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Bellezza industriale italiana

In un libro le storie d’impresa che dicono tutto sulla cultura del produrre del nostro Paese

Patria del saper fare, dell’eccellenza, della magnificenza produttiva. Patria del bello e ben fatto. Ecco l’Italia nelle innumerevoli descrizioni che di questo Paese vengono fatte. Davvero il “Bel Paese” per antonomasia. Ma perché tutto questo?

È a questa domanda che Severino Salvemini risponde con il suo “Il quid imprenditoriale. Oltre la retorica del Made in Italy”, libro nato dalla raccolta di una serie di racconti d’impresa pubblicati sul supplemento L’Economia del Corriere della Sera.

Il libro – e gli articoli che costituiscono altrettanti capitoli -, prendono le mosse da una considerazione: fermarsi al semplice slogan che indica il Made in Italy come il regno della bellezza, ci impedisce di cogliere i tratti distintivi di un fenomeno complesso che ha permesso alle nostre imprese di temperare il tecnologismo della globalizzazione con un nuovo umanesimo all’insegna del gusto e della creatività, e di sostituire alla filosofia finanziaria anglosassone uno stile di management tutto italiano.

Con ragione Salvemini parla quindi di una “inafferrabile composizione chimica” che deve essere compresa con grande attenzione. Operazione che l’autore cerca di compiere proprio partendo dal racconto di 53 storie esemplari di aziende che hanno fatto dell’eccellenza la loro bandiera. Chi legge, quindi, apprende delle vicende di imprese – spesso sconosciute sì più -, che hanno fatto e fanno la storia nel loro comparto. Storie che fanno emergere, oltre ad una indubbia capacità produttiva, anche altro che a Salvemini sintetizza con grande maestria così: “Nella filigrana di questi documenti si può (…) leggere la disponibilità degli italiani al servizio dell’altro, la loro connaturata curiosità e capacità di perfezionare con l’innovazione le formule consolidate, la loro tensione alla ricerca, alla domanda, al dubbio, alla riflessione che trovano anche nella vasta cultura del Paese la propria universale Bandiera”.

Il libro di Salvemini riesce in un’operazione difficile: descrivere il meglio dell’impresa italiana senza retorica. Da leggere.

Il quid imprenditoriale. Oltre la retorica del Made in Italy

Severino Salvemini

Egea, 2023

In un libro le storie d’impresa che dicono tutto sulla cultura del produrre del nostro Paese

Patria del saper fare, dell’eccellenza, della magnificenza produttiva. Patria del bello e ben fatto. Ecco l’Italia nelle innumerevoli descrizioni che di questo Paese vengono fatte. Davvero il “Bel Paese” per antonomasia. Ma perché tutto questo?

È a questa domanda che Severino Salvemini risponde con il suo “Il quid imprenditoriale. Oltre la retorica del Made in Italy”, libro nato dalla raccolta di una serie di racconti d’impresa pubblicati sul supplemento L’Economia del Corriere della Sera.

Il libro – e gli articoli che costituiscono altrettanti capitoli -, prendono le mosse da una considerazione: fermarsi al semplice slogan che indica il Made in Italy come il regno della bellezza, ci impedisce di cogliere i tratti distintivi di un fenomeno complesso che ha permesso alle nostre imprese di temperare il tecnologismo della globalizzazione con un nuovo umanesimo all’insegna del gusto e della creatività, e di sostituire alla filosofia finanziaria anglosassone uno stile di management tutto italiano.

Con ragione Salvemini parla quindi di una “inafferrabile composizione chimica” che deve essere compresa con grande attenzione. Operazione che l’autore cerca di compiere proprio partendo dal racconto di 53 storie esemplari di aziende che hanno fatto dell’eccellenza la loro bandiera. Chi legge, quindi, apprende delle vicende di imprese – spesso sconosciute sì più -, che hanno fatto e fanno la storia nel loro comparto. Storie che fanno emergere, oltre ad una indubbia capacità produttiva, anche altro che a Salvemini sintetizza con grande maestria così: “Nella filigrana di questi documenti si può (…) leggere la disponibilità degli italiani al servizio dell’altro, la loro connaturata curiosità e capacità di perfezionare con l’innovazione le formule consolidate, la loro tensione alla ricerca, alla domanda, al dubbio, alla riflessione che trovano anche nella vasta cultura del Paese la propria universale Bandiera”.

Il libro di Salvemini riesce in un’operazione difficile: descrivere il meglio dell’impresa italiana senza retorica. Da leggere.

Il quid imprenditoriale. Oltre la retorica del Made in Italy

Severino Salvemini

Egea, 2023

O più Europa o niente futuro. E anche il Mes può essere cardine della politica industriale Ue

O c’è più Europa o non ci sarà futuro, amava dire Gianni Agnelli, leader storico dell’industria, radici profondamente italiane, convinte inclinazioni europeiste, forti legami americani. E oggi, a vent’anni dalla sua morte, vale la pena rimemorarne la lezione, proprio nel cuore di una stagione di drammatiche trasformazioni politiche e sociali e di straordinarie sfide economiche, per confermare che bisogna insistere sull’Europa, nonostante tutto. E guardare dunque verso l’orizzonte di una maggiore e migliore integrazione europea, per costruire sviluppo sostenibile a vantaggio della Next Generation Ue. Consapevoli come siamo che crescita economica, coesione sociale e difesa della democrazia liberale – il grande patrimonio europeo, appunto – hanno un futuro solo se strettamente intrecciati, in un sistema di valori e scelte politiche coraggiose.

“Più aiuti di Stato significa meno Europa. Più politica industriale comune vuol dire, invece, maggiore e migliore sviluppo”, sostengono concordi le imprese italiane riunite in Confindustria. Che, proprio sulla necessità di una risposta efficace ai venti di protezionismo che soffiano sul mondo (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e rischiano di deprimere i commerci internazionali e dunque la crescita, hanno avviato da tempo una iniziativa per coinvolgere anche le associazioni imprenditoriali di Francia e Germania e organizzare una pressione comune sulla Commissione Ue a Bruxelles in nome di una maggiore e migliore competitività di tutto il sistema delle imprese europee.

Ampliare le possibilità di rincorso agli aiuti di Stato, infatti, significherebbe aggravare le asimmetrie tra paesi e strutture d’impresa nazionali, considerando che già adesso più del 77% degli aiuti di Stato riguardano Germania e Francia. C’è il rischio, insomma, di frammentare il mercato interno Ue, di mettere in crisi il mercato unico. E di avvantaggiare solo le economie di quei paesi che hanno spazio di ampliamento del loro debito pubblico.

Meglio, invece, insistere sull’idea, cara per esempio alla Commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager, di un “fondo sovrano” che finanzi settori strategici a livello comunitario, limitando gli aiuti di Stato a “misure mirate”, dato che la difesa del mercato unico è “una linea rossa” da non varcare.

Un “fondo sovrano Ue”, dunque, come strumento da inserire nel contesto delle scelte di politica industriale che si stanne definendo a Bruxelles, con il contributo determinante del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e del Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni. Una politica industriale green, come chiarisce da tempo la presidente Ursula von der Leyen. Una scelta di sostenibilità ambientale e sociale come asse della politica che promuova la competitività di tutta l’economia europea. Se ne parlerà meglio nei vertici Ue ai primi di febbraio.

L’Europa, infatti, si trova nel cuore di un passaggio cruciale per l’economia globale. C’è una “globalizzazione da ripensare”, come suggerisce con insistenza, da tempo, “The Economist”. Ci sono da fronteggiare le chiusure della Cina, che privilegia il mercato interno e le insidiose scelte della Casa Bianca di Trump, che ha messo in moto investimenti pubblici per centinaia di miliardi di dollari con l’Ira (Inflation Reduction Act) e con il Chips and Science Act a sostegno dell’impresa Usa e di tutte le altre imprese internazionali che vorranno insediarsi negli Stati Uniti. E se va evitata, naturalmente, ogni guerra commerciale tra Europa e Usa (anche per gli effetti politici che comporterebbe, in un quadrato geopolitico di forti tensioni e allarmanti fratture), è necessario contemporaneamente difendere l’industria europea da rischi di crisi e declino, nella consapevolezza del nesso forte che lega mercato, libertà d’impresa, responsabilità sociale, benessere popolare e dunque lavoro, welfare e democrazia.

La politica industriale Ue assume così una valenza più generale. E va pensata nel contesto più generale della ridiscussione del Patto di Stabilità e di una promozione di un ruolo più incisivo dell’Europa nel Mediterraneo e verso l’Africa.

A giudizio di Confindustria potrebbe essere indirizzato in questa direzione anche il Mes (ne ha parlato nei giorni scorsi il presidente Carlo Bonomi durante un convegno a Venezia; “Il Sole24Ore”, 28 gennaio). E secondo indiscrezioni di buona fonte, anche a Palazzo Chigi si sta discutendo di un “via libera”, finalmente, alla ratifica del Mes nel quadro di un migliore utilizzo di tutti gli strumenti e le strutture europee, compresa la Bei, la Banca Europea degli Investimenti (“La Stampa”, 28 gennaio).

La chiave è sempre lo sviluppo. Verso cui indirizzare tutte le risorse disponibili, quelle che si possono raccogliere, come Ue, sui mercati finanziari internazionali e quelle, coordinate, dei vari Stati nazionali. Una risposta generale con uno spirito tutt’altro che protezionista. Una scelta neo-keynesiana sulla qualità degli investimenti pubblici.

Il cardine potrebbe essere una intesa tra Berlino, Parigi e Roma (come sostiene Giulio Tremonti, da presidente della Commissione Esteri del Senato; “Corriere della Sera”, 26 gennaio) per fare da motore della nuova politica industriale europea, attenta appunto a promuovere la competitività di sistema, l’innovazione tecnologica, la ricerca, la formazione, il rilancio dell’industria europea e dei servizi collegati. E dopo il “Recovery Plan”, un Fondo Ue per l’energia, le materie prime strategiche a partire dalle terre rare e i prodotti industriali di base come i microchip potrebbe essere uno strumento essenziale. Sicurezza, autonomia e sviluppo si tengono insieme.

(Immagine: Getty Images)

O c’è più Europa o non ci sarà futuro, amava dire Gianni Agnelli, leader storico dell’industria, radici profondamente italiane, convinte inclinazioni europeiste, forti legami americani. E oggi, a vent’anni dalla sua morte, vale la pena rimemorarne la lezione, proprio nel cuore di una stagione di drammatiche trasformazioni politiche e sociali e di straordinarie sfide economiche, per confermare che bisogna insistere sull’Europa, nonostante tutto. E guardare dunque verso l’orizzonte di una maggiore e migliore integrazione europea, per costruire sviluppo sostenibile a vantaggio della Next Generation Ue. Consapevoli come siamo che crescita economica, coesione sociale e difesa della democrazia liberale – il grande patrimonio europeo, appunto – hanno un futuro solo se strettamente intrecciati, in un sistema di valori e scelte politiche coraggiose.

“Più aiuti di Stato significa meno Europa. Più politica industriale comune vuol dire, invece, maggiore e migliore sviluppo”, sostengono concordi le imprese italiane riunite in Confindustria. Che, proprio sulla necessità di una risposta efficace ai venti di protezionismo che soffiano sul mondo (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e rischiano di deprimere i commerci internazionali e dunque la crescita, hanno avviato da tempo una iniziativa per coinvolgere anche le associazioni imprenditoriali di Francia e Germania e organizzare una pressione comune sulla Commissione Ue a Bruxelles in nome di una maggiore e migliore competitività di tutto il sistema delle imprese europee.

Ampliare le possibilità di rincorso agli aiuti di Stato, infatti, significherebbe aggravare le asimmetrie tra paesi e strutture d’impresa nazionali, considerando che già adesso più del 77% degli aiuti di Stato riguardano Germania e Francia. C’è il rischio, insomma, di frammentare il mercato interno Ue, di mettere in crisi il mercato unico. E di avvantaggiare solo le economie di quei paesi che hanno spazio di ampliamento del loro debito pubblico.

Meglio, invece, insistere sull’idea, cara per esempio alla Commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager, di un “fondo sovrano” che finanzi settori strategici a livello comunitario, limitando gli aiuti di Stato a “misure mirate”, dato che la difesa del mercato unico è “una linea rossa” da non varcare.

Un “fondo sovrano Ue”, dunque, come strumento da inserire nel contesto delle scelte di politica industriale che si stanne definendo a Bruxelles, con il contributo determinante del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e del Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni. Una politica industriale green, come chiarisce da tempo la presidente Ursula von der Leyen. Una scelta di sostenibilità ambientale e sociale come asse della politica che promuova la competitività di tutta l’economia europea. Se ne parlerà meglio nei vertici Ue ai primi di febbraio.

L’Europa, infatti, si trova nel cuore di un passaggio cruciale per l’economia globale. C’è una “globalizzazione da ripensare”, come suggerisce con insistenza, da tempo, “The Economist”. Ci sono da fronteggiare le chiusure della Cina, che privilegia il mercato interno e le insidiose scelte della Casa Bianca di Trump, che ha messo in moto investimenti pubblici per centinaia di miliardi di dollari con l’Ira (Inflation Reduction Act) e con il Chips and Science Act a sostegno dell’impresa Usa e di tutte le altre imprese internazionali che vorranno insediarsi negli Stati Uniti. E se va evitata, naturalmente, ogni guerra commerciale tra Europa e Usa (anche per gli effetti politici che comporterebbe, in un quadrato geopolitico di forti tensioni e allarmanti fratture), è necessario contemporaneamente difendere l’industria europea da rischi di crisi e declino, nella consapevolezza del nesso forte che lega mercato, libertà d’impresa, responsabilità sociale, benessere popolare e dunque lavoro, welfare e democrazia.

La politica industriale Ue assume così una valenza più generale. E va pensata nel contesto più generale della ridiscussione del Patto di Stabilità e di una promozione di un ruolo più incisivo dell’Europa nel Mediterraneo e verso l’Africa.

A giudizio di Confindustria potrebbe essere indirizzato in questa direzione anche il Mes (ne ha parlato nei giorni scorsi il presidente Carlo Bonomi durante un convegno a Venezia; “Il Sole24Ore”, 28 gennaio). E secondo indiscrezioni di buona fonte, anche a Palazzo Chigi si sta discutendo di un “via libera”, finalmente, alla ratifica del Mes nel quadro di un migliore utilizzo di tutti gli strumenti e le strutture europee, compresa la Bei, la Banca Europea degli Investimenti (“La Stampa”, 28 gennaio).

La chiave è sempre lo sviluppo. Verso cui indirizzare tutte le risorse disponibili, quelle che si possono raccogliere, come Ue, sui mercati finanziari internazionali e quelle, coordinate, dei vari Stati nazionali. Una risposta generale con uno spirito tutt’altro che protezionista. Una scelta neo-keynesiana sulla qualità degli investimenti pubblici.

Il cardine potrebbe essere una intesa tra Berlino, Parigi e Roma (come sostiene Giulio Tremonti, da presidente della Commissione Esteri del Senato; “Corriere della Sera”, 26 gennaio) per fare da motore della nuova politica industriale europea, attenta appunto a promuovere la competitività di sistema, l’innovazione tecnologica, la ricerca, la formazione, il rilancio dell’industria europea e dei servizi collegati. E dopo il “Recovery Plan”, un Fondo Ue per l’energia, le materie prime strategiche a partire dalle terre rare e i prodotti industriali di base come i microchip potrebbe essere uno strumento essenziale. Sicurezza, autonomia e sviluppo si tengono insieme.

(Immagine: Getty Images)

Viaggio e modernità: al via l’XI edizione del corso “Cinema & Storia”

Torna il corso di formazione e aggiornamento rivolto ai docenti delle scuole secondarie. “Cinema & Storia”, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC, in collaborazione con il Cinema Beltrade, dedica la sua XI edizione al tema del viaggio. Sempre in bilico tra metafora e realtà, il viaggio è ricco di implicazioni storiche: dal Grand Tour ai voli low-cost, dalle imprese di esplorazione dell’Africa che accompagnano l’edificazione di imperi coloniali ai grandi movimenti migratori che attraversano i secoli, fino ai viaggi di formazione degli imprenditori.

E tuttavia a viaggiare non sono solo le persone: anche le cose e le idee si spostano e si intrecciano, in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato.

In un itinerario in cinque tappe, che lega storia e cinema, il corso vuole fornire ai docenti gli strumenti affinché un tema, spesso banalizzato, possa essere vissuto e proposto con nuovi stimoli e prospettive durante le attività in classe.

Per raggiungere questo obiettivo, ognuna delle cinque lezioni storiche sarà affiancata da una selezione di film a cura del Cinema Beltrade. Infine, per supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico a fini didattici, sarà organizzato il laboratorio “In viaggio con Pigmalione – Il potere delle immagini in movimento”.

L’iscrizione al corso è gratuita ma obbligatoria. Si prega di scrivere a didattica2@fondazioneisec.it entro lunedì 13 febbraio 2023. Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams (consigliamo di collegarsi qualche minuto prima per eventuali prove tecniche).

Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.

Per il programma generale del corso clicca qui.

Appuntamento al 20 febbraio ore 16!

Vi aspettiamo.

Torna il corso di formazione e aggiornamento rivolto ai docenti delle scuole secondarie. “Cinema & Storia”, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC, in collaborazione con il Cinema Beltrade, dedica la sua XI edizione al tema del viaggio. Sempre in bilico tra metafora e realtà, il viaggio è ricco di implicazioni storiche: dal Grand Tour ai voli low-cost, dalle imprese di esplorazione dell’Africa che accompagnano l’edificazione di imperi coloniali ai grandi movimenti migratori che attraversano i secoli, fino ai viaggi di formazione degli imprenditori.

E tuttavia a viaggiare non sono solo le persone: anche le cose e le idee si spostano e si intrecciano, in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato.

In un itinerario in cinque tappe, che lega storia e cinema, il corso vuole fornire ai docenti gli strumenti affinché un tema, spesso banalizzato, possa essere vissuto e proposto con nuovi stimoli e prospettive durante le attività in classe.

Per raggiungere questo obiettivo, ognuna delle cinque lezioni storiche sarà affiancata da una selezione di film a cura del Cinema Beltrade. Infine, per supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico a fini didattici, sarà organizzato il laboratorio “In viaggio con Pigmalione – Il potere delle immagini in movimento”.

L’iscrizione al corso è gratuita ma obbligatoria. Si prega di scrivere a didattica2@fondazioneisec.it entro lunedì 13 febbraio 2023. Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams (consigliamo di collegarsi qualche minuto prima per eventuali prove tecniche).

Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.

Per il programma generale del corso clicca qui.

Appuntamento al 20 febbraio ore 16!

Vi aspettiamo.

Pirelli, un’italiana nel mondo: l’Argentina

In questi giorni si è concretata la partecipazione di un gruppo italiano alla costituzione di una società argentina, di cui ella avrà già forse visto l’annuncio…

Sono le prime righe di una lettera, inviata presso il numero 188 di Calle Esmeralda a Buenos Aires, che Alberto Pirelli scrive a Mauro Herlitzka, ingegnere. Copia della lettera, spedita in Argentina con il vapore “Indiana” del Lloyd Italiano, è conservata nell’Archivio di Fondazione Pirelli e dice molto sull’attenzione che oltre cento anni fa Pirelli aveva già per questo paese. È il 9 novembre 1911, Pirelli aggiorna il suo uomo di fiducia sugli sviluppi della società per la produzione e distribuzione di energia elettrica “Italo-Argentina”. Un passaggio che segna l’interesse dell’azienda all’espansione oltreoceano e su più fronti. A partire proprio dall’Argentina, ma non solo.
Gomma, prima di tutto, nelle sue varie declinazioni. Pneumatici ma anche, e prima ancora, cavi telegrafici ed elettrici. Tutto inizia con i collegamenti realizzati dagli anni Ottanta dell’Ottocento tra le isole italiane, poi si passa a quelli stesi sul fondo del Mar Rosso e poi dell’Atlantico, con i collegamenti, appunto, con il Sud America.
Pirelli arriva in Argentina nel 1898 con un agente commerciale. Il passo successivo è la partecipazione, nel 1910, all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires che prelude all’apertura di una filiale commerciale con sede nella capitale, in calle Esmeralda 940. La lettera di Alberto Pirelli a Mauro Herlitzka è di un anno dopo e, come si capisce leggendola, gli interessi dell’azienda si sono già estesi ben oltre la gomma.

Nel 1917 un altro passo: la casa madre dà vita alla Pirelli S.A. Platense che produce cavi elettrici e che avvia un’epoca di successive espansioni in Argentina. Nel 1919, alla periferia della capitale, viene costruito un nuovo stabilimento; nel 1921 l’acquisizione di una fabbrica già funzionante nella calle Costa Rica permette di incrementare e diversificare la gamma di prodotti Pirelli in gomma, poi realizzati a partire dal 1930 nello stabilimento “La Rosa” nel quartiere “portegno” di Mataderos. Breve sosta di poco più di un decennio e, nel 1948, Pirelli crea la Industrias Pirelli SAIC, a cui viene affidata la produzione di cavi, articoli in gomma e pneumatici. Ma l’espansione non si ferma ancora: nel 1950, la produzione di pneumatici passa nello stabilimento di Merlo creato dopo un accordo paritario con la US Rubber Company per la costituzione della COPLAN (Compañia Platense de Neumaticos), che dopo alcuni anni verrà interamente acquisita da Pirelli e che è ancora oggi in produzione.

Tutto avviene con la consueta attenzione alla qualità, anche dal punto di vista della comunicazione e di quello che, oggi, viene identificato come welfare. Ne è testimonianza Paginas Pirelli, la rivista mensile che dal 1955 e fino al 1975 ha avuto l’obiettivo di divulgare la cultura d’impresa della casa madre insieme alle notizie sull’attività degli stabilimenti e degli stessi dipendenti. In Paginas, quindi, oltre alle informazioni produttive, ci sono ad esempio quelle relative alle attività sportive del Centro social y deportivo, così come le notizie legate alla vita familiare dei dipendenti. All’interno della rivista oppure in copertina spiccano le foto scattate dai dipendenti nell’ambito dei concorsi fotografici che la rivista periodicamente lancia. Nel tempo, poi, vengono pubblicati articoli culturali alternati ad altri aziendali, cambiano il formato e la carta; compaiono anche i nomi del comitato di redazione.
Argentina e Pirelli: una storia lunga un secolo e più, e un racconto che continua anche oggi. Nel 2021 Pirelli ha celebrato i 111 anni di presenza nel Paese con l’inaugurazione di un nuovo reparto di produzione di pneumatici per moto e con un importante nuovo investimento economico. Un passo significativo che in un anno ha fatto crescere di 300 unità i dipendenti, che sono oggi circa 1.400. Aveva ragione Alberto Pirelli a scrivere già nel 1911 “confidiamo di avere agito bene”.

In questi giorni si è concretata la partecipazione di un gruppo italiano alla costituzione di una società argentina, di cui ella avrà già forse visto l’annuncio…

Sono le prime righe di una lettera, inviata presso il numero 188 di Calle Esmeralda a Buenos Aires, che Alberto Pirelli scrive a Mauro Herlitzka, ingegnere. Copia della lettera, spedita in Argentina con il vapore “Indiana” del Lloyd Italiano, è conservata nell’Archivio di Fondazione Pirelli e dice molto sull’attenzione che oltre cento anni fa Pirelli aveva già per questo paese. È il 9 novembre 1911, Pirelli aggiorna il suo uomo di fiducia sugli sviluppi della società per la produzione e distribuzione di energia elettrica “Italo-Argentina”. Un passaggio che segna l’interesse dell’azienda all’espansione oltreoceano e su più fronti. A partire proprio dall’Argentina, ma non solo.
Gomma, prima di tutto, nelle sue varie declinazioni. Pneumatici ma anche, e prima ancora, cavi telegrafici ed elettrici. Tutto inizia con i collegamenti realizzati dagli anni Ottanta dell’Ottocento tra le isole italiane, poi si passa a quelli stesi sul fondo del Mar Rosso e poi dell’Atlantico, con i collegamenti, appunto, con il Sud America.
Pirelli arriva in Argentina nel 1898 con un agente commerciale. Il passo successivo è la partecipazione, nel 1910, all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires che prelude all’apertura di una filiale commerciale con sede nella capitale, in calle Esmeralda 940. La lettera di Alberto Pirelli a Mauro Herlitzka è di un anno dopo e, come si capisce leggendola, gli interessi dell’azienda si sono già estesi ben oltre la gomma.

Nel 1917 un altro passo: la casa madre dà vita alla Pirelli S.A. Platense che produce cavi elettrici e che avvia un’epoca di successive espansioni in Argentina. Nel 1919, alla periferia della capitale, viene costruito un nuovo stabilimento; nel 1921 l’acquisizione di una fabbrica già funzionante nella calle Costa Rica permette di incrementare e diversificare la gamma di prodotti Pirelli in gomma, poi realizzati a partire dal 1930 nello stabilimento “La Rosa” nel quartiere “portegno” di Mataderos. Breve sosta di poco più di un decennio e, nel 1948, Pirelli crea la Industrias Pirelli SAIC, a cui viene affidata la produzione di cavi, articoli in gomma e pneumatici. Ma l’espansione non si ferma ancora: nel 1950, la produzione di pneumatici passa nello stabilimento di Merlo creato dopo un accordo paritario con la US Rubber Company per la costituzione della COPLAN (Compañia Platense de Neumaticos), che dopo alcuni anni verrà interamente acquisita da Pirelli e che è ancora oggi in produzione.

Tutto avviene con la consueta attenzione alla qualità, anche dal punto di vista della comunicazione e di quello che, oggi, viene identificato come welfare. Ne è testimonianza Paginas Pirelli, la rivista mensile che dal 1955 e fino al 1975 ha avuto l’obiettivo di divulgare la cultura d’impresa della casa madre insieme alle notizie sull’attività degli stabilimenti e degli stessi dipendenti. In Paginas, quindi, oltre alle informazioni produttive, ci sono ad esempio quelle relative alle attività sportive del Centro social y deportivo, così come le notizie legate alla vita familiare dei dipendenti. All’interno della rivista oppure in copertina spiccano le foto scattate dai dipendenti nell’ambito dei concorsi fotografici che la rivista periodicamente lancia. Nel tempo, poi, vengono pubblicati articoli culturali alternati ad altri aziendali, cambiano il formato e la carta; compaiono anche i nomi del comitato di redazione.
Argentina e Pirelli: una storia lunga un secolo e più, e un racconto che continua anche oggi. Nel 2021 Pirelli ha celebrato i 111 anni di presenza nel Paese con l’inaugurazione di un nuovo reparto di produzione di pneumatici per moto e con un importante nuovo investimento economico. Un passo significativo che in un anno ha fatto crescere di 300 unità i dipendenti, che sono oggi circa 1.400. Aveva ragione Alberto Pirelli a scrivere già nel 1911 “confidiamo di avere agito bene”.

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Suoni di cultura d’impresa

L’importanza fondamentale della storia orale per la comprensione dell’evoluzione industriale

Ascoltare e vedere. Osservare e capire. Strade diverse, oltre al leggere, che conducono comunque, e spesso con maggiore efficacia, alla comprensione delle vicende umane. Anche quelle delle fabbriche e degli uffici, così come nelle vite di lavoro. È il grande apporto alla storia che forniscono tutte le fonti orali. Che vanno, tuttavia, ben comprese e utilizzate. Leggere “Il lavoro tra fonti orali, sonore e musicali: lo stato dell’arte in Italia”, contributo di ricerca di Elisa Salvalaggio, può servire come guida di un percorso che deve essere compiuto da parte di chi della storia industriale vuole capire di più.

L’indagine parte da un assunto: la storia orale, con l’ascolto dei racconti delle persone, permette di indagare i fenomeni storici attraverso il punto di vista dei protagonisti, mettendo in primo piano la soggettività degli attori. Voci di vita vissuta, dunque. Punti di vista diversi circa fatti e luoghi. Impressioni differenti che, tutte insieme, compongono un quadro più fedele a quanto è accaduto (o accade). Suoni sotto forma di parole che possono fornire ciò che manca alla più precisa conoscenza di quanto accaduto. Cultura davvero orale, che si esprime attraverso racconti non scritti eppure importanti, che lasciano il segno. Racconti che, per i luoghi di lavoro, esprimono una importante cultura del produrre e d’impresa che, altrimenti, rischierebbe di andare persa.

Scrive Elisa Salvalaggio che il valore di questo metodo di indagine per la storia del lavoro – che appunto il suo contributo sintetizza -, permette di illuminare zone sfuggenti e di meglio comprendere dinamiche interne ai luoghi di lavoro e di produzione: il rapporto tra il lavorare e l’organizzarsi, la professionalità e il nesso con i saperi e la conoscenza, la cultura, l’identità, le dimensioni sociali e familiari, i diversi punti di vista generazionali e di genere.

Un modo non nuovo eppure innovativo di fare racconto storico che, per la cultura del produrre, può significare molto anche, e soprattutto, nell’epoca dei social network, così come dei nuovi strumenti di conoscenza a livello tecnico e culturale.

Il lavoro tra fonti orali, sonore e musicali: lo stato dell’arte in Italia

Salvalaggio Elisa, in LabOral: storia orale, lavoro e public history, 2022 – editpress

L’importanza fondamentale della storia orale per la comprensione dell’evoluzione industriale

Ascoltare e vedere. Osservare e capire. Strade diverse, oltre al leggere, che conducono comunque, e spesso con maggiore efficacia, alla comprensione delle vicende umane. Anche quelle delle fabbriche e degli uffici, così come nelle vite di lavoro. È il grande apporto alla storia che forniscono tutte le fonti orali. Che vanno, tuttavia, ben comprese e utilizzate. Leggere “Il lavoro tra fonti orali, sonore e musicali: lo stato dell’arte in Italia”, contributo di ricerca di Elisa Salvalaggio, può servire come guida di un percorso che deve essere compiuto da parte di chi della storia industriale vuole capire di più.

L’indagine parte da un assunto: la storia orale, con l’ascolto dei racconti delle persone, permette di indagare i fenomeni storici attraverso il punto di vista dei protagonisti, mettendo in primo piano la soggettività degli attori. Voci di vita vissuta, dunque. Punti di vista diversi circa fatti e luoghi. Impressioni differenti che, tutte insieme, compongono un quadro più fedele a quanto è accaduto (o accade). Suoni sotto forma di parole che possono fornire ciò che manca alla più precisa conoscenza di quanto accaduto. Cultura davvero orale, che si esprime attraverso racconti non scritti eppure importanti, che lasciano il segno. Racconti che, per i luoghi di lavoro, esprimono una importante cultura del produrre e d’impresa che, altrimenti, rischierebbe di andare persa.

Scrive Elisa Salvalaggio che il valore di questo metodo di indagine per la storia del lavoro – che appunto il suo contributo sintetizza -, permette di illuminare zone sfuggenti e di meglio comprendere dinamiche interne ai luoghi di lavoro e di produzione: il rapporto tra il lavorare e l’organizzarsi, la professionalità e il nesso con i saperi e la conoscenza, la cultura, l’identità, le dimensioni sociali e familiari, i diversi punti di vista generazionali e di genere.

Un modo non nuovo eppure innovativo di fare racconto storico che, per la cultura del produrre, può significare molto anche, e soprattutto, nell’epoca dei social network, così come dei nuovi strumenti di conoscenza a livello tecnico e culturale.

Il lavoro tra fonti orali, sonore e musicali: lo stato dell’arte in Italia

Salvalaggio Elisa, in LabOral: storia orale, lavoro e public history, 2022 – editpress

Governare con merito

In un libro alcune delle migliori esperienze di buona gestione d’impresa

Merito prima di tutto. Merito per davvero, individuato con attenzione e correttezza. Metodo da applicare a tutti i livelli d’impresa, e che deve essere ben compreso anche per evitare distorsioni che finiscono per stravolgere il buono per dare spazio a quanto proprio con il merito ha poco a che fare.

E’ attorno a questi concetti che ragiona Silvia Stefini con il suo libro “La governance meritocratica. Storie di talento e d’impresa sostenibile” pubblicato da poche settimane.

L’autrice si pone alcune domande di partenza. Come si fa, per esempio, a distinguere una buona governance da una cattiva governance? Oppure, quali sono le qualità e i requisiti per un consiglio di amministrazione all’altezza dei suoi compiti? Oppure ancora: come fare a liberare per davvero tutto il potenziale positivo di chi guida un’impresa?

Partendo dalla raccolta di testimonianze del Forum della Meritocrazia, il libro cerca di dare risposte concrete a questi interrogativi prendendo come esempi persone ed esperienze dal tessuto economico italiano e quindi dalle aziende familiari ma senza trascurare anche presenze importanti a livello internazionale. Scorrono così nelle pagine curate da Stefini le storie di imprenditori e manager di Deloitte, Santa Margherita Gruppo Vinicolo, Zambon e molte altre società. Una serie di testimonianze ragionate che mettono in luce gli elementi che determinano per davvero una gestione d’impresa meritocratica. Elementi che vanno dalla effettiva volontà di perseguire un obiettivo condiviso, al coraggio di separare gli obiettivi della proprietà da quelli dell’azienda, dalla managerializzazione reale della gestione ai metodi di raccolta di capitali, dalla capacità effettiva di attirare i talenti all’attenzione reale per l’ambiente e per il benessere d’impresa. Coraggio, sostenibilità e resilienza, appaiono così essere i veri elementi di competitività per un’impresa che non si voglia basare solo sul  conteggio delle entrate e delle uscite. È tutto questo che racconta Silvia Stefini nella sua raccolta.

La governance meritocratica. Storie di talento e d’impresa sostenibile

Silvia Stefini (a cura di)

Guerini, 2023

In un libro alcune delle migliori esperienze di buona gestione d’impresa

Merito prima di tutto. Merito per davvero, individuato con attenzione e correttezza. Metodo da applicare a tutti i livelli d’impresa, e che deve essere ben compreso anche per evitare distorsioni che finiscono per stravolgere il buono per dare spazio a quanto proprio con il merito ha poco a che fare.

E’ attorno a questi concetti che ragiona Silvia Stefini con il suo libro “La governance meritocratica. Storie di talento e d’impresa sostenibile” pubblicato da poche settimane.

L’autrice si pone alcune domande di partenza. Come si fa, per esempio, a distinguere una buona governance da una cattiva governance? Oppure, quali sono le qualità e i requisiti per un consiglio di amministrazione all’altezza dei suoi compiti? Oppure ancora: come fare a liberare per davvero tutto il potenziale positivo di chi guida un’impresa?

Partendo dalla raccolta di testimonianze del Forum della Meritocrazia, il libro cerca di dare risposte concrete a questi interrogativi prendendo come esempi persone ed esperienze dal tessuto economico italiano e quindi dalle aziende familiari ma senza trascurare anche presenze importanti a livello internazionale. Scorrono così nelle pagine curate da Stefini le storie di imprenditori e manager di Deloitte, Santa Margherita Gruppo Vinicolo, Zambon e molte altre società. Una serie di testimonianze ragionate che mettono in luce gli elementi che determinano per davvero una gestione d’impresa meritocratica. Elementi che vanno dalla effettiva volontà di perseguire un obiettivo condiviso, al coraggio di separare gli obiettivi della proprietà da quelli dell’azienda, dalla managerializzazione reale della gestione ai metodi di raccolta di capitali, dalla capacità effettiva di attirare i talenti all’attenzione reale per l’ambiente e per il benessere d’impresa. Coraggio, sostenibilità e resilienza, appaiono così essere i veri elementi di competitività per un’impresa che non si voglia basare solo sul  conteggio delle entrate e delle uscite. È tutto questo che racconta Silvia Stefini nella sua raccolta.

La governance meritocratica. Storie di talento e d’impresa sostenibile

Silvia Stefini (a cura di)

Guerini, 2023

Ripresa nelle mani delle medie imprese. Serve una politica industriale competitiva  

Vale la pena leggerli, i quotidiani, su carta e on line. Con attenzione e perseveranza. Dedicando tempo a fatti e dati, inchieste e commenti documentati e competenti. Per riuscire ad avere un ritratto serio e attendibile delle reali condizioni economiche e sociali del nostro paese. Ed essere, così, opinione pubblica capace di giudizi critici e consapevoli: la sostanza della democrazia.

Come sta, dunque, l’Italia, in queste prime settimane del 2023? “Svolta in vista, le imprese ripartono”, scrive “IlSole24Ore” (22 gennaio), spiegando che “la caduta dei prezzi del gas rimette in moto le fabbriche” e che “l’economia va meglio delle attese”, anche se “è presto per festeggiare”, perché “l’inflazione resta alta e il rialzo dei tassi penalizza gli investimenti”, mentre “regge il lavoro” con 280mila nuovi posti occupati da gennaio ‘22 (secondo i dati del Centro Studi Confindustria). Per il ‘23 si prevede una crescita dello 0,6%. Poco, certo. Ma comunque in positivo.

Il 2022, sostiene la Banca d’Italia, è andato meglio del previsto, con una crescita del Pil di quasi il 4%, il che porta la crescita cumulata, omunità, tra ‘21 e ‘22, quasi all’11%, roba che non si vedeva dai tempi del “boom” economico degli anni Cinquanta e Sessanta e comunque al meglio nei paesi del G7 dopo la crisi del Covid. L’andamento della Borsa conferma la crescita: gli utili delle imprese quotate in Piazza Affari, sempre nel ‘22, sono andati su del 37%. Dunque, “la recessione è lontana anche per i listini”, commenta “IlSole24Ore” (22 gennaio).

Dopo tanto parlare di recessione in arrivo, con timori diffusi per una caduta dell’economia, europea e globale (caro-energia, inflazione, guerra in Ucraina, rallentamento degli scambi internazionali), sia i grandi protagonisti economici riuniti la scorsa settimana a Davos e i responsabili del Fondo Monetario hanno usato toni più rassicuranti, pur confermando fragilità e preoccupazioni (per il difficile andamento della Cina in caduta demografica e scarsa crescita economica, per esempio; e per i timori d’aggravamento delle tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente). Niente catastrofismo, forse addirittura niente recessione ma, soprattutto in Europa, un semplice “rallentamento”.

Staremo a vedere, ben consapevoli comunque degli effetti degli atteggiamenti psicologici e delle “aspettative” sugli andamenti economici reali: insistere sulle crisi in arrivo le agevola, con il meccanismo delle profezie che si auto-avverano, mentre battere e ribattere sugli elementi di “fiducia” rafforza il pur cauto ottimismo nella ripresa e stimola i consumi e gli investimenti.

“Il Foglio” ne sta facendo oggetto di acuta campagna, leggendo bene anche gli spunti che vengono da autorevoli organi di informazione internazionali, parlando di una “agenda anti catastrofista” (21 gennaio) e facendo pressioni sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché, smentendo i temi cari alla sua propaganda elettorale, sia adesso saldamente legata all’Europa e capace di fare scelte produttive, competitive, non stataliste né protezioniste, mettendo le imprese italiane in condizione di crescere, innovare, lavorare meglio. A cominciare dalle grandi aziende in cui lo Stato è in maggioranza (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Ferrovie, Fincantieri, etc.) e che sono cardini importanti di ampie filiere produttive di spessore internazionale: vanno governate bene, con scelte di competenza ed efficienza e certamente non lottizzate secondo criteri di potere, a discapito della loro stessa competitività.

Ecco il punto: il dinamismo delle imprese. Sono state, quelle manifatturiere soprattutto, il motore della straordinaria ripresa economica testimoniata da quel +11% del Pil di cui abbiamo detto, grazie al fatto che, nel corso di tutto il lungo periodo che va dalla Grande Crisi del 2008 all’inizio del Covid, hanno innovato, investito, esportato, creato stabilimenti e fatto acquisizioni all’estero, usando bene anche gli stimoli fiscali decisi da governi lungimiranti per agevolare le trasformazioni digitali di Industria 4.0 (e ostacolati da governi incompetenti come, soprattutto, la compagine “giallo-verde” guidata da Giuseppe Conte).

Le imprese manifatturiere, in altri termini, hanno recuperato produttività e competitività e hanno saputo fare leva sulle caratteristiche di fondo della nostra industria: l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”. Qualità, design, prodotti “su misura” (dall’abbigliamento alla nautica, dalla robotica alla costruzione di impianti produttivi e macchine utensili, dalla chimica alla farmaceutica), relazione stretta tra high tech e bellezza, originalità nel legame tra radici storiche inimitabili e senso del futuro, sofisticata adattabilità ai mutamenti di esigenze e gusti nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.

Lo conferma il Rapporto Mediobanca sulle “Mid Cap”, le imprese a media capitalizzazione, il cosiddetto “quarto capitalismo”, che hanno avuto nel ‘22 “performances del 20% superiori a quelle delle corrispondenti aziende francesi e tedesche” e che si prevede abbiano nel ‘23 “una crescita aggregata degli utili del 3% a fronte di un -9% delle grandi”. “Le medie imprese italiane al top Ue per produttività”, titola “IlSole24Ore” (19 gennaio). “Medie imprese resilienti, spingeranno la crescita”, conferma il “Corriere della Sera”.

Sono medie imprese impegnate, proprio in questa stagione, nella difficile twin transition, digitale e ambientale. E hanno bisogno di scelte di politica industriale, italiane ed europee (in chiave di sicurezza, energia, materie prime, componentistica high tech: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) che ne rafforzino la competitività, anche rispetto alle altre imprese europee. In mercati selettivi, devono poter continuare a investire su innovazione e sostenibilità ambientale e sociale, stare agganciate alle migliori filiere produttive (torna dunque alla ribalta il ruolo delle grandi imprese come capifila), crescere ancora sui mercati europei e internazionali.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismo, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità.

(Foto: Getty images)

Vale la pena leggerli, i quotidiani, su carta e on line. Con attenzione e perseveranza. Dedicando tempo a fatti e dati, inchieste e commenti documentati e competenti. Per riuscire ad avere un ritratto serio e attendibile delle reali condizioni economiche e sociali del nostro paese. Ed essere, così, opinione pubblica capace di giudizi critici e consapevoli: la sostanza della democrazia.

Come sta, dunque, l’Italia, in queste prime settimane del 2023? “Svolta in vista, le imprese ripartono”, scrive “IlSole24Ore” (22 gennaio), spiegando che “la caduta dei prezzi del gas rimette in moto le fabbriche” e che “l’economia va meglio delle attese”, anche se “è presto per festeggiare”, perché “l’inflazione resta alta e il rialzo dei tassi penalizza gli investimenti”, mentre “regge il lavoro” con 280mila nuovi posti occupati da gennaio ‘22 (secondo i dati del Centro Studi Confindustria). Per il ‘23 si prevede una crescita dello 0,6%. Poco, certo. Ma comunque in positivo.

Il 2022, sostiene la Banca d’Italia, è andato meglio del previsto, con una crescita del Pil di quasi il 4%, il che porta la crescita cumulata, omunità, tra ‘21 e ‘22, quasi all’11%, roba che non si vedeva dai tempi del “boom” economico degli anni Cinquanta e Sessanta e comunque al meglio nei paesi del G7 dopo la crisi del Covid. L’andamento della Borsa conferma la crescita: gli utili delle imprese quotate in Piazza Affari, sempre nel ‘22, sono andati su del 37%. Dunque, “la recessione è lontana anche per i listini”, commenta “IlSole24Ore” (22 gennaio).

Dopo tanto parlare di recessione in arrivo, con timori diffusi per una caduta dell’economia, europea e globale (caro-energia, inflazione, guerra in Ucraina, rallentamento degli scambi internazionali), sia i grandi protagonisti economici riuniti la scorsa settimana a Davos e i responsabili del Fondo Monetario hanno usato toni più rassicuranti, pur confermando fragilità e preoccupazioni (per il difficile andamento della Cina in caduta demografica e scarsa crescita economica, per esempio; e per i timori d’aggravamento delle tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente). Niente catastrofismo, forse addirittura niente recessione ma, soprattutto in Europa, un semplice “rallentamento”.

Staremo a vedere, ben consapevoli comunque degli effetti degli atteggiamenti psicologici e delle “aspettative” sugli andamenti economici reali: insistere sulle crisi in arrivo le agevola, con il meccanismo delle profezie che si auto-avverano, mentre battere e ribattere sugli elementi di “fiducia” rafforza il pur cauto ottimismo nella ripresa e stimola i consumi e gli investimenti.

“Il Foglio” ne sta facendo oggetto di acuta campagna, leggendo bene anche gli spunti che vengono da autorevoli organi di informazione internazionali, parlando di una “agenda anti catastrofista” (21 gennaio) e facendo pressioni sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché, smentendo i temi cari alla sua propaganda elettorale, sia adesso saldamente legata all’Europa e capace di fare scelte produttive, competitive, non stataliste né protezioniste, mettendo le imprese italiane in condizione di crescere, innovare, lavorare meglio. A cominciare dalle grandi aziende in cui lo Stato è in maggioranza (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Ferrovie, Fincantieri, etc.) e che sono cardini importanti di ampie filiere produttive di spessore internazionale: vanno governate bene, con scelte di competenza ed efficienza e certamente non lottizzate secondo criteri di potere, a discapito della loro stessa competitività.

Ecco il punto: il dinamismo delle imprese. Sono state, quelle manifatturiere soprattutto, il motore della straordinaria ripresa economica testimoniata da quel +11% del Pil di cui abbiamo detto, grazie al fatto che, nel corso di tutto il lungo periodo che va dalla Grande Crisi del 2008 all’inizio del Covid, hanno innovato, investito, esportato, creato stabilimenti e fatto acquisizioni all’estero, usando bene anche gli stimoli fiscali decisi da governi lungimiranti per agevolare le trasformazioni digitali di Industria 4.0 (e ostacolati da governi incompetenti come, soprattutto, la compagine “giallo-verde” guidata da Giuseppe Conte).

Le imprese manifatturiere, in altri termini, hanno recuperato produttività e competitività e hanno saputo fare leva sulle caratteristiche di fondo della nostra industria: l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”. Qualità, design, prodotti “su misura” (dall’abbigliamento alla nautica, dalla robotica alla costruzione di impianti produttivi e macchine utensili, dalla chimica alla farmaceutica), relazione stretta tra high tech e bellezza, originalità nel legame tra radici storiche inimitabili e senso del futuro, sofisticata adattabilità ai mutamenti di esigenze e gusti nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.

Lo conferma il Rapporto Mediobanca sulle “Mid Cap”, le imprese a media capitalizzazione, il cosiddetto “quarto capitalismo”, che hanno avuto nel ‘22 “performances del 20% superiori a quelle delle corrispondenti aziende francesi e tedesche” e che si prevede abbiano nel ‘23 “una crescita aggregata degli utili del 3% a fronte di un -9% delle grandi”. “Le medie imprese italiane al top Ue per produttività”, titola “IlSole24Ore” (19 gennaio). “Medie imprese resilienti, spingeranno la crescita”, conferma il “Corriere della Sera”.

Sono medie imprese impegnate, proprio in questa stagione, nella difficile twin transition, digitale e ambientale. E hanno bisogno di scelte di politica industriale, italiane ed europee (in chiave di sicurezza, energia, materie prime, componentistica high tech: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) che ne rafforzino la competitività, anche rispetto alle altre imprese europee. In mercati selettivi, devono poter continuare a investire su innovazione e sostenibilità ambientale e sociale, stare agganciate alle migliori filiere produttive (torna dunque alla ribalta il ruolo delle grandi imprese come capifila), crescere ancora sui mercati europei e internazionali.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismo, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità.

(Foto: Getty images)

Pirelli e Fiat, oltre un secolo di tecnica e passione

È una delle foto-icona del Novecento industriale italiano: Alberto Pirelli, Vittorio Valletta, Giuseppe Bianchi e, sorridente a bordo di un’utilitaria bianca, Gianni Agnelli. Testimoni d’eccezione per il lancio della “Bianchina”, frutto della collaborazione tra Fiat e Pirelli. E tappa di una storia comune tra le due aziende che inizia ai primi dello scorso secolo e va avanti tutt’oggi con il Gruppo Stellantis.

Pirelli e Fiat, dunque, ovvero maestria industriale e manifatturiera applicate all’auto in tutte le sue declinazioni. Perché la storica collaborazione tra le due aziende non si è tradotta esclusivamente in una serie importante di pneumatici forniti dall’azienda della “P lunga” alla casa automobilistica torinese.

Tutto inizia dalle corse e dalle vittorie che Fiat conquista con le sue auto gommate Pirelli. È il caso, per esempio, degli “Pneus Pirelli” montati sulla vettura Fiat che nel 1913, con Felice Nazzaro, si aggiudica l’edizione n. 8 della Targa Florio; oppure del Gran Premio d’Italia Vetturette che il 3 settembre 1922 va alla Fiat 1500 guidata da Carlo Salamano. Corse, dunque, in tutte le loro declinazioni. Come, per esempio, i rally. L’esordio è nel 1970 nel Campionato Italiano con Fiat 124 Sport Abarth di Paganelli-Russo; negli anni successivi è un elenco senza soluzione di continuità di auto che montano pneumatici Pirelli: l’equipaggio Pinto-Macaluso nel 1972 vince il Campionato Europeo Rally; dal ’73 al ’75 è la volta di altri equipaggi, spesso vittoriosi come per due volte nel rally del Portogallo. Tutte le auto corrono su “Pirelli CN36”: un mito. Nella seconda metà del decennio, è la volta della Fiat 131 Abarth Rally e di un altro Pirelli, il “P7”. Anche in questo caso è una sequenza di equipaggi e di vittorie: nel 1977 con le vetture di Markku Alén, Jean-Claude Andruet, Fulvio Bacchelli, Michèle Mouton, Timo Salonen; nel 1978 con la squadra Fiat che si arricchisce di Sandro Munari e Walter Röhrl. A chiudere il decennio, nel 1980, arriva poi il terzo titolo costruttori per le Fiat 131 di Rohrl-Geistdörfer.

Corse, quindi. E vittorie. E sviluppi industriali che dai circuiti passano alle auto di tutti i giorni, nella più autentica tradizione Pirelli che unisce sempre ricerca per le competizioni con le sue applicazioni al resto della produzione. È il caso del “Cinturato CN54” direttamente derivato proprio dall’esperienza dei rally e che trasferisce le caratteristiche dei pneumatici ad alte prestazioni anche per in quelli che montano su vetture medio-piccole come, ad esempio, la Mini, la A 112, la Fiat 127 e la Fiat 500. E prima ancora la “Topolino”: passaggi indimenticabili della mobilità italiana. La “Topolino” viaggia da quando è nata, nel 1936, con pneumatici “Pirelli Superflex Stella Bianca” misura 4.25-15. Mentre quando a metà degli anni Cinquanta Fiat decide di chiedere a Dante Giacosa di ideare una nuova utilitaria, i risultati – la Fiat 600 e la Nuova 500 -, corrono su “Pirelli Rolle 5.20-12”. E così sarà per i successivi modelli di Fiat, tutti equipaggiati con pneumatici Pirelli che prendono di volta in volta il nome dei più famosi passi di montagna: Cisa, Rolle, Sempione, Stelvio, solo per ricordarne alcuni.

Tra le due aziende una collaborazione lunga oltre cento anni. Con risvolti che toccano anche aspetti industriali e imprenditoriali strettamente connessi alla storia nazionale e internazionale. Negli anni Sessanta Pirelli e Fiat costituiscono, insieme ad Agip e Italcementi, il consorzio aziendale SISI (Società Iniziative Strade Italiane), nato per seguire l’interesse comune legato alla viabilità automobilistica sull’onda della realizzazione dell’Autostrada del Sole. Sempre negli anni Sessanta, ancora Pirelli investe nei paesi dell’est Europa a seguito dell’accordo che Fiat sottoscrive per la realizzazione di uno stabilimento in Russia. E dieci anni prima circa le due aziende, insieme a Edoardo Bianchi, creano Autobianchi: una scelta che rientra nella più ampia strategia di partecipare alla costituzione di società che possano poi essere buoni clienti. E che dà vita a quella “Bianchina” dalla quale spunta il volto sicuro e sorridente dell’Avvocato. Che oggi ricordiamo, a vent’anni dalla sua scomparsa.

È una delle foto-icona del Novecento industriale italiano: Alberto Pirelli, Vittorio Valletta, Giuseppe Bianchi e, sorridente a bordo di un’utilitaria bianca, Gianni Agnelli. Testimoni d’eccezione per il lancio della “Bianchina”, frutto della collaborazione tra Fiat e Pirelli. E tappa di una storia comune tra le due aziende che inizia ai primi dello scorso secolo e va avanti tutt’oggi con il Gruppo Stellantis.

Pirelli e Fiat, dunque, ovvero maestria industriale e manifatturiera applicate all’auto in tutte le sue declinazioni. Perché la storica collaborazione tra le due aziende non si è tradotta esclusivamente in una serie importante di pneumatici forniti dall’azienda della “P lunga” alla casa automobilistica torinese.

Tutto inizia dalle corse e dalle vittorie che Fiat conquista con le sue auto gommate Pirelli. È il caso, per esempio, degli “Pneus Pirelli” montati sulla vettura Fiat che nel 1913, con Felice Nazzaro, si aggiudica l’edizione n. 8 della Targa Florio; oppure del Gran Premio d’Italia Vetturette che il 3 settembre 1922 va alla Fiat 1500 guidata da Carlo Salamano. Corse, dunque, in tutte le loro declinazioni. Come, per esempio, i rally. L’esordio è nel 1970 nel Campionato Italiano con Fiat 124 Sport Abarth di Paganelli-Russo; negli anni successivi è un elenco senza soluzione di continuità di auto che montano pneumatici Pirelli: l’equipaggio Pinto-Macaluso nel 1972 vince il Campionato Europeo Rally; dal ’73 al ’75 è la volta di altri equipaggi, spesso vittoriosi come per due volte nel rally del Portogallo. Tutte le auto corrono su “Pirelli CN36”: un mito. Nella seconda metà del decennio, è la volta della Fiat 131 Abarth Rally e di un altro Pirelli, il “P7”. Anche in questo caso è una sequenza di equipaggi e di vittorie: nel 1977 con le vetture di Markku Alén, Jean-Claude Andruet, Fulvio Bacchelli, Michèle Mouton, Timo Salonen; nel 1978 con la squadra Fiat che si arricchisce di Sandro Munari e Walter Röhrl. A chiudere il decennio, nel 1980, arriva poi il terzo titolo costruttori per le Fiat 131 di Rohrl-Geistdörfer.

Corse, quindi. E vittorie. E sviluppi industriali che dai circuiti passano alle auto di tutti i giorni, nella più autentica tradizione Pirelli che unisce sempre ricerca per le competizioni con le sue applicazioni al resto della produzione. È il caso del “Cinturato CN54” direttamente derivato proprio dall’esperienza dei rally e che trasferisce le caratteristiche dei pneumatici ad alte prestazioni anche per in quelli che montano su vetture medio-piccole come, ad esempio, la Mini, la A 112, la Fiat 127 e la Fiat 500. E prima ancora la “Topolino”: passaggi indimenticabili della mobilità italiana. La “Topolino” viaggia da quando è nata, nel 1936, con pneumatici “Pirelli Superflex Stella Bianca” misura 4.25-15. Mentre quando a metà degli anni Cinquanta Fiat decide di chiedere a Dante Giacosa di ideare una nuova utilitaria, i risultati – la Fiat 600 e la Nuova 500 -, corrono su “Pirelli Rolle 5.20-12”. E così sarà per i successivi modelli di Fiat, tutti equipaggiati con pneumatici Pirelli che prendono di volta in volta il nome dei più famosi passi di montagna: Cisa, Rolle, Sempione, Stelvio, solo per ricordarne alcuni.

Tra le due aziende una collaborazione lunga oltre cento anni. Con risvolti che toccano anche aspetti industriali e imprenditoriali strettamente connessi alla storia nazionale e internazionale. Negli anni Sessanta Pirelli e Fiat costituiscono, insieme ad Agip e Italcementi, il consorzio aziendale SISI (Società Iniziative Strade Italiane), nato per seguire l’interesse comune legato alla viabilità automobilistica sull’onda della realizzazione dell’Autostrada del Sole. Sempre negli anni Sessanta, ancora Pirelli investe nei paesi dell’est Europa a seguito dell’accordo che Fiat sottoscrive per la realizzazione di uno stabilimento in Russia. E dieci anni prima circa le due aziende, insieme a Edoardo Bianchi, creano Autobianchi: una scelta che rientra nella più ampia strategia di partecipare alla costituzione di società che possano poi essere buoni clienti. E che dà vita a quella “Bianchina” dalla quale spunta il volto sicuro e sorridente dell’Avvocato. Che oggi ricordiamo, a vent’anni dalla sua scomparsa.

Resilienti e quindi resistenti

Le esperienze di alcuni imprese italiane negli ultimi tempi come esempi di resilienza e capacità di ripresa

Flessibilità, ovvero resilienza, capacità di adattamento e di risposta, azione consapevole e accorta. Tutte caratteristiche delle imprese che vogliono avere l’ambizione non solo di sopravvivere ma anche di crescere in un ambiente complesso come quello odierno. Attorno a questi temi, e in particolare proprio alla resilienza, ragiona “Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita nel tempo” libro di poco più di 150 pagine scritto a sei mani da Marco Moretti , Davide Arpili e Federico Severi e pubblicato da poco.

Il libro parte da una constatazione, se prima del Covid-19, della guerra Russia-Ucraina e delle crisi energetiche l’imperativo delle imprese era quello della sostenibilità, adesso le organizzazioni della produzione devono fondare la loro azione sul principio della resilienza. In altri termini, pandemia prima, guerra e crisi energetica e delle materie prime dopo, hanno  imposto alle imprese di ripensare l’utilizzo delle leve di gestione tradizionali, di accelerare il percorso di innovazione ma soprattutto di adottare un nuovo assetto mentale e gestionale improntato al cambiamento.

Il libro è composto da due parti ben distinte e collegate. Prima di tutto, anche in base alle analisi dei risultati aziendali condotta da Boston Consulting Group, viene  evidenziato come a garantire resilienza e maggior velocità di recupero sia stata, anche nei frangenti più difficili, la capacità di “giocare d’anticipo” precorrendo gli eventi ma soprattutto preparando l’intera organizzazione ad affrontare un’eventuale crisi. Essere, in altre parole, pronti a tutto. Sempre.

La seconda parte, invece, è composta da una serie di interviste a responsabili di grandi aziende che raccontano il loro percorso verso quella resilienza che ha salvato il destino dell’impresa. Passano quindi sotto gli occhi di chi legge le storie di Alpitour World, Coop Alleanza 3.0, Hitachi, Recordati, Valentino e altri ancora.

Il libro di Moretti, Arpili e Severi è una bella lettura per chi voglia conoscere di più e meglio dell’evoluzione, positiva, dell’industria italiana negli ultimi tempi.

Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita nel tempo

Marco Moretti , Davide Arpili , Federico Severi

EGEA, 2023

Le esperienze di alcuni imprese italiane negli ultimi tempi come esempi di resilienza e capacità di ripresa

Flessibilità, ovvero resilienza, capacità di adattamento e di risposta, azione consapevole e accorta. Tutte caratteristiche delle imprese che vogliono avere l’ambizione non solo di sopravvivere ma anche di crescere in un ambiente complesso come quello odierno. Attorno a questi temi, e in particolare proprio alla resilienza, ragiona “Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita nel tempo” libro di poco più di 150 pagine scritto a sei mani da Marco Moretti , Davide Arpili e Federico Severi e pubblicato da poco.

Il libro parte da una constatazione, se prima del Covid-19, della guerra Russia-Ucraina e delle crisi energetiche l’imperativo delle imprese era quello della sostenibilità, adesso le organizzazioni della produzione devono fondare la loro azione sul principio della resilienza. In altri termini, pandemia prima, guerra e crisi energetica e delle materie prime dopo, hanno  imposto alle imprese di ripensare l’utilizzo delle leve di gestione tradizionali, di accelerare il percorso di innovazione ma soprattutto di adottare un nuovo assetto mentale e gestionale improntato al cambiamento.

Il libro è composto da due parti ben distinte e collegate. Prima di tutto, anche in base alle analisi dei risultati aziendali condotta da Boston Consulting Group, viene  evidenziato come a garantire resilienza e maggior velocità di recupero sia stata, anche nei frangenti più difficili, la capacità di “giocare d’anticipo” precorrendo gli eventi ma soprattutto preparando l’intera organizzazione ad affrontare un’eventuale crisi. Essere, in altre parole, pronti a tutto. Sempre.

La seconda parte, invece, è composta da una serie di interviste a responsabili di grandi aziende che raccontano il loro percorso verso quella resilienza che ha salvato il destino dell’impresa. Passano quindi sotto gli occhi di chi legge le storie di Alpitour World, Coop Alleanza 3.0, Hitachi, Recordati, Valentino e altri ancora.

Il libro di Moretti, Arpili e Severi è una bella lettura per chi voglia conoscere di più e meglio dell’evoluzione, positiva, dell’industria italiana negli ultimi tempi.

Giocare d’anticipo. Le aziende italiane e il vantaggio di una resilienza costruita nel tempo

Marco Moretti , Davide Arpili , Federico Severi

EGEA, 2023

Quali luoghi di lavoro?

Una ricerca di Nomisma analizza la realtà degli uffici e ne delinea un possibile, migliore, futuro

Luoghi di lavoro. Fabbriche e uffici, capannoni e piazzali. Luoghi di fatica e di impegno. Sempre. Luoghi di vita, anche. Luoghi che possono, e devono, essere migliorati. Iniziando dalla loro conoscenza accurata. Ed è proprio questo che fa “I nuovi luoghi di lavoro”, ricerca realizzata da Nomisma per valutare gli elementi chiave che contraddistinguono il luogo di lavoro ideale per il benessere psicofisico dei dipendenti. Un’indagine che è un inizio, ma che comunque ha coinvolto, attraverso interviste in profondità i responsabili delle risorse umane di 10 imprese e circa 500 lavoratori collocati nell’area Metropolitana di Milano. Ricerca che dà il segno di una cultura del produrre che continua ad evolvere. E che assume tra le sue linee guida non solo il benessere delle persone ma anche la tutela e l’attenzione all’ambiente.

La ricerca sintetizza questo nuovo approccio in un concetto: l’ufficio biofilico in grado cioè di consentire l’integrazione dell’uomo con l’ambiente circostante e in particolare con la natura. Elemento considerato fondamentale per la quasi totalità dei lavoratori intervistati; uno spazio capace di conciliare produttività e benessere, salute ed efficienza. Qualcosa di pressoché nuovo, anche se alcune realizzazioni esistono già, e che deve comunque fare i conti con costi e margini, retaggi del passato ed oggettive condizioni di produzione. Una prospettiva, comunque, che vale la pena perseguire.

La ricerca, proprio per questo, delinea da un lato possibili sviluppi è, dall’altro, la situazione reale. In particolare Nomisma prosegue analizzando la relazione che le persone hanno con il proprio luogo di lavoro e quanto questo sia orientato al futuro. Soltanto il 37% dei lavoratori, per esempio, si sente ispirato entrando in ufficio e solo il 17% prova felicità, mentre il 30% dei rispondenti ha dichiarato di provare ansia e il 38% noia. Molti altri dati, poi, indicano quanto lavoro vi sia da fare ancora, ma anche le linee guida per la scelta della sede aziendale ideale, linee materiali – legate per esempio alla struttura e all’organizzazione spaziale -, ma anche ideali e collegate alle persone oltre che all’immagine dell’impresa.

La ricerca condotta da Nomisma non esaurisce certamente il tema (basta pensare agli ambienti di fabbrica e officina per capire quanta strada occorra ancora fare), ma delinea un percorso. Che va certamente esplorato.

“Progetto Welcome. I nuovi luoghi di lavoro” 

AA.VV.

Nomisma, 2022

Una ricerca di Nomisma analizza la realtà degli uffici e ne delinea un possibile, migliore, futuro

Luoghi di lavoro. Fabbriche e uffici, capannoni e piazzali. Luoghi di fatica e di impegno. Sempre. Luoghi di vita, anche. Luoghi che possono, e devono, essere migliorati. Iniziando dalla loro conoscenza accurata. Ed è proprio questo che fa “I nuovi luoghi di lavoro”, ricerca realizzata da Nomisma per valutare gli elementi chiave che contraddistinguono il luogo di lavoro ideale per il benessere psicofisico dei dipendenti. Un’indagine che è un inizio, ma che comunque ha coinvolto, attraverso interviste in profondità i responsabili delle risorse umane di 10 imprese e circa 500 lavoratori collocati nell’area Metropolitana di Milano. Ricerca che dà il segno di una cultura del produrre che continua ad evolvere. E che assume tra le sue linee guida non solo il benessere delle persone ma anche la tutela e l’attenzione all’ambiente.

La ricerca sintetizza questo nuovo approccio in un concetto: l’ufficio biofilico in grado cioè di consentire l’integrazione dell’uomo con l’ambiente circostante e in particolare con la natura. Elemento considerato fondamentale per la quasi totalità dei lavoratori intervistati; uno spazio capace di conciliare produttività e benessere, salute ed efficienza. Qualcosa di pressoché nuovo, anche se alcune realizzazioni esistono già, e che deve comunque fare i conti con costi e margini, retaggi del passato ed oggettive condizioni di produzione. Una prospettiva, comunque, che vale la pena perseguire.

La ricerca, proprio per questo, delinea da un lato possibili sviluppi è, dall’altro, la situazione reale. In particolare Nomisma prosegue analizzando la relazione che le persone hanno con il proprio luogo di lavoro e quanto questo sia orientato al futuro. Soltanto il 37% dei lavoratori, per esempio, si sente ispirato entrando in ufficio e solo il 17% prova felicità, mentre il 30% dei rispondenti ha dichiarato di provare ansia e il 38% noia. Molti altri dati, poi, indicano quanto lavoro vi sia da fare ancora, ma anche le linee guida per la scelta della sede aziendale ideale, linee materiali – legate per esempio alla struttura e all’organizzazione spaziale -, ma anche ideali e collegate alle persone oltre che all’immagine dell’impresa.

La ricerca condotta da Nomisma non esaurisce certamente il tema (basta pensare agli ambienti di fabbrica e officina per capire quanta strada occorra ancora fare), ma delinea un percorso. Che va certamente esplorato.

“Progetto Welcome. I nuovi luoghi di lavoro” 

AA.VV.

Nomisma, 2022

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