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La scelta di un Fondo sovrano Ue per evitare i danni dei protezionismi

“Attenzione ai protezionismi. La storia insegna che non è mai una buona idea”. Raghuram Rajan è uno dei più importanti economisti del mondo (ex Governatore della Bank of India e a lungo ai vertici del Fondo monetario internazionale). E da Davos, durante i lavori del World Economic Forum, guarda con preoccupazione alle scelte politiche dei maggiori protagonisti economici globali (i provvedimenti dell’amministrazione Biden a tutela delle imprese Usa, le mosse della Cina che privilegiano il mercato interno, le ombre delle tante guerre commerciali in corso) e insiste sulla necessità di mercati aperti e competitivi: “La dipendenza eccessiva da qualsiasi paese (per l’energia, le materie prime, la componentistica) è sbagliata. Ma il problema è evitarla mantenendo comunque un equilibrio che non avveleni le relazioni internazionali. Abbiamo bisogno di cooperazione in certi ambiti, come gli investimenti ‘verdi’. E sui microchip è irragionevole che ogni paese si faccia le sue fabbriche. Pensiamo all’Inflation Reduction Act americano. Bisognerebbe concentrarsi sulle questioni strategiche, non dare solamente l’impressione di volere contenere la Cina, anche rischiando di farsi male da soli, di imbrigliare la crescita” (“la Repubblica”, 17 gennaio).

Rajan ha perfettamente ragione. Il protezionismo provoca danni. Rallenta lo sviluppo economico. Distorce la migliore allocazione delle risorse attraverso mercati aperti e competitivi. Dietro il paravento della tutela di interessi popolari, alimenta squilibri economici e sociali all’interno degli stessi paesi di cui si vogliono tutelare le imprese. E alimenta fantasmi politici quanto mai negativi (il populismo, il sovranismo, profondi mali della nostra faticosa contemporaneità, quanto mai negativi, nel medio periodo, proprio per i ceti sociali più deboli e incerti, di cui si cerca strumentalmente il consenso). Vale la pena leggere un paio dei suoi libri, per averne documentata conferma, valorizzando il ruolo degli scambi globali: per esempio, “Fault Lines. How Hidden Fractures Still Threaten the World Economy”, pubblicato nel 2010 dalla Princeton University Press (Premio Financial Times e Goldman Sachs come “libro dell’anno) o anche “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, scritto con Luigi Zingales e pubblicato in Italia da Einaudi nel 2004.

Proprio in tempi in cui è necessario ripensare la globalizzazione, sapendo però che “non si torna indietro” e che servono “regole comuni” (Giorgio Barba Navaretti, “la Repubblica”, 9 gennaio), è utile prendere atto della crisi delle politiche di chiusura e degli steccati protezionisti (“The end of magical thinking. How Britain can build a better relationship with Europe”, ha titolato in copertina “The Economist” il 13 gennaio, documentando il fallimento della Brexit). E dunque la sfida che i protagonisti della politica e dell’economia devono saper affrontare riguarda la costruzione di condizioni di sviluppo sostenibile più equilibrate e socialmente accettabili. Con effetti positivi anche per i tentativi di sciogliere i nodi delle crescenti tensioni geopolitiche (la guerra in Ucraina ne è l’espressione più drammatica). Forti di una consapevolezza, che nasce dalla opportuna rilettura di Frederic Bastiat, lungimirante economista francese dell’Ottocento : “Dove non passano le merci passeranno gli eserciti”.

Si tratta, insomma, di valorizzare le interconnessioni che segnano ancora le economie del mondo, passando dall’ideologia del free trade (commerci globali in balia del più forte, con privilegio per gli oligopolisti delle materie prime e delle componenti high tech) alle migliori convenienze del fair trade, cercando punti di equilibrio tra esigenze e interessi diversi e rivalutando e rilanciando gli organismi internazionali come la World Trade Organization, con le sue regole e le sue sanzioni.

Tutto il contrario delle parole d’ordine care alla stagione di Trump su “America First” e delle sollecitazioni per il “Buy American”, cui è incline anche l’amministrazione Biden (l’Inflation Reduction Act, con i suoi 369 miliardi di dollari di sostegni e sussidi alle imprese Usa e a chi investe in America ne è preoccupante strumento).

L’Europa può avere un ruolo fondamentale, in questo quadro. Non solo per evitare di essere vaso di coccio tra i giganti Usa e Cina, con conseguenze negative per tutta l’economia mondiale. Ma anche per proporsi come paradigma positivo di conciliazione tra crescita economica e benessere diffuso (riformando le strutture del welfare State dei vari paesi), libertà economiche e democrazia liberale e di mercato, competitività attuale delle imprese e prospettive di sviluppo sostenibile. Facendo leva anche su un’altra idea forte: la necessità di coordinare gli interessi nazionali sotto la spinta di organismi europei e di migliorare la solidità dell’economia e la qualità della vita e del lavoro. La Ue, con la storia dei suoi Trattati, della Comunità del carbone e dell’acciaio, del Mec e poi del “serpente monetario”, dell’euro e della Bce, ne offre, appunto, significative testimonianze.

Le discussioni in corso a Bruxelles e nelle stanze dei principali governi europei (Roma compresa) sugli “aiuti di Stato”, sulle politiche industriali della Ue e su un “Fondo sovrano europeo” che investa sulla sicurezza strategica e cioè sulle forniture di energia e di materie prime e sulle tecnologie d’avanguardia vanno proprio in questa direzione. Un Fondo da finanziare anche con l’emissione di Eurobond: un’idea cara a un altro dei protagonisti dell’Europa unita, Jacques Delors e di nuovo sul tavolo del dibattito pubblico. Ne parla con insistenza opportuna anche Carlo Bonomi, presidente di Confindustria (“la Repubblica, 18 gennaio).

Le trattative aperte con gli Usa e la fermezza politica di Bruxelles nel pretendere un rilancio delle relazioni transatlantiche si spera possano avere buon esito.

Ne è consapevole innanzitutto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che proprio al Forum di Davos ha sostenuto che l’Unione Europea “deve realizzare la transizione verso l’obiettivo delle emissioni zero senza creare nuove dipendenze” e ha annunciato “un Piano industriale per il Green Deal”. Un piano da finanziare con il bilancio Ue e con ricorsi al mercato. Gli “aiuti di Stato sarebbero una soluzione limitata”. La soluzione, semmai, per evitare la frammentazione del mercato unico, è quella di aumentare i finanziamenti Ue. E dunque “per il medio termine prepareremo un Fondo sovrano europeo nella revisione del bilancio Ue nel 2023”. La posizione trova consenso in Italia. Come spiega bene il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: in risposta all’Inflation Reduction Act Usa “il semplice allentamento delle regole degli aiuti di Stato non è una soluzione, perché sarebbe sproporzionato avvantaggiare gli Stati membri che godono di un margine di bilancio più ampio, aggravando così le divergenze economiche all’interno dell’Unione e la conseguente frammentazione del mercato interno”. Servono, appunto, strumenti europei comuni. Dopo il “Recovery Plan”, il Fondo sovrano Ue è una scelta strategica fondamentale. Un Fondo – è necessario insistere – destinato a tutte le filiere produttive di un’Europa fortemente vocata all’industria, alla manifattura di qualità.

La crisi, insomma, porta consiglio. E chi conosce la storia europea proprio adesso ricorda le parole lungimiranti di uno dei suoi padri, Jean Monnet, nel 1954: “L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi”. Una lezione attualissima di buona politica.

(foto: Getty Images)

“Attenzione ai protezionismi. La storia insegna che non è mai una buona idea”. Raghuram Rajan è uno dei più importanti economisti del mondo (ex Governatore della Bank of India e a lungo ai vertici del Fondo monetario internazionale). E da Davos, durante i lavori del World Economic Forum, guarda con preoccupazione alle scelte politiche dei maggiori protagonisti economici globali (i provvedimenti dell’amministrazione Biden a tutela delle imprese Usa, le mosse della Cina che privilegiano il mercato interno, le ombre delle tante guerre commerciali in corso) e insiste sulla necessità di mercati aperti e competitivi: “La dipendenza eccessiva da qualsiasi paese (per l’energia, le materie prime, la componentistica) è sbagliata. Ma il problema è evitarla mantenendo comunque un equilibrio che non avveleni le relazioni internazionali. Abbiamo bisogno di cooperazione in certi ambiti, come gli investimenti ‘verdi’. E sui microchip è irragionevole che ogni paese si faccia le sue fabbriche. Pensiamo all’Inflation Reduction Act americano. Bisognerebbe concentrarsi sulle questioni strategiche, non dare solamente l’impressione di volere contenere la Cina, anche rischiando di farsi male da soli, di imbrigliare la crescita” (“la Repubblica”, 17 gennaio).

Rajan ha perfettamente ragione. Il protezionismo provoca danni. Rallenta lo sviluppo economico. Distorce la migliore allocazione delle risorse attraverso mercati aperti e competitivi. Dietro il paravento della tutela di interessi popolari, alimenta squilibri economici e sociali all’interno degli stessi paesi di cui si vogliono tutelare le imprese. E alimenta fantasmi politici quanto mai negativi (il populismo, il sovranismo, profondi mali della nostra faticosa contemporaneità, quanto mai negativi, nel medio periodo, proprio per i ceti sociali più deboli e incerti, di cui si cerca strumentalmente il consenso). Vale la pena leggere un paio dei suoi libri, per averne documentata conferma, valorizzando il ruolo degli scambi globali: per esempio, “Fault Lines. How Hidden Fractures Still Threaten the World Economy”, pubblicato nel 2010 dalla Princeton University Press (Premio Financial Times e Goldman Sachs come “libro dell’anno) o anche “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, scritto con Luigi Zingales e pubblicato in Italia da Einaudi nel 2004.

Proprio in tempi in cui è necessario ripensare la globalizzazione, sapendo però che “non si torna indietro” e che servono “regole comuni” (Giorgio Barba Navaretti, “la Repubblica”, 9 gennaio), è utile prendere atto della crisi delle politiche di chiusura e degli steccati protezionisti (“The end of magical thinking. How Britain can build a better relationship with Europe”, ha titolato in copertina “The Economist” il 13 gennaio, documentando il fallimento della Brexit). E dunque la sfida che i protagonisti della politica e dell’economia devono saper affrontare riguarda la costruzione di condizioni di sviluppo sostenibile più equilibrate e socialmente accettabili. Con effetti positivi anche per i tentativi di sciogliere i nodi delle crescenti tensioni geopolitiche (la guerra in Ucraina ne è l’espressione più drammatica). Forti di una consapevolezza, che nasce dalla opportuna rilettura di Frederic Bastiat, lungimirante economista francese dell’Ottocento : “Dove non passano le merci passeranno gli eserciti”.

Si tratta, insomma, di valorizzare le interconnessioni che segnano ancora le economie del mondo, passando dall’ideologia del free trade (commerci globali in balia del più forte, con privilegio per gli oligopolisti delle materie prime e delle componenti high tech) alle migliori convenienze del fair trade, cercando punti di equilibrio tra esigenze e interessi diversi e rivalutando e rilanciando gli organismi internazionali come la World Trade Organization, con le sue regole e le sue sanzioni.

Tutto il contrario delle parole d’ordine care alla stagione di Trump su “America First” e delle sollecitazioni per il “Buy American”, cui è incline anche l’amministrazione Biden (l’Inflation Reduction Act, con i suoi 369 miliardi di dollari di sostegni e sussidi alle imprese Usa e a chi investe in America ne è preoccupante strumento).

L’Europa può avere un ruolo fondamentale, in questo quadro. Non solo per evitare di essere vaso di coccio tra i giganti Usa e Cina, con conseguenze negative per tutta l’economia mondiale. Ma anche per proporsi come paradigma positivo di conciliazione tra crescita economica e benessere diffuso (riformando le strutture del welfare State dei vari paesi), libertà economiche e democrazia liberale e di mercato, competitività attuale delle imprese e prospettive di sviluppo sostenibile. Facendo leva anche su un’altra idea forte: la necessità di coordinare gli interessi nazionali sotto la spinta di organismi europei e di migliorare la solidità dell’economia e la qualità della vita e del lavoro. La Ue, con la storia dei suoi Trattati, della Comunità del carbone e dell’acciaio, del Mec e poi del “serpente monetario”, dell’euro e della Bce, ne offre, appunto, significative testimonianze.

Le discussioni in corso a Bruxelles e nelle stanze dei principali governi europei (Roma compresa) sugli “aiuti di Stato”, sulle politiche industriali della Ue e su un “Fondo sovrano europeo” che investa sulla sicurezza strategica e cioè sulle forniture di energia e di materie prime e sulle tecnologie d’avanguardia vanno proprio in questa direzione. Un Fondo da finanziare anche con l’emissione di Eurobond: un’idea cara a un altro dei protagonisti dell’Europa unita, Jacques Delors e di nuovo sul tavolo del dibattito pubblico. Ne parla con insistenza opportuna anche Carlo Bonomi, presidente di Confindustria (“la Repubblica, 18 gennaio).

Le trattative aperte con gli Usa e la fermezza politica di Bruxelles nel pretendere un rilancio delle relazioni transatlantiche si spera possano avere buon esito.

Ne è consapevole innanzitutto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che proprio al Forum di Davos ha sostenuto che l’Unione Europea “deve realizzare la transizione verso l’obiettivo delle emissioni zero senza creare nuove dipendenze” e ha annunciato “un Piano industriale per il Green Deal”. Un piano da finanziare con il bilancio Ue e con ricorsi al mercato. Gli “aiuti di Stato sarebbero una soluzione limitata”. La soluzione, semmai, per evitare la frammentazione del mercato unico, è quella di aumentare i finanziamenti Ue. E dunque “per il medio termine prepareremo un Fondo sovrano europeo nella revisione del bilancio Ue nel 2023”. La posizione trova consenso in Italia. Come spiega bene il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: in risposta all’Inflation Reduction Act Usa “il semplice allentamento delle regole degli aiuti di Stato non è una soluzione, perché sarebbe sproporzionato avvantaggiare gli Stati membri che godono di un margine di bilancio più ampio, aggravando così le divergenze economiche all’interno dell’Unione e la conseguente frammentazione del mercato interno”. Servono, appunto, strumenti europei comuni. Dopo il “Recovery Plan”, il Fondo sovrano Ue è una scelta strategica fondamentale. Un Fondo – è necessario insistere – destinato a tutte le filiere produttive di un’Europa fortemente vocata all’industria, alla manifattura di qualità.

La crisi, insomma, porta consiglio. E chi conosce la storia europea proprio adesso ricorda le parole lungimiranti di uno dei suoi padri, Jean Monnet, nel 1954: “L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi”. Una lezione attualissima di buona politica.

(foto: Getty Images)

Ricostruire la “Storia delle industrie Pirelli”. Nuovi documenti nell’Archivio online

I “Documenti per la storia delle industrie Pirelli”, costituiscono il nucleo da cui ha avuto origine l’Archivio Storico dell’azienda. Una raccolta realizzata tra il 1942 e il 1943 da Mario Luzzatto, ex dirigente Pirelli, con l’obiettivo di ricostruire la storia del Gruppo multinazionale che all’epoca celebrava settant’anni di vita. Luzzatto passa in rassegna gli archivi per individuare i documenti ritenuti più significativi per testimoniare lo sviluppo storico dell’impresa: li raccoglie in originale, e laddove questo non è possibile ne fa copie fotografiche o li trascrive.

Il lavoro si interrompe tragicamente nel settembre del 1943, quando Luzzatto e la sua famiglia vengono arrestati dalle SS. La raccolta è completa fino al 1920, e viene proseguita da Gaetano Sermattei, collaboratore di Luzzatto, che seguendo i suoi appunti la continua fino agli anni Quaranta.

Nel dopoguerra l’Archivio Storico così costituito è affidato al personale dell’Ufficio Posta e Archivio, che continua a collettare la documentazione anno per anno, limitandosi però alla documentazione a stampa di tipo seriale ad uso interno ed esterno, come circolari, avvisi, listini, cataloghi, opuscoli, pubblicazioni pubblicitarie.

Nel 1972, in seguito alla notifica di “notevole interesse storico” da parte della Soprintendenza archivistica per la Lombardia, il materiale è riorganizzato: gli oltre 3.000 documenti dal 1872 agli anni Ottanta del Novecento ricevono una numerazione progressiva unica in ordine cronologico, vengono disposti in 168 faldoni ed elencati nel “Registro dei documenti storici”.

In un’ottica di costante valorizzazione di questo prezioso patrimonio, prosegue il lavoro di inventariazione e digitalizzazione della raccolta, e oggi vengono resi disponibili nell’Archivio Storico online i documenti dei decenni Venti e Trenta. Sono anni importanti, di forte crescita dell’impresa, che nel 1922 celebra i 50 anni; nel settore dei cavi si impone con l’invenzione di Luigi Emanueli, il cavo a “olio fluido”, in quello degli pneumatici lancia i modelli Superflex Cord e Stella Bianca, nel settore articoli vari sviluppa notevolmente la produzione di spugne, suole e tacchi, pavimenti di gomma. Tra i documenti di questi anni si trovano dunque diversi brevetti, cataloghi di prodotto, fotografie di stand Pirelli a fiere nazionali e internazionali, le relazioni di viaggi all’estero dei fratelli Piero e Alberto Pirelli o di dirigenti come lo stesso Luigi Emanueli e Giuseppe Venosta.

Numerosi anche i diplomi ricevuti per la partecipazione a fiere ed esposizioni, o per i risultati conseguiti dal Gruppo Sportivo Pirelli e dal Dopolavoro in gare sportive di ginnastica, tiro alla fune, bocce, calcio, per citarne solo alcune.

Un patrimonio fondamentale per ricostruire non solo la storia del Gruppo Pirelli, ma anche la storia italiana e internazionale.

I “Documenti per la storia delle industrie Pirelli”, costituiscono il nucleo da cui ha avuto origine l’Archivio Storico dell’azienda. Una raccolta realizzata tra il 1942 e il 1943 da Mario Luzzatto, ex dirigente Pirelli, con l’obiettivo di ricostruire la storia del Gruppo multinazionale che all’epoca celebrava settant’anni di vita. Luzzatto passa in rassegna gli archivi per individuare i documenti ritenuti più significativi per testimoniare lo sviluppo storico dell’impresa: li raccoglie in originale, e laddove questo non è possibile ne fa copie fotografiche o li trascrive.

Il lavoro si interrompe tragicamente nel settembre del 1943, quando Luzzatto e la sua famiglia vengono arrestati dalle SS. La raccolta è completa fino al 1920, e viene proseguita da Gaetano Sermattei, collaboratore di Luzzatto, che seguendo i suoi appunti la continua fino agli anni Quaranta.

Nel dopoguerra l’Archivio Storico così costituito è affidato al personale dell’Ufficio Posta e Archivio, che continua a collettare la documentazione anno per anno, limitandosi però alla documentazione a stampa di tipo seriale ad uso interno ed esterno, come circolari, avvisi, listini, cataloghi, opuscoli, pubblicazioni pubblicitarie.

Nel 1972, in seguito alla notifica di “notevole interesse storico” da parte della Soprintendenza archivistica per la Lombardia, il materiale è riorganizzato: gli oltre 3.000 documenti dal 1872 agli anni Ottanta del Novecento ricevono una numerazione progressiva unica in ordine cronologico, vengono disposti in 168 faldoni ed elencati nel “Registro dei documenti storici”.

In un’ottica di costante valorizzazione di questo prezioso patrimonio, prosegue il lavoro di inventariazione e digitalizzazione della raccolta, e oggi vengono resi disponibili nell’Archivio Storico online i documenti dei decenni Venti e Trenta. Sono anni importanti, di forte crescita dell’impresa, che nel 1922 celebra i 50 anni; nel settore dei cavi si impone con l’invenzione di Luigi Emanueli, il cavo a “olio fluido”, in quello degli pneumatici lancia i modelli Superflex Cord e Stella Bianca, nel settore articoli vari sviluppa notevolmente la produzione di spugne, suole e tacchi, pavimenti di gomma. Tra i documenti di questi anni si trovano dunque diversi brevetti, cataloghi di prodotto, fotografie di stand Pirelli a fiere nazionali e internazionali, le relazioni di viaggi all’estero dei fratelli Piero e Alberto Pirelli o di dirigenti come lo stesso Luigi Emanueli e Giuseppe Venosta.

Numerosi anche i diplomi ricevuti per la partecipazione a fiere ed esposizioni, o per i risultati conseguiti dal Gruppo Sportivo Pirelli e dal Dopolavoro in gare sportive di ginnastica, tiro alla fune, bocce, calcio, per citarne solo alcune.

Un patrimonio fondamentale per ricostruire non solo la storia del Gruppo Pirelli, ma anche la storia italiana e internazionale.

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“In primo piano il Paese e il suo Risorgimento”. Pirelli e la lotta di Liberazione, 1943-1945

“In primo piano era il Paese e il suo risorgimento”: con queste parole Cesare Merzagora ricorda all’Assemblea degli Azionisti dell’11 dicembre 1945 quale fosse la priorità della Pirelli nei drammatici momenti dell’occupazione nazista dell’Italia seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943. Le autorità militari tedesche prendono il controllo dello stabilimento a Bicocca, ancora funzionante nonostante i bombardamenti. Il 16 settembre l’azienda istituisce, alle dipendenze delle Direzioni centrali Conduttori e Gomma, “l’Ufficio T”, preposto ai rapporti con i tedeschi in materia di produzione e disciplina dello stabilimento. Ma l’intera Pirelli, dai membri della famiglia, alla dirigenza, ai lavoratori, si oppone alla situazione, con una continua opera di sabotaggio all’interno dello stabilimento e con l’attivo sostegno alla Resistenza.

I documenti conservati nell’Archivio Storico della Fondazione attestano la continua opera di disturbo della produzione, in particolare quella di interesse per le esigenze militari dei tedeschi. Alcune lettere di parte tedesca dell’estate del 1944 denunciano “la mancanza di buona volontà delle persone responsabili” come causa principale dei bassi livelli di produzione dei giunti flessibili per autoveicoli. E una nota del 7 giugno 1944 sull’incontro tra l’azienda e i tedeschi in merito alla mancata consegna di guarnizioni per autorespiratori da parte della Pirelli conclude che “le autorità germaniche sono assai irritate con la Pirelli e i suoi capi perché hanno la radicata convinzione che nulla facciano per andare incontro alle loro necessità”. Anche il tentativo di inviare lavoratori in Germania per il regime nazista viene ostacolato, come attesta il “Promemoria circa l’azione svolta per impedire il trasferimento in Germania di nostri dipendenti” del 14 giugno 1945 firmato dall’ingegner Paolo Trotto: la richiesta di mettere a disposizione per il trasferimento il 20% degli operai e il 50% dei capisquadra del ramo gomma e il 10% degli operai del ramo cavi non verrà mai attuata grazie all’intervento dell’amministratore delegato Alberto Pirelli.

“L’azione di resistenza svolta dalla società Pirelli – si legge nel promemoria – finì con l’ottenere il risultato desiderato in quanto gli organi germanici, di fronte alle continue opposizioni fatte, desistettero dal fare ulteriori pressioni per il trasferimento di personale”. Contemporaneamente all’ostacolamento e all’opposizione alle richieste tedesche un cospicuo sostegno viene dato dall’azienda alla Resistenza, sottoforma di viveri, automezzi, pneumatici e di un contributo finanziario che raggiungerà i 60 milioni di lire. Per riprendere il già citato discorso di Cesare Merzagora, la Pirelli fu, fra le industrie lombarde, “uno dei più importanti centri della riscossa”. Una riscossa che passa anche attraverso gli scioperi e le lotte operaie, che vedono l’azienda milanese sempre protagonista.

Nel marzo del 1943 un’ondata di scioperi si propaga da Torino a tutta l’Italia settentrionale, ridando voce alla classe operaia dopo venti anni di regime. È il primo atto di una serie di scioperi che culminano nello sciopero generale insurrezionale del 25 aprile 1945 e che i lavoratori pagano con una repressione durissima e, soprattutto nelle fabbriche dell’area di Sesto San Giovanni e Milano Greco, con la deportazione in massa nei lager nazisti. Il 23 novembre 1944 lo sciopero proclamato dai lavoratori della Pirelli Bicocca in risposta alla fucilazione di 15 antifascisti avvenuta in piazzale Loreto il 10 agosto – tra cui due operai della Pirelli, Libero Temolo ed Eraldo Soncini – causa l’arresto di 183 persone. La Direzione aziendale e lo stesso Alberto Pirelli contattano le autorità tedesche per chiedere il rilascio dei lavoratori, ottenendo in risposta, come si legge nei documenti d’archivio, che “le SS hanno ritenuto necessario dare un esempio” e “hanno scelto operai della Pirelli piuttosto che di altre aziende in sciopero perché le maestranze Pirelli sono le meglio trattate di tutte e ciononostante sono quelle che hanno scioperato più frequentemente.” Inoltre, “a tutte le richieste rivolte per avere il nome degli agitatori la ditta si è sempre schermita dall’indicare neppure un nominativo”. Dopo aver scartato 27 persone perché fisicamente non idonee, gli altri 156 lavoratori vengono deportati nei campi di lavoro nazisti. Ne moriranno 14.

Come scrive Giuseppe Valota nel volume “Streihertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni”, si tratta della “deportazione di massa più rilevante operata dai nazifascisti in una singola azienda, seconda solo a quella di 1.500 lavoratori, effettuata in 4 fabbriche genovesi – San Giorgio, Siac, Piaggio e Cantieri navali – il 16 giugno 1944”. Il sacrificio dei lavoratori Pirelli per la lotta di liberazione è ricordato con una targa murata il 23 novembre 1945 sul fabbricato 95, portineria dello stabilimento Bicocca, dedicata ai “compagni di lavoro che sul cammino radioso della libertà furono stroncati dalla barbarie nazifascista”, oggi ancora presente all’interno degli Headquarters della Bicocca accanto alla lapide in ricordo dei lavoratori caduti durante la Prima Guerra Mondiale.

“In primo piano era il Paese e il suo risorgimento”: con queste parole Cesare Merzagora ricorda all’Assemblea degli Azionisti dell’11 dicembre 1945 quale fosse la priorità della Pirelli nei drammatici momenti dell’occupazione nazista dell’Italia seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943. Le autorità militari tedesche prendono il controllo dello stabilimento a Bicocca, ancora funzionante nonostante i bombardamenti. Il 16 settembre l’azienda istituisce, alle dipendenze delle Direzioni centrali Conduttori e Gomma, “l’Ufficio T”, preposto ai rapporti con i tedeschi in materia di produzione e disciplina dello stabilimento. Ma l’intera Pirelli, dai membri della famiglia, alla dirigenza, ai lavoratori, si oppone alla situazione, con una continua opera di sabotaggio all’interno dello stabilimento e con l’attivo sostegno alla Resistenza.

I documenti conservati nell’Archivio Storico della Fondazione attestano la continua opera di disturbo della produzione, in particolare quella di interesse per le esigenze militari dei tedeschi. Alcune lettere di parte tedesca dell’estate del 1944 denunciano “la mancanza di buona volontà delle persone responsabili” come causa principale dei bassi livelli di produzione dei giunti flessibili per autoveicoli. E una nota del 7 giugno 1944 sull’incontro tra l’azienda e i tedeschi in merito alla mancata consegna di guarnizioni per autorespiratori da parte della Pirelli conclude che “le autorità germaniche sono assai irritate con la Pirelli e i suoi capi perché hanno la radicata convinzione che nulla facciano per andare incontro alle loro necessità”. Anche il tentativo di inviare lavoratori in Germania per il regime nazista viene ostacolato, come attesta il “Promemoria circa l’azione svolta per impedire il trasferimento in Germania di nostri dipendenti” del 14 giugno 1945 firmato dall’ingegner Paolo Trotto: la richiesta di mettere a disposizione per il trasferimento il 20% degli operai e il 50% dei capisquadra del ramo gomma e il 10% degli operai del ramo cavi non verrà mai attuata grazie all’intervento dell’amministratore delegato Alberto Pirelli.

“L’azione di resistenza svolta dalla società Pirelli – si legge nel promemoria – finì con l’ottenere il risultato desiderato in quanto gli organi germanici, di fronte alle continue opposizioni fatte, desistettero dal fare ulteriori pressioni per il trasferimento di personale”. Contemporaneamente all’ostacolamento e all’opposizione alle richieste tedesche un cospicuo sostegno viene dato dall’azienda alla Resistenza, sottoforma di viveri, automezzi, pneumatici e di un contributo finanziario che raggiungerà i 60 milioni di lire. Per riprendere il già citato discorso di Cesare Merzagora, la Pirelli fu, fra le industrie lombarde, “uno dei più importanti centri della riscossa”. Una riscossa che passa anche attraverso gli scioperi e le lotte operaie, che vedono l’azienda milanese sempre protagonista.

Nel marzo del 1943 un’ondata di scioperi si propaga da Torino a tutta l’Italia settentrionale, ridando voce alla classe operaia dopo venti anni di regime. È il primo atto di una serie di scioperi che culminano nello sciopero generale insurrezionale del 25 aprile 1945 e che i lavoratori pagano con una repressione durissima e, soprattutto nelle fabbriche dell’area di Sesto San Giovanni e Milano Greco, con la deportazione in massa nei lager nazisti. Il 23 novembre 1944 lo sciopero proclamato dai lavoratori della Pirelli Bicocca in risposta alla fucilazione di 15 antifascisti avvenuta in piazzale Loreto il 10 agosto – tra cui due operai della Pirelli, Libero Temolo ed Eraldo Soncini – causa l’arresto di 183 persone. La Direzione aziendale e lo stesso Alberto Pirelli contattano le autorità tedesche per chiedere il rilascio dei lavoratori, ottenendo in risposta, come si legge nei documenti d’archivio, che “le SS hanno ritenuto necessario dare un esempio” e “hanno scelto operai della Pirelli piuttosto che di altre aziende in sciopero perché le maestranze Pirelli sono le meglio trattate di tutte e ciononostante sono quelle che hanno scioperato più frequentemente.” Inoltre, “a tutte le richieste rivolte per avere il nome degli agitatori la ditta si è sempre schermita dall’indicare neppure un nominativo”. Dopo aver scartato 27 persone perché fisicamente non idonee, gli altri 156 lavoratori vengono deportati nei campi di lavoro nazisti. Ne moriranno 14.

Come scrive Giuseppe Valota nel volume “Streihertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni”, si tratta della “deportazione di massa più rilevante operata dai nazifascisti in una singola azienda, seconda solo a quella di 1.500 lavoratori, effettuata in 4 fabbriche genovesi – San Giorgio, Siac, Piaggio e Cantieri navali – il 16 giugno 1944”. Il sacrificio dei lavoratori Pirelli per la lotta di liberazione è ricordato con una targa murata il 23 novembre 1945 sul fabbricato 95, portineria dello stabilimento Bicocca, dedicata ai “compagni di lavoro che sul cammino radioso della libertà furono stroncati dalla barbarie nazifascista”, oggi ancora presente all’interno degli Headquarters della Bicocca accanto alla lapide in ricordo dei lavoratori caduti durante la Prima Guerra Mondiale.

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Imprese e instabilità, come fare

Pubblicato in Italia uno dei manuali che insegnano il cambiamento all’epoca dei tempi instabili

Cambiare per non soccombere, ma anche, più semplicemente, per evitare di essere “sorpassati” dagli altri. Questione di competitività, e, quindi, di capacità tecniche e gestionali, attenzione al mondo che muta, agli altri, alle sollecitazioni. Questione certamente complessa da affrontare, ma che va comunque affrontata. A questo serve leggere “Change. Come trasformare imprese e organizzazioni in tempi instabili”, libro scritto da John P. KotterVanessa AkhtarGaurav Gupta con un obiettivo: delineare un metodo che riesca a far cambiare  le organizzazione della produzione non per gradi ma ”per salti” e in modo efficace. Tutto sulla base di una constatazione: tale è oggi l’incertezza e la velocità del cambiamento da non esserci più il tempo della gradualità. È da qui che si articola il libro di Kotter, Akhtar e Gupta.

Il libro inizia quindi con il mettere a fuoco la situazione che le organizzazioni devono affrontare, un mondo, cioè, che cambia rapidamente e che può essere compreso solo con un metodo dedicato al cambiamento diverso da quelli adottati fino ad oggi. “Accelerare” è quindi la parola d’ordine da mettere in pratica attraverso il metodo della pianificazione strategica che, tuttavia, deve essere adottato con attenzione e senza rischiare di azzerare l’innovazione aziendale. Questione, viene spiegato dagli autori, che ha anche a che fare con la cultura  d’impresa, che deve cambiare radicalmente. Ma cos’è che davvero fa la differenza, si chiedono gli autori. L’indicazione che emerge dal libro è, alla fine, una sola: creare un leadership diffusa, che provenga da più persone, che siano capaci di lavorare insieme e di dare vita ad una spinta verso il cambiamento più efficace di prima.

Il libro di Kotter e dei suoi collaboratori, va letto come una guida dedicata a chi, ogni giorno, deve provarsi proprio con il cambiamento su più livelli è intensità, qualcosa di pervasivo, che mette alla prova manager e imprenditori, così come tutte le persone impegnate in un’organizzazione della produzione.

Change. Come trasformare imprese e organizzazioni in tempi instabili

John P. KotterVanessa AkhtarGaurav Gupta

Franco Angeli, 2022

Pubblicato in Italia uno dei manuali che insegnano il cambiamento all’epoca dei tempi instabili

Cambiare per non soccombere, ma anche, più semplicemente, per evitare di essere “sorpassati” dagli altri. Questione di competitività, e, quindi, di capacità tecniche e gestionali, attenzione al mondo che muta, agli altri, alle sollecitazioni. Questione certamente complessa da affrontare, ma che va comunque affrontata. A questo serve leggere “Change. Come trasformare imprese e organizzazioni in tempi instabili”, libro scritto da John P. KotterVanessa AkhtarGaurav Gupta con un obiettivo: delineare un metodo che riesca a far cambiare  le organizzazione della produzione non per gradi ma ”per salti” e in modo efficace. Tutto sulla base di una constatazione: tale è oggi l’incertezza e la velocità del cambiamento da non esserci più il tempo della gradualità. È da qui che si articola il libro di Kotter, Akhtar e Gupta.

Il libro inizia quindi con il mettere a fuoco la situazione che le organizzazioni devono affrontare, un mondo, cioè, che cambia rapidamente e che può essere compreso solo con un metodo dedicato al cambiamento diverso da quelli adottati fino ad oggi. “Accelerare” è quindi la parola d’ordine da mettere in pratica attraverso il metodo della pianificazione strategica che, tuttavia, deve essere adottato con attenzione e senza rischiare di azzerare l’innovazione aziendale. Questione, viene spiegato dagli autori, che ha anche a che fare con la cultura  d’impresa, che deve cambiare radicalmente. Ma cos’è che davvero fa la differenza, si chiedono gli autori. L’indicazione che emerge dal libro è, alla fine, una sola: creare un leadership diffusa, che provenga da più persone, che siano capaci di lavorare insieme e di dare vita ad una spinta verso il cambiamento più efficace di prima.

Il libro di Kotter e dei suoi collaboratori, va letto come una guida dedicata a chi, ogni giorno, deve provarsi proprio con il cambiamento su più livelli è intensità, qualcosa di pervasivo, che mette alla prova manager e imprenditori, così come tutte le persone impegnate in un’organizzazione della produzione.

Change. Come trasformare imprese e organizzazioni in tempi instabili

John P. KotterVanessa AkhtarGaurav Gupta

Franco Angeli, 2022

Crescere cambiando

La “Strategia della Soglia” come metodo innovativo di gestione delle organizzazioni della produzione alle prese con un presente incerto e un futuro imprevedibile

Essere capaci di adattare strategie e comportamenti d’impresa “in corso d’opera”. Non basarsi, cioè, solo sul traguardo da raggiungere ma anche sulla capacità di cambiare strada facendo. E’ anche su questo cambio di metodo che si basa, adesso, la buona cultura d’impresa: capace di mantenere saldi alcuni principi ma di non fossilizzarsi su metodi ormai sorpassati.

E’ attorno a questo tema che ragionale l’intervento di Luigi Selleri (Ordinario di Economia e Management delle Imprese di Assicurazione. Università Cattolica di Milano), pubblicato on line da poco. “La strategia dell’impresa tra ieri e oggi: dalla prevedibilità alla creazione del futuro” prende le mosse da una constatazione: gli approcci tradizionali alla strategia, che si basano sulla prevedibilità del futuro, si focalizzano su “dove vogliamo andare” ed enfatizzano la scelta di un mercato altamente attrattivo coltre che la definizione di un’unica posizione strategica; solo successivamente viene deciso come raggiungere il traguardo prefissato. Metodo di pianificazione e gestione “vecchio”, spiega Selleri che propone invece l’importanza dell’abilità di gestire il cambiamento come vera guida per arrivare a risultati più importanti e solidi. Partendo dall’introduzione anche in aziende delle indicazioni delle teorie della complessità e dell’evoluzione, proprie delle scienze biologiche e cioè da approcci che hanno come centro dell’attenzione la crescita e il cambiamento.

L’intento di Selleri è quindi quello di fornire prima un punto della situazione sulle teorie delle strategie d’impresa e poi un primo schema della “Strategia alla Soglia” che “fa perno sull’abilità del management dell’impresa a gestire il cambiamento, non già al verificarsi di rari e rilevanti cambiamenti del mercato, quanto piuttosto ininterrottamente nel tempo”. Le imprese che riescono ad adottare questo metodo di lavoro sono caratterizzate da una strategia “fugace, complessa e imprevedibile”, da un’organizzazione in continuo cambiamento e da una misura del tempo d’azione del tutto particolare.

Per far comprendere meglio a chi legge i tratti essenziali di questo particolare approccio gestionale, Selleri pone alcuni esempi tratti da settori particolarmente dinamici come quelli dell’Alta Moda, delle Biotecnologie e di Industria 4.0.

La strategia dell’impresa tra ieri e oggi: dalla prevedibilità alla creazione del futuro

Selleri Luigi

Economia Aziendale Online, Business and management sciences International Quarterly Review, vol. 13, n. 4/2022

La “Strategia della Soglia” come metodo innovativo di gestione delle organizzazioni della produzione alle prese con un presente incerto e un futuro imprevedibile

Essere capaci di adattare strategie e comportamenti d’impresa “in corso d’opera”. Non basarsi, cioè, solo sul traguardo da raggiungere ma anche sulla capacità di cambiare strada facendo. E’ anche su questo cambio di metodo che si basa, adesso, la buona cultura d’impresa: capace di mantenere saldi alcuni principi ma di non fossilizzarsi su metodi ormai sorpassati.

E’ attorno a questo tema che ragionale l’intervento di Luigi Selleri (Ordinario di Economia e Management delle Imprese di Assicurazione. Università Cattolica di Milano), pubblicato on line da poco. “La strategia dell’impresa tra ieri e oggi: dalla prevedibilità alla creazione del futuro” prende le mosse da una constatazione: gli approcci tradizionali alla strategia, che si basano sulla prevedibilità del futuro, si focalizzano su “dove vogliamo andare” ed enfatizzano la scelta di un mercato altamente attrattivo coltre che la definizione di un’unica posizione strategica; solo successivamente viene deciso come raggiungere il traguardo prefissato. Metodo di pianificazione e gestione “vecchio”, spiega Selleri che propone invece l’importanza dell’abilità di gestire il cambiamento come vera guida per arrivare a risultati più importanti e solidi. Partendo dall’introduzione anche in aziende delle indicazioni delle teorie della complessità e dell’evoluzione, proprie delle scienze biologiche e cioè da approcci che hanno come centro dell’attenzione la crescita e il cambiamento.

L’intento di Selleri è quindi quello di fornire prima un punto della situazione sulle teorie delle strategie d’impresa e poi un primo schema della “Strategia alla Soglia” che “fa perno sull’abilità del management dell’impresa a gestire il cambiamento, non già al verificarsi di rari e rilevanti cambiamenti del mercato, quanto piuttosto ininterrottamente nel tempo”. Le imprese che riescono ad adottare questo metodo di lavoro sono caratterizzate da una strategia “fugace, complessa e imprevedibile”, da un’organizzazione in continuo cambiamento e da una misura del tempo d’azione del tutto particolare.

Per far comprendere meglio a chi legge i tratti essenziali di questo particolare approccio gestionale, Selleri pone alcuni esempi tratti da settori particolarmente dinamici come quelli dell’Alta Moda, delle Biotecnologie e di Industria 4.0.

La strategia dell’impresa tra ieri e oggi: dalla prevedibilità alla creazione del futuro

Selleri Luigi

Economia Aziendale Online, Business and management sciences International Quarterly Review, vol. 13, n. 4/2022

Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Misurare ciò che conta”, avevano scritto nel 2021 Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, Jean-Paul Fitoussi (da tempo in odore di Nobel, ma purtroppo morto nell’aprile del ‘22) e Martine Durand. Perché è proprio il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo, uno strumento che indica quantità di ricchezza prodotta e non qualità dei risultati delle scelte economiche. E “ciò che conta davvero è il benessere”.

Il libro, pubblicato in Italia da Einaudi, riprendeva i temi di un famoso rapporto, firmato nel 2009 appunto da Stiglitz, Fitoussi e da un altro premio Nobel, Amartya Sen, per incarico di Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese e poi approfondito da un comitato di esperti dell’Ocse, sulla misurazione delle performance economiche e dei processi sociali. L’idea di fondo: proporre una nuova agenda economica, con un insieme di metriche per stabilire lo stato di salute e l’accettabilità di una società, tenendo in primo piano le misure sulla diseguaglianza e sulla vulnerabilità economica, sulla sostenibilità ambientale e su come le persone percepiscono la propria vita e ne possono progettare il miglioramento.

Il tema, al di là del dibattito economico, è stato rilanciato con un’iniziativa politica di rilievo, proprio negli ultimi giorni del 2022, da cinque capi di governo, Jacinta Arden (Nuova Zelanda), Sanna Marin (Finlandia), Katrin Jacobsdóttir (Islanda), Nicola Sturgeon (Scozia) e Mark Drakeford (Galles), che hanno scelto di lavorare insieme per una “Wellbeing Economy Goverments Partnership”, cui potrebbero presto aderire anche Canada e Australia. Wellbeing, benessere, appunto. Una scelta politica di grande valore strategico.

L’idea di fondo, infatti, è quella di orientare le scelte politiche verso la qualità della vita e la sostenibilità, ambientale e sociale, dello sviluppo economico, andando al di là della dimensione puramente quantitativa della crescita, proprio quella misurata dal Pil. E la scelta dell’unità di misura ha una straordinaria valenza politica ed etica. Guardando non soltanto alla ricchezza prodotta ma soprattutto alla sua distribuzione, alle opportunità offerte alle nuove generazioni, alla salute, all’istruzione, agli impegnativi abbattimenti delle diseguaglianze.

I tempi di crisi che stiamo vivendo, fin dall’inizio del nuovo millennio (disastri climatici e ambientali, pandemie, crolli finanziari, tensioni geopolitiche sino alle esplosioni di guerra, fratture sociali, aumento dei divari geografici, generazionali, di genere) hanno portato alla ribalta la necessità di ripensare radicalmente i parametri economici tradizionali, in direzione di una “economia giusta” (l’espressione cara a Papa Francesco) e di seguire nuovi paradigmi di sviluppo.

Nulla a che vedere, naturalmente, con la “decrescita felice” teorizzata da economisti eccentrici alla Serge Latouche (in realtà, infelice: senza crescita non ci sono risorse da redistribuire, né investimenti in innovazione né nuovo lavoro). C’è molto, invece, da discutere proprio nel momento in cui i temi dell’ambiente e della giustizia sociale e della risposta alle drammatiche fratture dei tradizionali e distorti equilibri di produzione e di scambio impongono la ridefinizione di relazioni, poteri, valori. E la scrittura di nuove mappe economiche e non soltanto il riaggiustamento marginale della distribuzione del valore generato dall’economia (profitti, corsi di Borsa). Mappe essenziali, anche per il riequilibrio della globalizzazione.

Economia civile, economia circolare, economia generativa sono termini che sempre più spesso arricchiscono il dibattito culturale e sociale e che incidono sulla ricerca di nuovi e migliori assetti d’esistenza e di futuro.

Trova, insomma, rilievo crescente anche in politica l’essenziale passaggio, diffuso nel mondo dell’impresa, dal primato dello shareholders value (profitti, appunto) a quello degli stakeholders values (i valori che riguardano tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa: dipendenti, fornitori, clienti e consumatori, cittadini delle comunità e dei territori su cui impatta l’attività aziendale) e la cui eco risuona con forza nei “bilanci sociali” e “di sostenibilità” e soprattutto nelle scelte di parecchi gruppi industriali e finanziari di incorporare proprio quelle voci nell’unico bilancio aziendale: una scelta chiara di buona etica d’impresa, d’una radicata “morale del tornio”. Benessere, dunque. E sostenibilità.

Analizzando bene le recenti scelte economiche della Ue con il Recovery Fund come risposta alla crisi post pandemia da Covid19, si ritrovano chiare le tracce di queste nuove sensibilità: attenzione alla next generation, istruzione, salute, ricerca economica, sostenibilità nella twin transition ambientale e digitale. Una migliore idea di futuro. In cui proprio l’Europa, riscoprendo, rilanciando e riformando la proprio profonda sensibilità storica e contemporanea per il welfare, ha un ruolo fondamentale. La sintonia con la Wellbeing Economy della Arden e della Marin è evidente.

L’Italia, in questo processo riformatore, ha una posizione di primo piano. Come dimostra proprio un indicatore, il Bes, l’indice del “Benessere equo e sostenibile”, elaborato dall’Istat e dal Cnel, che dal 2017 accompagna il Documento di Economia e Finanza del Governo, misurando con 12 parametri l’andamento delle condizioni sociali del Paese. Un indicatore di cui è necessario tenere sempre più conto.

Vale la pena, in questo processo riformatore dell’economia, dei suoi valori e dei suoi indici, rileggere anche una lezione politica fondamentale, quella di Robert Kennedy, in un discorso fatto agli studenti dell’università del Kansas nel marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso. Proprio sul Pil che “misura tutto, eccetto ciò che rende che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e che “può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Eccolo, dunque, il monito kennediano:  “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo”. Il Pil, infatti, “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari”.

Il Pil, insomma, “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese”. Più di mezzo secolo dopo, il messaggio è quanto mai attuale.

(Photo Getty Images)

Misurare ciò che conta”, avevano scritto nel 2021 Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, Jean-Paul Fitoussi (da tempo in odore di Nobel, ma purtroppo morto nell’aprile del ‘22) e Martine Durand. Perché è proprio il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo, uno strumento che indica quantità di ricchezza prodotta e non qualità dei risultati delle scelte economiche. E “ciò che conta davvero è il benessere”.

Il libro, pubblicato in Italia da Einaudi, riprendeva i temi di un famoso rapporto, firmato nel 2009 appunto da Stiglitz, Fitoussi e da un altro premio Nobel, Amartya Sen, per incarico di Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese e poi approfondito da un comitato di esperti dell’Ocse, sulla misurazione delle performance economiche e dei processi sociali. L’idea di fondo: proporre una nuova agenda economica, con un insieme di metriche per stabilire lo stato di salute e l’accettabilità di una società, tenendo in primo piano le misure sulla diseguaglianza e sulla vulnerabilità economica, sulla sostenibilità ambientale e su come le persone percepiscono la propria vita e ne possono progettare il miglioramento.

Il tema, al di là del dibattito economico, è stato rilanciato con un’iniziativa politica di rilievo, proprio negli ultimi giorni del 2022, da cinque capi di governo, Jacinta Arden (Nuova Zelanda), Sanna Marin (Finlandia), Katrin Jacobsdóttir (Islanda), Nicola Sturgeon (Scozia) e Mark Drakeford (Galles), che hanno scelto di lavorare insieme per una “Wellbeing Economy Goverments Partnership”, cui potrebbero presto aderire anche Canada e Australia. Wellbeing, benessere, appunto. Una scelta politica di grande valore strategico.

L’idea di fondo, infatti, è quella di orientare le scelte politiche verso la qualità della vita e la sostenibilità, ambientale e sociale, dello sviluppo economico, andando al di là della dimensione puramente quantitativa della crescita, proprio quella misurata dal Pil. E la scelta dell’unità di misura ha una straordinaria valenza politica ed etica. Guardando non soltanto alla ricchezza prodotta ma soprattutto alla sua distribuzione, alle opportunità offerte alle nuove generazioni, alla salute, all’istruzione, agli impegnativi abbattimenti delle diseguaglianze.

I tempi di crisi che stiamo vivendo, fin dall’inizio del nuovo millennio (disastri climatici e ambientali, pandemie, crolli finanziari, tensioni geopolitiche sino alle esplosioni di guerra, fratture sociali, aumento dei divari geografici, generazionali, di genere) hanno portato alla ribalta la necessità di ripensare radicalmente i parametri economici tradizionali, in direzione di una “economia giusta” (l’espressione cara a Papa Francesco) e di seguire nuovi paradigmi di sviluppo.

Nulla a che vedere, naturalmente, con la “decrescita felice” teorizzata da economisti eccentrici alla Serge Latouche (in realtà, infelice: senza crescita non ci sono risorse da redistribuire, né investimenti in innovazione né nuovo lavoro). C’è molto, invece, da discutere proprio nel momento in cui i temi dell’ambiente e della giustizia sociale e della risposta alle drammatiche fratture dei tradizionali e distorti equilibri di produzione e di scambio impongono la ridefinizione di relazioni, poteri, valori. E la scrittura di nuove mappe economiche e non soltanto il riaggiustamento marginale della distribuzione del valore generato dall’economia (profitti, corsi di Borsa). Mappe essenziali, anche per il riequilibrio della globalizzazione.

Economia civile, economia circolare, economia generativa sono termini che sempre più spesso arricchiscono il dibattito culturale e sociale e che incidono sulla ricerca di nuovi e migliori assetti d’esistenza e di futuro.

Trova, insomma, rilievo crescente anche in politica l’essenziale passaggio, diffuso nel mondo dell’impresa, dal primato dello shareholders value (profitti, appunto) a quello degli stakeholders values (i valori che riguardano tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa: dipendenti, fornitori, clienti e consumatori, cittadini delle comunità e dei territori su cui impatta l’attività aziendale) e la cui eco risuona con forza nei “bilanci sociali” e “di sostenibilità” e soprattutto nelle scelte di parecchi gruppi industriali e finanziari di incorporare proprio quelle voci nell’unico bilancio aziendale: una scelta chiara di buona etica d’impresa, d’una radicata “morale del tornio”. Benessere, dunque. E sostenibilità.

Analizzando bene le recenti scelte economiche della Ue con il Recovery Fund come risposta alla crisi post pandemia da Covid19, si ritrovano chiare le tracce di queste nuove sensibilità: attenzione alla next generation, istruzione, salute, ricerca economica, sostenibilità nella twin transition ambientale e digitale. Una migliore idea di futuro. In cui proprio l’Europa, riscoprendo, rilanciando e riformando la proprio profonda sensibilità storica e contemporanea per il welfare, ha un ruolo fondamentale. La sintonia con la Wellbeing Economy della Arden e della Marin è evidente.

L’Italia, in questo processo riformatore, ha una posizione di primo piano. Come dimostra proprio un indicatore, il Bes, l’indice del “Benessere equo e sostenibile”, elaborato dall’Istat e dal Cnel, che dal 2017 accompagna il Documento di Economia e Finanza del Governo, misurando con 12 parametri l’andamento delle condizioni sociali del Paese. Un indicatore di cui è necessario tenere sempre più conto.

Vale la pena, in questo processo riformatore dell’economia, dei suoi valori e dei suoi indici, rileggere anche una lezione politica fondamentale, quella di Robert Kennedy, in un discorso fatto agli studenti dell’università del Kansas nel marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso. Proprio sul Pil che “misura tutto, eccetto ciò che rende che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e che “può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Eccolo, dunque, il monito kennediano:  “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo”. Il Pil, infatti, “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari”.

Il Pil, insomma, “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese”. Più di mezzo secolo dopo, il messaggio è quanto mai attuale.

(Photo Getty Images)

Pirelli – welfare

Campiello Junior 2022: ecco le terne finaliste. Con una riflessione di Roberto Piumini

Campiello Junior i finalisti il 16 dicembre

Un premio ai migliori libri per bambini, per costruire la nuova grammatica della fantasia

“Non ho mai smesso di leggere, leggere, leggere; ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito, che inseguivo, e inseguivo, e fallivo continuamente nell’inseguire”. Sono parole di Pietro Citati, utili a capirne la straordinaria passione letteraria e l’inusuale acutezza da critico, condensate nelle pagine de “La ragazza dagli occhi d’oro”, Adelphi (omaggio, già nel titolo, a Honoré de Balzac): un libro sui libri, un viaggio tra le righe e i ricordi, un percorso, condiviso con l’amico Italo Calvino, naturalmente incompiuto verso l’infinito. E sono parole quanto mai necessarie per riflettere sull’importanza di stimolare la passione per la lettura cominciando proprio con le bambine e i bambini fin dai loro primi giorni di scuola.

Leggere per il piacere della scoperta e dell’avventura, per entrare in tante altre vite oltre la nostra, per immaginare mondi sconosciuti, per sapere, capire, creare. Costruendo una vera e propria “Grammatica della fantasia”, per dirla con Gianni Rodari, maestro della letteratura per bambini. E dunque mescolando “il piacere del testo” con la passione per la conoscenza. Una forma del viaggio dentro e oltre la storia, appunto.

Sono tempi fertili, questi, per i buoni libri destinati all’infanzia e all’adolescenza. Solide prospettive  editoriali, con la scoperta e il lancio di nuovi autori, accanto ai grandi “classici”. Attenzione sui social media più frequentati dalle nuove generazioni, come documenta il seguito crescente dei giovani “booktoker” su TikTok. E impegno delle testate culturali più prestigiose. “La Lettura”, supplemento culturale domenicale del “Corriere della Sera”, ha da poco lanciato un’edizione per le ragazze e i ragazzi subito ribattezzata “la Letturina” e dedicata “ai piccoli e ai giovani, ma anche a genitori, insegnanti, educatori, a  chi conserva uno spirito bambino” e dunque ricca di storie vere e racconti di grandi autori, consigli di lettura e suggerimenti su film e giochi, sempre partendo dai libri”. E “Robinson”, supplemento culturale de “la Repubblica” non ha perso l’occasione di seguire l’onda dedicando l’inchiesta di copertina, “Auguri ragazzi”, ai racconti delle star del fantasy e della narrativa young adult. Tutto un mondo da decrittare, capire, stimolare.

Una riprova di questo aumento d’attenzione verso il mondo dei giovani lettori sta anche nella crescita, in quantità e qualità, dei libri candidati alla seconda edizione del Premio Campiello Junior, promosso dalla Fondazione Campiello e dalla Fondazione Pirelli per le due sezioni dedicate la prima ai libri per bambine e bambini dai sette ai dieci anni e la seconda per ragazze e ragazzi dagli undici ai quattordici anni.

La giuria tecnica, presieduta da Roberto Piumini, uno dei migliori scrittori di letteratura per minori e composta da Chiara Lagani, Martino Negri, Michela Possamai e David Tolin, ha selezionato la settimana scorsa i tre libri finalisti per ognuna delle due sezioni, affidandoli adesso alla giuria popolare (240 giovani lettori) in vista della scelta finale del vincitore nel prossimo maggio (tutte le notizie sono sui siti www.premiocampiello.org e www.fondazionepirelli.org). Selezione difficile, sostengono i giurati tecnici, dato appunto il buon livello degli autori. Segno promettente di un impegno sempre maggiore degli autori per un pubblico che via via si dimostra più esigente, attento, sofisticato. Leggere aiuta a crescere meglio.

Sostiene infatti Roberto Piumini, a proposito delle scelte di dividere il Premio in due fasce d’età: “I bambini e i ragazzi sono lettori diversi, i primi più affettivi e giocosi, gli altri più complicati e a volte anche sofferenti”. Letteratura in sintonia con le esigenze personali e generazionali, insomma. Un’altra novità di quest’anno riguarda l’inserimento di un testo di poesia in ogni terna: “L’intenzione è doppia: da una parte rendere presente ai ragazzi in modo autorevole la proposta di poesia, che soprattutto nella scuola primaria ha attenzione e elaborazione, ma trova poco materiale e spazio in libreria. La seconda intenzione è appunto un segnale di stimolo e attesa verso l’editoria”. Il Premio Campiello Junior potrebbe “continuare ad ampliare il suo sguardo”, e quindi qualificarsi come “Premio della Parola Espressiva, nel circuito o tessuto di scrittura-pubblicazione-lettura-uso sociale che mature riflessioni indicano come cura per il nostro tempo di gran chiasso e poche parole”.

Ecco il punto: viviamo un tempo di gran chiasso e poche parole, di sovrabbondanza di demagogie e chiacchiere dense di incompetenza e colme di rancore (i social media ne sono inquietanti veicoli). E insistere sulla qualità delle parole scritte e lette può essere un buon antidoto alla corruzione dei linguaggi, dei discorsi e delle relazioni. Cominciando dai tempi della scuola primaria.

La lettura, infatti, è una leva straordinaria per costruire una storia al futuro. E leggere significa stimolare una parte essenziale della propria felicità. Vivendo la frequentazione dei libri non come un dovere, ma soprattutto come un esercizio di fantasia, una ricerca gioiosa d’una relazione forte con i mondi delle idee e dei sentimenti, una continua scoperta. Nella consapevolezza che le bambine e i bambini che si coinvolgono nel mondo dei libri saranno non solo i lettori, ma i cittadini di domani.

La cultura è come il pane”, titolava la Rivista Pirelli nel gennaio 1951, su un articolo di Silvestro Severgnini, dedicato a raccontare come le varie attività culturali (conferenze, concerti, finanziamenti per mostre e rassegne d’arte, biblioteche aziendali) fossero parte essenziale del processo di ricostruzione e ripresa economica, sociale e civile nell’Italia che, archiviati i disastri del fascismo, delle leggi razziali e della guerra, ricominciava a vivere e preparava le condizioni per il boom economico.

Quell’idea di fondo, che legava impresa è cultura, era di casa anche all’Olivetti, all’Eni, alla Finmeccanica dell’Iri, editrice di un’eccellente rivista dalla testata esemplare, “Civiltà delle macchine”. Una civiltà industriale e sociale in movimento, in trasformazione. Un esempio che ancora oggi ha un forte sapore di attualità, parlando di “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale” e che ha bisogno di una diffusa e vivace “cultura politecnica” come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

Viviamo, infatti, nel tempo dell’“economia della conoscenza”, in cui si mettono in gioco non solo la competitività delle imprese e dunque il lavoro, il benessere, lo sviluppo sostenibile. Ma la stessa base della convivenza civile. Ed è dunque necessario insistere proprio sulla crescita della cultura diffusa, come consapevolezza, capacità critica, fantasia per immaginare e costruire un migliore futuro. I libri per le bambine e i bambini, in questa prospettiva, sono un pilastro fondamentale di civiltà.

“Non ho mai smesso di leggere, leggere, leggere; ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito, che inseguivo, e inseguivo, e fallivo continuamente nell’inseguire”. Sono parole di Pietro Citati, utili a capirne la straordinaria passione letteraria e l’inusuale acutezza da critico, condensate nelle pagine de “La ragazza dagli occhi d’oro”, Adelphi (omaggio, già nel titolo, a Honoré de Balzac): un libro sui libri, un viaggio tra le righe e i ricordi, un percorso, condiviso con l’amico Italo Calvino, naturalmente incompiuto verso l’infinito. E sono parole quanto mai necessarie per riflettere sull’importanza di stimolare la passione per la lettura cominciando proprio con le bambine e i bambini fin dai loro primi giorni di scuola.

Leggere per il piacere della scoperta e dell’avventura, per entrare in tante altre vite oltre la nostra, per immaginare mondi sconosciuti, per sapere, capire, creare. Costruendo una vera e propria “Grammatica della fantasia”, per dirla con Gianni Rodari, maestro della letteratura per bambini. E dunque mescolando “il piacere del testo” con la passione per la conoscenza. Una forma del viaggio dentro e oltre la storia, appunto.

Sono tempi fertili, questi, per i buoni libri destinati all’infanzia e all’adolescenza. Solide prospettive  editoriali, con la scoperta e il lancio di nuovi autori, accanto ai grandi “classici”. Attenzione sui social media più frequentati dalle nuove generazioni, come documenta il seguito crescente dei giovani “booktoker” su TikTok. E impegno delle testate culturali più prestigiose. “La Lettura”, supplemento culturale domenicale del “Corriere della Sera”, ha da poco lanciato un’edizione per le ragazze e i ragazzi subito ribattezzata “la Letturina” e dedicata “ai piccoli e ai giovani, ma anche a genitori, insegnanti, educatori, a  chi conserva uno spirito bambino” e dunque ricca di storie vere e racconti di grandi autori, consigli di lettura e suggerimenti su film e giochi, sempre partendo dai libri”. E “Robinson”, supplemento culturale de “la Repubblica” non ha perso l’occasione di seguire l’onda dedicando l’inchiesta di copertina, “Auguri ragazzi”, ai racconti delle star del fantasy e della narrativa young adult. Tutto un mondo da decrittare, capire, stimolare.

Una riprova di questo aumento d’attenzione verso il mondo dei giovani lettori sta anche nella crescita, in quantità e qualità, dei libri candidati alla seconda edizione del Premio Campiello Junior, promosso dalla Fondazione Campiello e dalla Fondazione Pirelli per le due sezioni dedicate la prima ai libri per bambine e bambini dai sette ai dieci anni e la seconda per ragazze e ragazzi dagli undici ai quattordici anni.

La giuria tecnica, presieduta da Roberto Piumini, uno dei migliori scrittori di letteratura per minori e composta da Chiara Lagani, Martino Negri, Michela Possamai e David Tolin, ha selezionato la settimana scorsa i tre libri finalisti per ognuna delle due sezioni, affidandoli adesso alla giuria popolare (240 giovani lettori) in vista della scelta finale del vincitore nel prossimo maggio (tutte le notizie sono sui siti www.premiocampiello.org e www.fondazionepirelli.org). Selezione difficile, sostengono i giurati tecnici, dato appunto il buon livello degli autori. Segno promettente di un impegno sempre maggiore degli autori per un pubblico che via via si dimostra più esigente, attento, sofisticato. Leggere aiuta a crescere meglio.

Sostiene infatti Roberto Piumini, a proposito delle scelte di dividere il Premio in due fasce d’età: “I bambini e i ragazzi sono lettori diversi, i primi più affettivi e giocosi, gli altri più complicati e a volte anche sofferenti”. Letteratura in sintonia con le esigenze personali e generazionali, insomma. Un’altra novità di quest’anno riguarda l’inserimento di un testo di poesia in ogni terna: “L’intenzione è doppia: da una parte rendere presente ai ragazzi in modo autorevole la proposta di poesia, che soprattutto nella scuola primaria ha attenzione e elaborazione, ma trova poco materiale e spazio in libreria. La seconda intenzione è appunto un segnale di stimolo e attesa verso l’editoria”. Il Premio Campiello Junior potrebbe “continuare ad ampliare il suo sguardo”, e quindi qualificarsi come “Premio della Parola Espressiva, nel circuito o tessuto di scrittura-pubblicazione-lettura-uso sociale che mature riflessioni indicano come cura per il nostro tempo di gran chiasso e poche parole”.

Ecco il punto: viviamo un tempo di gran chiasso e poche parole, di sovrabbondanza di demagogie e chiacchiere dense di incompetenza e colme di rancore (i social media ne sono inquietanti veicoli). E insistere sulla qualità delle parole scritte e lette può essere un buon antidoto alla corruzione dei linguaggi, dei discorsi e delle relazioni. Cominciando dai tempi della scuola primaria.

La lettura, infatti, è una leva straordinaria per costruire una storia al futuro. E leggere significa stimolare una parte essenziale della propria felicità. Vivendo la frequentazione dei libri non come un dovere, ma soprattutto come un esercizio di fantasia, una ricerca gioiosa d’una relazione forte con i mondi delle idee e dei sentimenti, una continua scoperta. Nella consapevolezza che le bambine e i bambini che si coinvolgono nel mondo dei libri saranno non solo i lettori, ma i cittadini di domani.

La cultura è come il pane”, titolava la Rivista Pirelli nel gennaio 1951, su un articolo di Silvestro Severgnini, dedicato a raccontare come le varie attività culturali (conferenze, concerti, finanziamenti per mostre e rassegne d’arte, biblioteche aziendali) fossero parte essenziale del processo di ricostruzione e ripresa economica, sociale e civile nell’Italia che, archiviati i disastri del fascismo, delle leggi razziali e della guerra, ricominciava a vivere e preparava le condizioni per il boom economico.

Quell’idea di fondo, che legava impresa è cultura, era di casa anche all’Olivetti, all’Eni, alla Finmeccanica dell’Iri, editrice di un’eccellente rivista dalla testata esemplare, “Civiltà delle macchine”. Una civiltà industriale e sociale in movimento, in trasformazione. Un esempio che ancora oggi ha un forte sapore di attualità, parlando di “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale” e che ha bisogno di una diffusa e vivace “cultura politecnica” come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

Viviamo, infatti, nel tempo dell’“economia della conoscenza”, in cui si mettono in gioco non solo la competitività delle imprese e dunque il lavoro, il benessere, lo sviluppo sostenibile. Ma la stessa base della convivenza civile. Ed è dunque necessario insistere proprio sulla crescita della cultura diffusa, come consapevolezza, capacità critica, fantasia per immaginare e costruire un migliore futuro. I libri per le bambine e i bambini, in questa prospettiva, sono un pilastro fondamentale di civiltà.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?