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Premio Campiello Junior 2023
Cerimonia di Selezione dei libri finalisti

Si svolgerà venerdì 16 dicembre 2022 alle ore 11.00, in diretta streaming sulla pagina Facebook di Fondazione Pirelli e sui canali social del Premio Campiello, la Cerimonia di Selezione delle Terne finaliste del Premio Campiello Junior.

Durante la cerimonia verranno proclamati i libri finalisti, tre per ognuna delle due categorie del Premio: 7-10 anni e 11-14 anni. La scelta sarà a cura di una Giuria Tecnica presieduta dallo scrittore Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.

Durante l’incontro, moderato da Giancarlo Leone, interverranno anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello.

Dopo la selezione dei finalisti sarà il momento della Giuria dei Lettori: 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero  avranno il compito di leggere i libri finalisti ed esprimere la loro preferenza, per poter decretare i due vincitori che verranno proclamati a maggio 2023 e premiati a settembre 2023.

Per seguire la diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Si svolgerà venerdì 16 dicembre 2022 alle ore 11.00, in diretta streaming sulla pagina Facebook di Fondazione Pirelli e sui canali social del Premio Campiello, la Cerimonia di Selezione delle Terne finaliste del Premio Campiello Junior.

Durante la cerimonia verranno proclamati i libri finalisti, tre per ognuna delle due categorie del Premio: 7-10 anni e 11-14 anni. La scelta sarà a cura di una Giuria Tecnica presieduta dallo scrittore Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Martino Negri, docente di didattica della letteratura e letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia e David Tolin, libraio e presidente di ALIR.

Durante l’incontro, moderato da Giancarlo Leone, interverranno anche Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello.

Dopo la selezione dei finalisti sarà il momento della Giuria dei Lettori: 240 ragazzi da tutta Italia e dall’estero  avranno il compito di leggere i libri finalisti ed esprimere la loro preferenza, per poter decretare i due vincitori che verranno proclamati a maggio 2023 e premiati a settembre 2023.

Per seguire la diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

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Barilla, Pirelli e quei viaggi decisivi per le loro aziende

Vincoli e opportunità

Una tesi discussa presso l’Università politecnica delle Marche cerca di approfondire le relazioni tra controllo manageriale e motivazioni d’impresa

 

Lavorare insieme per davvero, anche in fabbrica e nelle aziende più competitive. L’indicazione vale per tutte le realtà. E viene declinata in modi differenti e vari che, se conosciuti, possono contribuire a migliorare l’intero sistema della produzione. Anche quando si tratta di conciliare la collaborazione con il controllo. E’ il caso dell’indagine – trasformata poi in tesi -, di Erica Calosci: “Il sistema di controllo manageriale: il caso Elica spa”.

La ricerca, discussa presso l’Università politecnica delle Marche, parte da una considerazione: “Dato il dinamismo del mercato odierno, l’alto livello di competizione tra aziende e la scarsità delle risorse, le imprese necessitano sempre più frequentemente di sistemi di controllo efficaci che permettano di raggiungere gli obiettivi prefissati. Queste nuove necessità hanno spinto le aziende a comprendere l’importanza dell’investire sulla motivazione e sulla valorizzazione delle risorse umane, ovvero su quelle che sono le classiche componenti del cosiddetto sistema di controllo manageriale”.

Organizzazione e collaborazione, quindi, possono andare di pari passo soprattutto quando, come spiega Calosci, “attraverso il controllo del personale e della cultura interna” si riesce ad “orientare i comportamenti degli individui verso il perseguimento degli obiettivi aziendali”. Tutto per raggiungere alcuni traguardi comuni alle organizzazioni della produzione come il rafforzamento dell’immagine, la capacità di resistere alle pressioni finanziarie, l’accrescimento della motivazione e dell’innovazione diffuse nel personale.

Per approfondire tutto questo, Erica Calosci prende prima in considerazione le basi teoriche del controllo manageriale e successivamente affronta il caso di Elica spa, azienda marchigiana attiva nella produzione di cappe. L’indagine mira quindi a far comprendere l’importanza ed i limiti del controllo del personale e della cultura interna, che, insieme al controllo dei risultati e delle azioni, costituiscono il più ampio sistema di controllo manageriale. Ne emerge un’indicazione che vale pressoché per tutte le realtà aziendali: la necessità di un equilibrio (delicato e fragile) tra strumenti di controllo e di motivazione, tra vincoli e opportunità. Solo in questo modo, è il messaggio che arriva dall’indagine di Erica Calosci, è possibile la creazione di un “clima d’impresa” funzionale alla crescita ma anche ad una cultura del produrre a tutto tondo.

Il sistema di controllo manageriale: il caso Elica spa

Erica Calosci, Tesi, Università Politecnica delle Marche, Facoltà di economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea triennale in Economia Aziendale, 2021-2022.

Una tesi discussa presso l’Università politecnica delle Marche cerca di approfondire le relazioni tra controllo manageriale e motivazioni d’impresa

 

Lavorare insieme per davvero, anche in fabbrica e nelle aziende più competitive. L’indicazione vale per tutte le realtà. E viene declinata in modi differenti e vari che, se conosciuti, possono contribuire a migliorare l’intero sistema della produzione. Anche quando si tratta di conciliare la collaborazione con il controllo. E’ il caso dell’indagine – trasformata poi in tesi -, di Erica Calosci: “Il sistema di controllo manageriale: il caso Elica spa”.

La ricerca, discussa presso l’Università politecnica delle Marche, parte da una considerazione: “Dato il dinamismo del mercato odierno, l’alto livello di competizione tra aziende e la scarsità delle risorse, le imprese necessitano sempre più frequentemente di sistemi di controllo efficaci che permettano di raggiungere gli obiettivi prefissati. Queste nuove necessità hanno spinto le aziende a comprendere l’importanza dell’investire sulla motivazione e sulla valorizzazione delle risorse umane, ovvero su quelle che sono le classiche componenti del cosiddetto sistema di controllo manageriale”.

Organizzazione e collaborazione, quindi, possono andare di pari passo soprattutto quando, come spiega Calosci, “attraverso il controllo del personale e della cultura interna” si riesce ad “orientare i comportamenti degli individui verso il perseguimento degli obiettivi aziendali”. Tutto per raggiungere alcuni traguardi comuni alle organizzazioni della produzione come il rafforzamento dell’immagine, la capacità di resistere alle pressioni finanziarie, l’accrescimento della motivazione e dell’innovazione diffuse nel personale.

Per approfondire tutto questo, Erica Calosci prende prima in considerazione le basi teoriche del controllo manageriale e successivamente affronta il caso di Elica spa, azienda marchigiana attiva nella produzione di cappe. L’indagine mira quindi a far comprendere l’importanza ed i limiti del controllo del personale e della cultura interna, che, insieme al controllo dei risultati e delle azioni, costituiscono il più ampio sistema di controllo manageriale. Ne emerge un’indicazione che vale pressoché per tutte le realtà aziendali: la necessità di un equilibrio (delicato e fragile) tra strumenti di controllo e di motivazione, tra vincoli e opportunità. Solo in questo modo, è il messaggio che arriva dall’indagine di Erica Calosci, è possibile la creazione di un “clima d’impresa” funzionale alla crescita ma anche ad una cultura del produrre a tutto tondo.

Il sistema di controllo manageriale: il caso Elica spa

Erica Calosci, Tesi, Università Politecnica delle Marche, Facoltà di economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea triennale in Economia Aziendale, 2021-2022.

Storie di famiglie d’impresa

L’ultimo libro della Federazione dei Cavalieri del Lavoro racconta di una cultura del produrre che non può essere dimenticata

 

Famiglie e imprese. Anzi, famiglie d’imprese. Molte e diverse tra di loro. Eppure uguali nei tratti fondamentali. Espressioni, tutte, di una cultura dell’intraprendere che si è tramandata negli anni. E che, in forma varie, esiste ancora oggi. E’ la sensazione – il messaggio -,  che si trae leggendo “Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro”, raccolta di 75 storie di famiglie di altrettanti Cavalieri del Lavoro. Libro costruito con una particolarità: raccogliere i racconti delle famiglie imprenditoriali che annoverano almeno due Cavalieri del Lavoro. Un approccio diverso dal consueto ma non restrittivo, visto che i 75 racconti di fatto percorrono tutta la storia economica italiana dall’Ottocento ad oggi.

Per ognuna delle settantacinque storie familiari analizzate, è stata redatta una sintesi dell’avventura imprenditoriale lungo l’arco di più generazioni, dal fondatore ad oggi, cui si accompagnano altrettante schede biografiche relative a tutti i componenti della famiglia insigniti dell’onorificenza. A completare il quadro storico, con uno sguardo volto verso il futuro la testimonianza del Cavaliere del Lavoro in carica.

Sotto gli occhi di chi legge, quindi, storie varie e di pressoché tutti i comparti produttivi italiani. Racconti, alcuni, di imprese quasi sconosciute ai più e, altri, di nomi della grande industria e non solo. E, se elencarne alcuni di questi nomi sarebbe fuorviante, vale invece leggere quanto riportato nel saggio introduttivo al libro: leggere questi racconti consente di scoprire la “vera identità collettiva ha mantenuto insieme un Paese arrivato tardi all’unificazione, dilaniato da due guerre mondiali, poi dal terrorismo e da diverse crisi economiche. Un Paese senza alcuna risorsa nel sottosuolo ma ricco solo della sua imprenditività e della sua disposizione verso il lavoro di qualità, che è una delle vere anime nazionali, certamente non l’unica, ma una delle più longeve”. E poi ancora: “Anche quando tutto, almeno apparentemente, si frantumava spezzato da cesure e declivi, il suo cuore produttivo continuava ad andare avanti, innovando, trasformando, producendo. Siderurgici, chimici, alimentari, tessili, farmaceutici, meccanici, creditizi, cantieristici, edilizi, vitivinicoli, liquoristici, i settori in cui operano queste famiglie sono innumerevoli e cambiano continuamente seguendo le trasformazioni dell’economia, ma quella che non cambia è la capacità produttiva e la sua solidità”.

Storie che esprimono, quindi, la cultura d’impresa italiana ad uno dei massimi livelli. E che per questo vale leggere (e magari rileggere), al di là della celebrazione e della retorica, per andare al succo dell’impresa all’italiana. Bello uno dei passaggi dell’introduzione di Maurizio Sella, attuale Presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro: “Chi ha una storia sente forte il dovere di garantirne un seguito”.

Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro

AA.VV.

Marsilio, 2022

L’ultimo libro della Federazione dei Cavalieri del Lavoro racconta di una cultura del produrre che non può essere dimenticata

 

Famiglie e imprese. Anzi, famiglie d’imprese. Molte e diverse tra di loro. Eppure uguali nei tratti fondamentali. Espressioni, tutte, di una cultura dell’intraprendere che si è tramandata negli anni. E che, in forma varie, esiste ancora oggi. E’ la sensazione – il messaggio -,  che si trae leggendo “Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro”, raccolta di 75 storie di famiglie di altrettanti Cavalieri del Lavoro. Libro costruito con una particolarità: raccogliere i racconti delle famiglie imprenditoriali che annoverano almeno due Cavalieri del Lavoro. Un approccio diverso dal consueto ma non restrittivo, visto che i 75 racconti di fatto percorrono tutta la storia economica italiana dall’Ottocento ad oggi.

Per ognuna delle settantacinque storie familiari analizzate, è stata redatta una sintesi dell’avventura imprenditoriale lungo l’arco di più generazioni, dal fondatore ad oggi, cui si accompagnano altrettante schede biografiche relative a tutti i componenti della famiglia insigniti dell’onorificenza. A completare il quadro storico, con uno sguardo volto verso il futuro la testimonianza del Cavaliere del Lavoro in carica.

Sotto gli occhi di chi legge, quindi, storie varie e di pressoché tutti i comparti produttivi italiani. Racconti, alcuni, di imprese quasi sconosciute ai più e, altri, di nomi della grande industria e non solo. E, se elencarne alcuni di questi nomi sarebbe fuorviante, vale invece leggere quanto riportato nel saggio introduttivo al libro: leggere questi racconti consente di scoprire la “vera identità collettiva ha mantenuto insieme un Paese arrivato tardi all’unificazione, dilaniato da due guerre mondiali, poi dal terrorismo e da diverse crisi economiche. Un Paese senza alcuna risorsa nel sottosuolo ma ricco solo della sua imprenditività e della sua disposizione verso il lavoro di qualità, che è una delle vere anime nazionali, certamente non l’unica, ma una delle più longeve”. E poi ancora: “Anche quando tutto, almeno apparentemente, si frantumava spezzato da cesure e declivi, il suo cuore produttivo continuava ad andare avanti, innovando, trasformando, producendo. Siderurgici, chimici, alimentari, tessili, farmaceutici, meccanici, creditizi, cantieristici, edilizi, vitivinicoli, liquoristici, i settori in cui operano queste famiglie sono innumerevoli e cambiano continuamente seguendo le trasformazioni dell’economia, ma quella che non cambia è la capacità produttiva e la sua solidità”.

Storie che esprimono, quindi, la cultura d’impresa italiana ad uno dei massimi livelli. E che per questo vale leggere (e magari rileggere), al di là della celebrazione e della retorica, per andare al succo dell’impresa all’italiana. Bello uno dei passaggi dell’introduzione di Maurizio Sella, attuale Presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro: “Chi ha una storia sente forte il dovere di garantirne un seguito”.

Famiglia e impresa. Storie di Cavalieri del Lavoro

AA.VV.

Marsilio, 2022

La lezione di Primo Levi, chimico e scrittore, è utile anche per gli ITS: legare tecnica e bellezza  

Pesare le parole”, con la passione per l’esattezza, come se un discorso o una pagina di scrittura fossero un composto chimico. “Non fidarsi delle parole approssimative”, così come non mescolare a casaccio acidi e basi, per evitare disastri. E redigere pagine raccontando “le cose della tecnica con l’occhio del letterato e le lettere con l’occhio del tecnico”. Sono frasi di Primo Levi, ricordate da un grande linguista, Gian Luigi Beccaria, per una delle manifestazioni del “Festival del Classico” a Torino (se ne scrive su “la Repubblica”, 26 novembre). E suonano simili ai giudizi di Italo Calvino, letterato sofisticato, affascinato dall’esattezza della cultura scientifica: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno” (ne avevamo dato conto del blog del 18 ottobre scorso).

La chimica e la letteratura. Il voler fare le cose “a regola d’arte”. Il rigore e la bellezza dell’impegno di ricerca d’una parola esatta e d’una formula chimica o matematica (d’altronde, proprio per Levi, “l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”).  La passione di scrivere del “Sistema periodico” e del fascino della Tavola degli elementi di Mendeleev, della “Chiave a stella” e dell’intensità del montaggio meccanico di torri metalliche e gru. E la testimonianza della centralità, tutta italiana, appassionatamente tecnologica e poeticamente originale, di una “cultura politecnica” che mescola saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

Ecco il punto su cui riflettere, parlando di cultura e dunque anche di scuola, formazione, saper fare (e, con l’attitudine dello scrittore, “fare sapere”): il rapporto tra cultura e impresa, tra memoria e innovazione, tra storia e futuro, tra techne ed estetica. Nel segno incisivo di un “umanesimo industriale” che tiene insieme competitività e sostenibilità ambientale e sociale, produttività e solidarietà.

Valori forti. Da fare vivere già nelle aule di scuola. Non come subalternità della formazione rispetto al lavoro e ai processi o produttivi. Ma come relazione contemporanea e progettuale tra lavoro e cittadinanza, tra intraprendenza, libertà e responsabilità. Rileggendo Privo Levi, appunto. E Sinisgalli, Vittorini, Sereni, Natta e tutti quegli scienziati e letterati che della cultura hanno avuto un’idea ampia e inclusiva: poeti-ingegneri, ingegneri-filosofi, scrittori appassionati alle tecnologie e alle scienze.

Così, per parlare di “merito” legato all’istruzione senza evitare di “entrare nel merito”, vale la pena discutere degli ITS, gli Istituti Tecnologici Superiori (chiamati anche ITS Academy, per sottolinearne l’alto valore formativo, dopo i diplomi della scuola secondaria) ragionando sui possibili contenuti dei loro programmi. E prendendo appunto a prestito le indicazioni di Levi e di Calvino, per sottolineare come i processi di formazione, anche quelli più aderenti al mondo del lavoro, abbiamo bisogno di un livello multidisciplinare integrato, una dimensione “politecnica” che mescoli saperi umanistici e conoscenze scientifiche, un’attenzione particolare non solo per le competenze ma per la complessità dei sistemi di conoscenza, una inclinazione indispensabile al “saper fare” ma anche una speciale dedizione al “perché” e al “come”, al senso più profondo dell’ “imparare a imparare”.

Gli ITS hanno pochi iscritti, in Italia, 21mila appena, contro gli 800mila delle analoghe scuole tedesche. Anche perché sono “conosciuti” solo da meno di 2 studenti su 10, secondo un sondaggio dell’Osservatorio Talents Venture tra i ragazzi delle scuole superiori (“Il Sole24Ore”, 28 novembre), mentre 4 o poco più (il 42%, cioè) ne hanno soltanto sentito parlare e gli altri 4 ne ignorano del tutto l’esistenza. Eppure sono una garanzia di buon lavoro, alla fine del corso biennale (l’80% dei diplomati trova occupazione entro 12 mesi, rispetto al 70% della media universitaria).

Serve dunque un impegno straordinario, pubblico e privato, per farli crescere. Investimenti pubblici rapidi e ben centrati (il Pnrr mette a disposizione 1,5 miliardi, ma per la spesa dei primi 500 milioni mancano 18 decreti attuativi su 19) e stimoli fiscali per le Fondazioni che li fanno nascere, in stretto rapporto con le aree produttive e le imprese sui territori industriali. E sono urgenti anche “azioni di orientamento a tappeto, verso famiglie, studenti e docenti”, sostiene Gianni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria per il capitale umano. Un capitale in cerca di valore. Giovani generazioni quanto mai attente a tutto ciò che possa ricostruire un clima di speranza e di fiducia in un futuro migliore.

Formazione, comunicazione, consulenza per le imprese. “Nuove competenze per nuove professioni nella twin transition, ambientale e digitale”, dicono in UniCredit Lombardia, mettendo a punto iniziative per affrontare il mismatch, la mancata corrispondenza tra offerta e domanda di lavoro (le imprese cercano professionalità che non trovano, ma l’indice di disoccupazione giovanile è tra i più alti d’Europa). E soprattutto nelle regioni più industrializzate del Nord, la produttività e la competitività delle imprese, rispetto ai concorrenti internazionali, sono compresse per assenza di laureati e diplomati (dalle ITS Academy, appunto, ma anche dai normali istituti tecnici) e di competenze tecnologicamente avanzate.

Ecco dunque il problema da affrontare con urgenza: la formazione nelle materie Stem, l’acronimo che indica science, technology, engineering e mathematics), da qualificare e migliorare in Steam, aggiungendo la a di arts, i saperi umanistici, appunto, il senso della bellezza, la sofisticata cultura della misura e della qualità. Il valore del design, per usare una parola carica di senso, proprio per le caratteristiche che l’industria italiana a vocazione internazionale ha sviluppato da tempo. In sintesi, il gusto dell’esattezza e della perfezione. La lezione di Primo Levi deve continuare a fare da ispirazione.

(Foto: Getty Images)

Pesare le parole”, con la passione per l’esattezza, come se un discorso o una pagina di scrittura fossero un composto chimico. “Non fidarsi delle parole approssimative”, così come non mescolare a casaccio acidi e basi, per evitare disastri. E redigere pagine raccontando “le cose della tecnica con l’occhio del letterato e le lettere con l’occhio del tecnico”. Sono frasi di Primo Levi, ricordate da un grande linguista, Gian Luigi Beccaria, per una delle manifestazioni del “Festival del Classico” a Torino (se ne scrive su “la Repubblica”, 26 novembre). E suonano simili ai giudizi di Italo Calvino, letterato sofisticato, affascinato dall’esattezza della cultura scientifica: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno” (ne avevamo dato conto del blog del 18 ottobre scorso).

La chimica e la letteratura. Il voler fare le cose “a regola d’arte”. Il rigore e la bellezza dell’impegno di ricerca d’una parola esatta e d’una formula chimica o matematica (d’altronde, proprio per Levi, “l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”).  La passione di scrivere del “Sistema periodico” e del fascino della Tavola degli elementi di Mendeleev, della “Chiave a stella” e dell’intensità del montaggio meccanico di torri metalliche e gru. E la testimonianza della centralità, tutta italiana, appassionatamente tecnologica e poeticamente originale, di una “cultura politecnica” che mescola saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

Ecco il punto su cui riflettere, parlando di cultura e dunque anche di scuola, formazione, saper fare (e, con l’attitudine dello scrittore, “fare sapere”): il rapporto tra cultura e impresa, tra memoria e innovazione, tra storia e futuro, tra techne ed estetica. Nel segno incisivo di un “umanesimo industriale” che tiene insieme competitività e sostenibilità ambientale e sociale, produttività e solidarietà.

Valori forti. Da fare vivere già nelle aule di scuola. Non come subalternità della formazione rispetto al lavoro e ai processi o produttivi. Ma come relazione contemporanea e progettuale tra lavoro e cittadinanza, tra intraprendenza, libertà e responsabilità. Rileggendo Privo Levi, appunto. E Sinisgalli, Vittorini, Sereni, Natta e tutti quegli scienziati e letterati che della cultura hanno avuto un’idea ampia e inclusiva: poeti-ingegneri, ingegneri-filosofi, scrittori appassionati alle tecnologie e alle scienze.

Così, per parlare di “merito” legato all’istruzione senza evitare di “entrare nel merito”, vale la pena discutere degli ITS, gli Istituti Tecnologici Superiori (chiamati anche ITS Academy, per sottolinearne l’alto valore formativo, dopo i diplomi della scuola secondaria) ragionando sui possibili contenuti dei loro programmi. E prendendo appunto a prestito le indicazioni di Levi e di Calvino, per sottolineare come i processi di formazione, anche quelli più aderenti al mondo del lavoro, abbiamo bisogno di un livello multidisciplinare integrato, una dimensione “politecnica” che mescoli saperi umanistici e conoscenze scientifiche, un’attenzione particolare non solo per le competenze ma per la complessità dei sistemi di conoscenza, una inclinazione indispensabile al “saper fare” ma anche una speciale dedizione al “perché” e al “come”, al senso più profondo dell’ “imparare a imparare”.

Gli ITS hanno pochi iscritti, in Italia, 21mila appena, contro gli 800mila delle analoghe scuole tedesche. Anche perché sono “conosciuti” solo da meno di 2 studenti su 10, secondo un sondaggio dell’Osservatorio Talents Venture tra i ragazzi delle scuole superiori (“Il Sole24Ore”, 28 novembre), mentre 4 o poco più (il 42%, cioè) ne hanno soltanto sentito parlare e gli altri 4 ne ignorano del tutto l’esistenza. Eppure sono una garanzia di buon lavoro, alla fine del corso biennale (l’80% dei diplomati trova occupazione entro 12 mesi, rispetto al 70% della media universitaria).

Serve dunque un impegno straordinario, pubblico e privato, per farli crescere. Investimenti pubblici rapidi e ben centrati (il Pnrr mette a disposizione 1,5 miliardi, ma per la spesa dei primi 500 milioni mancano 18 decreti attuativi su 19) e stimoli fiscali per le Fondazioni che li fanno nascere, in stretto rapporto con le aree produttive e le imprese sui territori industriali. E sono urgenti anche “azioni di orientamento a tappeto, verso famiglie, studenti e docenti”, sostiene Gianni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria per il capitale umano. Un capitale in cerca di valore. Giovani generazioni quanto mai attente a tutto ciò che possa ricostruire un clima di speranza e di fiducia in un futuro migliore.

Formazione, comunicazione, consulenza per le imprese. “Nuove competenze per nuove professioni nella twin transition, ambientale e digitale”, dicono in UniCredit Lombardia, mettendo a punto iniziative per affrontare il mismatch, la mancata corrispondenza tra offerta e domanda di lavoro (le imprese cercano professionalità che non trovano, ma l’indice di disoccupazione giovanile è tra i più alti d’Europa). E soprattutto nelle regioni più industrializzate del Nord, la produttività e la competitività delle imprese, rispetto ai concorrenti internazionali, sono compresse per assenza di laureati e diplomati (dalle ITS Academy, appunto, ma anche dai normali istituti tecnici) e di competenze tecnologicamente avanzate.

Ecco dunque il problema da affrontare con urgenza: la formazione nelle materie Stem, l’acronimo che indica science, technology, engineering e mathematics), da qualificare e migliorare in Steam, aggiungendo la a di arts, i saperi umanistici, appunto, il senso della bellezza, la sofisticata cultura della misura e della qualità. Il valore del design, per usare una parola carica di senso, proprio per le caratteristiche che l’industria italiana a vocazione internazionale ha sviluppato da tempo. In sintesi, il gusto dell’esattezza e della perfezione. La lezione di Primo Levi deve continuare a fare da ispirazione.

(Foto: Getty Images)

L’economia diversa di Francesco

Raccolti in un libro 21 racconti tratti dalle migliaia di testimonianze di EoF

 

Economia diversa. Eppure economia a tutto tondo. Fatta di imprese, di mercati, di sviluppo e crescita. Ma non di sfruttamento e di profitto fine a se stesso. E’ The Economy of Francesco (EoF) l’appuntamento ormai consueto con migliaia di giovani chiamati direttamente da papa Francesco a rinnovare il modo in cui è possibile concepire e vivere l’economia. Tutto con uno strumento formidabile: il racconto. Ed è da questi racconti – alcuni di essi -, che è nato il libro “The economy of Francesco. Il racconto dei protagonisti per una nuova economia”, curato a quattro mani da Maria Giaglione e Marco Girardo con un’ambizione centrata: dare il senso di un’avventura fatta di ideali, esperienze, proposte concrete e nessuna ideologia.

I protagonisti del libro sono quindi i giovani di EoF e soprattutto le loro storie personali che si sono intrecciate negli ultimi due anni, in vista di un summit globale ad Assisi. Si tratta di 21 capitoli (meglio sarebbe indicarli come racconti) in rappresentanza di tremila giovani da centoquindici Paesi di tutto il mondo. E c’è davvero di tutto dentro le pagine del libro (poco meno di cento che si leggono d’un fiato). Storie di economiste ed economisti, imprenditori, imprenditrici e changemakers, come scrive nella sua prefazione Luigino Bruni che precisa: “Forte è l’impressione di trovarsi in una nuova Mille e una notte, dove, anche qui, ogni storia termina nell’inizio della storia successiva”.

Divise tra “storie del primo anno” e “storie del secondo anno” (queste raccontate per tramite di alcune penne di Avvenire), quelle raccolte nel libro sono singole vicende che descrivono perfettamente un’economia altra da quella tradizionale e delineano, così, anche una inaspettata cultura d’impresa nella quale chiudere bene i conti non è solo una questione matematica. Si legge così, solo per fare qualche esempio, di coltivazioni che tutelano i lavoratori e l’ambiente, della sfida del microcredito in Africa, di stat-up che riescono a tutelare i senza tetto, dell’importanza della formazione come risposta alla crescita delle diseguaglianze, di come possa esserci l’etica anche nell’industria americana, di quanto la diplomazia e la finanza possano (se vogliono) parlare di transizione energetica e di molto altro ancora.

Guardata da un certo punto di vista, EoF – scrive Maria Giaglione commentando quanto raccolto -, è un “ecosistema di persone e relazioni, cresciuto nella storia del nostro tempo come sentinella di una speranza non vana”. Mentre, osservata con altri occhi, EoF “assomiglia a un intreccio di storie, da luoghi diversi, testimonianze concrete e visioni convergenti (…) per raccontare e raccontarsi come sia possibile immaginare un modo in fin dei conti più completo di concepire la dimensione economica e quindi uno sviluppo umano integrale”, come scrive Marco Girardo. Su tutto, appunto, la potenza del racconto, anzi dei racconti con i quali si è liberi di non essere d’accordo oppure sui quali è lecito dubitare, ma che sarebbe negligente non conoscere. Per questo è importante leggere il volumetto curato da Gaglione e Girardo.

The economy of Francesco. Il racconto dei protagonisti per una nuova economia

Maria Gaglione, Marco Girardo (a cura di)

Avvenire/Vita e Pensiero, 2022

Raccolti in un libro 21 racconti tratti dalle migliaia di testimonianze di EoF

 

Economia diversa. Eppure economia a tutto tondo. Fatta di imprese, di mercati, di sviluppo e crescita. Ma non di sfruttamento e di profitto fine a se stesso. E’ The Economy of Francesco (EoF) l’appuntamento ormai consueto con migliaia di giovani chiamati direttamente da papa Francesco a rinnovare il modo in cui è possibile concepire e vivere l’economia. Tutto con uno strumento formidabile: il racconto. Ed è da questi racconti – alcuni di essi -, che è nato il libro “The economy of Francesco. Il racconto dei protagonisti per una nuova economia”, curato a quattro mani da Maria Giaglione e Marco Girardo con un’ambizione centrata: dare il senso di un’avventura fatta di ideali, esperienze, proposte concrete e nessuna ideologia.

I protagonisti del libro sono quindi i giovani di EoF e soprattutto le loro storie personali che si sono intrecciate negli ultimi due anni, in vista di un summit globale ad Assisi. Si tratta di 21 capitoli (meglio sarebbe indicarli come racconti) in rappresentanza di tremila giovani da centoquindici Paesi di tutto il mondo. E c’è davvero di tutto dentro le pagine del libro (poco meno di cento che si leggono d’un fiato). Storie di economiste ed economisti, imprenditori, imprenditrici e changemakers, come scrive nella sua prefazione Luigino Bruni che precisa: “Forte è l’impressione di trovarsi in una nuova Mille e una notte, dove, anche qui, ogni storia termina nell’inizio della storia successiva”.

Divise tra “storie del primo anno” e “storie del secondo anno” (queste raccontate per tramite di alcune penne di Avvenire), quelle raccolte nel libro sono singole vicende che descrivono perfettamente un’economia altra da quella tradizionale e delineano, così, anche una inaspettata cultura d’impresa nella quale chiudere bene i conti non è solo una questione matematica. Si legge così, solo per fare qualche esempio, di coltivazioni che tutelano i lavoratori e l’ambiente, della sfida del microcredito in Africa, di stat-up che riescono a tutelare i senza tetto, dell’importanza della formazione come risposta alla crescita delle diseguaglianze, di come possa esserci l’etica anche nell’industria americana, di quanto la diplomazia e la finanza possano (se vogliono) parlare di transizione energetica e di molto altro ancora.

Guardata da un certo punto di vista, EoF – scrive Maria Giaglione commentando quanto raccolto -, è un “ecosistema di persone e relazioni, cresciuto nella storia del nostro tempo come sentinella di una speranza non vana”. Mentre, osservata con altri occhi, EoF “assomiglia a un intreccio di storie, da luoghi diversi, testimonianze concrete e visioni convergenti (…) per raccontare e raccontarsi come sia possibile immaginare un modo in fin dei conti più completo di concepire la dimensione economica e quindi uno sviluppo umano integrale”, come scrive Marco Girardo. Su tutto, appunto, la potenza del racconto, anzi dei racconti con i quali si è liberi di non essere d’accordo oppure sui quali è lecito dubitare, ma che sarebbe negligente non conoscere. Per questo è importante leggere il volumetto curato da Gaglione e Girardo.

The economy of Francesco. Il racconto dei protagonisti per una nuova economia

Maria Gaglione, Marco Girardo (a cura di)

Avvenire/Vita e Pensiero, 2022

Lavorare insieme partendo da esperienze diverse

La globalizzazione e la pandemia hanno condotto ad una diffusione dei gruppi di lavoro interculturali e virtuali. Che occorre però capire e “governare”

Cross-cultural virtual teams, ovvero l’incrocio virtuale (e virtuoso) di culture diverse poste in gruppo. Contaminazione positiva di esperienze varie. Semina buona di semi nuovi per un raccolto migliore, più buono e di qualità. E’ anche attorno a questi argomenti che ruota la cultura d’impresa che voglia farsi moderna, aggiornata e più competitiva. Ed è per questo che può essere utile leggere “The management of cross-cultural virtual teams” intervento di Nuno Baptista (ricercatore presso la School of Social Communication a Lisbona) pubblicato recentemente su European Journal of Human Resource Management Studies.

Intento dell’autore, è quello di esplorare “le contingenze dei team virtuali interculturali, discutendo le loro principali sfide ed esplorando una serie di pratiche per la loro gestione in un ambiente virtuale”. Capire meglio la realtà che si è generata dalla pandemia in avanti, dunque, è quanto Baptista vuole raggiunere. Partendo da una constatazione: “Lo sviluppo accelerato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la trasformazione dell’attività imprenditoriale, divenuta più globale e competitiva, e la prevalenza di servizi basati sulla conoscenza e sull’informazione hanno portato alla comparsa di nuovi modelli di lavoro di squadra virtuale, più flessibili e adattivi, che vanno oltre le classiche barriere funzionali dipartimentali e richiedono la collaborazione dei dipendenti con diverse capacità, giudizi e competenze”. Tutto, poi, è stata accelerata dall’irrompere sulla scena del Covid.19.

Per mettere in pratica quanto dichiarato, Baptista mette a fuoco prima i principali gruppi di lavoro virtuali e interculturali possibili, poi passa a delineare le possibili strategie di organizzazione e di “governo” di questi gruppi, per arrivare a indicare forma e significato dei leader degli stessi. Nelle sue conclusioni, quindi, l’autore precisa le difficoltà di lavoro che comunque questi gruppi possono avere (dalle differenze di visione alle abitudini di lavoro), ma sottolinea il loro valore. Capacità di “governo”, cultura ed etica si rivelano gli strumenti più efficaci per volgere al meglio anche queste esperienze.

The management of cross-cultural virtual teams

Nuno Baptista, European Journal of Human Resource Management Studies, 6/2022

La globalizzazione e la pandemia hanno condotto ad una diffusione dei gruppi di lavoro interculturali e virtuali. Che occorre però capire e “governare”

Cross-cultural virtual teams, ovvero l’incrocio virtuale (e virtuoso) di culture diverse poste in gruppo. Contaminazione positiva di esperienze varie. Semina buona di semi nuovi per un raccolto migliore, più buono e di qualità. E’ anche attorno a questi argomenti che ruota la cultura d’impresa che voglia farsi moderna, aggiornata e più competitiva. Ed è per questo che può essere utile leggere “The management of cross-cultural virtual teams” intervento di Nuno Baptista (ricercatore presso la School of Social Communication a Lisbona) pubblicato recentemente su European Journal of Human Resource Management Studies.

Intento dell’autore, è quello di esplorare “le contingenze dei team virtuali interculturali, discutendo le loro principali sfide ed esplorando una serie di pratiche per la loro gestione in un ambiente virtuale”. Capire meglio la realtà che si è generata dalla pandemia in avanti, dunque, è quanto Baptista vuole raggiunere. Partendo da una constatazione: “Lo sviluppo accelerato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la trasformazione dell’attività imprenditoriale, divenuta più globale e competitiva, e la prevalenza di servizi basati sulla conoscenza e sull’informazione hanno portato alla comparsa di nuovi modelli di lavoro di squadra virtuale, più flessibili e adattivi, che vanno oltre le classiche barriere funzionali dipartimentali e richiedono la collaborazione dei dipendenti con diverse capacità, giudizi e competenze”. Tutto, poi, è stata accelerata dall’irrompere sulla scena del Covid.19.

Per mettere in pratica quanto dichiarato, Baptista mette a fuoco prima i principali gruppi di lavoro virtuali e interculturali possibili, poi passa a delineare le possibili strategie di organizzazione e di “governo” di questi gruppi, per arrivare a indicare forma e significato dei leader degli stessi. Nelle sue conclusioni, quindi, l’autore precisa le difficoltà di lavoro che comunque questi gruppi possono avere (dalle differenze di visione alle abitudini di lavoro), ma sottolinea il loro valore. Capacità di “governo”, cultura ed etica si rivelano gli strumenti più efficaci per volgere al meglio anche queste esperienze.

The management of cross-cultural virtual teams

Nuno Baptista, European Journal of Human Resource Management Studies, 6/2022

Un Rinascimento industriale e civile, tra università, neofabbriche e smart cities

“Shaping the future”, è il motto che connota il nuovo anno accademico ’22-’23 dell’Università Bicocca di Milano, 37mila studenti, 1200 professori in 73 corsi di laurea e una rapida crescita nelle classifiche internazionali sulla qualità della didattica e della ricerca. Un futuro, commenta la Magnifica Rettrice Giovanna Iannantuoni, da costruire sulla consapevolezza del passato. C’è una seconda indicazione strategica, su cui si fa affidamento e che sta in una frase di Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Ue: “La storia d’Europa è una storia di Rinascimento”.

Il Rinascimento come riferimento identitario e fondamento di sviluppo, dunque. La memoria come asset di crescita. Tutto un progetto “a futura memoria”, per usare l’affascinante sintesi del titolo dell’ultima opera di Leonardo Sciascia, una delle migliori intelligenze letterarie e civili dell’Europa del Novecento. Avendo consapevolezza del dubbio (…“se la memoria ha un futuro”) ma anche sensibilità acuta per la forza della ragione. Confidando, cioè, in un ritrovato illuminismo, essenziale in un’epoca in cui in tanti diffidano di scienza e conoscenza critica e preferiscono abbandonarsi al “pensiero magico” e, più miseramente, alle suggestioni delle fake news e alle inclinazioni della cosiddetta “utopia della fuga” che preferisce gli “idoli” alla durezza della realtà e alle faticose responsabilità di una “utopia della ricostruzione” (secondo la severa lezione di Lewis Mumford).

Un Rinascimento critico, insomma, che celebra le sue luci ma non ha paura di fare i conti con le sue ombre (andare a vedere, appunto a Milano, la straordinaria mostra sulle opere di Hieronymus Bosch a Palazzo Reale, per averne conferma).

L’Università Bicocca entra nel suo 25° anno di attività. E’ stata costruita e poi ampliata in un’area, la Bicocca appunto, a nord della città, dove nel corso del Novecento, si è espansa la grande industria, la Pirelli innanzitutto e poi, verso Sesto San Giovanni, la Breda metalmeccanica e la Falck siderurgica. Catene di montaggio e officine, fonderie e laminatoi, i fischi delle sirene che scandivano i turni di lavoro, i binari dei freni che entravano negli stabilimenti per caricare le merci e i binari dei tram affollati dagli operai. Un modo rigoroso e difficile, attivo e orgoglioso, produttivo e denso di capacità tecniche e consapevolezze politiche, sindacali e civili.

Di tutto questo, restano memorie (grazie anche ai documenti e alle immagini custodite nell’archivio storico della Fondazione Pirelli e in quelli dell’Isec, l’Istituto di Storia Contemporanea). Ed eredità di cultura e passioni. In un quartiere ben progettato da Vittorio Gregotti, alla fine del Novecento, per tenere insieme università e imprese, luoghi della cultura e spazi sportivi, abitazioni civili e centri di servizio: una dimensione urbana capace di dare seguito alla sintesi di bellezza e funzionalità del Grattacielo Pirelli progettato da Gio Ponti e di anticipare le tendenze della Milano che sarebbe arrivata, con Porta Nuova e City Life, la Bovisa trasformata e Mind (Milano Innovation District).

Umanesimo industriale”, si ripete spesso nei convegni sull’attualità della cultura d’impresa, anche per ricordare il ruolo delle riviste aziendali che hanno animato la migliore cultura degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (la Rivista “Pirelli”, “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica/Iri, “Comunità” dell’Olivetti e “Il Gatto Selvatico” dell’Eni).  Si aggiunge: “cultura politecnica”, per indicare la sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, rigore della techne e sofisticato senso della bellezza, ingegneria e filosofia. E, per parlare di qualità dell’industria italiana negli anni Duemila della meccatronica e della digital economy, anche sulla stampa internazionale si parla di “Rinascimento manifatturiero”.

Rieccoci, così, alle parole care all’università. Testimonianza vivace del passaggio dalla fabbrica alla “fabbrica delle idee e della conoscenza”, dall’industria a un luogo denso di cultura in cui si costruiscono le competenze utili per un migliore futuro. Luoghi multidisciplinari, così com’è sempre stata multidisciplinare l’industria. E particolarmente essenziali oggi, nel tempo in cui la diffusione dell’Intelligenza artificiale chiede ingegneri-filosofi e matematici che degli algoritmi sappiano pensare non solo lo sviluppo tecnico ma il senso sociale e morale, chimici e sociologhi, data scientist e giuristi, architetti ed esperti di digital economy, psicologi e tecnici della cyber security. Tutti insieme, nelle neo-fabbriche ibride di produzione e ricerca, servizi high tech e sofisticati centri di elaborazione dei criteri di sostenibilità ambientale e sociale messi in relazione alle attitudini al “fare, fare bene e fare del bene”.

Di questo processo complesso, l’università è un cardine essenziale. L’eco si avverte forte anche nei discorsi delle cerimonie di inaugurazione degli anni accademici in Bicocca e al Politecnico, in Bocconi e alla Cattolica, alla Statale e allo Iulm e nelle altre sedi degli atenei che fanno della Grande Milano un luogo speciale della sapienza e del cambiamento.

L’orizzonte è quello delle smart cities (cui, appunto in Bicocca, ha dedicato la sua lectio lectio magistralis Carlo Ratti, direttore del “Senseable City Lab” del Massachussets Institute of Technology di Boston). Che per vivere e crescere, secondo nuovi e migliori equilibri economici e sociali, hanno bisogno di smart lands, territori in cui qualità della vita, competitività e inclusività sociale si tengano insieme. E soprattutto di smart citizens, attori sociali capaci di cittadinanza attiva, consapevole, critica, responsabile. Rieccolo, dunque, il futuro. E la scommessa di fiducia verso le nuove generazioni. Una buona università ne è pilastro fondamentale.

(photo Getty images)

“Shaping the future”, è il motto che connota il nuovo anno accademico ’22-’23 dell’Università Bicocca di Milano, 37mila studenti, 1200 professori in 73 corsi di laurea e una rapida crescita nelle classifiche internazionali sulla qualità della didattica e della ricerca. Un futuro, commenta la Magnifica Rettrice Giovanna Iannantuoni, da costruire sulla consapevolezza del passato. C’è una seconda indicazione strategica, su cui si fa affidamento e che sta in una frase di Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Ue: “La storia d’Europa è una storia di Rinascimento”.

Il Rinascimento come riferimento identitario e fondamento di sviluppo, dunque. La memoria come asset di crescita. Tutto un progetto “a futura memoria”, per usare l’affascinante sintesi del titolo dell’ultima opera di Leonardo Sciascia, una delle migliori intelligenze letterarie e civili dell’Europa del Novecento. Avendo consapevolezza del dubbio (…“se la memoria ha un futuro”) ma anche sensibilità acuta per la forza della ragione. Confidando, cioè, in un ritrovato illuminismo, essenziale in un’epoca in cui in tanti diffidano di scienza e conoscenza critica e preferiscono abbandonarsi al “pensiero magico” e, più miseramente, alle suggestioni delle fake news e alle inclinazioni della cosiddetta “utopia della fuga” che preferisce gli “idoli” alla durezza della realtà e alle faticose responsabilità di una “utopia della ricostruzione” (secondo la severa lezione di Lewis Mumford).

Un Rinascimento critico, insomma, che celebra le sue luci ma non ha paura di fare i conti con le sue ombre (andare a vedere, appunto a Milano, la straordinaria mostra sulle opere di Hieronymus Bosch a Palazzo Reale, per averne conferma).

L’Università Bicocca entra nel suo 25° anno di attività. E’ stata costruita e poi ampliata in un’area, la Bicocca appunto, a nord della città, dove nel corso del Novecento, si è espansa la grande industria, la Pirelli innanzitutto e poi, verso Sesto San Giovanni, la Breda metalmeccanica e la Falck siderurgica. Catene di montaggio e officine, fonderie e laminatoi, i fischi delle sirene che scandivano i turni di lavoro, i binari dei freni che entravano negli stabilimenti per caricare le merci e i binari dei tram affollati dagli operai. Un modo rigoroso e difficile, attivo e orgoglioso, produttivo e denso di capacità tecniche e consapevolezze politiche, sindacali e civili.

Di tutto questo, restano memorie (grazie anche ai documenti e alle immagini custodite nell’archivio storico della Fondazione Pirelli e in quelli dell’Isec, l’Istituto di Storia Contemporanea). Ed eredità di cultura e passioni. In un quartiere ben progettato da Vittorio Gregotti, alla fine del Novecento, per tenere insieme università e imprese, luoghi della cultura e spazi sportivi, abitazioni civili e centri di servizio: una dimensione urbana capace di dare seguito alla sintesi di bellezza e funzionalità del Grattacielo Pirelli progettato da Gio Ponti e di anticipare le tendenze della Milano che sarebbe arrivata, con Porta Nuova e City Life, la Bovisa trasformata e Mind (Milano Innovation District).

Umanesimo industriale”, si ripete spesso nei convegni sull’attualità della cultura d’impresa, anche per ricordare il ruolo delle riviste aziendali che hanno animato la migliore cultura degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (la Rivista “Pirelli”, “Civiltà delle Macchine” della Finmeccanica/Iri, “Comunità” dell’Olivetti e “Il Gatto Selvatico” dell’Eni).  Si aggiunge: “cultura politecnica”, per indicare la sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, rigore della techne e sofisticato senso della bellezza, ingegneria e filosofia. E, per parlare di qualità dell’industria italiana negli anni Duemila della meccatronica e della digital economy, anche sulla stampa internazionale si parla di “Rinascimento manifatturiero”.

Rieccoci, così, alle parole care all’università. Testimonianza vivace del passaggio dalla fabbrica alla “fabbrica delle idee e della conoscenza”, dall’industria a un luogo denso di cultura in cui si costruiscono le competenze utili per un migliore futuro. Luoghi multidisciplinari, così com’è sempre stata multidisciplinare l’industria. E particolarmente essenziali oggi, nel tempo in cui la diffusione dell’Intelligenza artificiale chiede ingegneri-filosofi e matematici che degli algoritmi sappiano pensare non solo lo sviluppo tecnico ma il senso sociale e morale, chimici e sociologhi, data scientist e giuristi, architetti ed esperti di digital economy, psicologi e tecnici della cyber security. Tutti insieme, nelle neo-fabbriche ibride di produzione e ricerca, servizi high tech e sofisticati centri di elaborazione dei criteri di sostenibilità ambientale e sociale messi in relazione alle attitudini al “fare, fare bene e fare del bene”.

Di questo processo complesso, l’università è un cardine essenziale. L’eco si avverte forte anche nei discorsi delle cerimonie di inaugurazione degli anni accademici in Bicocca e al Politecnico, in Bocconi e alla Cattolica, alla Statale e allo Iulm e nelle altre sedi degli atenei che fanno della Grande Milano un luogo speciale della sapienza e del cambiamento.

L’orizzonte è quello delle smart cities (cui, appunto in Bicocca, ha dedicato la sua lectio lectio magistralis Carlo Ratti, direttore del “Senseable City Lab” del Massachussets Institute of Technology di Boston). Che per vivere e crescere, secondo nuovi e migliori equilibri economici e sociali, hanno bisogno di smart lands, territori in cui qualità della vita, competitività e inclusività sociale si tengano insieme. E soprattutto di smart citizens, attori sociali capaci di cittadinanza attiva, consapevole, critica, responsabile. Rieccolo, dunque, il futuro. E la scommessa di fiducia verso le nuove generazioni. Una buona università ne è pilastro fondamentale.

(photo Getty images)

Due riconoscimenti per “Una storia al futuro”

Il nostro progetto editoriale “Una storia al futuro. Pirelli, 150 di industria, innovazione e cultura”, pubblicato quest’anno da Marsilio, ha ricevuto due importanti riconoscimenti nell’ambito della valorizzazione dei patrimoni aziendali.

Abbiamo ritirato infatti questa mattina al Centro Congressi di Confindustria di Roma il primo premio Corporate Heritage Awards 2022 nella categoria “Narrazione attraverso parole, immagini e suoni”. Il riconoscimento è promosso da Leaving Footprints, spinoff accademico dell’Università Parthenope con l’Università del Sannio, specializzato nella consulenza in ambito di heritage marketing. L’obiettivo del premio è quello di mettere in luce le storie delle imprese alle quali è legato lo sviluppo del nostro Paese, e di raccontarle per contribuire ad alimentare e sviluppare la cultura imprenditoriale.

Il volume ha ottenuto anche la Menzione speciale Montegrappa per la valorizzazione dell’Heritage Aziendale al Premio OMI 2022, riconoscimento che verrà consegnato il prossimo 19 novembre nell’Aula Magna del Polo Zanotto all’Università di Verona. Giunto alla sesta edizione, il Premio dell’Osservatorio Monografie d’Impresa si pone come principale finalità la valorizzazione della monografia istituzionale come strumento della reputazione e comunicazione aziendale.

La narrazione d’impresa è uno strumento fondamentale per la divulgazione dei valori di grandi aziende come la Pirelli, giunta a un secolo e mezzo di attività con una costante attenzione alle innovazioni, in tutti i campi della conoscenza.

Il nostro progetto editoriale “Una storia al futuro. Pirelli, 150 di industria, innovazione e cultura”, pubblicato quest’anno da Marsilio, ha ricevuto due importanti riconoscimenti nell’ambito della valorizzazione dei patrimoni aziendali.

Abbiamo ritirato infatti questa mattina al Centro Congressi di Confindustria di Roma il primo premio Corporate Heritage Awards 2022 nella categoria “Narrazione attraverso parole, immagini e suoni”. Il riconoscimento è promosso da Leaving Footprints, spinoff accademico dell’Università Parthenope con l’Università del Sannio, specializzato nella consulenza in ambito di heritage marketing. L’obiettivo del premio è quello di mettere in luce le storie delle imprese alle quali è legato lo sviluppo del nostro Paese, e di raccontarle per contribuire ad alimentare e sviluppare la cultura imprenditoriale.

Il volume ha ottenuto anche la Menzione speciale Montegrappa per la valorizzazione dell’Heritage Aziendale al Premio OMI 2022, riconoscimento che verrà consegnato il prossimo 19 novembre nell’Aula Magna del Polo Zanotto all’Università di Verona. Giunto alla sesta edizione, il Premio dell’Osservatorio Monografie d’Impresa si pone come principale finalità la valorizzazione della monografia istituzionale come strumento della reputazione e comunicazione aziendale.

La narrazione d’impresa è uno strumento fondamentale per la divulgazione dei valori di grandi aziende come la Pirelli, giunta a un secolo e mezzo di attività con una costante attenzione alle innovazioni, in tutti i campi della conoscenza.

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Comunità “che fanno”

Appena pubblicata una ricerca che mette a fuoco la realtà delle comunità intraprendenti

 

Comunità che crescono con un obiettivo. Comunità “che fanno”. Sistemi sociali che, esistono con qualcosa in più. E che possono anche dire molto in termini organizzativi, esprimendo una cultura dell’essere e del fare importante. Comunità certamente da studiare e da conoscere di più. Come ha fatto il gruppo di ricercatori di Euricse con “Le comunità intraprendenti in Italia”, rapporto appena pubblicato che cerca di fare luce su un aspetto dell’economia e della società che molti dicono di conoscere e frequentare ma che deve essere ancora approfindito nei suoi tratti essenziali.

L’indagine, coordinata da Jacopo Sforzi, trae spunto da una considerazione: “Dalla fine del primo decennio di questo secolo, che si era chiuso con le pesanti conseguenze della crisi finanziaria sui livelli di reddito e sull’occupazione, il ricorso al termine comunità e all’importanza di ritornare a contare sulle risorse comunitarie si è via via moltiplicato. La pandemia e ora la crisi energetica hanno dato a loro volta un grosso contributo a questa evoluzione”. E, oltre a questo, dalla constatazione di quanto sia “ormai chiaro che le iniziative promosse dalle comunità sono in grado di far emergere e rendere produttive risorse economiche che il modello basato solo sul binomio beni privati/beni pubblici ha trascurato e, quindi, non utilizzato perché non collocabili al suo interno”.

Da questa base, la ricerca si muove prima mettendo a fuoco i tratti distintivi e la diffusione in Italia delle comunità intraprendenti e, poi, approfondendo le principali comunità esistenti: i Community Hub, le Imprese di comunità, i Patti di collaborazione complessi, le Portinerie di quartiere, gli Empori Solidali, le Comunità a Supporto dell’Agricoltura, le Food Coop, le Comunità energetiche e i FabLab. Di ogni comunità intraprendente vengono dati una descrizione qualitativa e quantitativa oltre che alcuni esempi concreti. Ne emerge un quadro complesso e vario di un mondo che, come si diceva all’inizio, è importante ma poco conosciuto nella sua interezza.

“Esempi virtuosi di innovazione sociale” – come vengono definite nelle conclusioni dell’indagine -, le comunità intraprendenti assumo un aspetto e un ruolo nuovi come portatrici di una diversa cultura sociale e del produrre.

Viene scritto nelle conclusioni: “Appare evidente, come le diverse esperienze incrocino molteplici settori di intervento che variano a seconda dei bisogni e delle risorse delle singole comunità e riescono a tenere insieme azioni di tipo culturale, sociale, economico, ma anche politico. Oltre a ciò, è possibile identificare le Comunità Intraprendenti descritte nel Rapporto come efficienti strumenti di attivazione e rafforzamento del capitale sociale dei territori”. In altri termini, un mondo promettente ma appena scoperto che deve essere ancora ben esplorato.

Le comunità intraprendenti in Italia

AA.VV.

Euricse Research Report, 023/22

Appena pubblicata una ricerca che mette a fuoco la realtà delle comunità intraprendenti

 

Comunità che crescono con un obiettivo. Comunità “che fanno”. Sistemi sociali che, esistono con qualcosa in più. E che possono anche dire molto in termini organizzativi, esprimendo una cultura dell’essere e del fare importante. Comunità certamente da studiare e da conoscere di più. Come ha fatto il gruppo di ricercatori di Euricse con “Le comunità intraprendenti in Italia”, rapporto appena pubblicato che cerca di fare luce su un aspetto dell’economia e della società che molti dicono di conoscere e frequentare ma che deve essere ancora approfindito nei suoi tratti essenziali.

L’indagine, coordinata da Jacopo Sforzi, trae spunto da una considerazione: “Dalla fine del primo decennio di questo secolo, che si era chiuso con le pesanti conseguenze della crisi finanziaria sui livelli di reddito e sull’occupazione, il ricorso al termine comunità e all’importanza di ritornare a contare sulle risorse comunitarie si è via via moltiplicato. La pandemia e ora la crisi energetica hanno dato a loro volta un grosso contributo a questa evoluzione”. E, oltre a questo, dalla constatazione di quanto sia “ormai chiaro che le iniziative promosse dalle comunità sono in grado di far emergere e rendere produttive risorse economiche che il modello basato solo sul binomio beni privati/beni pubblici ha trascurato e, quindi, non utilizzato perché non collocabili al suo interno”.

Da questa base, la ricerca si muove prima mettendo a fuoco i tratti distintivi e la diffusione in Italia delle comunità intraprendenti e, poi, approfondendo le principali comunità esistenti: i Community Hub, le Imprese di comunità, i Patti di collaborazione complessi, le Portinerie di quartiere, gli Empori Solidali, le Comunità a Supporto dell’Agricoltura, le Food Coop, le Comunità energetiche e i FabLab. Di ogni comunità intraprendente vengono dati una descrizione qualitativa e quantitativa oltre che alcuni esempi concreti. Ne emerge un quadro complesso e vario di un mondo che, come si diceva all’inizio, è importante ma poco conosciuto nella sua interezza.

“Esempi virtuosi di innovazione sociale” – come vengono definite nelle conclusioni dell’indagine -, le comunità intraprendenti assumo un aspetto e un ruolo nuovi come portatrici di una diversa cultura sociale e del produrre.

Viene scritto nelle conclusioni: “Appare evidente, come le diverse esperienze incrocino molteplici settori di intervento che variano a seconda dei bisogni e delle risorse delle singole comunità e riescono a tenere insieme azioni di tipo culturale, sociale, economico, ma anche politico. Oltre a ciò, è possibile identificare le Comunità Intraprendenti descritte nel Rapporto come efficienti strumenti di attivazione e rafforzamento del capitale sociale dei territori”. In altri termini, un mondo promettente ma appena scoperto che deve essere ancora ben esplorato.

Le comunità intraprendenti in Italia

AA.VV.

Euricse Research Report, 023/22

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