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Lavorare diversamente

La proposta di un metodo di lavoro che cerca di affrontare le complessità e ambiguità del presente

Lavorare immersi nell’incertezza, eppure lavorare bene e con efficacia. Produrre nonostante tutto. E’ la sfida di fronte alla quale si trovano pressoché tutti quelli che lavorano nelle imprese (non solo private) e, più in generale, nelle organizzazioni della produzione che hanno a che fare con la realtà. Anzi, complessità della realtà, ma anche mutevolezza e ambiguità della stessa, appaiono sempre di più essere gli elementi caratterizzanti dell’ambiente in cui ci si trova ad operare.
E’ da questa condizione che prende le mosse “La cultura dell’incertezza”, scritto da Andrea Guida, che nel sottotitolo spiega subito il suo obiettivo: fornire a chi legge le indicazioni per “governare le organizzazioni in un mondo complesso”. L’autore, che ha passato anni come facilitatore delle attività di collaborazione nelle imprese, fornisce sulla base dell’esperienza un metodo per provare a governare le strutture aziendali anche nei momenti più complessi. Il metodo applicato è quello della systems leadership che significa innanzitutto avere la consapevolezza della necessità di nuovi strumenti per affrontare le complessità, le ambiguità e le incertezze della propria organizzazione e del mondo circostante. La chiave, per Andrea Guida, è pensare diversamente alle questioni e lavorare insieme in modo più efficace (applicando un metodo indicato come co-design), per agire nel quotidiano e reagire alle emergenze, in modo più veloce e controllato.
Tutto questo viene spiegato in poco meno di duecento pagine e in soli quattro capitoli iniziando dal perché si sbaglia nel lavorare oggi, passando poi ad un elenco degli “ingredienti per fare bene” e poi approfondendo il metodo della systems leadership per finire con una serie di approfondimenti su singoli aspetti operativi.
Quanto scritto da Guida deve essere letto certamente con attenzione, deve essere provato sul campo e valutato per i risultati che può ottenere. Nulla di scontato, ma certamente qualcosa da provare concretamente per verificare la bontà di uno strumento che può portare a lavorare meglio nelle organizzazioni della produzione alle prese con un forte cambio dei propri paradigmi e culture.

La cultura dell’incertezza
Andrea Guida
Guerini Next, 2022

La proposta di un metodo di lavoro che cerca di affrontare le complessità e ambiguità del presente

Lavorare immersi nell’incertezza, eppure lavorare bene e con efficacia. Produrre nonostante tutto. E’ la sfida di fronte alla quale si trovano pressoché tutti quelli che lavorano nelle imprese (non solo private) e, più in generale, nelle organizzazioni della produzione che hanno a che fare con la realtà. Anzi, complessità della realtà, ma anche mutevolezza e ambiguità della stessa, appaiono sempre di più essere gli elementi caratterizzanti dell’ambiente in cui ci si trova ad operare.
E’ da questa condizione che prende le mosse “La cultura dell’incertezza”, scritto da Andrea Guida, che nel sottotitolo spiega subito il suo obiettivo: fornire a chi legge le indicazioni per “governare le organizzazioni in un mondo complesso”. L’autore, che ha passato anni come facilitatore delle attività di collaborazione nelle imprese, fornisce sulla base dell’esperienza un metodo per provare a governare le strutture aziendali anche nei momenti più complessi. Il metodo applicato è quello della systems leadership che significa innanzitutto avere la consapevolezza della necessità di nuovi strumenti per affrontare le complessità, le ambiguità e le incertezze della propria organizzazione e del mondo circostante. La chiave, per Andrea Guida, è pensare diversamente alle questioni e lavorare insieme in modo più efficace (applicando un metodo indicato come co-design), per agire nel quotidiano e reagire alle emergenze, in modo più veloce e controllato.
Tutto questo viene spiegato in poco meno di duecento pagine e in soli quattro capitoli iniziando dal perché si sbaglia nel lavorare oggi, passando poi ad un elenco degli “ingredienti per fare bene” e poi approfondendo il metodo della systems leadership per finire con una serie di approfondimenti su singoli aspetti operativi.
Quanto scritto da Guida deve essere letto certamente con attenzione, deve essere provato sul campo e valutato per i risultati che può ottenere. Nulla di scontato, ma certamente qualcosa da provare concretamente per verificare la bontà di uno strumento che può portare a lavorare meglio nelle organizzazioni della produzione alle prese con un forte cambio dei propri paradigmi e culture.

La cultura dell’incertezza
Andrea Guida
Guerini Next, 2022

La Milano di BookCity e delle buone letture e le case high tech in cui scompaiono le librerie

Umberto Eco attraversa a passo lento le stanze della grande casa di piazza Castello, a Milano, una vera e propria casa dei libri, più di trentamila volumi, una raccolta messa insieme in anni di studi, ricerche, passioni letterarie e culturali. E quel suo camminare è un lungo piano-sequenza del documentario, in bianco e nero, intitolato “Umberto Eco. La biblioteca del mondo” e diretto dal regista Davide Ferrario, che la Scuola di scrittura Belleville presenterà a Milano, nei prossimi giorni, al cinema Anteo, in occasione di BookCity (andrà poi nelle sale cinematografiche a febbraio, con Fandango).

Scelta opportuna e simbolica, quella della biblioteca di Eco, per sottolineare, con la figura di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, una manifestazione che, unica in Italia, di anno in anno (siamo arrivati alla undicesima edizione) coinvolge, dal 16 al 20 novembre, decine di migliaia di persone in quasi 1.500 appuntamenti, tra incontri con gli autori, letture in pubblico, dibattiti in ogni angolo della città.

“Una festa del libro e della lettura”, sintetizza Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione BookCity, autorevole protagonista della cultura e dell’economia milanese. Un modo coinvolgente per sottolineare le strette relazioni tra vivere e leggere, cercare di capire il mondo e raccontarlo, creare e intraprendere, sfidare il tempo ricostruendo storia e storie e preparando le condizioni per un migliore futuro.

I libri, appunto, sono una delle testimonianze più efficaci delle possibilità dell’“avvenire della memoria”.

Milano, d’altronde, è città di cultura innovativa e, contemporaneamente, popolare e diffusa. “Pane e cultura”, prometteva ai suoi concittadini Antonio Greppi, il sindaco del difficile dopoguerra e della frenetica ricostruzione. Attività culturali, tra teatri e musica, sono state promosse, con generosi e lungimiranti finanziamenti, dalla pubblica amministrazione, dalla borghesia imprenditoriale e dalle forze politiche più sensibili (la Casa della Cultura in via Borgogna ne è solo una delle testimonianze, ancora in attività). Sulla cultura insistono ancora associazioni e industrie (proprio quest’anno l’Assolombarda ha vinto, in una delle sue città, Pavia, il titolo di “capitale della cultura d’impresa”: la cultura, per un’impresa, è una scelta di mecenatismo ma è soprattutto un asset di identità e competitività, con una “cultura politecnica” sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, che è un unicum internazionale).

Una ricerca dell’Aie (l’Associazione degli Editori) con Pepe Research, appunto per BookCity, documenta come il 75% dei milanesi ha letto almeno un libro all’anno (poco, certo, ma più della media nazionale) e il 59% da partecipato almeno a un evento culturale. “Eventi e libri letti nell’equazione virtuosa di Milano”, nota con soddisfazione il “Corriere della Sera”. “Milano capitale dei consumi culturali”, titola “la Repubblica”. D’altronde, anche la ricerca annuale “Io sono cultura” curata da Symbola e Unioncamere (presentata nelle scorse settimane prima a Roma al Maxxi e poi a Milano, a Casa Fornasetti), ha documentato come Milano e la Lombardia siano al primo posto, in Italia, per consumi, imprese e attività culturali.

Milano città dei libri, dunque. Dei grandi editori storici (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Adelphi, Longanesi di Mauri-Spagnol, etc.) e di più recenti iniziative editoriali (La nave di Teseo, NN Editore, Iperborea, solo per nominarne alcune tra le tante). Delle librerie storiche che si rinnovano (Hoepli) e di parecchie altre che si aprono, indipendenti, con passione e intelligenza, in quartieri di centro e periferia. Delle biblioteche pubbliche e private, in centri culturali, scuole, ma anche imprese e condomini.

Leggere per divertimento, assaporando il piacere del testo. Leggere per capire e sapere. Leggere per sfidare il tempo ed entrare in altre esistenze ed esperienze. Come proprio Umberto Eco ci ha insegnato: “Chi non legge, a settant’anni, avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.

Anche sulla capacità di entrare nelle vite altrui, dunque sulla lettura e sulla cultura si fonda un’altra caratteristica milanese: l’inclusività sociale, la capacità di accoglienza e di integrazione, l’attitudine a fare sintesi originali tra competitività economica e solidarietà. Leggere per “comprendere” (la radice è nel latino “cum”, cioè insieme, la stessa di “conoscenza” e di “comunità”). Leggere per crescere.

Perdere queste caratteristiche significherebbe perdere l’anima di Milano.

Attenzione ai libri, dunque. Ai luoghi pubblici dei libri, le biblioteche, le librerie, gli incontri culturali come BookCity. E ai luoghi privati, alle case che ospitano libri come parte essenziale di lessico famigliare e di  socialità (fin dai tempi di Cicerone, peraltro : “Una casa senza libri è una stanza senza finestre”).

Ecco, però, un punto critico: nelle nuove architetture urbane, nella Milano ricca delle “mille luci” e della frenesia per “gli eventi”, dei consumi opulenti e delle ricchezze vistose, degli archistar e del vetro e acciaio dei grattacieli che ridisegnano la skyline, nelle case high tech, viste in pianta, non c’è quasi mai spazio per una libreria. Per contenitori di libri. Certo, le nuove generazioni digitali preferiscono le letture degli e.book. Ma siamo sicuri che su questa scomparsa delle librerie nelle case non sia necessaria una riflessione architettonica, culturale, sociale?

(Photo by Leonardo Cendamo/Getty Images)

Umberto Eco attraversa a passo lento le stanze della grande casa di piazza Castello, a Milano, una vera e propria casa dei libri, più di trentamila volumi, una raccolta messa insieme in anni di studi, ricerche, passioni letterarie e culturali. E quel suo camminare è un lungo piano-sequenza del documentario, in bianco e nero, intitolato “Umberto Eco. La biblioteca del mondo” e diretto dal regista Davide Ferrario, che la Scuola di scrittura Belleville presenterà a Milano, nei prossimi giorni, al cinema Anteo, in occasione di BookCity (andrà poi nelle sale cinematografiche a febbraio, con Fandango).

Scelta opportuna e simbolica, quella della biblioteca di Eco, per sottolineare, con la figura di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, una manifestazione che, unica in Italia, di anno in anno (siamo arrivati alla undicesima edizione) coinvolge, dal 16 al 20 novembre, decine di migliaia di persone in quasi 1.500 appuntamenti, tra incontri con gli autori, letture in pubblico, dibattiti in ogni angolo della città.

“Una festa del libro e della lettura”, sintetizza Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione BookCity, autorevole protagonista della cultura e dell’economia milanese. Un modo coinvolgente per sottolineare le strette relazioni tra vivere e leggere, cercare di capire il mondo e raccontarlo, creare e intraprendere, sfidare il tempo ricostruendo storia e storie e preparando le condizioni per un migliore futuro.

I libri, appunto, sono una delle testimonianze più efficaci delle possibilità dell’“avvenire della memoria”.

Milano, d’altronde, è città di cultura innovativa e, contemporaneamente, popolare e diffusa. “Pane e cultura”, prometteva ai suoi concittadini Antonio Greppi, il sindaco del difficile dopoguerra e della frenetica ricostruzione. Attività culturali, tra teatri e musica, sono state promosse, con generosi e lungimiranti finanziamenti, dalla pubblica amministrazione, dalla borghesia imprenditoriale e dalle forze politiche più sensibili (la Casa della Cultura in via Borgogna ne è solo una delle testimonianze, ancora in attività). Sulla cultura insistono ancora associazioni e industrie (proprio quest’anno l’Assolombarda ha vinto, in una delle sue città, Pavia, il titolo di “capitale della cultura d’impresa”: la cultura, per un’impresa, è una scelta di mecenatismo ma è soprattutto un asset di identità e competitività, con una “cultura politecnica” sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, che è un unicum internazionale).

Una ricerca dell’Aie (l’Associazione degli Editori) con Pepe Research, appunto per BookCity, documenta come il 75% dei milanesi ha letto almeno un libro all’anno (poco, certo, ma più della media nazionale) e il 59% da partecipato almeno a un evento culturale. “Eventi e libri letti nell’equazione virtuosa di Milano”, nota con soddisfazione il “Corriere della Sera”. “Milano capitale dei consumi culturali”, titola “la Repubblica”. D’altronde, anche la ricerca annuale “Io sono cultura” curata da Symbola e Unioncamere (presentata nelle scorse settimane prima a Roma al Maxxi e poi a Milano, a Casa Fornasetti), ha documentato come Milano e la Lombardia siano al primo posto, in Italia, per consumi, imprese e attività culturali.

Milano città dei libri, dunque. Dei grandi editori storici (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Adelphi, Longanesi di Mauri-Spagnol, etc.) e di più recenti iniziative editoriali (La nave di Teseo, NN Editore, Iperborea, solo per nominarne alcune tra le tante). Delle librerie storiche che si rinnovano (Hoepli) e di parecchie altre che si aprono, indipendenti, con passione e intelligenza, in quartieri di centro e periferia. Delle biblioteche pubbliche e private, in centri culturali, scuole, ma anche imprese e condomini.

Leggere per divertimento, assaporando il piacere del testo. Leggere per capire e sapere. Leggere per sfidare il tempo ed entrare in altre esistenze ed esperienze. Come proprio Umberto Eco ci ha insegnato: “Chi non legge, a settant’anni, avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.

Anche sulla capacità di entrare nelle vite altrui, dunque sulla lettura e sulla cultura si fonda un’altra caratteristica milanese: l’inclusività sociale, la capacità di accoglienza e di integrazione, l’attitudine a fare sintesi originali tra competitività economica e solidarietà. Leggere per “comprendere” (la radice è nel latino “cum”, cioè insieme, la stessa di “conoscenza” e di “comunità”). Leggere per crescere.

Perdere queste caratteristiche significherebbe perdere l’anima di Milano.

Attenzione ai libri, dunque. Ai luoghi pubblici dei libri, le biblioteche, le librerie, gli incontri culturali come BookCity. E ai luoghi privati, alle case che ospitano libri come parte essenziale di lessico famigliare e di  socialità (fin dai tempi di Cicerone, peraltro : “Una casa senza libri è una stanza senza finestre”).

Ecco, però, un punto critico: nelle nuove architetture urbane, nella Milano ricca delle “mille luci” e della frenesia per “gli eventi”, dei consumi opulenti e delle ricchezze vistose, degli archistar e del vetro e acciaio dei grattacieli che ridisegnano la skyline, nelle case high tech, viste in pianta, non c’è quasi mai spazio per una libreria. Per contenitori di libri. Certo, le nuove generazioni digitali preferiscono le letture degli e.book. Ma siamo sicuri che su questa scomparsa delle librerie nelle case non sia necessaria una riflessione architettonica, culturale, sociale?

(Photo by Leonardo Cendamo/Getty Images)

Fondazione Pirelli presenta
Parole in viaggio
Un gioco che parte dalla scuola

Leggere è un viaggio. Tra le pagine dei romanzi, ma anche leggendo poesie, si possono vivere mille avventure e scoprire luoghi diversi. La passione per i libri va coltivata sin da piccoli, ma è importante continuare ad alimentarla per tutta la vita portando i libri in ogni luogo, anche negli uffici o nelle fabbriche.

Giovedì 24 novembre 2022, alle ore 11.00, presso l’Auditorium Pirelli HQ, Fondazione Pirelli organizza un incontro dedicato al mondo dei libri, nel quale le ragazze e i ragazzi delle scuole secondarie di primo grado potranno conoscere Roberto Piumini, scrittore e poeta, e Antonella Sbuelz, vincitrice della prima edizione del Premio Campiello Junior con il romanzo “Questa notte non torno”. E insieme ad Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, e Alessandra Tedesco, giornalista di Radio 24 , gli studenti potranno scoprire come nasce una storia e come prendono vita i personaggi creati dalla mente di uno scrittore.

Fondazione Pirelli, da sempre attenta alla promozione della lettura tra le giovani generazioni e anche nei luoghi di lavoro, sostiene per il secondo anno consecutivo il Premio Campiello Junior. Per scoprire di più consultare il sito di Fondazione Pirelli e del Premio Campiello.

Per informazioni sull’evento “Parole in viaggio” potete scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

Leggere è un viaggio. Tra le pagine dei romanzi, ma anche leggendo poesie, si possono vivere mille avventure e scoprire luoghi diversi. La passione per i libri va coltivata sin da piccoli, ma è importante continuare ad alimentarla per tutta la vita portando i libri in ogni luogo, anche negli uffici o nelle fabbriche.

Giovedì 24 novembre 2022, alle ore 11.00, presso l’Auditorium Pirelli HQ, Fondazione Pirelli organizza un incontro dedicato al mondo dei libri, nel quale le ragazze e i ragazzi delle scuole secondarie di primo grado potranno conoscere Roberto Piumini, scrittore e poeta, e Antonella Sbuelz, vincitrice della prima edizione del Premio Campiello Junior con il romanzo “Questa notte non torno”. E insieme ad Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, e Alessandra Tedesco, giornalista di Radio 24 , gli studenti potranno scoprire come nasce una storia e come prendono vita i personaggi creati dalla mente di uno scrittore.

Fondazione Pirelli, da sempre attenta alla promozione della lettura tra le giovani generazioni e anche nei luoghi di lavoro, sostiene per il secondo anno consecutivo il Premio Campiello Junior. Per scoprire di più consultare il sito di Fondazione Pirelli e del Premio Campiello.

Per informazioni sull’evento “Parole in viaggio” potete scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

Vino d’impresa

Raccontata in un libro appena pubblicato la storia di una delle più importanti aziende vitivinicole italiane: caso paradigmatico della buona cultura d’impresa

 

Storia che si fa presente e futuro. Narrazione di vicende umane e d’impresa che diventano investimenti per crescere. E’ tutto questo che si ritrova in ogni storia aziendale che sia ben interpretata. Ed è quanto si legge in “Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità”, libro che ha una particolarità in più per essere scritto da Sandro Boscaini, esponente della sesta generazione della famiglia che ha dato vita, 250 anni fa, all’azienda.

Il libro inizia davvero dalle origini dell’azienda Masi, nel 1772, che vengono collocate nell’ambiente dell’epoca per poi ripercorrere passo dopo passo le scelte imprenditoriale che sono state fatte, le vicende familiari che le hanno accompagnate e quelle storiche che hanno fatto da cornice. Chi legge, quindi, apprende non solo delle prime decisioni che hanno fatto “partire” l’azienda, ma anche della fase di strutturazione in qualcosa di solido e in grado di espandersi commercialmente, del passaggio cruciale di confronto con una delle malattie più pericolose per il settore vitivinicolo(la Fillossera) e poi quello tra le due guerre mondiali per arrivare allo sviluppo del dopoguerra e ad altre scelte cruciali per l’impresa.

Ciò che caratterizza il lavoro dell’autore, non è solo la narrazione (scritta con il piglio letterario giusto) di una storia d’impresa pluricentenaria, ma anche una seconda parte del libro nella quale il racconto storico si trasforma in ragionamento manageriale sui temi all’ordine del giorno nella gestione dell’azienda, dando conto di scelte, valori e strategie di gruppo e di marchio. Storia, come si diceva, che costituisce nutrimento per il presente e base per il futuro. E che fa capire il motivo per il quale “Amarone” richiama il nome dell’azienda su tutti i mercati.

Con ragione, Giuseppe Lupo, nella sua bella introduzione sintetizza la cultura d’impresa di Masi scrivendo  di una “regola che nel Gruppo Masi è diventata aurea: non basta saper fare, bisogna anche comunicare ciò che si fa. A questo scopo risponde l’infittirsi del racconto fino alla soglia dei nostri anni: ogni azione è accompagnata dalla sua narrazione, e qualsiasi realtà produttiva, per vincere la sfida con i mercati, deve adottare l’esercizio dell’organizzazione. Ne esce una ragnatela integrata di uomini e di strutture, un agglomerato di intelligenze che cooperano verso un obiettivo unico e totalizzante. Che sia questa la strada per una dimensione comunitaria? Forse sì. Ma è anche la conferma di una continuità rispetto ai lasciti di un racconto familiare, dove tanti sono i nomi e i volti, i profili e le voci, ma unico resta il punto di osservazione: la necessità di vivere il moderno, non per subirne le contraddizioni ma per correggerne gli errori ed edificare qualcosa che rimanga”.

Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità

Sandro Boscaini

Egea, 2022

Raccontata in un libro appena pubblicato la storia di una delle più importanti aziende vitivinicole italiane: caso paradigmatico della buona cultura d’impresa

 

Storia che si fa presente e futuro. Narrazione di vicende umane e d’impresa che diventano investimenti per crescere. E’ tutto questo che si ritrova in ogni storia aziendale che sia ben interpretata. Ed è quanto si legge in “Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità”, libro che ha una particolarità in più per essere scritto da Sandro Boscaini, esponente della sesta generazione della famiglia che ha dato vita, 250 anni fa, all’azienda.

Il libro inizia davvero dalle origini dell’azienda Masi, nel 1772, che vengono collocate nell’ambiente dell’epoca per poi ripercorrere passo dopo passo le scelte imprenditoriale che sono state fatte, le vicende familiari che le hanno accompagnate e quelle storiche che hanno fatto da cornice. Chi legge, quindi, apprende non solo delle prime decisioni che hanno fatto “partire” l’azienda, ma anche della fase di strutturazione in qualcosa di solido e in grado di espandersi commercialmente, del passaggio cruciale di confronto con una delle malattie più pericolose per il settore vitivinicolo(la Fillossera) e poi quello tra le due guerre mondiali per arrivare allo sviluppo del dopoguerra e ad altre scelte cruciali per l’impresa.

Ciò che caratterizza il lavoro dell’autore, non è solo la narrazione (scritta con il piglio letterario giusto) di una storia d’impresa pluricentenaria, ma anche una seconda parte del libro nella quale il racconto storico si trasforma in ragionamento manageriale sui temi all’ordine del giorno nella gestione dell’azienda, dando conto di scelte, valori e strategie di gruppo e di marchio. Storia, come si diceva, che costituisce nutrimento per il presente e base per il futuro. E che fa capire il motivo per il quale “Amarone” richiama il nome dell’azienda su tutti i mercati.

Con ragione, Giuseppe Lupo, nella sua bella introduzione sintetizza la cultura d’impresa di Masi scrivendo  di una “regola che nel Gruppo Masi è diventata aurea: non basta saper fare, bisogna anche comunicare ciò che si fa. A questo scopo risponde l’infittirsi del racconto fino alla soglia dei nostri anni: ogni azione è accompagnata dalla sua narrazione, e qualsiasi realtà produttiva, per vincere la sfida con i mercati, deve adottare l’esercizio dell’organizzazione. Ne esce una ragnatela integrata di uomini e di strutture, un agglomerato di intelligenze che cooperano verso un obiettivo unico e totalizzante. Che sia questa la strada per una dimensione comunitaria? Forse sì. Ma è anche la conferma di una continuità rispetto ai lasciti di un racconto familiare, dove tanti sono i nomi e i volti, i profili e le voci, ma unico resta il punto di osservazione: la necessità di vivere il moderno, non per subirne le contraddizioni ma per correggerne gli errori ed edificare qualcosa che rimanga”.

Amarone e oltre. Masi: 50 anni di vendemmie, famiglia e imprenditorialità

Sandro Boscaini

Egea, 2022

Lavoro, incertezze e sviluppo

Una delle ultime ricerche del Centro Einaudi approfondisce le relazioni tra condizione lavorativa, complessità e futuro

 

Lavorare con un orizzonte incerto. E nell’ambito di un sistema economico e sociale in cambiamento (spesso confuso). Condizione comune e diffusa, che deve essere ben compresa per individuarne, se possibile, linee di interpretazione che siano utili e produttive, comunque, di un percorso di sviluppo e di crescita.

I lavori di ricerca di Emilio Bartezzaghi, Giuseppe Della Rocca, Luciano Pero e Anna M. Ponzellini – raccolti nel Quaderno del Centro Einaudi “L’organizzazione del lavoro in un’epoca di incertezze” -, hanno l’intento di fornire strumenti di comprensione sulle relazioni tra tecnologia, organizzazione e lavoro nello scenario attuale.

Frutto di una consuetudine di condivisione di ragionamenti e idee tra studiosi di origine e collocazione diversa, il Quaderno prende in considerazione – viene spiegato nelle pagine introduttive -, non solo l’industria manifatturiera ma anche dei servizi e della pubblica amministrazione, intesi come settori e non più solo casi aziendali. Si dipanano da qui le ricerche del gruppo di lavoro.

Il primo contributo riguarda l’evoluzione della grande distribuzione tra e-commerce e personalizzazione del servizio, il secondo approfondisce il lavoro nell’audiovisivo alle prese con le tecnologie digitali,  la terza ricerca affronta l’Industrial smart working. Successivamente l’indagine approfondisce i temi della realizzazione del PNRR e del ruolo della pubblica amministrazione sia dal punto di vista delle riorganizzazione necessaria, sia per quanto concerne la necessità di un “cambiamento culturale” nella PA. Tutto viene poi “legato” alla situazione attuale e alle nuove condizioni di incertezza dovute alla pandemia, alla guerra e alle sfide inerenti il processo di innovazione richiesto dagli investimenti promossi dal PNRR.

Sullo sfondo, ma anche in prospettiva, sono temi importanti come il ruolo dell’innovazione della tecnologia, dell’organizzazione, della qualità del lavoro, delle forme di regolazione, a partire dalle relazioni industriali e da possibili nuovi rapporti istituzionali tra le parti sociali.

La raccolta del Centro Einaudi costituisce una buona guida per esplorare meglio un mondo che, come si diceva, soffre di un orizzonte incerto e di un presente complesso

L’organizzazione del lavoro in un’epoca di incertezze
Quaderno di Biblioteca della libertà della collana “Il Tassello Mancante”, a cura di Emilio Bartezzaghi, Giuseppe Della Rocca, Luciano,  Pero, Anna M. Ponzellini

Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, 2022

Una delle ultime ricerche del Centro Einaudi approfondisce le relazioni tra condizione lavorativa, complessità e futuro

 

Lavorare con un orizzonte incerto. E nell’ambito di un sistema economico e sociale in cambiamento (spesso confuso). Condizione comune e diffusa, che deve essere ben compresa per individuarne, se possibile, linee di interpretazione che siano utili e produttive, comunque, di un percorso di sviluppo e di crescita.

I lavori di ricerca di Emilio Bartezzaghi, Giuseppe Della Rocca, Luciano Pero e Anna M. Ponzellini – raccolti nel Quaderno del Centro Einaudi “L’organizzazione del lavoro in un’epoca di incertezze” -, hanno l’intento di fornire strumenti di comprensione sulle relazioni tra tecnologia, organizzazione e lavoro nello scenario attuale.

Frutto di una consuetudine di condivisione di ragionamenti e idee tra studiosi di origine e collocazione diversa, il Quaderno prende in considerazione – viene spiegato nelle pagine introduttive -, non solo l’industria manifatturiera ma anche dei servizi e della pubblica amministrazione, intesi come settori e non più solo casi aziendali. Si dipanano da qui le ricerche del gruppo di lavoro.

Il primo contributo riguarda l’evoluzione della grande distribuzione tra e-commerce e personalizzazione del servizio, il secondo approfondisce il lavoro nell’audiovisivo alle prese con le tecnologie digitali,  la terza ricerca affronta l’Industrial smart working. Successivamente l’indagine approfondisce i temi della realizzazione del PNRR e del ruolo della pubblica amministrazione sia dal punto di vista delle riorganizzazione necessaria, sia per quanto concerne la necessità di un “cambiamento culturale” nella PA. Tutto viene poi “legato” alla situazione attuale e alle nuove condizioni di incertezza dovute alla pandemia, alla guerra e alle sfide inerenti il processo di innovazione richiesto dagli investimenti promossi dal PNRR.

Sullo sfondo, ma anche in prospettiva, sono temi importanti come il ruolo dell’innovazione della tecnologia, dell’organizzazione, della qualità del lavoro, delle forme di regolazione, a partire dalle relazioni industriali e da possibili nuovi rapporti istituzionali tra le parti sociali.

La raccolta del Centro Einaudi costituisce una buona guida per esplorare meglio un mondo che, come si diceva, soffre di un orizzonte incerto e di un presente complesso

L’organizzazione del lavoro in un’epoca di incertezze
Quaderno di Biblioteca della libertà della collana “Il Tassello Mancante”, a cura di Emilio Bartezzaghi, Giuseppe Della Rocca, Luciano,  Pero, Anna M. Ponzellini

Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, 2022

I vantaggi del welfare aziendale, tra nuovi lavori e tradizioni d’impresa: Pirelli, Olivetti, Marzotto…

Ripensare il welfare aziendale, in tempi così difficili e incerti. E rafforzarne il ruolo di asset fondamentale di un più robusto capitale sociale su cui fondare nuove e migliori ragioni di sostenibilità dell’impresa.

Una scelta di fondo, naturalmente. Ma anche una misura per fare fronte alle emergenze attuali: la recessione, l’inflazione aggravata dal boom dei prezzi dell’energia dopo l’invasione russa dell’Ucraina, gli aumenti del costo del denaro e, contemporaneamente, le fragilità delle imprese nei nuovi contesti competitivi globali, così volatili e controversi. Le cronache parlano di “bonus” concessi da un numero crescente di aziende ai dipendenti (Barilla, Lavazza, Illy, Ferrari, Della Valle, De Longhi, etc.) per premiare l’impegno durante la stagione del Covid (il rimbalzo dell’economia italiana è stato il maggiore d’Europa, soprattutto grazie alla resilienza dell’industria migliore) ma anche, adesso, per fronteggiare il “caro bollette” e il clamoroso aumento del costo della vita. E il governo Meloni sta saggiamente pensando di detassare i premi delle aziende ai dipendenti sino a 3mila euro.

Certamente, è necessario disinnescare i rischi di una spirale inflattiva tra aumento dei prezzi e crescita dei salari (com’era successo nei durissimi anni Settanta). I premi “una tantum”, soprattutto se detassati e gli aumenti salariali legati agli incrementi di produttività sono strade da seguire. Così come è indispensabile tagliare nettamente il cuneo fiscale a vantaggio di salari e stipendi e dei conti delle imprese (Confindustria insiste giustamente su questo tasto da tempo, con un ascolto purtroppo generico e incerto da parte del governo).

Ma, emergenza a parte, una riflessione sul welfare aziendale è essenziale anche guardando al lungo periodo. Nella stagione del passaggio della cultura economica dal primato dello shareholders value (profitti e corsi di Borsa, comunque importanti) a quello degli stakeholders values (valori e interessi dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori, di tutti gli appartenenti alle comunità che entrano in relazione con l’azienda), per continuare a essere competitiva l’impresa deve premiare meglio le proprie persone, la loro produttività, le capacità innovative, l’orgoglio di appartenenza, l’intelligenza creativa e l’intraprendenza.

Le trasformazioni digitali e le evoluzioni di Industria 4.0 (la causa determinante della crescita dell’economia italiana tra ‘21 e ‘22) e la diffusione conseguente delle pratiche di smart working  sollecitano, inoltre, una nuova struttura delle relazioni industriali e degli stessi contratti di lavoro, con salari e stipendi ancorati non tanto all’orario di lavoro, quanto ai risultati. E, nella nuova struttura delle retribuzioni, il welfare aziendale è destinato ad assumere un’importanza crescente (assistenza, previdenza integrativa, servizi di vario tipo), da stimolare e premiare con una fiscalità intelligente. L’obiettivo: migliorare la qualità della vita dei lavoratori e delle loro famiglie.

I contratti di lavoro, da qualche tempo, stanno già seguendo questa strada. L’impegno di molte imprese, attente responsabilmente alla sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale ed economica, favorisce le riflessioni e le sperimentazioni di welfare. Il cantiere è aperto. E il lavoro deve andare avanti.

In Italia, d’altronde, proprio su questi temi, c’è un’ottima tradizione della cultura d’impresa, da riscoprire, rileggere, valorizzare (lo ha fatto, venerdì scorso, Ferruccio de Bortoli in una conferenza all’Università Cattolica di Milano, parlando di Pirelli, Olivetti, Marzotto e altri casi virtuosi).

Il contesto storico, dalla fine dell’Ottocento in poi, è quello di un grande attivismo sociale, nel mondo cattolico e nelle organizzazioni socialiste: società di mutuo soccorso, leghe operaie e contadine (le radici dei sindacati), cooperative, strutture per il credito popolare. Tutto un fiorire di iniziative che, nel tempo, saranno la base di un capitale sociale collaborativo e comunitario, che stimoleranno nel tempo importanti provvedimenti di legge e di cui ancora oggi risentiamo gli effetti positivi.

Nel mondo delle imprese, vale la pena ricordare, per esempio, le attenzioni alle abitazioni operaie (il villaggio di Crespi d’Adda, per le maestranze delle fabbriche tessili della famiglia Crespi), le misure sanitarie e assistenziali, gli stimoli per le scuole dei figli dei dipendenti, le prime organizzazioni per la cultura e per il tempo libero. Capitalismo paternalista, volto a fronteggiare i rischi di proteste sociali. Ma anche sincero interesse alle sorti delle persone nelle fabbriche e nelle officine (la struttura produttiva italiana, nata da piccole imprese, ha favorito in molti casi la vicinanza di esperienze e visioni tra imprenditori e maestranze).

Gli esempi? Ai primi di maggio del 1894, un ritaglio del giornale “La Lega Lombarda”, in un articolo sullo stabilimento Pirelli a Milano (l’azienda di lavorazione della gomma era stata fondata dodici anni prima da Giovanni Battista Pirelli, subito dopo la laurea al Politecnico) ricorda che “fin dal 1877 fu istituita una Cassa di mutuo soccorso per gli operai ammalati, alimentata da trattenute tenuissime -da 10 a 15 centesimi per la quindicina- sulla paga degli operai e dalle multe”. Sempre dall’Archivio Storico della Fondazione Pirelli risulta l’esistenza di una Società Anonima di Consumo tra i dipendenti dello stabilimento, che nel 1901, con una piccola cartolina illustrata, chiede al “gerente Giovanni Battista Pirelli” un aiuto per  fare crescere l’attività di mutuo soccorso. E, nel maggio 1902, ecco il primo “Concordato fra la Ditta e la Commissione Operai per miglioramenti di trattamento e disposizioni varie in seguito alla presentazione del Memoriale Operai”.

Secondo quel “Concordato”, è organizzato un vero e proprio servizio sanitario, totalmente a carico della società, a favore dei lavoratori ed esteso oltre i confini della fabbrica. E nel 1926 è istituito il Servizio di Assistenza Sanitaria gratuito a favore dei dipendenti. Seguiranno, nel tempo, le iniziative per le case agli operai, le colonie per le vacanze estive dei bambini dei dipendenti, i contributi per fare continuare a studiare i più capaci e meritevoli e, sempre negli anni Venti, le prime biblioteche aziendali (un’iniziativa che ancora dura).

Dalla storia Pirelli all’esperienza Marzotto, attorno alle fabbriche tessili di Valdagno: “Noi desideriamo la graduale ascensione delle classi operaie ed agricole – scriveva Vittorio Emanuele Marzotto nel 1901- l’intervento dello Stato è necessario e deve consistere in una saggia legislazione sociale intesa a comporre i prevedibili conflitti, a tutelare il capitale, a proteggere la manodopera in modo che ogni singolo cittadino sappia quanto gli sia lecito ripromettersi dalla sua forza economica e dal suo lavoro, in modo che il contratto sia sacro fra le parti”.

Racconta Ferruccio de Bortoli: “I Marzotto che fecero asili nido, centri sportivi – persino all’epoca delle piscine – e case di riposo per i dipendenti e i loro familiari, ci tennero a sottolineare che queste attività di welfare aziendale erano da considerarsi come dei diritti indiscussi delle maestranze e non delle concessioni. Un concetto già sufficientemente compiuto di responsabilità sociale, era già chiaro all’epoca”.

E Olivetti? Nell’agosto del 1919, sul primo numero di “Azione riformista”, Camillo Olivetti scriveva dell’importanza di “rendere tutti i cittadini consapevoli dei doveri dell’ora presente, additando mali e rimedi e nello stesso tempo preparare le forze necessarie per assurgere a più perfezionate forme politiche ed economiche, ad un nuovo assetto sociale nel quale tutto il frutto del lavoro vada a chi utilmente lavora”. E negli anni Trenta del Novecento insisteva sul fatto che la produttività dipendesse dal grado di cittadinanza dei dipendenti e dalla loro adesione ai principi di solidarietà. E che il benessere dei collaboratori fosse un prerequisito dell’impresa.

Alla sua morte il figlio Adriano era già pronto a rilanciare il welfare d’impresa, nel lungo periodo di realizzazioni tra il dopoguerra e il 1960 (lo racconta bene Paolo Bricco in “Adriano Olivetti. Storia di un italiano”, Rizzoli).

Un punto di forza, oltre alle mense e ai sostegni scolastici, sono le case per i lavoratori. Le prime erano già state progettate nel 1934, quando Adriano era appena diventato direttore generale della Olivetti: “Noi sappiamo che una delle ragioni della nostra forza sta nel benessere di tutti coloro che coadiuvano alla prosperità dell’azienda”.

Altre scelte di welfare sono esemplari. Nel 1938 viene aperta la biblioteca interna alla fabbrica. Nel 1940 si sperimenta l’integrazione completa del salario per i dipendenti ammalati, che altrimenti per legge avrebbero una riduzione della paga: la cassa mutua aziendale copre la differenza per la cifra fissata dal contratto nazionale di categoria e la media salariale della categoria del lavoratore rimasto a casa. Nel 1940, in azienda sono istituiti vari servizi specialistici – per esempio le cure dentistiche – che vengono estese ai familiari. E, nel giugno del 1941 viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. Commenta de Bortoli: “Siamo nel ‘41, c’è la guerra e si realizzano obiettivi che ancora oggi, nel dibattito sulla natalità, ci sembrano irraggiungibili”. Il welfare aziendale, con la sua storia nelle imprese più sensibili, è un buon paradigma d’attualità.

Ripensare il welfare aziendale, in tempi così difficili e incerti. E rafforzarne il ruolo di asset fondamentale di un più robusto capitale sociale su cui fondare nuove e migliori ragioni di sostenibilità dell’impresa.

Una scelta di fondo, naturalmente. Ma anche una misura per fare fronte alle emergenze attuali: la recessione, l’inflazione aggravata dal boom dei prezzi dell’energia dopo l’invasione russa dell’Ucraina, gli aumenti del costo del denaro e, contemporaneamente, le fragilità delle imprese nei nuovi contesti competitivi globali, così volatili e controversi. Le cronache parlano di “bonus” concessi da un numero crescente di aziende ai dipendenti (Barilla, Lavazza, Illy, Ferrari, Della Valle, De Longhi, etc.) per premiare l’impegno durante la stagione del Covid (il rimbalzo dell’economia italiana è stato il maggiore d’Europa, soprattutto grazie alla resilienza dell’industria migliore) ma anche, adesso, per fronteggiare il “caro bollette” e il clamoroso aumento del costo della vita. E il governo Meloni sta saggiamente pensando di detassare i premi delle aziende ai dipendenti sino a 3mila euro.

Certamente, è necessario disinnescare i rischi di una spirale inflattiva tra aumento dei prezzi e crescita dei salari (com’era successo nei durissimi anni Settanta). I premi “una tantum”, soprattutto se detassati e gli aumenti salariali legati agli incrementi di produttività sono strade da seguire. Così come è indispensabile tagliare nettamente il cuneo fiscale a vantaggio di salari e stipendi e dei conti delle imprese (Confindustria insiste giustamente su questo tasto da tempo, con un ascolto purtroppo generico e incerto da parte del governo).

Ma, emergenza a parte, una riflessione sul welfare aziendale è essenziale anche guardando al lungo periodo. Nella stagione del passaggio della cultura economica dal primato dello shareholders value (profitti e corsi di Borsa, comunque importanti) a quello degli stakeholders values (valori e interessi dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori, di tutti gli appartenenti alle comunità che entrano in relazione con l’azienda), per continuare a essere competitiva l’impresa deve premiare meglio le proprie persone, la loro produttività, le capacità innovative, l’orgoglio di appartenenza, l’intelligenza creativa e l’intraprendenza.

Le trasformazioni digitali e le evoluzioni di Industria 4.0 (la causa determinante della crescita dell’economia italiana tra ‘21 e ‘22) e la diffusione conseguente delle pratiche di smart working  sollecitano, inoltre, una nuova struttura delle relazioni industriali e degli stessi contratti di lavoro, con salari e stipendi ancorati non tanto all’orario di lavoro, quanto ai risultati. E, nella nuova struttura delle retribuzioni, il welfare aziendale è destinato ad assumere un’importanza crescente (assistenza, previdenza integrativa, servizi di vario tipo), da stimolare e premiare con una fiscalità intelligente. L’obiettivo: migliorare la qualità della vita dei lavoratori e delle loro famiglie.

I contratti di lavoro, da qualche tempo, stanno già seguendo questa strada. L’impegno di molte imprese, attente responsabilmente alla sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale ed economica, favorisce le riflessioni e le sperimentazioni di welfare. Il cantiere è aperto. E il lavoro deve andare avanti.

In Italia, d’altronde, proprio su questi temi, c’è un’ottima tradizione della cultura d’impresa, da riscoprire, rileggere, valorizzare (lo ha fatto, venerdì scorso, Ferruccio de Bortoli in una conferenza all’Università Cattolica di Milano, parlando di Pirelli, Olivetti, Marzotto e altri casi virtuosi).

Il contesto storico, dalla fine dell’Ottocento in poi, è quello di un grande attivismo sociale, nel mondo cattolico e nelle organizzazioni socialiste: società di mutuo soccorso, leghe operaie e contadine (le radici dei sindacati), cooperative, strutture per il credito popolare. Tutto un fiorire di iniziative che, nel tempo, saranno la base di un capitale sociale collaborativo e comunitario, che stimoleranno nel tempo importanti provvedimenti di legge e di cui ancora oggi risentiamo gli effetti positivi.

Nel mondo delle imprese, vale la pena ricordare, per esempio, le attenzioni alle abitazioni operaie (il villaggio di Crespi d’Adda, per le maestranze delle fabbriche tessili della famiglia Crespi), le misure sanitarie e assistenziali, gli stimoli per le scuole dei figli dei dipendenti, le prime organizzazioni per la cultura e per il tempo libero. Capitalismo paternalista, volto a fronteggiare i rischi di proteste sociali. Ma anche sincero interesse alle sorti delle persone nelle fabbriche e nelle officine (la struttura produttiva italiana, nata da piccole imprese, ha favorito in molti casi la vicinanza di esperienze e visioni tra imprenditori e maestranze).

Gli esempi? Ai primi di maggio del 1894, un ritaglio del giornale “La Lega Lombarda”, in un articolo sullo stabilimento Pirelli a Milano (l’azienda di lavorazione della gomma era stata fondata dodici anni prima da Giovanni Battista Pirelli, subito dopo la laurea al Politecnico) ricorda che “fin dal 1877 fu istituita una Cassa di mutuo soccorso per gli operai ammalati, alimentata da trattenute tenuissime -da 10 a 15 centesimi per la quindicina- sulla paga degli operai e dalle multe”. Sempre dall’Archivio Storico della Fondazione Pirelli risulta l’esistenza di una Società Anonima di Consumo tra i dipendenti dello stabilimento, che nel 1901, con una piccola cartolina illustrata, chiede al “gerente Giovanni Battista Pirelli” un aiuto per  fare crescere l’attività di mutuo soccorso. E, nel maggio 1902, ecco il primo “Concordato fra la Ditta e la Commissione Operai per miglioramenti di trattamento e disposizioni varie in seguito alla presentazione del Memoriale Operai”.

Secondo quel “Concordato”, è organizzato un vero e proprio servizio sanitario, totalmente a carico della società, a favore dei lavoratori ed esteso oltre i confini della fabbrica. E nel 1926 è istituito il Servizio di Assistenza Sanitaria gratuito a favore dei dipendenti. Seguiranno, nel tempo, le iniziative per le case agli operai, le colonie per le vacanze estive dei bambini dei dipendenti, i contributi per fare continuare a studiare i più capaci e meritevoli e, sempre negli anni Venti, le prime biblioteche aziendali (un’iniziativa che ancora dura).

Dalla storia Pirelli all’esperienza Marzotto, attorno alle fabbriche tessili di Valdagno: “Noi desideriamo la graduale ascensione delle classi operaie ed agricole – scriveva Vittorio Emanuele Marzotto nel 1901- l’intervento dello Stato è necessario e deve consistere in una saggia legislazione sociale intesa a comporre i prevedibili conflitti, a tutelare il capitale, a proteggere la manodopera in modo che ogni singolo cittadino sappia quanto gli sia lecito ripromettersi dalla sua forza economica e dal suo lavoro, in modo che il contratto sia sacro fra le parti”.

Racconta Ferruccio de Bortoli: “I Marzotto che fecero asili nido, centri sportivi – persino all’epoca delle piscine – e case di riposo per i dipendenti e i loro familiari, ci tennero a sottolineare che queste attività di welfare aziendale erano da considerarsi come dei diritti indiscussi delle maestranze e non delle concessioni. Un concetto già sufficientemente compiuto di responsabilità sociale, era già chiaro all’epoca”.

E Olivetti? Nell’agosto del 1919, sul primo numero di “Azione riformista”, Camillo Olivetti scriveva dell’importanza di “rendere tutti i cittadini consapevoli dei doveri dell’ora presente, additando mali e rimedi e nello stesso tempo preparare le forze necessarie per assurgere a più perfezionate forme politiche ed economiche, ad un nuovo assetto sociale nel quale tutto il frutto del lavoro vada a chi utilmente lavora”. E negli anni Trenta del Novecento insisteva sul fatto che la produttività dipendesse dal grado di cittadinanza dei dipendenti e dalla loro adesione ai principi di solidarietà. E che il benessere dei collaboratori fosse un prerequisito dell’impresa.

Alla sua morte il figlio Adriano era già pronto a rilanciare il welfare d’impresa, nel lungo periodo di realizzazioni tra il dopoguerra e il 1960 (lo racconta bene Paolo Bricco in “Adriano Olivetti. Storia di un italiano”, Rizzoli).

Un punto di forza, oltre alle mense e ai sostegni scolastici, sono le case per i lavoratori. Le prime erano già state progettate nel 1934, quando Adriano era appena diventato direttore generale della Olivetti: “Noi sappiamo che una delle ragioni della nostra forza sta nel benessere di tutti coloro che coadiuvano alla prosperità dell’azienda”.

Altre scelte di welfare sono esemplari. Nel 1938 viene aperta la biblioteca interna alla fabbrica. Nel 1940 si sperimenta l’integrazione completa del salario per i dipendenti ammalati, che altrimenti per legge avrebbero una riduzione della paga: la cassa mutua aziendale copre la differenza per la cifra fissata dal contratto nazionale di categoria e la media salariale della categoria del lavoratore rimasto a casa. Nel 1940, in azienda sono istituiti vari servizi specialistici – per esempio le cure dentistiche – che vengono estese ai familiari. E, nel giugno del 1941 viene riorganizzato tutto il servizio per l’infanzia e per la maternità offerto dall’impresa. Commenta de Bortoli: “Siamo nel ‘41, c’è la guerra e si realizzano obiettivi che ancora oggi, nel dibattito sulla natalità, ci sembrano irraggiungibili”. Il welfare aziendale, con la sua storia nelle imprese più sensibili, è un buon paradigma d’attualità.

Pirelli a Bookcity 2022
con un incontro che racconta una storia al futuro

Anche quest’anno Fondazione Pirelli sarà presente a BookCity Milano, l’iniziativa promossa dal Comune di Milano e dall’Associazione BookCity Milano con l’obiettivo di mettere il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano.

In particolare, sabato 19 novembre 2022 alle ore 18.30, Fondazione Pirelli e Fondazione Corriere della Sera organizzeranno, presso la sede di Fondazione Corriere della Sera, l’incontro “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura”. Una conversazione tra Antonio Calabrò, Ernesto Ferrero e Piergaetano Marchetti a partire dal libro “Una storia al futuro. Pirelli 150 anni di industria, innovazione, cultura” curato da Fondazione Pirelli ed edito da Marsilio, accompagnata dalla lettura di alcuni brani tratti dal volume a cura di Isabella Ragonese.

Il libro è un racconto a più voci delle principali innovazioni tecnologiche di Pirelli e dei protagonisti del mondo della ricerca dalla nascita dell’azienda, nel 1872, fino ai giorni nostri. Raccoglie infatti i contributi di rappresentanti delle istituzioni, fra cui la Ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa e i rettori dei Politecnici di Milano e Torino, Ferruccio Resta e Guido Saracco, di grandi autori italiani come Ernesto Ferrero, Giuseppe Lupo, Bruno Arpaia, e internazionali, come Ian McEwan, Geoff Mulgan e David Weinberger, oltre ai protagonisti del mondo dell’architettura, della cultura, della musica e del giornalismo come Salvatore Accardo, Monica Maggioni, Renzo Piano, Ermete Realacci. Il volume è arricchito anche da un ampio apparato iconografico e documentale proveniente dall’Archivio Storico aziendale e da un reportage fotografico che interpreta il mondo della scienza e della ricerca in Pirelli, sempre più orientata sulle materie prime e sui materiali innovativi e sostenibili.

La celebrazione di un secolo e mezzo di storia, con lo sguardo rivolto al futuro.

Ingresso libero su prenotazione. Per l’iscrizione clicca qui

Anche quest’anno Fondazione Pirelli sarà presente a BookCity Milano, l’iniziativa promossa dal Comune di Milano e dall’Associazione BookCity Milano con l’obiettivo di mettere il libro e i lettori al centro di una serie di eventi sul territorio urbano.

In particolare, sabato 19 novembre 2022 alle ore 18.30, Fondazione Pirelli e Fondazione Corriere della Sera organizzeranno, presso la sede di Fondazione Corriere della Sera, l’incontro “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura”. Una conversazione tra Antonio Calabrò, Ernesto Ferrero e Piergaetano Marchetti a partire dal libro “Una storia al futuro. Pirelli 150 anni di industria, innovazione, cultura” curato da Fondazione Pirelli ed edito da Marsilio, accompagnata dalla lettura di alcuni brani tratti dal volume a cura di Isabella Ragonese.

Il libro è un racconto a più voci delle principali innovazioni tecnologiche di Pirelli e dei protagonisti del mondo della ricerca dalla nascita dell’azienda, nel 1872, fino ai giorni nostri. Raccoglie infatti i contributi di rappresentanti delle istituzioni, fra cui la Ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa e i rettori dei Politecnici di Milano e Torino, Ferruccio Resta e Guido Saracco, di grandi autori italiani come Ernesto Ferrero, Giuseppe Lupo, Bruno Arpaia, e internazionali, come Ian McEwan, Geoff Mulgan e David Weinberger, oltre ai protagonisti del mondo dell’architettura, della cultura, della musica e del giornalismo come Salvatore Accardo, Monica Maggioni, Renzo Piano, Ermete Realacci. Il volume è arricchito anche da un ampio apparato iconografico e documentale proveniente dall’Archivio Storico aziendale e da un reportage fotografico che interpreta il mondo della scienza e della ricerca in Pirelli, sempre più orientata sulle materie prime e sui materiali innovativi e sostenibili.

La celebrazione di un secolo e mezzo di storia, con lo sguardo rivolto al futuro.

Ingresso libero su prenotazione. Per l’iscrizione clicca qui

Una nuova economia?

Un’indagine appena pubblicata fornisce la fotografia accurata dell’economia sociale, delineando anche un cultura del produrre diversa dal consueto

 Economia sociale, ovvero economia più attenta a quelli che sono i bisogni delle comunità. Economia per lungo tempo guardata con sospetto, eppure economia importante, che sta crescendo. E che deve essere ben compresa per essere poi ben applicata. Capire la realtà, anche in questo caso, è determinante per non compiere errori e per progredire. A questo serve leggere “L’economia sociale in Italia: dimensioni ed evoluzione” intervento pubblicato da poco che fornisce la sintesi dei principali risultati contenuti nel rapporto Euricse-Istat sull’economia sociale pubblicato nel 2021 e curato da Carlo Borzaga, Manlio Calzaroni, Eddi Fontanari e Massimo Lori e a cui hanno collaborato Mauro Caramaschi, Carla Troccoli, Chiara Carini e Anna Berton: un gruppo di ricerca tra l’Università di Trento, Istat ed Euricse.

La ricerca fornisce un quadro aggiornato su come l’economia sociale si stia evolvendo in Italia, partendo da un inquadramento delle definizioni e degli ambiti d’azione della stessa. Dopo aver esplicitato la serie di fonti statistiche dei dati utilizzati, i ricercatori approfondiscono prima la struttura dell’economia sociale e la sua evoluzione nel breve periodo, poi il significato della stessa in termini di occupazione. Successivamente si passa ad un’analisi dei diversi settori nei quali l’economia sociale si declina oggi. L’evoluzione storica di tutto il sistema e una serie di approfondimenti ulteriori sul fronte del welfare, costituiscono quindi il passo successivo della ricerca.

Spiega il gruppo di ricerca nelle conclusioni dell’indagine: “L’aspetto più importante che i dati restituiscono è la pervasività delle organizzazioni dell’economia sociale in praticamente tutti i settori del sistema economico italiano con un contributo di rilievo lungo la filiera agroalimentare, nelle attività maggiormente labour-intensive e nei servizi di interesse generale”. L’economia sociale, si delinea così non solo come una particolare forma di economia, ma anche come una manifestazione originale e importante di una cultura del fare impresa diversa dal passato, che si evolve, cresce e assume significati sempre nuovi.

L’economia sociale in Italia: dimensioni ed evoluzione

Carlo Borzaga (Università degli Studi di Trento – Euricse), Manlio Calzaroni (Esperto di statistica, già responsabile Direzione centrale rilevazioni censuarie e registri statistici Istat), Eddi Fontanari (Euricse), Massimo Lori (Istat)

Impresa sociale, 2/2022

Un’indagine appena pubblicata fornisce la fotografia accurata dell’economia sociale, delineando anche un cultura del produrre diversa dal consueto

 Economia sociale, ovvero economia più attenta a quelli che sono i bisogni delle comunità. Economia per lungo tempo guardata con sospetto, eppure economia importante, che sta crescendo. E che deve essere ben compresa per essere poi ben applicata. Capire la realtà, anche in questo caso, è determinante per non compiere errori e per progredire. A questo serve leggere “L’economia sociale in Italia: dimensioni ed evoluzione” intervento pubblicato da poco che fornisce la sintesi dei principali risultati contenuti nel rapporto Euricse-Istat sull’economia sociale pubblicato nel 2021 e curato da Carlo Borzaga, Manlio Calzaroni, Eddi Fontanari e Massimo Lori e a cui hanno collaborato Mauro Caramaschi, Carla Troccoli, Chiara Carini e Anna Berton: un gruppo di ricerca tra l’Università di Trento, Istat ed Euricse.

La ricerca fornisce un quadro aggiornato su come l’economia sociale si stia evolvendo in Italia, partendo da un inquadramento delle definizioni e degli ambiti d’azione della stessa. Dopo aver esplicitato la serie di fonti statistiche dei dati utilizzati, i ricercatori approfondiscono prima la struttura dell’economia sociale e la sua evoluzione nel breve periodo, poi il significato della stessa in termini di occupazione. Successivamente si passa ad un’analisi dei diversi settori nei quali l’economia sociale si declina oggi. L’evoluzione storica di tutto il sistema e una serie di approfondimenti ulteriori sul fronte del welfare, costituiscono quindi il passo successivo della ricerca.

Spiega il gruppo di ricerca nelle conclusioni dell’indagine: “L’aspetto più importante che i dati restituiscono è la pervasività delle organizzazioni dell’economia sociale in praticamente tutti i settori del sistema economico italiano con un contributo di rilievo lungo la filiera agroalimentare, nelle attività maggiormente labour-intensive e nei servizi di interesse generale”. L’economia sociale, si delinea così non solo come una particolare forma di economia, ma anche come una manifestazione originale e importante di una cultura del fare impresa diversa dal passato, che si evolve, cresce e assume significati sempre nuovi.

L’economia sociale in Italia: dimensioni ed evoluzione

Carlo Borzaga (Università degli Studi di Trento – Euricse), Manlio Calzaroni (Esperto di statistica, già responsabile Direzione centrale rilevazioni censuarie e registri statistici Istat), Eddi Fontanari (Euricse), Massimo Lori (Istat)

Impresa sociale, 2/2022

Produrre diversamente

L’ultimo libro curato da Aldo Bonomi delinea un assetto produttivo e territoriale nuovo, che cambia i paradigmi utilizzati fino ad oggi

 

Fabbrica “non più fabbrica”, ma luogo della produzione che si diluisce nel territorio, lo pervade, ne diventa struttura di lavoro e di vita. E’ attorno a questa raffigurazione della realtà che si muove “Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali”, libro curato da Aldo Bonomi che ha, con ragione, l’ambizione di costituire un salto di qualità nelle analisi di quanto sta accadendo nelle società industrializzate.

Frutto di decenni di ricerche, analisi e ragionamenti, il libro è contemporaneamente testo di studio e compendio di immagini che valgono più di centinaia di pagine di numeri.
Tutto inizia da una ipotesi che è anche una constatazione: la fabbrica è esplosa sul territorio, portando fuori dalle mura la logica dell’industrializzazione. Da qui parte il lungo percorso di esplorazione territoriale del consorzio Aaster (creato e animato dallo stesso Bonomi) che conduce ad una sorta di “scomposizione del lavoro fordista” (e cioè quello legato alla tradizionale organizzazione della produzione), per arrivare ad una rappresentazione di nuove configurazioni sociali fatte di momenti di lavoro e di vita, di luoghi positivi e di ambiti di sfruttamento diversi dal passato, ambivalenze e occasioni di sviluppo.

Concentrato nell’analisi di quanto è accaduto e accade al nord della Penisola, il libro non solo si fonda su decenni di lavoro ma su una solida mole di dati e ricerche, tanto da poter essere definito un “almanacco dei territori” che nel nord (ma senza dimenticare il sud) costituiscono il nucleo forte della produzione italiana.
Dopo un lungo capitolo di sintesi dello stesso Bonomi, chi legge può quindi approfondire quanto accade nelle “quattro lombardie”, nel nord-est alle prese con il “policentrismo delle molecole”, nell’Emilia-Romagna delle piattaforme, nella Torino ex company town. Ma anche nei tanti nord e cioè quelli dei poli metropolitani, delle piattaforme, delle “comunità-polvere”.
Nelle circa duecento pagine raccolte da Bonomi, si coglie un susseguirsi di analisi e suggestioni che costituiscono, queste ultime, uno dei valori aggiunti del libro (insieme ad un linguaggio che riesce spesso a superare i tornanti dei tecnicismi arrivando ad un racconto vivo di quanto accade).

Il libro è così una “inchiesta radicale e paziente sul divenire dei territori”, come scrive Bonomi, che si pone molte domande (come quella sul futuro della “comunità operosa” fattasi “capitalismo intermedio”) e non pretende di dare risposte preconfezionate ma ulteriore argomenti di ragionamento. Come, tanto per citarne uno, la connotazione delle “industrie urbane” che “mettono a valore quattro campi chiave del vivere sociale e dell’umano: salute, natura, abitare, sapere”.
“Oltre le mura dell’impresa” non è un libro da leggere di corsa (anche se si fa leggere benissimo), ma qualcosa su cui ragionare, del quale non si è obbligati a condividere tutto, ma che devono leggere tutti quelli che vogliono capire di più e meglio dell’evoluzione del nostro sistema sociale e produttivo.

Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali

Aldo Bonomi (a cura di)

DeriveApprodi, 2021

L’ultimo libro curato da Aldo Bonomi delinea un assetto produttivo e territoriale nuovo, che cambia i paradigmi utilizzati fino ad oggi

 

Fabbrica “non più fabbrica”, ma luogo della produzione che si diluisce nel territorio, lo pervade, ne diventa struttura di lavoro e di vita. E’ attorno a questa raffigurazione della realtà che si muove “Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali”, libro curato da Aldo Bonomi che ha, con ragione, l’ambizione di costituire un salto di qualità nelle analisi di quanto sta accadendo nelle società industrializzate.

Frutto di decenni di ricerche, analisi e ragionamenti, il libro è contemporaneamente testo di studio e compendio di immagini che valgono più di centinaia di pagine di numeri.
Tutto inizia da una ipotesi che è anche una constatazione: la fabbrica è esplosa sul territorio, portando fuori dalle mura la logica dell’industrializzazione. Da qui parte il lungo percorso di esplorazione territoriale del consorzio Aaster (creato e animato dallo stesso Bonomi) che conduce ad una sorta di “scomposizione del lavoro fordista” (e cioè quello legato alla tradizionale organizzazione della produzione), per arrivare ad una rappresentazione di nuove configurazioni sociali fatte di momenti di lavoro e di vita, di luoghi positivi e di ambiti di sfruttamento diversi dal passato, ambivalenze e occasioni di sviluppo.

Concentrato nell’analisi di quanto è accaduto e accade al nord della Penisola, il libro non solo si fonda su decenni di lavoro ma su una solida mole di dati e ricerche, tanto da poter essere definito un “almanacco dei territori” che nel nord (ma senza dimenticare il sud) costituiscono il nucleo forte della produzione italiana.
Dopo un lungo capitolo di sintesi dello stesso Bonomi, chi legge può quindi approfondire quanto accade nelle “quattro lombardie”, nel nord-est alle prese con il “policentrismo delle molecole”, nell’Emilia-Romagna delle piattaforme, nella Torino ex company town. Ma anche nei tanti nord e cioè quelli dei poli metropolitani, delle piattaforme, delle “comunità-polvere”.
Nelle circa duecento pagine raccolte da Bonomi, si coglie un susseguirsi di analisi e suggestioni che costituiscono, queste ultime, uno dei valori aggiunti del libro (insieme ad un linguaggio che riesce spesso a superare i tornanti dei tecnicismi arrivando ad un racconto vivo di quanto accade).

Il libro è così una “inchiesta radicale e paziente sul divenire dei territori”, come scrive Bonomi, che si pone molte domande (come quella sul futuro della “comunità operosa” fattasi “capitalismo intermedio”) e non pretende di dare risposte preconfezionate ma ulteriore argomenti di ragionamento. Come, tanto per citarne uno, la connotazione delle “industrie urbane” che “mettono a valore quattro campi chiave del vivere sociale e dell’umano: salute, natura, abitare, sapere”.
“Oltre le mura dell’impresa” non è un libro da leggere di corsa (anche se si fa leggere benissimo), ma qualcosa su cui ragionare, del quale non si è obbligati a condividere tutto, ma che devono leggere tutti quelli che vogliono capire di più e meglio dell’evoluzione del nostro sistema sociale e produttivo.

Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali

Aldo Bonomi (a cura di)

DeriveApprodi, 2021

Le imprese sono comunità di persone, ecco il vero valore della competitività

In tempi così difficili e controversi, vale la pena di ricominciare a ragionare sul valore delle parole, sul loro significato profondo, sulla loro stessa etimologia. E cercare di salvare il discorso pubblico dalle facilonerie retoriche, dagli eccessi della propaganda, dai veleni delle fake news. Le tante chiacchiere sul “merito”, se rivendicarlo a partire dalla scuola sia “di destra” o “di sinistra” e su come e quanto metterlo in stretta relazione con “l’eguaglianza”, rivelano, tra l’altro, un corto circuito di idee e valori che non aiuta a capire cosa fare per rimettere in movimento le ruote dello sviluppo economico e sociale di un Paese incerto e smarrito e ricostruire spirito repubblicano, valori civili e senso di comunità.

Le parole, dunque. Prendendone una delle più discusse: competitività. Nomina sunt consequentia rerum, ammonivano i sapienti latini. E così, per capire, è utile, appunto, andare alla radice delle parole. E prendere atto che competitività viene da cum e da petere.
Cum e cioè insieme, come indicano pure “comune”, “comunione”, “comunità” (cum e munus, il dono) ma anche “costituzione” (cum e statuere, stabilire insieme, scrivere insieme le regole della “convivenza”).
Petere e cioè andare, chiedere, reclamare, desiderare.
In sintesi: muoversi insieme verso un obiettivo comune.
Nell’accezione più frequente del linguaggio economico contemporaneo, la competitività è selettiva, indica vincitori e vinti, è escludente. Nella natura profonda, data la sua etimologia, è inclusiva, densa di valori che hanno sapore di collettività. Per sanare lo iato tra origine e uso corrente (“collaborazione” versus “competizione”), qualcuno ha coniato, in letteratura economica, l’espressione “collaborazione competitiva”. Meglio che niente.

Il ragionamento sulla competitività e sulle “competenze” come cum e petere sta anche nelle sapide e sapienti pagine di un libro appena pubblicato da Garzanti, “Si vince solo insieme”, una conversazione di Claudia Parzani con Sandro Catani, con un sottotitolo molto stimolante: “Undici parole per scoprire il valore della diversità e immaginare il futuro”.
Avvocata d’affari lei, senior partner dello studio legale internazionale Linklaters e presidente della Borsa e di Allianz Italia. Advisor di grandi aziende lui, con una lunga esperienza di gestione delle risorse umane. Impegnati, in questa lucida e ironica conversazione, a parlare di sviluppo sostenibile ambientale e sociale, limiti e opportunità delle nuove tecnologie digitali, economia ispirata da valori degli stakeholders e non solo dal valore aziendale (profitti e corsi di Borsa), sfide geopolitiche in un mondo squilibrato ma comunque globale e interconnesso, smart working e conciliazione tra lavoro e vita privata, diritti e doveri della cittadinanza, potere e responsabilità, fragilità e ricerca della felicità. Ragionamenti sull’impresa, dove la presenza femminile è un valore straordinario, grazie alla capacità di ascolto, all’intelligenza emotiva, alle sintesi originali d’innovazione sociale. E discussioni sulla comunità, sull’Italia, sulle riforme e sulle scelte politiche, sociali e culturali necessarie per rimettere in moto l’ascensore sociale da troppo tempo bloccato e ricostruire una crescita economica più giusta, più equilibrata.

Leggendo le pagine di Parzani e Catani, viene in mente anche una lezione essenziale di Papa Francesco: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.
Andare oltre lo schematico spirito delle merci, dunque oltre l’economia vissuta come “scienza triste”. E parlare di persone, non solo di carriere, ruoli, denaro.
Ecco il punto: è necessario insistere su un’idea di “economia giusta”, civile, inclusiva, in cui competitività e solidarietà, produttività e inclusione sociale camminano insieme, grazie anche al senso di responsabilità di una “impresa riformista” che si muove come attore sociale responsabile, capace di produrre ricchezza, benessere diffuso, innovazione, futuro più equo per le nuove generazioni.

L’impresa italiana – raccontano e documentano Parzani e Catani – ne offre indicazioni esemplari.
La conversazione, così, assume la forma di un vero e proprio viaggio. Un viaggio di scoperta in cui, alla Proust, occorrono “occhi nuovi per vedere”. Un viaggio di apprendimento. Con tre convinzioni comuni: “La prima: che l’ascolto degli altri sia un presupposto necessario per affrontare qualsiasi sfida futura. La seconda: che il destino influisce sul futuro di ciascuno, ma la passione e la determinazione accrescono le probabilità di raggiungere la meta desiderata. Infine, la terza: che le aziende sono comunità di persone unite da emozioni e destini comuni, e non soltanto macchine finalizzate a produrre”.

C’è, in fondo, la consapevolezza di una responsabilità, guardando alle ragazze e ai ragazzi che si preparano a entrare nel mondo del lavoro e a imparare i linguaggi della competizione e della collaborazione: “Avere la possibilità e la responsabilità di accendere una scintilla, di mostrare che è possibile diventare chi vogliamo essere, che i limiti sono solo nei nostri occhi e nei nostri pensieri, e che se non proviamo a correre non vinceremo mai”. Insieme, naturalmente.

In tempi così difficili e controversi, vale la pena di ricominciare a ragionare sul valore delle parole, sul loro significato profondo, sulla loro stessa etimologia. E cercare di salvare il discorso pubblico dalle facilonerie retoriche, dagli eccessi della propaganda, dai veleni delle fake news. Le tante chiacchiere sul “merito”, se rivendicarlo a partire dalla scuola sia “di destra” o “di sinistra” e su come e quanto metterlo in stretta relazione con “l’eguaglianza”, rivelano, tra l’altro, un corto circuito di idee e valori che non aiuta a capire cosa fare per rimettere in movimento le ruote dello sviluppo economico e sociale di un Paese incerto e smarrito e ricostruire spirito repubblicano, valori civili e senso di comunità.

Le parole, dunque. Prendendone una delle più discusse: competitività. Nomina sunt consequentia rerum, ammonivano i sapienti latini. E così, per capire, è utile, appunto, andare alla radice delle parole. E prendere atto che competitività viene da cum e da petere.
Cum e cioè insieme, come indicano pure “comune”, “comunione”, “comunità” (cum e munus, il dono) ma anche “costituzione” (cum e statuere, stabilire insieme, scrivere insieme le regole della “convivenza”).
Petere e cioè andare, chiedere, reclamare, desiderare.
In sintesi: muoversi insieme verso un obiettivo comune.
Nell’accezione più frequente del linguaggio economico contemporaneo, la competitività è selettiva, indica vincitori e vinti, è escludente. Nella natura profonda, data la sua etimologia, è inclusiva, densa di valori che hanno sapore di collettività. Per sanare lo iato tra origine e uso corrente (“collaborazione” versus “competizione”), qualcuno ha coniato, in letteratura economica, l’espressione “collaborazione competitiva”. Meglio che niente.

Il ragionamento sulla competitività e sulle “competenze” come cum e petere sta anche nelle sapide e sapienti pagine di un libro appena pubblicato da Garzanti, “Si vince solo insieme”, una conversazione di Claudia Parzani con Sandro Catani, con un sottotitolo molto stimolante: “Undici parole per scoprire il valore della diversità e immaginare il futuro”.
Avvocata d’affari lei, senior partner dello studio legale internazionale Linklaters e presidente della Borsa e di Allianz Italia. Advisor di grandi aziende lui, con una lunga esperienza di gestione delle risorse umane. Impegnati, in questa lucida e ironica conversazione, a parlare di sviluppo sostenibile ambientale e sociale, limiti e opportunità delle nuove tecnologie digitali, economia ispirata da valori degli stakeholders e non solo dal valore aziendale (profitti e corsi di Borsa), sfide geopolitiche in un mondo squilibrato ma comunque globale e interconnesso, smart working e conciliazione tra lavoro e vita privata, diritti e doveri della cittadinanza, potere e responsabilità, fragilità e ricerca della felicità. Ragionamenti sull’impresa, dove la presenza femminile è un valore straordinario, grazie alla capacità di ascolto, all’intelligenza emotiva, alle sintesi originali d’innovazione sociale. E discussioni sulla comunità, sull’Italia, sulle riforme e sulle scelte politiche, sociali e culturali necessarie per rimettere in moto l’ascensore sociale da troppo tempo bloccato e ricostruire una crescita economica più giusta, più equilibrata.

Leggendo le pagine di Parzani e Catani, viene in mente anche una lezione essenziale di Papa Francesco: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.
Andare oltre lo schematico spirito delle merci, dunque oltre l’economia vissuta come “scienza triste”. E parlare di persone, non solo di carriere, ruoli, denaro.
Ecco il punto: è necessario insistere su un’idea di “economia giusta”, civile, inclusiva, in cui competitività e solidarietà, produttività e inclusione sociale camminano insieme, grazie anche al senso di responsabilità di una “impresa riformista” che si muove come attore sociale responsabile, capace di produrre ricchezza, benessere diffuso, innovazione, futuro più equo per le nuove generazioni.

L’impresa italiana – raccontano e documentano Parzani e Catani – ne offre indicazioni esemplari.
La conversazione, così, assume la forma di un vero e proprio viaggio. Un viaggio di scoperta in cui, alla Proust, occorrono “occhi nuovi per vedere”. Un viaggio di apprendimento. Con tre convinzioni comuni: “La prima: che l’ascolto degli altri sia un presupposto necessario per affrontare qualsiasi sfida futura. La seconda: che il destino influisce sul futuro di ciascuno, ma la passione e la determinazione accrescono le probabilità di raggiungere la meta desiderata. Infine, la terza: che le aziende sono comunità di persone unite da emozioni e destini comuni, e non soltanto macchine finalizzate a produrre”.

C’è, in fondo, la consapevolezza di una responsabilità, guardando alle ragazze e ai ragazzi che si preparano a entrare nel mondo del lavoro e a imparare i linguaggi della competizione e della collaborazione: “Avere la possibilità e la responsabilità di accendere una scintilla, di mostrare che è possibile diventare chi vogliamo essere, che i limiti sono solo nei nostri occhi e nei nostri pensieri, e che se non proviamo a correre non vinceremo mai”. Insieme, naturalmente.

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