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Tra casa e lavoro: abitazioni per i dipendenti e mobilità

L’edilizia per i dipendenti e l’efficientamento della mobilità nel tragitto casa-lavoro sono due tematiche che scandiscono anche l’evoluzione dei servizi di welfare. Dopo i contributi per pagare gli affitti istituiti nei primi anni di attività dell’azienda, nel 1920 viene promossa la prima iniziativa di edilizia popolare: in collaborazione con l’Istituto Autonomo per le Case Popolari ed Economiche di Milano, Pirelli promuove la realizzazione del “Borgo Pirelli”, un villaggio di case adiacente allo stabilimento della Bicocca costituito da 1.200 alloggi da assegnarsi in affitto ai dipendenti a prezzi agevolati. Progettato dagli ingegneri pirelliani Giacomo Loria e Pietro Allodi secondo il criterio del villaggio-giardino, “in armonia con le moderne massime sulla erezione dei borghi operai”, si legge in un articolo del “Monitore Tecnico” dedicato all’iniziativa, è costituito da villette e da giardini, “distribuiti in ragione di 100 mq per ogni appartamento”. Dal 1951 al 1953, nell’ambito dell’iniziativa statale INA-casa per risolvere il problema abitativo nel dopoguerra, il Gruppo Pirelli prosegue l’opera di edificazione di case popolari per i propri dipendenti, realizzando una serie di abitazioni a Milano (nei quartieri Suzzani, via Latisana, Ripamonti) e in altre 12 località sede di stabilimenti del Gruppo: Cinisello Balsamo – con la costruzione di un vero e proprio “villaggio Pirelli” di 16 fabbricati, poi ulteriormente ampliato – Cusano Milanino, Seregno, Monza, Pizzighettone, Rovereto, Arona, Livorno, Napoli, Torino, Vercurago, Tivoli. Altri alloggi si aggiungono nel 1955, tra il 1957 e il 1958, con la costruzione di un nuovo villaggio tra Cinisello Balsamo e Cusano Milanino, e nel 1960.

Oggi, in un mondo sempre più in trasformazione, con l’avvento delle smart city e della green mobility, l’azienda si impegna nell’ottimizzazione del percorso tra abitazione e ufficio. Sono diverse le offerte per migliorare e rendere più sostenibile la mobilità dei propri lavoratori nel tragitto casa-lavoro, dalla possibilità di richiedere direttamente in azienda abbonamenti a treni e mezzi pubblici – rimborsabili anche attraverso la conversione in servizi welfare del premio di risultato aziendale – a spogliatoi e docce a disposizione di chi sceglie la bicicletta come mezzo di trasporto, fino a un servizio di noleggio di e-bike completamente gratuito.

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L’edilizia per i dipendenti e l’efficientamento della mobilità nel tragitto casa-lavoro sono due tematiche che scandiscono anche l’evoluzione dei servizi di welfare. Dopo i contributi per pagare gli affitti istituiti nei primi anni di attività dell’azienda, nel 1920 viene promossa la prima iniziativa di edilizia popolare: in collaborazione con l’Istituto Autonomo per le Case Popolari ed Economiche di Milano, Pirelli promuove la realizzazione del “Borgo Pirelli”, un villaggio di case adiacente allo stabilimento della Bicocca costituito da 1.200 alloggi da assegnarsi in affitto ai dipendenti a prezzi agevolati. Progettato dagli ingegneri pirelliani Giacomo Loria e Pietro Allodi secondo il criterio del villaggio-giardino, “in armonia con le moderne massime sulla erezione dei borghi operai”, si legge in un articolo del “Monitore Tecnico” dedicato all’iniziativa, è costituito da villette e da giardini, “distribuiti in ragione di 100 mq per ogni appartamento”. Dal 1951 al 1953, nell’ambito dell’iniziativa statale INA-casa per risolvere il problema abitativo nel dopoguerra, il Gruppo Pirelli prosegue l’opera di edificazione di case popolari per i propri dipendenti, realizzando una serie di abitazioni a Milano (nei quartieri Suzzani, via Latisana, Ripamonti) e in altre 12 località sede di stabilimenti del Gruppo: Cinisello Balsamo – con la costruzione di un vero e proprio “villaggio Pirelli” di 16 fabbricati, poi ulteriormente ampliato – Cusano Milanino, Seregno, Monza, Pizzighettone, Rovereto, Arona, Livorno, Napoli, Torino, Vercurago, Tivoli. Altri alloggi si aggiungono nel 1955, tra il 1957 e il 1958, con la costruzione di un nuovo villaggio tra Cinisello Balsamo e Cusano Milanino, e nel 1960.

Oggi, in un mondo sempre più in trasformazione, con l’avvento delle smart city e della green mobility, l’azienda si impegna nell’ottimizzazione del percorso tra abitazione e ufficio. Sono diverse le offerte per migliorare e rendere più sostenibile la mobilità dei propri lavoratori nel tragitto casa-lavoro, dalla possibilità di richiedere direttamente in azienda abbonamenti a treni e mezzi pubblici – rimborsabili anche attraverso la conversione in servizi welfare del premio di risultato aziendale – a spogliatoi e docce a disposizione di chi sceglie la bicicletta come mezzo di trasporto, fino a un servizio di noleggio di e-bike completamente gratuito.

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Salute e benessere

Il sussidio in caso di malattia è la prima forma di assistenza sviluppata dall’azienda sin dalla fine dell’Ottocento: calcolato in base alla paga e all’anzianità del servizio, secondo cioè il criterio delle responsabilità assunte e della durata del rapporto, mira a incentivare la permanenza in azienda dei lavoratori. Ai primi del Novecento l’assistenza si estende a prevedere “spettanze pagate ai medici curanti per visite a domicilio ed ambulanza” e nel 1902, all’interno del Concordato tra l’azienda e la Commissione Operai, l’assistenza viene resa obbligatoria, permanente e usufruibile da tutti i dipendenti.

Nel 1926 è istituito il Servizio di Assistenza Sanitaria a favore dei dipendenti, poco dopo esteso anche ai familiari, che prevede cure gratuite presso un ambulatorio interno o a domicilio e la possibilità di effettuare visite specialistiche o esami diagnostici sia all’interno sia all’esterno: si tratta di un’iniziativa di assoluta avanguardia, la prima in Italia, che nel tempo si amplia a comprendere la fornitura gratuita di farmaci e il ricovero gratuito negli ospedali e nelle case di cura sovvenzionate.

Ancora oggi l’assistenza sanitaria offerta da Pirelli ai propri dipendenti è tra le più avanzate in Italia. Il Fondo Assistenziale Sanitario – FAS offre ai dipendenti e ai loro familiari la possibilità di rimborso di diverse prestazioni sanitarie e presso il Poliambulatorio della sede di Milano Bicocca è possibile effettuare gratuitamente visite ed esami specialistici. Il programma “Pirelli wellbeing” propone un ampio ventaglio di corsi orientati al miglioramento del benessere psico-fisico dei dipendenti, con 12 discipline proposte, tra cui yoga, mindfulness, pilates, stretching, bioenergetica.

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Il sussidio in caso di malattia è la prima forma di assistenza sviluppata dall’azienda sin dalla fine dell’Ottocento: calcolato in base alla paga e all’anzianità del servizio, secondo cioè il criterio delle responsabilità assunte e della durata del rapporto, mira a incentivare la permanenza in azienda dei lavoratori. Ai primi del Novecento l’assistenza si estende a prevedere “spettanze pagate ai medici curanti per visite a domicilio ed ambulanza” e nel 1902, all’interno del Concordato tra l’azienda e la Commissione Operai, l’assistenza viene resa obbligatoria, permanente e usufruibile da tutti i dipendenti.

Nel 1926 è istituito il Servizio di Assistenza Sanitaria a favore dei dipendenti, poco dopo esteso anche ai familiari, che prevede cure gratuite presso un ambulatorio interno o a domicilio e la possibilità di effettuare visite specialistiche o esami diagnostici sia all’interno sia all’esterno: si tratta di un’iniziativa di assoluta avanguardia, la prima in Italia, che nel tempo si amplia a comprendere la fornitura gratuita di farmaci e il ricovero gratuito negli ospedali e nelle case di cura sovvenzionate.

Ancora oggi l’assistenza sanitaria offerta da Pirelli ai propri dipendenti è tra le più avanzate in Italia. Il Fondo Assistenziale Sanitario – FAS offre ai dipendenti e ai loro familiari la possibilità di rimborso di diverse prestazioni sanitarie e presso il Poliambulatorio della sede di Milano Bicocca è possibile effettuare gratuitamente visite ed esami specialistici. Il programma “Pirelli wellbeing” propone un ampio ventaglio di corsi orientati al miglioramento del benessere psico-fisico dei dipendenti, con 12 discipline proposte, tra cui yoga, mindfulness, pilates, stretching, bioenergetica.

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Mense e alimentazione

Un capitolo fondamentale del welfare aziendale è quello che riguarda l’alimentazione. Già dai primi del Novecento, di pari passo con lo sviluppo industriale, nasce l’esigenza di avere uno spazio dove i lavoratori possano consumare il pasto portato da casa. Nel 1915 è allestito il primo refettorio nello stabilimento di Bicocca. Qualche anno dopo la Cooperativa Cucine Popolari è incaricata di preparare le vivande per le maestranze e nel 1924 viene realizzata la prima cucina interna allo stabilimento, che fornisce pasti caldi ai lavoratori.

Sorgono vari refettori nei reparti (nel 1937 ne vengono inaugurati tre in grado di accogliere 3.600 ospiti giornalieri) e una mensa per gli operai, cui fa seguito una mensa per gli impiegati. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale il problema dell’alimentazione è all’ordine del giorno. Gli stabilimenti aprono spacci aziendali che garantiscono beni di prima necessità quali riso, pasta, burro e formaggio e nel 1943 viene istituito un “Ufficio Alimentazione” a cui fanno capo cucine e refettori, le mense, gli spacci aziendali e i magazzini dei viveri. Nel Dopoguerra le mense vengono riorganizzate. Nel 1955 la mensa operai viene ammodernata. Per gli impiegati viene messo in cantiere invece un nuovo edificio, nel quale realizzare una mensa da 800 posti, capace di servire 2.000 pasti per turno e 6.000 totali in un giorno. Il progetto viene affidato all’architetto Giulio Minoletti e all’ingegner Giuseppe Chiodi che realizzano un ambiente nel quale estetica, funzionalità e confort si fondono perfettamente, dando vita – secondo le parole degli stessi progettisti – a “uno dei più moderni esempi di realizzazione sociale intrapresi da un’industria italiana”. Lungo 86 metri e largo 35, l’edificio riceve luce da una grande vetrata posta lungo tutto un lato, da cui si vedono uno specchio d’acqua e un prato.  All’interno predomina il colore delle sedie gialle e dei tavoli rossi. Un sistema di nastri trasportatori assicura un rapido avvio delle vivande dalla cucina a un banco di distribuzione, dotato di un sistema per mantenere i cibi sempre caldi. I commensali possono servirsi da soli al banco, secondo una modalità “self-service” che viene introdotta qui per la prima volta in Italia.

Anche oggi il tema dell’alimentazione è al centro delle politiche di Pirelli per il benessere dei dipendenti.  Il ristorante aziendale ha recentemente trovato spazio all’interno dell’Edificio Cinturato, inaugurato nel 2020 per ospitare i servizi di formazione e welfare. Ospitato in un ambiente luminoso affacciato sul giardino della Bicocca degli Arcimboldi, offre anche la possibilità di consumare il pasto all’esterno ed è caratterizzato da un’attenzione alla qualità delle materie prime e a uno stile di cucina sana.

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Un capitolo fondamentale del welfare aziendale è quello che riguarda l’alimentazione. Già dai primi del Novecento, di pari passo con lo sviluppo industriale, nasce l’esigenza di avere uno spazio dove i lavoratori possano consumare il pasto portato da casa. Nel 1915 è allestito il primo refettorio nello stabilimento di Bicocca. Qualche anno dopo la Cooperativa Cucine Popolari è incaricata di preparare le vivande per le maestranze e nel 1924 viene realizzata la prima cucina interna allo stabilimento, che fornisce pasti caldi ai lavoratori.

Sorgono vari refettori nei reparti (nel 1937 ne vengono inaugurati tre in grado di accogliere 3.600 ospiti giornalieri) e una mensa per gli operai, cui fa seguito una mensa per gli impiegati. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale il problema dell’alimentazione è all’ordine del giorno. Gli stabilimenti aprono spacci aziendali che garantiscono beni di prima necessità quali riso, pasta, burro e formaggio e nel 1943 viene istituito un “Ufficio Alimentazione” a cui fanno capo cucine e refettori, le mense, gli spacci aziendali e i magazzini dei viveri. Nel Dopoguerra le mense vengono riorganizzate. Nel 1955 la mensa operai viene ammodernata. Per gli impiegati viene messo in cantiere invece un nuovo edificio, nel quale realizzare una mensa da 800 posti, capace di servire 2.000 pasti per turno e 6.000 totali in un giorno. Il progetto viene affidato all’architetto Giulio Minoletti e all’ingegner Giuseppe Chiodi che realizzano un ambiente nel quale estetica, funzionalità e confort si fondono perfettamente, dando vita – secondo le parole degli stessi progettisti – a “uno dei più moderni esempi di realizzazione sociale intrapresi da un’industria italiana”. Lungo 86 metri e largo 35, l’edificio riceve luce da una grande vetrata posta lungo tutto un lato, da cui si vedono uno specchio d’acqua e un prato.  All’interno predomina il colore delle sedie gialle e dei tavoli rossi. Un sistema di nastri trasportatori assicura un rapido avvio delle vivande dalla cucina a un banco di distribuzione, dotato di un sistema per mantenere i cibi sempre caldi. I commensali possono servirsi da soli al banco, secondo una modalità “self-service” che viene introdotta qui per la prima volta in Italia.

Anche oggi il tema dell’alimentazione è al centro delle politiche di Pirelli per il benessere dei dipendenti.  Il ristorante aziendale ha recentemente trovato spazio all’interno dell’Edificio Cinturato, inaugurato nel 2020 per ospitare i servizi di formazione e welfare. Ospitato in un ambiente luminoso affacciato sul giardino della Bicocca degli Arcimboldi, offre anche la possibilità di consumare il pasto all’esterno ed è caratterizzato da un’attenzione alla qualità delle materie prime e a uno stile di cucina sana.

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Persone e non categorie

Il cambio di approccio ai mercati a al marketing raccontato in un libro appena pubblicato

 

Mercati fatti di persone e non di consumatori. Constatazione solo in apparenza banale e scontata, che, in effetti, è la sintesi di una visione diversa – e più completa -, degli interlocutori di ogni impresa: le persone, appunto. Visione, quella dei mercati in cui agiscono essere umani e non categorie astratte, che indica anche un diverso approccio alla stessa cultura del produrre. E’ attorno a queste idee che ragiona Matteo Rinaldi con il suo “Human-centric marketing. Prima di consumatori, siamo tutti persone” pubblicato da poco.

Tutto parte, oltre che dalla constatazione appena accennata, anche da un’altra condizione che si verifica nella realtà: le aziende di maggior successo hanno una cosa in comune: non chiamano consumatori i propri clienti, ma partono dal principio che sono prima di tutto delle persone, con le loro vite, bisogni, desideri e paure. E’ su questo principio che Rinaldi costruisce un marketing diverso che ha come obiettivo non solo e non tanto “vendere il prodotto” ma anche emozionare e contribuire a migliorare la vita delle persone, per farle sentire meglio con se stesse e con gli altri. Marketing con al centro la persona, come dice lo stesso titolo del libro. Dietro tutto questo, è un approccio teorico importante: capire perché le persone fanno quello che fanno.

Rinaldi compie quindi un percorso che inizia dalla messa a fuoco dei concetti fondamentali della disciplina, passa dall’approfondimento del cambio di obiettivo della stessa, suggerisce di guardare alle persone e passa quindi a precisare i passi operativi per trasformare tutto in pratica aziendale. Scorrono, nelle diverse pagine, anche i casi di The Blond Salad e Foorban, Danone, Costa Crociere, Heineken, Huawei, Ceres, Barilla e BMW.

Quanto scritto da Matteo Rinaldi è certamente qualcosa di stimolante, da leggere con attenzione, che fa pensare ad una visione diversa di una delle attività fondamentali della maggioranza delle imprese. Qualcosa che suggerisce un cambio di cultura aziendale che può essere preso in seria considerazione.

Human-centric marketing. Prima di consumatori, siamo tutti persone

Matteo Rinaldi

Franco Angeli, 2022

Il cambio di approccio ai mercati a al marketing raccontato in un libro appena pubblicato

 

Mercati fatti di persone e non di consumatori. Constatazione solo in apparenza banale e scontata, che, in effetti, è la sintesi di una visione diversa – e più completa -, degli interlocutori di ogni impresa: le persone, appunto. Visione, quella dei mercati in cui agiscono essere umani e non categorie astratte, che indica anche un diverso approccio alla stessa cultura del produrre. E’ attorno a queste idee che ragiona Matteo Rinaldi con il suo “Human-centric marketing. Prima di consumatori, siamo tutti persone” pubblicato da poco.

Tutto parte, oltre che dalla constatazione appena accennata, anche da un’altra condizione che si verifica nella realtà: le aziende di maggior successo hanno una cosa in comune: non chiamano consumatori i propri clienti, ma partono dal principio che sono prima di tutto delle persone, con le loro vite, bisogni, desideri e paure. E’ su questo principio che Rinaldi costruisce un marketing diverso che ha come obiettivo non solo e non tanto “vendere il prodotto” ma anche emozionare e contribuire a migliorare la vita delle persone, per farle sentire meglio con se stesse e con gli altri. Marketing con al centro la persona, come dice lo stesso titolo del libro. Dietro tutto questo, è un approccio teorico importante: capire perché le persone fanno quello che fanno.

Rinaldi compie quindi un percorso che inizia dalla messa a fuoco dei concetti fondamentali della disciplina, passa dall’approfondimento del cambio di obiettivo della stessa, suggerisce di guardare alle persone e passa quindi a precisare i passi operativi per trasformare tutto in pratica aziendale. Scorrono, nelle diverse pagine, anche i casi di The Blond Salad e Foorban, Danone, Costa Crociere, Heineken, Huawei, Ceres, Barilla e BMW.

Quanto scritto da Matteo Rinaldi è certamente qualcosa di stimolante, da leggere con attenzione, che fa pensare ad una visione diversa di una delle attività fondamentali della maggioranza delle imprese. Qualcosa che suggerisce un cambio di cultura aziendale che può essere preso in seria considerazione.

Human-centric marketing. Prima di consumatori, siamo tutti persone

Matteo Rinaldi

Franco Angeli, 2022

Fintech, digitalizzazione e cultura

Una tesi discussa recentemente fornisce gli elementi essenziali per capire l’ultima frontiera della finanza

 

Digitalizzazione della produzione prima e, poi, della finanza. Portato dell’innovazione, la smaterializzazione di molti processi ha toccato, da tempo, anche il sistema delle banche e degli intermediari finanziari. Cambiando di conseguenza quella cultura del produrre propria dell’industria e delle imprese italiane. Tema da comprendere a fondo. E da seguire nelle sue evoluzioni. A questo contribuisce il lavoro di ricerca (trasformato poi in una tesi discussa presso l’Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Economia “Giorgio Fuà”) di Alessandro Silvestrini. “Fintech: un focus sulla situazione italiana” ha l’obiettivo, sintetizzato dallo stesso autore, “di analizzare ed approfondire sotto vari punti di vista la trasformazione tecnologica che ha investito l’industria finanziaria, un fenomeno tanto dirompente che è stato coniato un termine per descriverlo: Fintech (Financial Technology)”. Tutto partendo da una constatazione: negli ultimi anni la rivoluzione digitale ha profondamente trasformato tutti i settori dell’economia globale, a partire dal commercio e dalle telecomunicazioni fino ad arrivare alla finanza. Ed è questo, appunto, l’ambito di indagine di Silvestrini.

La ricerca si articola in tre passaggi. Prima di tutto, viene messo a fuoco il concetto di Fintech tenendo in considerazione anche gli aspetti normativi dello stesso, poi sono approfondite le innovazioni ai servizi finanziari che sono state rese possibili dal Fintech, infine viene fatto un punto sulla situazione italiana.

“Lo scenario più probabile – scrive Silvestrini nelle sue conclusioni -, sembra essere quello della Fintegration, ovvero un contesto fatto di partnership tra attori tradizionali e aziende innovative, le quali piuttosto che entrare in una spietata concorrenza preferiranno collaborare al fine di apportare benefici all’intero sistema”. Un atteggiamento che comporta anche un cambio culturale tra le relazioni di imprese, ma che non deve far dimenticare una serie di rischi. Se questa è la prospettiva, avverte sempre Silvestrini, le criptovalute da una parte e la situazione di oggettiva arretratezza dell’Italia, appaiono essere i due punti più delicati da tenere sotto controllo.

Il lavoro di ricerca di Alessandro Silvestrini non aggiunge nulla a quanto già conosciuto sul tema Fintech, ma ha il merito di sistemare l’argomento entro uno schema organico e comprensibile.

Fintech: un focus sulla situazione italiana

Alessandro Silvestrini

Tesi, Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Economia “Giorgio Fuà”, 2022

Una tesi discussa recentemente fornisce gli elementi essenziali per capire l’ultima frontiera della finanza

 

Digitalizzazione della produzione prima e, poi, della finanza. Portato dell’innovazione, la smaterializzazione di molti processi ha toccato, da tempo, anche il sistema delle banche e degli intermediari finanziari. Cambiando di conseguenza quella cultura del produrre propria dell’industria e delle imprese italiane. Tema da comprendere a fondo. E da seguire nelle sue evoluzioni. A questo contribuisce il lavoro di ricerca (trasformato poi in una tesi discussa presso l’Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Economia “Giorgio Fuà”) di Alessandro Silvestrini. “Fintech: un focus sulla situazione italiana” ha l’obiettivo, sintetizzato dallo stesso autore, “di analizzare ed approfondire sotto vari punti di vista la trasformazione tecnologica che ha investito l’industria finanziaria, un fenomeno tanto dirompente che è stato coniato un termine per descriverlo: Fintech (Financial Technology)”. Tutto partendo da una constatazione: negli ultimi anni la rivoluzione digitale ha profondamente trasformato tutti i settori dell’economia globale, a partire dal commercio e dalle telecomunicazioni fino ad arrivare alla finanza. Ed è questo, appunto, l’ambito di indagine di Silvestrini.

La ricerca si articola in tre passaggi. Prima di tutto, viene messo a fuoco il concetto di Fintech tenendo in considerazione anche gli aspetti normativi dello stesso, poi sono approfondite le innovazioni ai servizi finanziari che sono state rese possibili dal Fintech, infine viene fatto un punto sulla situazione italiana.

“Lo scenario più probabile – scrive Silvestrini nelle sue conclusioni -, sembra essere quello della Fintegration, ovvero un contesto fatto di partnership tra attori tradizionali e aziende innovative, le quali piuttosto che entrare in una spietata concorrenza preferiranno collaborare al fine di apportare benefici all’intero sistema”. Un atteggiamento che comporta anche un cambio culturale tra le relazioni di imprese, ma che non deve far dimenticare una serie di rischi. Se questa è la prospettiva, avverte sempre Silvestrini, le criptovalute da una parte e la situazione di oggettiva arretratezza dell’Italia, appaiono essere i due punti più delicati da tenere sotto controllo.

Il lavoro di ricerca di Alessandro Silvestrini non aggiunge nulla a quanto già conosciuto sul tema Fintech, ma ha il merito di sistemare l’argomento entro uno schema organico e comprensibile.

Fintech: un focus sulla situazione italiana

Alessandro Silvestrini

Tesi, Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Economia “Giorgio Fuà”, 2022

Il doppio volto dell’Italia: è malinconica, ma soprattutto vitale per il boom dell’industria

Un’Italia malinconica. Ma anche vitalista, energica, capace di orgogliosi scatti in avanti dell’economia. In disagio e in declino, a cominciare da quello demografico, troppi anziani in difficoltà, pochi giovani energici. Eppure capace di meritarsi un “10,9 e lode”, per trasformare in un voto la percentuale di crescita del Pil nel biennio ‘20-‘21, la migliore del G7, i grandi dell’economia mondiale. Roba che non si vedeva dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto sorprendente da essere definito “miracolo”. Di cosa parliamo, allora, quando cerchiamo di raccontare il nostro Paese? Il ritratto è ambiguo, ambivalente, contrastato. Ma certo tanto complesso da non meritare di essere schiacciato solo sui toni cupi dell’incertezza, della paura, delle preoccupazioni per le bollette dell’energia, l’inflazione, la recessione, le difficoltà per il lavoro e il reddito, l’insieme delle ombre che fanno temere, agli economisti, di essere entrati “nell’era della grande stagflazione” (ne parla Nouriel Roubini su “IlSole24Ore” del 9 dicembre, legando i rischi dell’incrocio tra inflazione e stagnazione economica, la palude in cui l’economia non cresce e i prezzi aumentano, aggravando così l’impoverimento diffuso).

Italia in crisi, dunque? Certo. A patto, però, di considerare il reale significato della parola “crisi”, che condensa i segni del pericolo e delle opportunità. In sintesi: un’Italia che, nonostante tutto, vuole recuperare fiducia. In un migliore futuro. Soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni.

Partiamo dalla malinconia, allora, dalla parola chiave dei 56° rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana, da gran tempo il termometro migliore sugli umori e le tendenze degli italiani (altri osservatori e investigatori sociali, sui media, parlano di “risacca”, “nostalgia” o perfino di “vita agra”, rispolverando le suggestioni di un grande scrittore come Luciano Bianciardi).

Sono malinconici soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati (sempre più infastiditi dal dover sopportare gran parte del carico fiscale per finanziare servizi pubblici e welfare di tutti gli altri italiani, evasori fiscali compresi) ma anche gli imprenditori seri e i lavoratori autonomi che non fatto i furbi con le regole e il fisco. Il nucleo del “ceto medio” impoverito e in difficoltà, l’asse portante del capitale sociale positivo e, naturalmente, della stessa democrazia.

Secondo il Censis, l’89,7% degli italiani prova “tristezza” dopo Covid, guerra e crisi ambientale, il 59% teme che la guerra in Ucraina porti all’uso della bomba atomica, il 58% si sente stanco per l’uso continuo dei dispositivi digitali, mentre l’85% delle donne pensa che la violenza contro di loro sia aumentata. Non sembra che si sia “sull’orlo di una crisi di nervi” né è più dominante quel “rancore” che aveva segnato i Rapporti Censis degli anni precedenti.

C’è semmai una “ritrazione silenziosa” rispetto ai valori e ai legami sociali (come conferma il fatto che un italia non su due non vada più a votare). E un disincanto per i miti della demagogia populista e della comunicazione di massa sulla bella vita: l’83% non è disposto a “fare sacrifici per seguire gli influencer” (ben venga finalmente, il loro tramonto…), l’81% rifiuta i sacrifici “per seguire la moda” e il 63,5% quelli per “sembrare più giovani”. Meno apparenza, più sostanza, proprio in tempi di crisi, sembra dire la stragrande maggioranza degli italiani. Meno chiacchiere, più scelte politiche, culturali ed economiche serie e responsabili. Che si sia alle soglie, proprio grazie alla crisi, di una straordinaria svolta di consapevolezza per la qualità di vita, lavoro, futuro? Si può sperare.

Malinconia, d’altronde, non vuol dire depressione. Né angoscia. Semmai, indica un disagio che si intende superare. Come spiega bene (“La Stampa”, 3 dicembre) uno scrittore acuto e brillante, Diego De Silva, che del suo personaggio, l’avvocato Malinconico (di nome e di fatto), ha fatto un eroe di successo di romanzi e serie Tv: “La malinconia, come ben sanno quelli che ce l’hanno in dotazione, non è incompatibile con la speranza”.

Guardiamoli, allora, i dati sulla speranza. Cominciando proprio con quell’incremento del Pil nel biennio post Covid del 10,9% (stando agli incrementi registrati nel terzo trimestre ‘22: se ci fosse un dato negativo dell’ultimo trimestre, per effetto del boom dei prezzi dell’energia, sino a -1,5%, si arriverebbe comunque a un biennio positivo del 10,4%).

Non un semplice “rimbalzo”, dunque, dopo il crollo del 2020, l’anno del Covid e dei lockdown, ma una vera e propria crescita, con caratteristiche di forza strutturale della nostra economia. La spinta del ‘21, con il Pil in crescita del 6,7%, è stata determinata in gran parte dall’industria manifatturiera e dall’export; nel ‘22 hanno giocato in positivo i servizi (a cominciare dal turismo) e le costruzioni.

“La rivincita del modello italiano: industria 4.0 innovativa e digitale, filiere produttive corte, diversificazione dei prodotti: ecco le ragioni che fanno volare l’export. L’economia nazionale degli ultimi 6 o 7 anni non è più quella che ha stentato sino al 2015”, spiega Marco Fortis, professore di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano e direttore della Fondazione Edison (“Il Foglio”, 5 dicembre), spiegando come gli imprenditori, dopo la Grande Crisi del 2008, hanno saputo usare con intelligenza e intraprendenza gli stimoli fiscali del Piano Industria 4.0 (voluti soprattutto dai governi Renzi e Letta, con impulso determinante dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) per investire in macchinari, transizione digitale, innovazioni di processo e di prodotto, export, qualità, per rafforzare produttività e competitività e guidare così la crescita del Paese.

La nostra industria, insomma, è stata motore di sviluppo. E ha stimolato pure tutti i servizi collegati, logistica, ricerca, finanza, etc. Confermando i nostri primati manifatturieri in Europa e nel mondo.

Analoghi risultati emergono anche da altri studi: dal “campioni della crescita” censiti dal “Corriere della Sera” e raccontati durante i “Festival Città Impresa” di Italy Post al “Rapporto Controvento” di Nomisma (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 12 dicembre) sulle 5.198 migliori aziende manifatturiere italiane dette, appunto, “le fabbriche del Pil”: “L’industria italiana ha capacità, creatività e storia”, conferma Alberto Vacchi che, con la sua Ima, meccatronica d’avanguardia, è tra le migliori imprese multinazionali del Paese.

Nel caos globale degli scambi, in stagioni complesse di reshoring (si torna a produrre nel cuore dell’Europa industriale) e di twin transition, ambientale e digitale, le imprese italiane crescono bene, si rafforzano, sono uno straordinario capitale sociale che garantisce ricchezza, benessere, lavoro, strumenti per continuare a innovare a crescere.

Le indagini di Fortis per la Fondazione Edison mostrano come il buon governo sia essenziale. L’intelligenza economica e politica del governo Draghi, la ricostruzione di fiducia nello sviluppo sostenibile, l’autorevolezza internazionale acquisita per tutto il sistema Paese, lo sguardo lungo sulle trasformazioni necessaria sono state leve fondamentali per rafforzare questa nostra “Italia da 10,9 e lode” di cui stiamo parlando. Peccato, dunque, che improvvidamente e irresponsabilmente, nel luglio scorso, al governo Draghi sia stata staccata la spina, con una crisi che non è piaciuta affatto al mondo dell’impresa.

E adesso? Insiste Fortis: “E’ auspicabile che il nuovo governo Meloni non disperda il potenziale di  crescita e di competitività accumulato”. Appunto.

Un’Italia malinconica. Ma anche vitalista, energica, capace di orgogliosi scatti in avanti dell’economia. In disagio e in declino, a cominciare da quello demografico, troppi anziani in difficoltà, pochi giovani energici. Eppure capace di meritarsi un “10,9 e lode”, per trasformare in un voto la percentuale di crescita del Pil nel biennio ‘20-‘21, la migliore del G7, i grandi dell’economia mondiale. Roba che non si vedeva dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto sorprendente da essere definito “miracolo”. Di cosa parliamo, allora, quando cerchiamo di raccontare il nostro Paese? Il ritratto è ambiguo, ambivalente, contrastato. Ma certo tanto complesso da non meritare di essere schiacciato solo sui toni cupi dell’incertezza, della paura, delle preoccupazioni per le bollette dell’energia, l’inflazione, la recessione, le difficoltà per il lavoro e il reddito, l’insieme delle ombre che fanno temere, agli economisti, di essere entrati “nell’era della grande stagflazione” (ne parla Nouriel Roubini su “IlSole24Ore” del 9 dicembre, legando i rischi dell’incrocio tra inflazione e stagnazione economica, la palude in cui l’economia non cresce e i prezzi aumentano, aggravando così l’impoverimento diffuso).

Italia in crisi, dunque? Certo. A patto, però, di considerare il reale significato della parola “crisi”, che condensa i segni del pericolo e delle opportunità. In sintesi: un’Italia che, nonostante tutto, vuole recuperare fiducia. In un migliore futuro. Soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni.

Partiamo dalla malinconia, allora, dalla parola chiave dei 56° rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana, da gran tempo il termometro migliore sugli umori e le tendenze degli italiani (altri osservatori e investigatori sociali, sui media, parlano di “risacca”, “nostalgia” o perfino di “vita agra”, rispolverando le suggestioni di un grande scrittore come Luciano Bianciardi).

Sono malinconici soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati (sempre più infastiditi dal dover sopportare gran parte del carico fiscale per finanziare servizi pubblici e welfare di tutti gli altri italiani, evasori fiscali compresi) ma anche gli imprenditori seri e i lavoratori autonomi che non fatto i furbi con le regole e il fisco. Il nucleo del “ceto medio” impoverito e in difficoltà, l’asse portante del capitale sociale positivo e, naturalmente, della stessa democrazia.

Secondo il Censis, l’89,7% degli italiani prova “tristezza” dopo Covid, guerra e crisi ambientale, il 59% teme che la guerra in Ucraina porti all’uso della bomba atomica, il 58% si sente stanco per l’uso continuo dei dispositivi digitali, mentre l’85% delle donne pensa che la violenza contro di loro sia aumentata. Non sembra che si sia “sull’orlo di una crisi di nervi” né è più dominante quel “rancore” che aveva segnato i Rapporti Censis degli anni precedenti.

C’è semmai una “ritrazione silenziosa” rispetto ai valori e ai legami sociali (come conferma il fatto che un italia non su due non vada più a votare). E un disincanto per i miti della demagogia populista e della comunicazione di massa sulla bella vita: l’83% non è disposto a “fare sacrifici per seguire gli influencer” (ben venga finalmente, il loro tramonto…), l’81% rifiuta i sacrifici “per seguire la moda” e il 63,5% quelli per “sembrare più giovani”. Meno apparenza, più sostanza, proprio in tempi di crisi, sembra dire la stragrande maggioranza degli italiani. Meno chiacchiere, più scelte politiche, culturali ed economiche serie e responsabili. Che si sia alle soglie, proprio grazie alla crisi, di una straordinaria svolta di consapevolezza per la qualità di vita, lavoro, futuro? Si può sperare.

Malinconia, d’altronde, non vuol dire depressione. Né angoscia. Semmai, indica un disagio che si intende superare. Come spiega bene (“La Stampa”, 3 dicembre) uno scrittore acuto e brillante, Diego De Silva, che del suo personaggio, l’avvocato Malinconico (di nome e di fatto), ha fatto un eroe di successo di romanzi e serie Tv: “La malinconia, come ben sanno quelli che ce l’hanno in dotazione, non è incompatibile con la speranza”.

Guardiamoli, allora, i dati sulla speranza. Cominciando proprio con quell’incremento del Pil nel biennio post Covid del 10,9% (stando agli incrementi registrati nel terzo trimestre ‘22: se ci fosse un dato negativo dell’ultimo trimestre, per effetto del boom dei prezzi dell’energia, sino a -1,5%, si arriverebbe comunque a un biennio positivo del 10,4%).

Non un semplice “rimbalzo”, dunque, dopo il crollo del 2020, l’anno del Covid e dei lockdown, ma una vera e propria crescita, con caratteristiche di forza strutturale della nostra economia. La spinta del ‘21, con il Pil in crescita del 6,7%, è stata determinata in gran parte dall’industria manifatturiera e dall’export; nel ‘22 hanno giocato in positivo i servizi (a cominciare dal turismo) e le costruzioni.

“La rivincita del modello italiano: industria 4.0 innovativa e digitale, filiere produttive corte, diversificazione dei prodotti: ecco le ragioni che fanno volare l’export. L’economia nazionale degli ultimi 6 o 7 anni non è più quella che ha stentato sino al 2015”, spiega Marco Fortis, professore di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano e direttore della Fondazione Edison (“Il Foglio”, 5 dicembre), spiegando come gli imprenditori, dopo la Grande Crisi del 2008, hanno saputo usare con intelligenza e intraprendenza gli stimoli fiscali del Piano Industria 4.0 (voluti soprattutto dai governi Renzi e Letta, con impulso determinante dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) per investire in macchinari, transizione digitale, innovazioni di processo e di prodotto, export, qualità, per rafforzare produttività e competitività e guidare così la crescita del Paese.

La nostra industria, insomma, è stata motore di sviluppo. E ha stimolato pure tutti i servizi collegati, logistica, ricerca, finanza, etc. Confermando i nostri primati manifatturieri in Europa e nel mondo.

Analoghi risultati emergono anche da altri studi: dal “campioni della crescita” censiti dal “Corriere della Sera” e raccontati durante i “Festival Città Impresa” di Italy Post al “Rapporto Controvento” di Nomisma (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 12 dicembre) sulle 5.198 migliori aziende manifatturiere italiane dette, appunto, “le fabbriche del Pil”: “L’industria italiana ha capacità, creatività e storia”, conferma Alberto Vacchi che, con la sua Ima, meccatronica d’avanguardia, è tra le migliori imprese multinazionali del Paese.

Nel caos globale degli scambi, in stagioni complesse di reshoring (si torna a produrre nel cuore dell’Europa industriale) e di twin transition, ambientale e digitale, le imprese italiane crescono bene, si rafforzano, sono uno straordinario capitale sociale che garantisce ricchezza, benessere, lavoro, strumenti per continuare a innovare a crescere.

Le indagini di Fortis per la Fondazione Edison mostrano come il buon governo sia essenziale. L’intelligenza economica e politica del governo Draghi, la ricostruzione di fiducia nello sviluppo sostenibile, l’autorevolezza internazionale acquisita per tutto il sistema Paese, lo sguardo lungo sulle trasformazioni necessaria sono state leve fondamentali per rafforzare questa nostra “Italia da 10,9 e lode” di cui stiamo parlando. Peccato, dunque, che improvvidamente e irresponsabilmente, nel luglio scorso, al governo Draghi sia stata staccata la spina, con una crisi che non è piaciuta affatto al mondo dell’impresa.

E adesso? Insiste Fortis: “E’ auspicabile che il nuovo governo Meloni non disperda il potenziale di  crescita e di competitività accumulato”. Appunto.

Un anno lungo un secolo e mezzo: i nostri progetti nel 150° anniversario della Pirelli

L’anno che si sta per chiudere ha segnato un’importante tappa per Pirelli: le celebrazioni di 150 anni d’impresa. Attraverso i nostri progetti e le nostre iniziative abbiamo voluto raccontare il lungo percorso di ricerca e innovazione che in questo secolo e mezzo ha connotato la vita dell’azienda fondata una domenica di gennaio, il 28 dell’anno 1872, dal giovane ingegnere Giovanni Battista Pirelli. Proprio il 28 gennaio si sono aperti i festeggiamenti con uno spettacolo teatrale in scena al Piccolo Teatro di Milano: un evento, a cura della Direzione Comunicazione Pirelli e della Direzione Cultura, che ha visto alternarsi sul palco testimonianze, voci e immagini provenienti dal nostro Archivio Storico. L’inizio del 2022 ha visto anche la Fondazione “cambiare veste” con il nuovo percorso espositivo “Pirelli, When History Builds the Future”: una mostra che documenta il patrimonio non solo culturale, ma anche tecnologico, dell’azienda attraverso installazioni multimediali come “Inner Future”, a cura di NEO Narrative Environment Operas, video come “Shapes, Patterns, Movements and Colors” e un reportage fotografico di Carlo Furgeri Gilbert che interpreta il mondo della gomma, dalle materie prime al prodotto finito. I tour guidati al nuovo allestimento hanno coinvolto circa 200 partecipanti alle edizioni 2022 degli Archivi Aperti di Rete Fotografia e della XXI Settimana della Cultura d’impresa. La ricerca e l’innovazione sono  anche il focus del nostro libro “Una storia al futuro. Pirelli, 150 di industria, innovazione e cultura”, edito da Marsilio, un racconto a più voci che raccoglie i contributi di rappresentanti delle istituzioni, fra cui l’ex Ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa e i rettori dei Politecnici di Milano e Torino, Ferruccio Resta e Guido Saracco, di grandi autori italiani come Ernesto Ferrero, Giuseppe Lupo, Bruno Arpaia, e internazionali, come Ian McEwan, Geoff Mulgan e David Weinberger, oltre ai protagonisti del mondo dell’architettura, della cultura, della musica e del giornalismo come Salvatore Accardo, Monica Maggioni, Renzo Piano, Ermete Realacci. Il volume è stato presentato al Festival dell’Economia di Trento 2022 e al Salone del Libro di Torino e ha ottenuto due riconoscimenti nell’ambito della valorizzazione dei patrimoni aziendali: il premio Corporate Heritage Awards 2022 nella categoria “Narrazione attraverso parole, immagini e suoni” e la Menzione speciale Montegrappa per la valorizzazione dell’Heritage Aziendale al Premio OMI 2022. A partire dal libro il palinsesto di BookCity Milano ha ospitato l’incontro “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura” nella sede della Fondazione Corriere della Sera: una conversazione tra Antonio Calabrò, Ernesto Ferrero e Piergaetano Marchetti, con lettura di brani tratti dal volume a cura di Isabella Ragonese.

Il 150° anniversario dell’azienda è protagonista anche di un trittico di monete celebrative in oro e argento presentato nella Collezione Numismatica 2022 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Poligrafico e Zecca dello Stato e di un francobollo della serie tematica “le Eccellenze del sistema produttivo ed economico”, oggetti da collezione che esprimono l’identità del Gruppo Pirelli. Un’identità che accomuna la P lunga in tutto il mondo: molti dei Paesi in cui l’azienda è presente – come Brasile, Cina, Spagna, Stati Uniti, per citarne alcuni – hanno allestito in occasione di iniziative di business, culturali e istituzionali realizzate nelle sedi aziendali o presso musei, ambasciate, consolati, il percorso espositivo “Pirelli, racconti d’impresa. 150 anni di storia tra passione e innovazione”, curato dalla Fondazione insieme alla Direzione Comunicazione. La mostra ha uno sviluppo digitale sul sito www.fondazionepirelli.org/pirelli-150-storia-di-passione-e-innovazione/; ai 150 anni è dedicato anche il digital hub «Pirelli Builds the Future», una piattaforma con racconti e approfondimenti che contiene anche una timeline sulla storia Pirelli dal 1872 a oggi. I progetti digitali del 2022 non finiscono qui: per scoprire il nostro mondo anche da remoto sono online i nuovi tour virtuali dedicati alla Bicocca degli Arcimboldi, alla Fondazione e alla mostra “Storie del Grattacielo”, progetto selezionato per l’ADI Design Index 2021 che partecipato alla XXVII Edizione del Premio Compasso d’Oro ADI.

Nell’ambito della formazione, è proseguita l’attività di Fondazione Pirelli Educational con i percorsi didattici dedicati alle scuole, e con i progetti speciali: la decima edizione del corso di aggiornamento per docenti Cinema & Storia, organizzato con Fondazione Isec e in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano sul tema “L’Italia tra declini e rinascite. Una storia economica”, la partecipazione al Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese con l’incontro “Pirelli e il nostro futuro sulle strade – Mobilità sostenibile, pneumatici innovativi e sicurezza stradale”. Anche nel 2022 sono state tante le nostre iniziative nel mondo della lettura: l’incontro dedicato alle scuole nell’ambito della Settimana della Cultura d’Impresa con Roberto Piumini, Antonella Sbuelz Alessandra Tedesco e l’avvio della seconda edizione del Premio Campiello Junior, con la selezione della terzina finalista annunciata il 16 dicembre scorso.

Un anno lungo un secolo e mezzo, per raccontare, e celebrare, la P lunga e la nostra cultura d’impresa.

L’anno che si sta per chiudere ha segnato un’importante tappa per Pirelli: le celebrazioni di 150 anni d’impresa. Attraverso i nostri progetti e le nostre iniziative abbiamo voluto raccontare il lungo percorso di ricerca e innovazione che in questo secolo e mezzo ha connotato la vita dell’azienda fondata una domenica di gennaio, il 28 dell’anno 1872, dal giovane ingegnere Giovanni Battista Pirelli. Proprio il 28 gennaio si sono aperti i festeggiamenti con uno spettacolo teatrale in scena al Piccolo Teatro di Milano: un evento, a cura della Direzione Comunicazione Pirelli e della Direzione Cultura, che ha visto alternarsi sul palco testimonianze, voci e immagini provenienti dal nostro Archivio Storico. L’inizio del 2022 ha visto anche la Fondazione “cambiare veste” con il nuovo percorso espositivo “Pirelli, When History Builds the Future”: una mostra che documenta il patrimonio non solo culturale, ma anche tecnologico, dell’azienda attraverso installazioni multimediali come “Inner Future”, a cura di NEO Narrative Environment Operas, video come “Shapes, Patterns, Movements and Colors” e un reportage fotografico di Carlo Furgeri Gilbert che interpreta il mondo della gomma, dalle materie prime al prodotto finito. I tour guidati al nuovo allestimento hanno coinvolto circa 200 partecipanti alle edizioni 2022 degli Archivi Aperti di Rete Fotografia e della XXI Settimana della Cultura d’impresa. La ricerca e l’innovazione sono  anche il focus del nostro libro “Una storia al futuro. Pirelli, 150 di industria, innovazione e cultura”, edito da Marsilio, un racconto a più voci che raccoglie i contributi di rappresentanti delle istituzioni, fra cui l’ex Ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa e i rettori dei Politecnici di Milano e Torino, Ferruccio Resta e Guido Saracco, di grandi autori italiani come Ernesto Ferrero, Giuseppe Lupo, Bruno Arpaia, e internazionali, come Ian McEwan, Geoff Mulgan e David Weinberger, oltre ai protagonisti del mondo dell’architettura, della cultura, della musica e del giornalismo come Salvatore Accardo, Monica Maggioni, Renzo Piano, Ermete Realacci. Il volume è stato presentato al Festival dell’Economia di Trento 2022 e al Salone del Libro di Torino e ha ottenuto due riconoscimenti nell’ambito della valorizzazione dei patrimoni aziendali: il premio Corporate Heritage Awards 2022 nella categoria “Narrazione attraverso parole, immagini e suoni” e la Menzione speciale Montegrappa per la valorizzazione dell’Heritage Aziendale al Premio OMI 2022. A partire dal libro il palinsesto di BookCity Milano ha ospitato l’incontro “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura” nella sede della Fondazione Corriere della Sera: una conversazione tra Antonio Calabrò, Ernesto Ferrero e Piergaetano Marchetti, con lettura di brani tratti dal volume a cura di Isabella Ragonese.

Il 150° anniversario dell’azienda è protagonista anche di un trittico di monete celebrative in oro e argento presentato nella Collezione Numismatica 2022 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Poligrafico e Zecca dello Stato e di un francobollo della serie tematica “le Eccellenze del sistema produttivo ed economico”, oggetti da collezione che esprimono l’identità del Gruppo Pirelli. Un’identità che accomuna la P lunga in tutto il mondo: molti dei Paesi in cui l’azienda è presente – come Brasile, Cina, Spagna, Stati Uniti, per citarne alcuni – hanno allestito in occasione di iniziative di business, culturali e istituzionali realizzate nelle sedi aziendali o presso musei, ambasciate, consolati, il percorso espositivo “Pirelli, racconti d’impresa. 150 anni di storia tra passione e innovazione”, curato dalla Fondazione insieme alla Direzione Comunicazione. La mostra ha uno sviluppo digitale sul sito www.fondazionepirelli.org/pirelli-150-storia-di-passione-e-innovazione/; ai 150 anni è dedicato anche il digital hub «Pirelli Builds the Future», una piattaforma con racconti e approfondimenti che contiene anche una timeline sulla storia Pirelli dal 1872 a oggi. I progetti digitali del 2022 non finiscono qui: per scoprire il nostro mondo anche da remoto sono online i nuovi tour virtuali dedicati alla Bicocca degli Arcimboldi, alla Fondazione e alla mostra “Storie del Grattacielo”, progetto selezionato per l’ADI Design Index 2021 che partecipato alla XXVII Edizione del Premio Compasso d’Oro ADI.

Nell’ambito della formazione, è proseguita l’attività di Fondazione Pirelli Educational con i percorsi didattici dedicati alle scuole, e con i progetti speciali: la decima edizione del corso di aggiornamento per docenti Cinema & Storia, organizzato con Fondazione Isec e in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano sul tema “L’Italia tra declini e rinascite. Una storia economica”, la partecipazione al Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese con l’incontro “Pirelli e il nostro futuro sulle strade – Mobilità sostenibile, pneumatici innovativi e sicurezza stradale”. Anche nel 2022 sono state tante le nostre iniziative nel mondo della lettura: l’incontro dedicato alle scuole nell’ambito della Settimana della Cultura d’Impresa con Roberto Piumini, Antonella Sbuelz Alessandra Tedesco e l’avvio della seconda edizione del Premio Campiello Junior, con la selezione della terzina finalista annunciata il 16 dicembre scorso.

Un anno lungo un secolo e mezzo, per raccontare, e celebrare, la P lunga e la nostra cultura d’impresa.

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Sicurezza, le scelte delle imprese: un fondo strategico Ue per energia e materie prime  

Essere Europa, nonostante tutto. Nonostante l’irruzione, anche sulla scena europea, degli interessi e dei miopi egoismi nazionali e delle tensioni populiste e sovraniste, che possono frantumare il percorso politico democratico costrutto faticosamente nel corso degli anni. Nonostante le divaricazioni tra Francia e Germania sui temi dell’energia o tra Francia e Italia sulla gestione dell’immigrazione. Nonostante i tempi troppo lunghi perché la Ue sappia trovare intese forti ed efficaci sulla sicurezza, i mercati delle materie prime e lo sviluppo sostenibile, mentre la guerra in Ucraina aggrava tensioni politiche e drammi sociali, la recessione economica avanza minacciosa e si allargano le fratture geopolitiche globali. Essere Europa, essere ancora di più e meglio Europa, insomma, per non mettere in crisi la nostra lunga stagione di pace, democrazia e benessere.

Essere Europa, dunque, significa oggi avere tra le priorità una strategia Ue ben costruita per la competitività del suo sistema economico e delle imprese, superando rapidamente “tre errori storici”: avere delegato la difesa agli Usa, affidato gran parte delle forniture d’energia alla Russia e determinato una eccessiva dipendenza per le tecnologie dalla Cina e dagli stessi Usa (la sintesi è di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria).

Ci sono passi avanti di cui tenere conto. Come il documento di Business Europe (dopo la riunione, alla fine di novembre, a Stoccolma, dei 40 leader delle associazioni imprenditoriali europee) che insiste sulla necessità di “agire uniti” di fronte alla crisi in corso, per evitare che “forze divisive e individualismi  minino la solidarietà, uno dei valori fondanti dell’Unione Europea”.

E ha un grande valore soprattutto l’intesa strategica raggiunta tra Confindustria, le imprese francesi riunite nel Medef e quelle tedesche della Bdi, riunite a Roma ai primi di dicembre per il quarto vertice annuale, per chiedere alla Commissione Ue una politica comune per l’energia e le materie prime strategiche, un ombrello finanziario per le acquisizioni e le forniture di gas e petrolio, di litio, nichel e “terre rare”, una serie di strumenti messi a punto da Bruxelles per proteggere i paesi europei dalle variazioni di prezzi e volumi e dalle speculazioni sui mercati internazionali, in cui proprio le forniture energetiche vengono usate come strumenti bellici, per scomporre e ricomporre gli equilibri di potere e sicurezza in cui l’Europa, povera di materie prime, può subire le conseguenze negative peggiori.

La consapevolezza comune è chiara: per l’Europa, perdere la propria competitività economica significa mettere a rischio l’occupazione e il modello di welfare e dunque cadere in una crisi più generale, quella della nostra democrazia.

Ecco perché intervenire rapidamente. Sull’economia. E le regole Ue. Da rendere più efficaci e su cui fondare una politica di bilancio in grado di stimolare investimenti pubblici e privati sulla crescita economica e lo sviluppo sostenibile, obiettivo sempre prioritario ma da sottrarre ad “approcci ideologici” che frenano economia, imprese, tenuta sociale.

L’Europa, infatti, è un gigante industriale con primati rilevanti nella cosiddetta twin transition ambientale e digitale, un territorio di straordinarie imprese trasformatrici, un mercato forte e ricco, un’area interconnessa da scambi, relazioni e accordi che ne fanno una protagonista globale di innovazione e competitività. Ma è una realtà fragile, appunto perché povera di materie prime. E l’assenza di una politica estera comune della Ue sulla sicurezza e la difesa ne rende difficili e poco efficaci le reazioni politiche a tutela dei suoi valori e dei suoi interessi.

Lo sguardo preoccupato è rivolto anche verso gli Usa, dove l’amministrazione Biden, con l’Inflation Reduction Act, spinge le imprese a comprare da fornitori americani, mettendo in seria difficoltà le attività delle imprese europee. Si rischia una nuova “guerra commerciale” Usa-Ue? La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen è rassicurante, ricordando come un conflitto non serva a nessuno dei due contendenti, avvantaggiando invece altri giganti economici. Ma è altrettanto netta nel difendere gli interessi europei.

Ecco perché è indispensabile, proprio in momenti di crisi e tensioni, insistere anche da parte delle imprese e delle loro organizzazioni su una risposta strategica che veda in primo piano la Commissione Ue e rafforzare l’unità di intenti di Germania, Francia e Italia innanzitutto, per evitare le tentazioni dell’unilateralismo e mostrarsi invece capaci di essere motore di unità e scelte condivise.

C’è un precedente recente, cui fare riferimento: la scelta unitaria di reagire alla pandemia da Covid19 mettendo in comune ricerca scientifica e capacità industriali e logistiche per produrre i vaccini e realizzare interventi sanitari efficaci. E, subito dopo, la creazione del “Recovery Plan Next Generation Ue”, con risorse raccolte sui mercati finanziari internazionali con la garanzia Ue, per fare fronte alle crisi economiche e sociali scatenate dalla crisi Covid e costruire così una visione positiva di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni.

Adesso, proprio sull’energia e sulle materie prime, vale la pena pensare a una scelta analoga, a un nuovo fondo europeo, da finanziarie sempre facendo ricorso ai mercati, per le forniture comuni, a prezzi e condizioni che garantiscano la competitività delle imprese europee e non le mettano in difficoltà di fronte ai competitor internazionali, a cominciare da Usa e Cina (che non subiscono, attualmente, le conseguenze negative del caro-energia).

Naturalmente, anche il bilancio Ue e il nuovo Patto di Stabilità andrebbero messi a punto tenendo conto di queste esigenze: una lungimirante politica di sviluppo dell’Europa sostenibile ed equilibrata, capace di difendere e rilanciare valori e interessi europei. Quel legame forte tra democrazia politica, cultura del mercato aperto e ben regolato, libertà e responsabilità dell’ intraprendere, tutela sociale diffusa. La sintesi tra competitività e inclusione sociale, tra produttività e solidarietà.

Altri temi, sono al centro delle posizioni delle associazioni aziendali europee: regole formali di mercato meno rigide, per stimolare la crescita delle imprese e la loro competitività, un mercato unico più efficiente, un insieme di scelte Ue sul commercio internazionale che rafforzi l’attrattività dei paesi Ue per gli investimenti globali, una politica industriale e fiscale comune che agevoli gli investimenti pubblici e privati per la ricerca scientifica e i trasferimenti tecnologici.

“Viviamo una crisi asimmetrica, Usa e Asia non ne sono colpite. Il rischio di deindustrializzazione è molto forte. E noi imprenditori europei siamo consapevoli del pericolo di perdere intere filiere produttive, il loro know how ma anche il loro peso sociale”, sostiene Stefano Pan, delegato di Confindustria per l’Europa.

Le indicazioni delle imprese trovano un ascolto attento a Bruxelles, soprattutto da parte di due Commissari sensibili ai temi dello sviluppo come Paolo Gentiloni e Thierry Breton e della stessa Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, consapevole del legame stretto tra gli equilibri politico-sociali e la competitività economica. L’ Europa, insomma, può fare un gioco vincente solo se solidale. E lungimirante. “Next Generation”, appunto.

(Photo Getty Images)

Essere Europa, nonostante tutto. Nonostante l’irruzione, anche sulla scena europea, degli interessi e dei miopi egoismi nazionali e delle tensioni populiste e sovraniste, che possono frantumare il percorso politico democratico costrutto faticosamente nel corso degli anni. Nonostante le divaricazioni tra Francia e Germania sui temi dell’energia o tra Francia e Italia sulla gestione dell’immigrazione. Nonostante i tempi troppo lunghi perché la Ue sappia trovare intese forti ed efficaci sulla sicurezza, i mercati delle materie prime e lo sviluppo sostenibile, mentre la guerra in Ucraina aggrava tensioni politiche e drammi sociali, la recessione economica avanza minacciosa e si allargano le fratture geopolitiche globali. Essere Europa, essere ancora di più e meglio Europa, insomma, per non mettere in crisi la nostra lunga stagione di pace, democrazia e benessere.

Essere Europa, dunque, significa oggi avere tra le priorità una strategia Ue ben costruita per la competitività del suo sistema economico e delle imprese, superando rapidamente “tre errori storici”: avere delegato la difesa agli Usa, affidato gran parte delle forniture d’energia alla Russia e determinato una eccessiva dipendenza per le tecnologie dalla Cina e dagli stessi Usa (la sintesi è di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria).

Ci sono passi avanti di cui tenere conto. Come il documento di Business Europe (dopo la riunione, alla fine di novembre, a Stoccolma, dei 40 leader delle associazioni imprenditoriali europee) che insiste sulla necessità di “agire uniti” di fronte alla crisi in corso, per evitare che “forze divisive e individualismi  minino la solidarietà, uno dei valori fondanti dell’Unione Europea”.

E ha un grande valore soprattutto l’intesa strategica raggiunta tra Confindustria, le imprese francesi riunite nel Medef e quelle tedesche della Bdi, riunite a Roma ai primi di dicembre per il quarto vertice annuale, per chiedere alla Commissione Ue una politica comune per l’energia e le materie prime strategiche, un ombrello finanziario per le acquisizioni e le forniture di gas e petrolio, di litio, nichel e “terre rare”, una serie di strumenti messi a punto da Bruxelles per proteggere i paesi europei dalle variazioni di prezzi e volumi e dalle speculazioni sui mercati internazionali, in cui proprio le forniture energetiche vengono usate come strumenti bellici, per scomporre e ricomporre gli equilibri di potere e sicurezza in cui l’Europa, povera di materie prime, può subire le conseguenze negative peggiori.

La consapevolezza comune è chiara: per l’Europa, perdere la propria competitività economica significa mettere a rischio l’occupazione e il modello di welfare e dunque cadere in una crisi più generale, quella della nostra democrazia.

Ecco perché intervenire rapidamente. Sull’economia. E le regole Ue. Da rendere più efficaci e su cui fondare una politica di bilancio in grado di stimolare investimenti pubblici e privati sulla crescita economica e lo sviluppo sostenibile, obiettivo sempre prioritario ma da sottrarre ad “approcci ideologici” che frenano economia, imprese, tenuta sociale.

L’Europa, infatti, è un gigante industriale con primati rilevanti nella cosiddetta twin transition ambientale e digitale, un territorio di straordinarie imprese trasformatrici, un mercato forte e ricco, un’area interconnessa da scambi, relazioni e accordi che ne fanno una protagonista globale di innovazione e competitività. Ma è una realtà fragile, appunto perché povera di materie prime. E l’assenza di una politica estera comune della Ue sulla sicurezza e la difesa ne rende difficili e poco efficaci le reazioni politiche a tutela dei suoi valori e dei suoi interessi.

Lo sguardo preoccupato è rivolto anche verso gli Usa, dove l’amministrazione Biden, con l’Inflation Reduction Act, spinge le imprese a comprare da fornitori americani, mettendo in seria difficoltà le attività delle imprese europee. Si rischia una nuova “guerra commerciale” Usa-Ue? La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen è rassicurante, ricordando come un conflitto non serva a nessuno dei due contendenti, avvantaggiando invece altri giganti economici. Ma è altrettanto netta nel difendere gli interessi europei.

Ecco perché è indispensabile, proprio in momenti di crisi e tensioni, insistere anche da parte delle imprese e delle loro organizzazioni su una risposta strategica che veda in primo piano la Commissione Ue e rafforzare l’unità di intenti di Germania, Francia e Italia innanzitutto, per evitare le tentazioni dell’unilateralismo e mostrarsi invece capaci di essere motore di unità e scelte condivise.

C’è un precedente recente, cui fare riferimento: la scelta unitaria di reagire alla pandemia da Covid19 mettendo in comune ricerca scientifica e capacità industriali e logistiche per produrre i vaccini e realizzare interventi sanitari efficaci. E, subito dopo, la creazione del “Recovery Plan Next Generation Ue”, con risorse raccolte sui mercati finanziari internazionali con la garanzia Ue, per fare fronte alle crisi economiche e sociali scatenate dalla crisi Covid e costruire così una visione positiva di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni.

Adesso, proprio sull’energia e sulle materie prime, vale la pena pensare a una scelta analoga, a un nuovo fondo europeo, da finanziarie sempre facendo ricorso ai mercati, per le forniture comuni, a prezzi e condizioni che garantiscano la competitività delle imprese europee e non le mettano in difficoltà di fronte ai competitor internazionali, a cominciare da Usa e Cina (che non subiscono, attualmente, le conseguenze negative del caro-energia).

Naturalmente, anche il bilancio Ue e il nuovo Patto di Stabilità andrebbero messi a punto tenendo conto di queste esigenze: una lungimirante politica di sviluppo dell’Europa sostenibile ed equilibrata, capace di difendere e rilanciare valori e interessi europei. Quel legame forte tra democrazia politica, cultura del mercato aperto e ben regolato, libertà e responsabilità dell’ intraprendere, tutela sociale diffusa. La sintesi tra competitività e inclusione sociale, tra produttività e solidarietà.

Altri temi, sono al centro delle posizioni delle associazioni aziendali europee: regole formali di mercato meno rigide, per stimolare la crescita delle imprese e la loro competitività, un mercato unico più efficiente, un insieme di scelte Ue sul commercio internazionale che rafforzi l’attrattività dei paesi Ue per gli investimenti globali, una politica industriale e fiscale comune che agevoli gli investimenti pubblici e privati per la ricerca scientifica e i trasferimenti tecnologici.

“Viviamo una crisi asimmetrica, Usa e Asia non ne sono colpite. Il rischio di deindustrializzazione è molto forte. E noi imprenditori europei siamo consapevoli del pericolo di perdere intere filiere produttive, il loro know how ma anche il loro peso sociale”, sostiene Stefano Pan, delegato di Confindustria per l’Europa.

Le indicazioni delle imprese trovano un ascolto attento a Bruxelles, soprattutto da parte di due Commissari sensibili ai temi dello sviluppo come Paolo Gentiloni e Thierry Breton e della stessa Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, consapevole del legame stretto tra gli equilibri politico-sociali e la competitività economica. L’ Europa, insomma, può fare un gioco vincente solo se solidale. E lungimirante. “Next Generation”, appunto.

(Photo Getty Images)

Complessità come ricchezza, anche per la cultura d’impresa

Un articolo ragiona sulle relazioni tra storia ed economia, e affronta metodi vecchi e nuovi di conoscenza

 

Storia come vicenda umana che si ripete e che contemporaneamente si rinnova. Storia che può insegnare a guardare meglio all’oggi e con maggiore attenzione al futuro. Affrontando così pressoché tutti i temi da affrontare. Storia complessa, dunque. Ma da esplorare e apprezzare. Anche quando occorre contaminare i metodi classici di indagine con quelli più recenti (e magari innovativi). Condizione che vale anche per l’economia e le imprese.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Giovanni Gozzini e Francesco Maccelli con il loro “Storia contemporanea, storia economica ed economia: un dialogo tra sordi?” intervento apparso recentemente in Passato e presente.

I due autori partono da una constatazione: sempre di più i metodi della matematica, e in particolare dell’econometria, toccano temi e indagini della storia. Con tutti gli eccessi del caso. E’ facile, viene spiegato nella ricerca, cedere all’eccesso di oggettività e di matematicità a scapito dell’umanità che ogni vicenda storica contiene. Problema di non poco conto, che tocca anche gli stessi studiosi alle prese con un approccio tecnicamente lontano da quello proprio dello storico (e spesso anche dell’economista). Calcolo, dunque, al posto del sentire umano. Da qui anche il titolo provocatorio dell’intervento di Gozzini e Maccelli: “Dialogo tra sordi?”. E così parrebbe davvero essere quando, viene fatto notare dai due autori, gli “storici matematici” creano propri ambiti di ricerca e di scambio di informazione, ambiti dai quali gli “altri storici” così come gli altri studiosi delle cose di economia e società vengono esclusi.

Il rischio, è l’opinione dei due ricercatori, è quello di ridurre la storia e l’interpretazione della realtà ad un fatto meccanicistico, altro dalla complessità del reale. Per intraprendere, invece, il cammino corretto, viene spiegato, è necessario uno sforzo da parte di chi indaga storia e presente che riesca a conciliare approcci diversi, trarre il meglio dei nuovi metodi di indagine senza tuttavia perdere gli aspetti dell’azione umana che non possono essere ridotti a formule matematiche. E’ la complessità della storia che deve essere compresa invece di essere semplificata e basta. Un buon esercizio che vale anche per la cultura d’impresa che vuole crescere e farsi sempre più completa.

Storia contemporanea, storia economica ed economia: un dialogo tra sordi?

Giovanni Gozzini, Francesco Maccelli

PASSATO E PRESENTE, 117/2022

Un articolo ragiona sulle relazioni tra storia ed economia, e affronta metodi vecchi e nuovi di conoscenza

 

Storia come vicenda umana che si ripete e che contemporaneamente si rinnova. Storia che può insegnare a guardare meglio all’oggi e con maggiore attenzione al futuro. Affrontando così pressoché tutti i temi da affrontare. Storia complessa, dunque. Ma da esplorare e apprezzare. Anche quando occorre contaminare i metodi classici di indagine con quelli più recenti (e magari innovativi). Condizione che vale anche per l’economia e le imprese.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Giovanni Gozzini e Francesco Maccelli con il loro “Storia contemporanea, storia economica ed economia: un dialogo tra sordi?” intervento apparso recentemente in Passato e presente.

I due autori partono da una constatazione: sempre di più i metodi della matematica, e in particolare dell’econometria, toccano temi e indagini della storia. Con tutti gli eccessi del caso. E’ facile, viene spiegato nella ricerca, cedere all’eccesso di oggettività e di matematicità a scapito dell’umanità che ogni vicenda storica contiene. Problema di non poco conto, che tocca anche gli stessi studiosi alle prese con un approccio tecnicamente lontano da quello proprio dello storico (e spesso anche dell’economista). Calcolo, dunque, al posto del sentire umano. Da qui anche il titolo provocatorio dell’intervento di Gozzini e Maccelli: “Dialogo tra sordi?”. E così parrebbe davvero essere quando, viene fatto notare dai due autori, gli “storici matematici” creano propri ambiti di ricerca e di scambio di informazione, ambiti dai quali gli “altri storici” così come gli altri studiosi delle cose di economia e società vengono esclusi.

Il rischio, è l’opinione dei due ricercatori, è quello di ridurre la storia e l’interpretazione della realtà ad un fatto meccanicistico, altro dalla complessità del reale. Per intraprendere, invece, il cammino corretto, viene spiegato, è necessario uno sforzo da parte di chi indaga storia e presente che riesca a conciliare approcci diversi, trarre il meglio dei nuovi metodi di indagine senza tuttavia perdere gli aspetti dell’azione umana che non possono essere ridotti a formule matematiche. E’ la complessità della storia che deve essere compresa invece di essere semplificata e basta. Un buon esercizio che vale anche per la cultura d’impresa che vuole crescere e farsi sempre più completa.

Storia contemporanea, storia economica ed economia: un dialogo tra sordi?

Giovanni Gozzini, Francesco Maccelli

PASSATO E PRESENTE, 117/2022

Paura da vincere

Dieci interviste ad altrettanti Ceo svelano un lato nascosto e importante della buona cultura d’impresa

Gestire un’impresa può significare anche aver paura. Molta paura. Oppure avere dei dubbi, non dormire di notte, arrabbiarsi, commuoversi. Perché – in fondo -, gestire un’impresa è essere a capo di una comunità di donne e uomini, ed essere responsabile di tutti. Senza dire della capacità, necessaria, di infondere coraggio quando serve, entusiasmo quando occorre. Ed avere severità, prima di tutto cons e stessi. E’ un po’ tutto questo che si ritrova nelle pagine di “Certo che ho paura. Storie di vita vissuta di dieci Ceo”, libro di Marco Rosetti che, oltre i Ceo, dovrebbero leggere tutti quelli che con le impresse hanno a che fare.

Il punto di partenza delle dieci interviste che l’autore ha condotto ad altrettanti Ceo è uno solo: un Chief Executive Officer è chiamato a dirigere l’azienda tra tempeste e arcobaleni, senza mai perdere di vista la meta. Ma qualsiasi Ceo è prima di tutto un essere umano. Con tutte le qualità che ne conseguono. Così, ogni Ceo a volte vorrebbe tornare nel “caldo del suo rifugio” ma è sempre costretto a scommettere sul futuro e a rischiare tutto. Rosetti, poi, si permette di chiedere ai dieci personaggi che ha intervistato quando e perché hanno nutrito dei dubbi, se hanno mai avuto momenti di debolezza oppure se in qualche occasione si sono commossi. Così, attraverso queste dieci conversazioni l’autore indaga un mondo pressoché sconosciuto oppure del quale si conosce solo una minima parte (e forse nemmeno quella più importante). Ne emergono, tra l’altro, non figure sminuite nel loro ruolo di “capi d’azienda” ma, anzi, persone a tutto tondo, più capaci di dare la giusta direzione a sistemi complessi come sono tutte le imprese che si rispettino. Persone capaci di comandare e di ascoltare, e per questo di guidare organizzazioni della produzione in situazioni difficili. Scorrono così nelle pagine le storie degli amministratori di La Marzocco, F1consulting, Gnutti Group, WeSchool, Hera Comm,  Flowe, Diagonal, Gellify, Unicalce, Clear Channel. Tutti racconti diversi tra di loro, eppure uniti da un tratto di professionalità che non si disgiunge da una grande umanità.

Bella la regola – ultima di 25 che l’autore si è dato dopo aver concluso il suo libro -, che chiude le circa 250 pagine tutte la da leggere: “Studia il tuo Ego e dimenticalo”.

Certo che ho paura. Storie di vita vissuta di dieci Ceo

Marco Rosetti

GueriniNext, 2022

Dieci interviste ad altrettanti Ceo svelano un lato nascosto e importante della buona cultura d’impresa

Gestire un’impresa può significare anche aver paura. Molta paura. Oppure avere dei dubbi, non dormire di notte, arrabbiarsi, commuoversi. Perché – in fondo -, gestire un’impresa è essere a capo di una comunità di donne e uomini, ed essere responsabile di tutti. Senza dire della capacità, necessaria, di infondere coraggio quando serve, entusiasmo quando occorre. Ed avere severità, prima di tutto cons e stessi. E’ un po’ tutto questo che si ritrova nelle pagine di “Certo che ho paura. Storie di vita vissuta di dieci Ceo”, libro di Marco Rosetti che, oltre i Ceo, dovrebbero leggere tutti quelli che con le impresse hanno a che fare.

Il punto di partenza delle dieci interviste che l’autore ha condotto ad altrettanti Ceo è uno solo: un Chief Executive Officer è chiamato a dirigere l’azienda tra tempeste e arcobaleni, senza mai perdere di vista la meta. Ma qualsiasi Ceo è prima di tutto un essere umano. Con tutte le qualità che ne conseguono. Così, ogni Ceo a volte vorrebbe tornare nel “caldo del suo rifugio” ma è sempre costretto a scommettere sul futuro e a rischiare tutto. Rosetti, poi, si permette di chiedere ai dieci personaggi che ha intervistato quando e perché hanno nutrito dei dubbi, se hanno mai avuto momenti di debolezza oppure se in qualche occasione si sono commossi. Così, attraverso queste dieci conversazioni l’autore indaga un mondo pressoché sconosciuto oppure del quale si conosce solo una minima parte (e forse nemmeno quella più importante). Ne emergono, tra l’altro, non figure sminuite nel loro ruolo di “capi d’azienda” ma, anzi, persone a tutto tondo, più capaci di dare la giusta direzione a sistemi complessi come sono tutte le imprese che si rispettino. Persone capaci di comandare e di ascoltare, e per questo di guidare organizzazioni della produzione in situazioni difficili. Scorrono così nelle pagine le storie degli amministratori di La Marzocco, F1consulting, Gnutti Group, WeSchool, Hera Comm,  Flowe, Diagonal, Gellify, Unicalce, Clear Channel. Tutti racconti diversi tra di loro, eppure uniti da un tratto di professionalità che non si disgiunge da una grande umanità.

Bella la regola – ultima di 25 che l’autore si è dato dopo aver concluso il suo libro -, che chiude le circa 250 pagine tutte la da leggere: “Studia il tuo Ego e dimenticalo”.

Certo che ho paura. Storie di vita vissuta di dieci Ceo

Marco Rosetti

GueriniNext, 2022

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