e che proprio un buon impiego delle risorse del PNRR potrebbe contribuire a ridurre.

Ancora un paio di dati, per buon promemoria. Nel 1951 il Pil pro capite nel Mezzogiorno era pari al 70% di quello del Nord. All’inizio degli anni Novanta, era sceso al 60%. Nel 2020, al 55%: la metà. E, proprio guardando ai giovani, serve ricordare che il 62% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è occupato. Ma, spostandosi dalla media nazionale alle medie locali, si vede che lo è il 74% nel Nord Ovest, il 76% nel Nord Est e solo il 45,7% nel Mezzogiorno. La media nazionale, insomma, comunque al di sotto di quella europea, nasconde forti divari regionali. Le ragioni della fuga delle nuove generazioni meridionali verso Nord e verso gli altri paesi europei hanno qui una clamorosa illustrazione.

Il Sud diseguale, com’è ovvio, non avvantaggia affatto lo sviluppo del Paese, la sua integrazione europea. Non serve, non favorisce certo le regioni del Nord, anche perché frena e distorce la  produttività e la competitività di tutto il sistema Italia. Aggrava gli squilibri e i disagi sociali. Ostacola profondamente le scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Come sa bene anche Confindustria, che del superamento del divario ha fatto un punto qualificante delle sue strategie politiche e della cultura d’impresa.

Servono dunque scelte politiche di fondo. Per la crescita del Sud. Tra infrastrutture materiali e immateriali, investimenti produttivi, ambiziosi piani di formazione all’altezza delle sfide poste dalla twin transition digitale e ambientale e delle nuove opportunità della diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Il Mezzogiorno, la sua intelligenza storica, la sua collocazione geografica baricentrica in un Mediterraneo che ha una crescente rilevanza geopolitica sono tutte condizioni che vanno considerate in una strategia europea di ripresa dell’Italia.

Quanto sia utile o meno, in questa strategia, l’autonomia regionale differenziata non ci sono ancora dati chiari per dirlo. Di certo, le politiche industriali, fiscali, di ricerca e formazione e le infrastrutture vanno considerate in un disegno unitario che abbia radici a Bruxelles e sguardo verso il mondo.

Il Mezzogiorno, semmai, proprio per attrarre investimenti e valorizzare le proprie potenzialità (dunque anche il suo capitale umano, da non abbandonare all’ineluttabilità dell’emigrazione di massa, alla “fuga dei cervelli”), ha bisogno di “buon governo”. Non di lamentazioni, rancori, nostalgie neoborboniche, clientele.

Per capire meglio, può aiutarci anche la storia politica meridionale. Rileggendo, per esempio, i discorsi e i programmi di governo di uno dei migliori amministratori che il Sud abbia avuto: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana alla fine degli anni Settenta. Attento a insistere e a fare scelte perché la Sicilia, con riforme, cura per la legalità e corretta amministrazione, in un dialogo con le forze economiche e sociali migliori d’Italia, fosse terra di insediamenti industriali innovativi, lavoro qualificato, cultura d’avanguardia. Una lezione stroncata dalla violenza mafiosa. Ma ancora attualissima.

(foto Getty Images) 

Gli italiani residenti all’estero, all’inizio del 2023, sono quasi 6 milioni. E 1,8 milioni hanno meno di trent’anni. Per raccontare i dati da un altro punto di vista, si può dire che il 10,7% della popolazione giovanile nazionale vive stabilmente in un altro paese: più di metà di loro ha scelto una città in Europa. L’Italia, già nettamente in crisi demografica, continua insomma a perdere i suoi giovani, che partono in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E, a segnare un record negativo, appunto per i giovani, sono le città del Mezzogiorno: Enna (477,5 ogni mille abitanti, un rapporto pari al quintuplo della media nazionale), Agrigento, Isernia, Potenza e poi, dopo la veneta Belluno, Caltanissetta, Vibo Valentia, Campobasso, Cosenza, Avellino… Fuggono anche i pensionati, sempre dalle città del Sud: Enna, Vibo, Isernia, Campobasso, Agrigento, Avellino, Potenza…

Si parte molto pure da Mantova, Rovigo e Lodi, dalle aree del Nord di minore intensità di sviluppo economico. E da Prato (dove però pesano molto i ritorni verso le famiglie d’origine in Cina di abitanti nati in Italia).

Lo rivelano i dati dell’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), elaborati dal ministero dell’Interno e anticipati da “Il Sole24Ore” (6 febbraio). La tendenza è in aumento: gli iscritti all’Aire, nel 2006 erano 3milioni 106mila, adesso sono 5milioni 933mila, il doppio, cioè, con 122mila nuove iscrizioni nel 2022 (un aumento del 2,2% rispetto al ‘21).

Ci sono altri movimenti demografici che meritano attenzione. Per esempio, quelli che dicono che in dieci anni il Mezzogiorno nel suo complesso ha perso oltre 500mila residenti, con una forte componente di ragazze e ragazzi dai 25 ai 34 anni. Lo documenta il quotidiano “Domani” (5 febbraio), titolando così: “La vera emergenza in Italia è la fuga dei giovani dal Sud”.

Sono dati noti, naturalmente. Testimonianze di tendenze che vanno avanti da tempo. Senza che questa grave ferita sociale abbia risposte politiche adeguate. Vale dunque la pena ricordarsene, ancora una volta, mentre si discute di riforma delle autonomie differenziate, di maggiore e migliore integrazione europea e dunque di necessità di fare tutto il possibile per cercare di affrontare quel divario tra Nord e Sud che nel corso del tempo è drammaticamente cresciuto (lo continuano a documentare le ricerche Svimez) e che proprio un buon impiego delle risorse del PNRR potrebbe contribuire a ridurre.

Ancora un paio di dati, per buon promemoria. Nel 1951 il Pil pro capite nel Mezzogiorno era pari al 70% di quello del Nord. All’inizio degli anni Novanta, era sceso al 60%. Nel 2020, al 55%: la metà. E, proprio guardando ai giovani, serve ricordare che il 62% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è occupato. Ma, spostandosi dalla media nazionale alle medie locali, si vede che lo è il 74% nel Nord Ovest, il 76% nel Nord Est e solo il 45,7% nel Mezzogiorno. La media nazionale, insomma, comunque al di sotto di quella europea, nasconde forti divari regionali. Le ragioni della fuga delle nuove generazioni meridionali verso Nord e verso gli altri paesi europei hanno qui una clamorosa illustrazione.

Il Sud diseguale, com’è ovvio, non avvantaggia affatto lo sviluppo del Paese, la sua integrazione europea. Non serve, non favorisce certo le regioni del Nord, anche perché frena e distorce la  produttività e la competitività di tutto il sistema Italia. Aggrava gli squilibri e i disagi sociali. Ostacola profondamente le scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Come sa bene anche Confindustria, che del superamento del divario ha fatto un punto qualificante delle sue strategie politiche e della cultura d’impresa.

Servono dunque scelte politiche di fondo. Per la crescita del Sud. Tra infrastrutture materiali e immateriali, investimenti produttivi, ambiziosi piani di formazione all’altezza delle sfide poste dalla twin transition digitale e ambientale e delle nuove opportunità della diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Il Mezzogiorno, la sua intelligenza storica, la sua collocazione geografica baricentrica in un Mediterraneo che ha una crescente rilevanza geopolitica sono tutte condizioni che vanno considerate in una strategia europea di ripresa dell’Italia.

Quanto sia utile o meno, in questa strategia, l’autonomia regionale differenziata non ci sono ancora dati chiari per dirlo. Di certo, le politiche industriali, fiscali, di ricerca e formazione e le infrastrutture vanno considerate in un disegno unitario che abbia radici a Bruxelles e sguardo verso il mondo.

Il Mezzogiorno, semmai, proprio per attrarre investimenti e valorizzare le proprie potenzialità (dunque anche il suo capitale umano, da non abbandonare all’ineluttabilità dell’emigrazione di massa, alla “fuga dei cervelli”), ha bisogno di “buon governo”. Non di lamentazioni, rancori, nostalgie neoborboniche, clientele.

Per capire meglio, può aiutarci anche la storia politica meridionale. Rileggendo, per esempio, i discorsi e i programmi di governo di uno dei migliori amministratori che il Sud abbia avuto: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana alla fine degli anni Settenta. Attento a insistere e a fare scelte perché la Sicilia, con riforme, cura per la legalità e corretta amministrazione, in un dialogo con le forze economiche e sociali migliori d’Italia, fosse terra di insediamenti industriali innovativi, lavoro qualificato, cultura d’avanguardia. Una lezione stroncata dalla violenza mafiosa. Ma ancora attualissima.

(foto Getty Images) 

Il futuro nella circolarità

Una indagine effettuata dall’Università di Macerata contribuisce alla comprensione di un tema complesso è in divenire

 

Nuove tecnologie da conquistare ed applicare per non rimanere indietro. Vale per tutte le realtà d’impresa, anche quelle piccole e medie, ma si tratta di un’indicazione il cui raggiungimento cambia a seconda dell’impresa che vi si cimenta. Questione di dimensioni e di capacità, di vera cultura del produrre così come di disponibilità finanziaria. Comprendere le molte evoluzioni della relazione tra innovazione e imprese, è comunque sempre un’operazione da fare. Ed è quanto hanno compiuto Rebecca Colanero e Dominique Lepore (dell’Università degli Studi di Macerata-Dipartimento di Giurisprudenza) con “Economia circolare e Industria 4.0: il futuro del Made in Italy”, ricerca pubblicata da poche settimane.

L’obiettivo dell’indagine è quello di analizzare le opportunità e le criticità riscontrate dalle micro e piccole imprese (MPI) italiane nell’adozione di modelli di gestione orientati all’economia circolare, considerando il ruolo strategico delle tecnologie dell’Industria 4.0. Due traguardi certamente complessi da raggiungere ma altrettanto certamente sfidanti e, per certi versi, obbligatori da conquistare.

Il contributo, combinando dati primari e secondari, prende in esame una micro e due piccole imprese delle Marche (“Feleppa SV” del comparto dell’abbigliamento, “TM Italia” legno-arredo e “A Mare” attiva nel settore della calzature) che hanno investito in processi e prodotti “circolari”, sfruttando il potenziale delle tecnologie dell’Industria 4.0.

Dopo due parti iniziali che hanno l’obiettivo di inquadrare il tema, le due ricercatrici analizzano le esperienze delle tre realtà imprenditoriali riscontrando, di fatto, gli stessi ostacoli dal punto di vista finanziario, normativo e culturale, ostacoli che rallentano il loro processo di cambiamento. Ed è sulla base delle evidenze raccolte che vengono discussi una serie di fattori abilitanti in grado di sostenere le imprese nel processo di transizione. Si tratta di elementi che toccano anche la disponibilità di risorse economiche, ma che includono anche la capacità di dare vita a reti adeguate di relazioni tra imprese e tra queste e il mondo della ricerca, importanti in alcuni casi sono anche la chiarezza delle norme e la presenza di infrastrutture.

L’articolo di Colanero e Lepore ha il grande merito della chiarezza (utili le tabelle di sintesi e confronto tra le diverse realtà d’impresa) e della capacità di fornire in uno spazio breve quanto serve per aiutare la comprensione di un fenomeno complesso e in divenire.

Economia circolare e Industria 4.0: il futuro del Made in Italy

Rebecca Colanero, Dominique Lepore

ECONOMIA MARCHE Journal of Applied Economics, Vol. XLI, No. 2, Dicembre 2022

Una indagine effettuata dall’Università di Macerata contribuisce alla comprensione di un tema complesso è in divenire

 

Nuove tecnologie da conquistare ed applicare per non rimanere indietro. Vale per tutte le realtà d’impresa, anche quelle piccole e medie, ma si tratta di un’indicazione il cui raggiungimento cambia a seconda dell’impresa che vi si cimenta. Questione di dimensioni e di capacità, di vera cultura del produrre così come di disponibilità finanziaria. Comprendere le molte evoluzioni della relazione tra innovazione e imprese, è comunque sempre un’operazione da fare. Ed è quanto hanno compiuto Rebecca Colanero e Dominique Lepore (dell’Università degli Studi di Macerata-Dipartimento di Giurisprudenza) con “Economia circolare e Industria 4.0: il futuro del Made in Italy”, ricerca pubblicata da poche settimane.

L’obiettivo dell’indagine è quello di analizzare le opportunità e le criticità riscontrate dalle micro e piccole imprese (MPI) italiane nell’adozione di modelli di gestione orientati all’economia circolare, considerando il ruolo strategico delle tecnologie dell’Industria 4.0. Due traguardi certamente complessi da raggiungere ma altrettanto certamente sfidanti e, per certi versi, obbligatori da conquistare.

Il contributo, combinando dati primari e secondari, prende in esame una micro e due piccole imprese delle Marche (“Feleppa SV” del comparto dell’abbigliamento, “TM Italia” legno-arredo e “A Mare” attiva nel settore della calzature) che hanno investito in processi e prodotti “circolari”, sfruttando il potenziale delle tecnologie dell’Industria 4.0.

Dopo due parti iniziali che hanno l’obiettivo di inquadrare il tema, le due ricercatrici analizzano le esperienze delle tre realtà imprenditoriali riscontrando, di fatto, gli stessi ostacoli dal punto di vista finanziario, normativo e culturale, ostacoli che rallentano il loro processo di cambiamento. Ed è sulla base delle evidenze raccolte che vengono discussi una serie di fattori abilitanti in grado di sostenere le imprese nel processo di transizione. Si tratta di elementi che toccano anche la disponibilità di risorse economiche, ma che includono anche la capacità di dare vita a reti adeguate di relazioni tra imprese e tra queste e il mondo della ricerca, importanti in alcuni casi sono anche la chiarezza delle norme e la presenza di infrastrutture.

L’articolo di Colanero e Lepore ha il grande merito della chiarezza (utili le tabelle di sintesi e confronto tra le diverse realtà d’impresa) e della capacità di fornire in uno spazio breve quanto serve per aiutare la comprensione di un fenomeno complesso e in divenire.

Economia circolare e Industria 4.0: il futuro del Made in Italy

Rebecca Colanero, Dominique Lepore

ECONOMIA MARCHE Journal of Applied Economics, Vol. XLI, No. 2, Dicembre 2022

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