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In un libro ci sono molti doni

Un messaggio di Roberto Piumini ai giovani giurati del Premio Campiello Junior

Sono ancora aperte le candidature alla Giuria dei Lettori per la seconda edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento per opere di narrativa e poesia per ragazzi e ragazze ideato dalla Fondazione Pirelli con la Fondazione Il Campiello. I giovani lettori tra i 7 e i 14 anni hanno tempo fino all’11 novembre 2022 per iscriversi utilizzando questo form.

È a loro che Roberto Piumini si rivolge con un messaggio ispirato ai doni che ogni libro, e ogni lettura, porta in sé:

Amici della giovane Giuria,

in un libro ci sono molti doni. Il primo è quello che l’autore (il narratore, il poeta) fa a sé stesso, scegliendo con cura, nel mucchio di parole, quelle del suo speciale e unico racconto/canto. Un altro dono è quello dell’editore, che distribuisce a molti quel dono solitario, mostrando a molti quel ritratto del mondo, arricchendo la loro esperienza. C’è, naturalmente, il dono che il lettore fa all’autore, dedicandogli tempo, attenzione, risposta immaginaria: la lettura è una generosa ospitalità. C’è il dono di chi regala o presta un libro a una persona amica, mostrandole un paesaggio umano, e parlandole, attraverso quella scelta, di sé, arricchendo l’amicizia.  E poi c’è il dono che un giurato, una giuria, scegliendo una storia e un linguaggio di qualità, fanno a chi legge. Premiando e suggerendo un buon libro, voi favorite la circolazione dei doni di cui ho parlato: arricchite, come fa un buon maestro, o come avviene in un coro, la conversazione.

Roberto Piumini

Presidente della Giuria di Selezione del Premio Campiello Junior

A lui si uniscono i membri della Giuria di Selezione dei libri finalisti del Campiello Junior e la vincitrice della prima edizione del Premio, Antonella Sbuelz. Rivolgendosi direttamente ai giovani giurati, hanno voluto trasmettere alcuni messaggi sull’importanza di leggere e di condividere quest’esperienza con i propri coetanei.

È possibile ascoltare integralmente i messaggi nella sezione “gallery”.

Un messaggio di Roberto Piumini ai giovani giurati del Premio Campiello Junior

Sono ancora aperte le candidature alla Giuria dei Lettori per la seconda edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento per opere di narrativa e poesia per ragazzi e ragazze ideato dalla Fondazione Pirelli con la Fondazione Il Campiello. I giovani lettori tra i 7 e i 14 anni hanno tempo fino all’11 novembre 2022 per iscriversi utilizzando questo form.

È a loro che Roberto Piumini si rivolge con un messaggio ispirato ai doni che ogni libro, e ogni lettura, porta in sé:

Amici della giovane Giuria,

in un libro ci sono molti doni. Il primo è quello che l’autore (il narratore, il poeta) fa a sé stesso, scegliendo con cura, nel mucchio di parole, quelle del suo speciale e unico racconto/canto. Un altro dono è quello dell’editore, che distribuisce a molti quel dono solitario, mostrando a molti quel ritratto del mondo, arricchendo la loro esperienza. C’è, naturalmente, il dono che il lettore fa all’autore, dedicandogli tempo, attenzione, risposta immaginaria: la lettura è una generosa ospitalità. C’è il dono di chi regala o presta un libro a una persona amica, mostrandole un paesaggio umano, e parlandole, attraverso quella scelta, di sé, arricchendo l’amicizia.  E poi c’è il dono che un giurato, una giuria, scegliendo una storia e un linguaggio di qualità, fanno a chi legge. Premiando e suggerendo un buon libro, voi favorite la circolazione dei doni di cui ho parlato: arricchite, come fa un buon maestro, o come avviene in un coro, la conversazione.

Roberto Piumini

Presidente della Giuria di Selezione del Premio Campiello Junior

A lui si uniscono i membri della Giuria di Selezione dei libri finalisti del Campiello Junior e la vincitrice della prima edizione del Premio, Antonella Sbuelz. Rivolgendosi direttamente ai giovani giurati, hanno voluto trasmettere alcuni messaggi sull’importanza di leggere e di condividere quest’esperienza con i propri coetanei.

È possibile ascoltare integralmente i messaggi nella sezione “gallery”.

Multimedia

Video

Fondazione Pirelli alla
XXI Settimana della Cultura d’impresa di Museimpresa

Si terrà tra dal 7 al 21 novembre 2022 la XXI Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria dal titolo “A scuola d’impresa”. Il ricco programma di iniziative porterà alla scoperta del patrimonio custodito dai musei e archivi di grandi, piccole e medie aziende.

Fondazione Pirelli vi prenderà parte con iniziative volte a promuovere i valori della cultura d’impresa politecnica di Pirelli, rafforzare le relazioni positive tra impresa e scuola, insistendo sulla formazione delle nuove generazioni.

Quattro le visite guidate previste alla Fondazione Pirelli con la mostraPirelli, When History Builds The Future”, il percorso espositivo che celebra, attraverso il patrimonio storico aziendale, una storia industriale lunga 150 anni fatta di persone, passione e innovazione. Dalla ricerca sulle materie prime alle nuove tecnologie, dalle competizioni sportive ai linguaggi della comunicazione visiva, tra memoria e sguardi sul futuro.

Gli appuntamenti sono per venerdì 11 novembre e venerdì 18 novembre. Entrambe le giornate saranno strutturate su due turni di vista (della durata di circa 60 minuti), alle ore 17 e alle ore 18.30. L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti. Per partecipare è necessario iscriversi compilando qui.

Tra le altre iniziative inserite nel palinsesto anche “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura”, un dialogo su cultura d’impresa, innovazione e futuro accompagnato da letture di alcuni brani tratti dal volume a cura dell’attrice Isabella Ragonese. Per l’iscrizione clicca qui

Per maggiori informazioni, è possibile scrivere a info@fondazionepirelli.org.

Si terrà tra dal 7 al 21 novembre 2022 la XXI Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria dal titolo “A scuola d’impresa”. Il ricco programma di iniziative porterà alla scoperta del patrimonio custodito dai musei e archivi di grandi, piccole e medie aziende.

Fondazione Pirelli vi prenderà parte con iniziative volte a promuovere i valori della cultura d’impresa politecnica di Pirelli, rafforzare le relazioni positive tra impresa e scuola, insistendo sulla formazione delle nuove generazioni.

Quattro le visite guidate previste alla Fondazione Pirelli con la mostraPirelli, When History Builds The Future”, il percorso espositivo che celebra, attraverso il patrimonio storico aziendale, una storia industriale lunga 150 anni fatta di persone, passione e innovazione. Dalla ricerca sulle materie prime alle nuove tecnologie, dalle competizioni sportive ai linguaggi della comunicazione visiva, tra memoria e sguardi sul futuro.

Gli appuntamenti sono per venerdì 11 novembre e venerdì 18 novembre. Entrambe le giornate saranno strutturate su due turni di vista (della durata di circa 60 minuti), alle ore 17 e alle ore 18.30. L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti. Per partecipare è necessario iscriversi compilando qui.

Tra le altre iniziative inserite nel palinsesto anche “Una storia al futuro. Racconti d’impresa tra ricerca, innovazione e cultura”, un dialogo su cultura d’impresa, innovazione e futuro accompagnato da letture di alcuni brani tratti dal volume a cura dell’attrice Isabella Ragonese. Per l’iscrizione clicca qui

Per maggiori informazioni, è possibile scrivere a info@fondazionepirelli.org.

Includere e non escludere

Un libro scritto a più mani passa in rassegna tutti gli aspetti collegati all’inclusione nelle organizzazioni moderne

 

Inclusione. Vocabolo che delinea un orizzonte importante, per tutti. Anche per le organizzazioni di ogni livello. E che deriva non solo dalle leggi, europee e italiane, che vietano le discriminazioni, ma anche dalla morale e dall’etica di una società avanzata che, appunto, chiede maggiore attenzione a tutte le forme di vita umana possibili. Imperativo non eludibile, quindi, quello dell’inclusione e della non discriminazione. Al quale occorre rispondere dotandosi degli strumenti concettuali e pratici per comprendere i fenomeni sociali in atto e rispondervi positivamente.

Per questo serve leggere “L’organizzazione inclusiva”, libro scritto a più mani da Stefano Basaglia, Simona Cuomo e da Zenia Simonella. Avvalendosi delle ricerche sul campo accumulate dall’Osservatorio Diversity, Inclusion & Smart working di SDA Bocconi School of Management, il libro si rivolge a quanti si occupano di diversità nei luoghi di lavoro. In particolare, i manager possono confrontare la loro realtà con i diversi esempi presenti nel volume per capire a che punto si trovi la propria azienda nel processo di adozione di politiche inclusive e, nel caso, promuoverne di nuove.

Il testo – poco più di 200 pagine -, si occupa delle questioni di genere, di quelle LGBTQI+, ma anche degli aspetti generazionali, delle diversità etnico-culturali, del tema della disabilità e della genitorialità, della leadership inclusiva e del ruolo del diversity manager. Importanti pagine vengono anche dedicate all’equilibrio tra etica e profitto.

Frutto di un’analisi teorica e di esperienze pratiche, il libo riesce a fornire idee ma anche strumenti operativi, con un occhio particolarmente attento alla situazione italiana e al particolare contesto nel quale lavorano organizzazioni e imprese.

“L’organizzazione inclusiva” è una sorta di buona guida all’inclusione, da leggere e rileggere nei momenti di svolta nella vita delle organizzazioni.

L’organizzazione inclusiva

Stefano Basaglia, Simona Cuomo, Zenia Simonella

Egea, 2022

Un libro scritto a più mani passa in rassegna tutti gli aspetti collegati all’inclusione nelle organizzazioni moderne

 

Inclusione. Vocabolo che delinea un orizzonte importante, per tutti. Anche per le organizzazioni di ogni livello. E che deriva non solo dalle leggi, europee e italiane, che vietano le discriminazioni, ma anche dalla morale e dall’etica di una società avanzata che, appunto, chiede maggiore attenzione a tutte le forme di vita umana possibili. Imperativo non eludibile, quindi, quello dell’inclusione e della non discriminazione. Al quale occorre rispondere dotandosi degli strumenti concettuali e pratici per comprendere i fenomeni sociali in atto e rispondervi positivamente.

Per questo serve leggere “L’organizzazione inclusiva”, libro scritto a più mani da Stefano Basaglia, Simona Cuomo e da Zenia Simonella. Avvalendosi delle ricerche sul campo accumulate dall’Osservatorio Diversity, Inclusion & Smart working di SDA Bocconi School of Management, il libro si rivolge a quanti si occupano di diversità nei luoghi di lavoro. In particolare, i manager possono confrontare la loro realtà con i diversi esempi presenti nel volume per capire a che punto si trovi la propria azienda nel processo di adozione di politiche inclusive e, nel caso, promuoverne di nuove.

Il testo – poco più di 200 pagine -, si occupa delle questioni di genere, di quelle LGBTQI+, ma anche degli aspetti generazionali, delle diversità etnico-culturali, del tema della disabilità e della genitorialità, della leadership inclusiva e del ruolo del diversity manager. Importanti pagine vengono anche dedicate all’equilibrio tra etica e profitto.

Frutto di un’analisi teorica e di esperienze pratiche, il libo riesce a fornire idee ma anche strumenti operativi, con un occhio particolarmente attento alla situazione italiana e al particolare contesto nel quale lavorano organizzazioni e imprese.

“L’organizzazione inclusiva” è una sorta di buona guida all’inclusione, da leggere e rileggere nei momenti di svolta nella vita delle organizzazioni.

L’organizzazione inclusiva

Stefano Basaglia, Simona Cuomo, Zenia Simonella

Egea, 2022

Cosa sta accadendo?

L’ultima raccolta di ricerca del centro Einaudi di Torino fornisce una buona guida per comprendere il cambiamento

 

Cambiamento (non necessariamente tutto negativo). E’ quanto sta vivendo il mondo. Una condizione che va compresa e quindi analizzata con attenzione, da parte di tutti. Soprattutto, una condizione i cui termini essenziali vanno chiariti da parte di chi, non solo nelle istituzioni ma anche nelle imprese e nei corpi della società, ha ruoli particolari di responsabilità. E’ essenziale, quindi, avere informazioni corrette e chiare. Ed è quanto si ottiene leggendo “Il mondo posglobale”, ultima raccolta di indagini curata da Mario Deaglio per il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino con il contributo di Intesa Sanpaolo.

L’istantanea dalla quale parte la raccolta di ricerche è chiara: negli anni Venti del XXI secolo – e cioè oggi – il mondo è all’incrocio di quattro crisi: la crisi pandemica, non ancora conclusa e che ha accelerato e fatto emergere evoluzioni già in corso; la crisi climatico-ambientale, che nell’estate ha cominciato a mordere in molte aree del pianeta; la crisi geopolitica, con una guerra che si prolunga nel cuore del Vecchio continente; infine, la crisi economico-sociale, in parte innescata dall’innovazione tecnologica, complicata dalla crisi ambientale, dalla pandemia e dalla guerra. Non si tratta, viene precisato subito dagli autori delle diverse analisi, necessariamente di crisi in senso negativo ma di “crisi nel senso greco del termine” e cioè, provando una traduzione il più possibile fedele, di un “momento decisivo”. Il mondo, in altri termini, cambia. E la direzione del cambiamento dipende da una serie di scelte responsabilità delle società e non certo calate dall’alto e basta. Tenendo comunque conto che alcuni tratti del “mondo precedente” si stanno perdendo: i caratteri della globalità, per esempio, ma anche quelli collegati alla capacità di crescita. Per capire meglio, e per adottare le scelte più opportune, è necessario conoscere e provare strade nuove, così come guardare alla realtà con occhi diversi.

La raccolta di saggi curata da Deaglio, esplora così prima di tutto i tratti del 2022 indicato come “l’anno che ha cambiato il mondo”, per passare poi ad indagare da vicino i motivi del cambiamento che portano a dire che “il mondo non sarà più come prima” e quindi gli atteggiamenti di fronte a quanto sta accadendo di Stati Uniti ed Europa (che forniscono risposte diverse). L’attenzione viene poi posta sull’Italia per la quale ci si sforza di indicare che cosa occorrerebbe fare.

Scrive Deaglio nelle sue conclusioni: “Non aspettiamoci soluzioni su misura ai nostri problemi dai pensatori e dalle scuole di pensiero del passato. Il concetto di libertà va profondamente rivisto, e proiettato da un astratto presente fuori del tempo verso un futuro fatto di generazioni ‘incatenate tra loro’, nelle quali gli individui viventi sono in relazione con quelli che sono vissuti e con quelli che vivranno, così come vanno analogamente rivisti anche i concetti di produzione e dei suoi costi, di distribuzione della ricchezza e del reddito e via discorrendo”.

Il mondo postgobale

Mario Deaglio (a cura di)

Guerini e associati, 2022

L’ultima raccolta di ricerca del centro Einaudi di Torino fornisce una buona guida per comprendere il cambiamento

 

Cambiamento (non necessariamente tutto negativo). E’ quanto sta vivendo il mondo. Una condizione che va compresa e quindi analizzata con attenzione, da parte di tutti. Soprattutto, una condizione i cui termini essenziali vanno chiariti da parte di chi, non solo nelle istituzioni ma anche nelle imprese e nei corpi della società, ha ruoli particolari di responsabilità. E’ essenziale, quindi, avere informazioni corrette e chiare. Ed è quanto si ottiene leggendo “Il mondo posglobale”, ultima raccolta di indagini curata da Mario Deaglio per il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino con il contributo di Intesa Sanpaolo.

L’istantanea dalla quale parte la raccolta di ricerche è chiara: negli anni Venti del XXI secolo – e cioè oggi – il mondo è all’incrocio di quattro crisi: la crisi pandemica, non ancora conclusa e che ha accelerato e fatto emergere evoluzioni già in corso; la crisi climatico-ambientale, che nell’estate ha cominciato a mordere in molte aree del pianeta; la crisi geopolitica, con una guerra che si prolunga nel cuore del Vecchio continente; infine, la crisi economico-sociale, in parte innescata dall’innovazione tecnologica, complicata dalla crisi ambientale, dalla pandemia e dalla guerra. Non si tratta, viene precisato subito dagli autori delle diverse analisi, necessariamente di crisi in senso negativo ma di “crisi nel senso greco del termine” e cioè, provando una traduzione il più possibile fedele, di un “momento decisivo”. Il mondo, in altri termini, cambia. E la direzione del cambiamento dipende da una serie di scelte responsabilità delle società e non certo calate dall’alto e basta. Tenendo comunque conto che alcuni tratti del “mondo precedente” si stanno perdendo: i caratteri della globalità, per esempio, ma anche quelli collegati alla capacità di crescita. Per capire meglio, e per adottare le scelte più opportune, è necessario conoscere e provare strade nuove, così come guardare alla realtà con occhi diversi.

La raccolta di saggi curata da Deaglio, esplora così prima di tutto i tratti del 2022 indicato come “l’anno che ha cambiato il mondo”, per passare poi ad indagare da vicino i motivi del cambiamento che portano a dire che “il mondo non sarà più come prima” e quindi gli atteggiamenti di fronte a quanto sta accadendo di Stati Uniti ed Europa (che forniscono risposte diverse). L’attenzione viene poi posta sull’Italia per la quale ci si sforza di indicare che cosa occorrerebbe fare.

Scrive Deaglio nelle sue conclusioni: “Non aspettiamoci soluzioni su misura ai nostri problemi dai pensatori e dalle scuole di pensiero del passato. Il concetto di libertà va profondamente rivisto, e proiettato da un astratto presente fuori del tempo verso un futuro fatto di generazioni ‘incatenate tra loro’, nelle quali gli individui viventi sono in relazione con quelli che sono vissuti e con quelli che vivranno, così come vanno analogamente rivisti anche i concetti di produzione e dei suoi costi, di distribuzione della ricchezza e del reddito e via discorrendo”.

Il mondo postgobale

Mario Deaglio (a cura di)

Guerini e associati, 2022

Ecco perché le fabbriche fanno bene all’Italia, anche per superare il divario del Sud

Perché le fabbriche fanno bene all’Italia”, è il titolo, molto efficace, del libro di Rachele Sessa, direttrice della Fondazione Ergo (un’organizzazione che, a Varese, riunisce imprese, sindacati e università per fare ricerca sui temi industriali), pubblicato da Rubbettino e segnalato, con una menzione speciale, domenica scorsa, a Potenza, al Premio Basilicata (vinto da Maurizio De Giovanni, per la letteratura, con “L’equazione del cuore”, Mondadori e, per l’economia, da Paolo Bricco, con “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, Rizzoli). Ed è importante che proprio in una città del Mezzogiorno, in una stagione così difficile di crisi e incertezza, risuoni oggi una parola, “fabbrica” appunto, che richiama gli assi portanti dello sviluppo possibile dell’Italia e, dunque, anche del suo Sud.

Difendere l’industria per garantire il futuro dell’Italia, insiste, ancora in queste settimane, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi di fronte alla tempesta economica e sociale scatenata da crisi energetica, guerra in Ucraina, inflazione e ombre cupe di recessione. Valorizzare le capacità industrali dell’Italia, che hanno permesso la vivace ripresa dopo la fase più acuta della pandemia da Covid19 e ancora oggi sono l’ossatura delle possibilità di ripresa, ripetono economisti, centri studi, imprenditori attenti all’innovazione e all’export.

Il libro di Rachele Sessa fornisce dati e analisi a conforto di questa posizione. L’Italia non può fare a meno della sua industria. E senza la sua storia industriale e un’esperienza manifatturiera radicata nel territorio e nella società non avrebbe la stessa posizione che occupa oggi nel mondo. Insiste la Sessa: “Se ci raccontiamo come il Paese più bello del mondo non è solo per i monumenti, l’arte o il paesaggio, ma anche per la nostra capacità di produrre oggetti e macchinari apprezzati ovunque per efficienza ed eleganza, un valore aggiunto industriale tipicamente italiano”.

Purtroppo non c’è oggi, nel discorso pubblico, un’adeguata consapevolezza di questo patrimonio e del valore dell’industria (lo abbiamo ripetuto più volte, in questo blog). Né, nel corso del tempo, nel mondo deilla politica e della pubblica amministrazione, sono state assunte scelte coerenti e di lungo periodo per valorizzare, dell’industria, la “cultura politecnica”,  le relazioni tra memoria del “fare bene” e futuro della competitività (Museimpresa, con i suoi oltre 120 iscritti, tra grandi, medie e piccole imprese, ne è esemplare testimone), le capacità innovative e le caratteristiche della fabbrica come strumento efficace di coesione sociale e di promozione del benessere, anche per le nuove generazioni.

Adesso, documenta ancora la Sessa,  per fare fronte alle due grandi sfide del futuro prossimo, la transizione digitale e quella ambientale, strettamente connnesse tra loro (twin transition, è la sintesi corretta) “è fondamentale smettere di pensare alla fabbrica con gli stereotipi del Novecento”.

Le fabbriche, infatti, “per loro natura e se ben guidate, sono templi di modernizzazione sparsi sul territorio. E dunque è tempo che l’opinione pubblica conosca meglio le opportunità offerte dal mondo dell’industria, non solo in campo tecnologico ma anche sul piano della generazione di innovazioni e di sperimentazioni utili all’intera società”

Ecco perché l’industria deve ritornare al centro delle politiche di una nazione come l’Italia. Schierarsi per “il partito dell’industria” – sostiene anche la Sessa – “rappresenta una scelta civile, prima che politica in senso stretto”. Un’indicazione di cui il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (leader di una destra che non ha finora mostrato una sapiente e radicata cultura industriale e produttiva) dovrà tenere in gran conto, non solo con dichiarazioni politiche di intenti (comunque importanti, come quella sul taglio significativo del cuneo fiscale) ma con scelte coerenti e lungimiranti. Stimolando la twin transition, appunto. E tnendo l’Italia ben salda nel contesto europeo e nelle mappe delle  nuove dimensioni della “globalizzazione selettiva” (la nostra industria è fortemente vocata agli scambi internazionali, all’export e agli investimenti esteri e non nutre alcuna vocazione né sovranista né protezionista).

La parola “fabbrica” si addice molto anche al Mezzogiorno, proprio per fare fronte a un crescente divario di redditi e opportunità rispetto a un Nord più dinamico e integrato nelle tendenze di sviluppo europee.

Gli esiti del Premio Basilicata di cui abbiamo detto all’inizio mostrano un’importante consapevolezza, in una fascia qualificata di opinione pubblica (anche il libro di Bricco su Olivetti contiene pagine di straordinario interesse sugli investimenti olivettiani a Pozzuoli e sulle idee che da Ivrea si muovono verso un qualificato sviluppo economico del Mezzogiorno): se è necessario ragionare in termini di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, economico e culturale, è necessario mettere al centro della discussione una riflessione critica e propositiva sull’industria, come spina dorsale di un processo creativo di lavoro, redditi, benessere. Un processo di cambiamento, che coinvolga anche agricoltura, turismo, salute. Quasi una vera e propria “metamorfosi”: dal Sud assistenziale e rancoroso, adagiato su scelte distorsive come il “reddito di cittadinanza” (non stimola occupazione e viene comunque incontro in modo inadeguato ai bisogni diffusi di sussistenza e di contrasto alla povertà) e su nostalgie neo-borboniche a un Sud propagonista di processi produttivi, nel contesto del rilancio dell’Europa e di risposte alla ritrovata centralità geopolitica del Mediterraneo.

Un Sud, insomma, legato a manifattura, mercato, merito (se merito è premio all’intraprendenza, alla creatività, alla qualità del lavoro ben fatto).

Ecco, allora, perché ha senso parlare di “fabbriche” o, meglio ancora di “neofabbriche”, le manifatture in cui high tech, produzione, ricerca, servizi, logistica si incrociano con i saperi dei territori e le innovazioni della scienza. Tutto caratteristiche di cui proprio il Mezzogiorno, nel corso del tempo, ha dato brillanti testimonianze.

Le cronache economiche raccontano, da qualche tempo, l’attenzione per le intelligenze delle ragazze e dei ragazzi del Sud da parte di grandi e medie imprese, Google e Accenture, Apple e Microsoft, Kpmg e Bosch, Pirelli e Bip, Stm e Technoprobe, etc. Digital Economy e diffusione dell’Intelligenza Arttificiale stimolano il processo.

Se i dati Istat parlano di crescita del divario Nord-Sud, carenze degli investimenti, “fuga dei cervelli”, impoverimento materiale e intellettuale, la sfida dell’inversione di tendenza è comunque aperta. E il suo cardine è appunto, la fabbrica. Che fa bene. Anche al Mezzogiorno, appunto.

Perché le fabbriche fanno bene all’Italia”, è il titolo, molto efficace, del libro di Rachele Sessa, direttrice della Fondazione Ergo (un’organizzazione che, a Varese, riunisce imprese, sindacati e università per fare ricerca sui temi industriali), pubblicato da Rubbettino e segnalato, con una menzione speciale, domenica scorsa, a Potenza, al Premio Basilicata (vinto da Maurizio De Giovanni, per la letteratura, con “L’equazione del cuore”, Mondadori e, per l’economia, da Paolo Bricco, con “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, Rizzoli). Ed è importante che proprio in una città del Mezzogiorno, in una stagione così difficile di crisi e incertezza, risuoni oggi una parola, “fabbrica” appunto, che richiama gli assi portanti dello sviluppo possibile dell’Italia e, dunque, anche del suo Sud.

Difendere l’industria per garantire il futuro dell’Italia, insiste, ancora in queste settimane, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi di fronte alla tempesta economica e sociale scatenata da crisi energetica, guerra in Ucraina, inflazione e ombre cupe di recessione. Valorizzare le capacità industrali dell’Italia, che hanno permesso la vivace ripresa dopo la fase più acuta della pandemia da Covid19 e ancora oggi sono l’ossatura delle possibilità di ripresa, ripetono economisti, centri studi, imprenditori attenti all’innovazione e all’export.

Il libro di Rachele Sessa fornisce dati e analisi a conforto di questa posizione. L’Italia non può fare a meno della sua industria. E senza la sua storia industriale e un’esperienza manifatturiera radicata nel territorio e nella società non avrebbe la stessa posizione che occupa oggi nel mondo. Insiste la Sessa: “Se ci raccontiamo come il Paese più bello del mondo non è solo per i monumenti, l’arte o il paesaggio, ma anche per la nostra capacità di produrre oggetti e macchinari apprezzati ovunque per efficienza ed eleganza, un valore aggiunto industriale tipicamente italiano”.

Purtroppo non c’è oggi, nel discorso pubblico, un’adeguata consapevolezza di questo patrimonio e del valore dell’industria (lo abbiamo ripetuto più volte, in questo blog). Né, nel corso del tempo, nel mondo deilla politica e della pubblica amministrazione, sono state assunte scelte coerenti e di lungo periodo per valorizzare, dell’industria, la “cultura politecnica”,  le relazioni tra memoria del “fare bene” e futuro della competitività (Museimpresa, con i suoi oltre 120 iscritti, tra grandi, medie e piccole imprese, ne è esemplare testimone), le capacità innovative e le caratteristiche della fabbrica come strumento efficace di coesione sociale e di promozione del benessere, anche per le nuove generazioni.

Adesso, documenta ancora la Sessa,  per fare fronte alle due grandi sfide del futuro prossimo, la transizione digitale e quella ambientale, strettamente connnesse tra loro (twin transition, è la sintesi corretta) “è fondamentale smettere di pensare alla fabbrica con gli stereotipi del Novecento”.

Le fabbriche, infatti, “per loro natura e se ben guidate, sono templi di modernizzazione sparsi sul territorio. E dunque è tempo che l’opinione pubblica conosca meglio le opportunità offerte dal mondo dell’industria, non solo in campo tecnologico ma anche sul piano della generazione di innovazioni e di sperimentazioni utili all’intera società”

Ecco perché l’industria deve ritornare al centro delle politiche di una nazione come l’Italia. Schierarsi per “il partito dell’industria” – sostiene anche la Sessa – “rappresenta una scelta civile, prima che politica in senso stretto”. Un’indicazione di cui il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (leader di una destra che non ha finora mostrato una sapiente e radicata cultura industriale e produttiva) dovrà tenere in gran conto, non solo con dichiarazioni politiche di intenti (comunque importanti, come quella sul taglio significativo del cuneo fiscale) ma con scelte coerenti e lungimiranti. Stimolando la twin transition, appunto. E tnendo l’Italia ben salda nel contesto europeo e nelle mappe delle  nuove dimensioni della “globalizzazione selettiva” (la nostra industria è fortemente vocata agli scambi internazionali, all’export e agli investimenti esteri e non nutre alcuna vocazione né sovranista né protezionista).

La parola “fabbrica” si addice molto anche al Mezzogiorno, proprio per fare fronte a un crescente divario di redditi e opportunità rispetto a un Nord più dinamico e integrato nelle tendenze di sviluppo europee.

Gli esiti del Premio Basilicata di cui abbiamo detto all’inizio mostrano un’importante consapevolezza, in una fascia qualificata di opinione pubblica (anche il libro di Bricco su Olivetti contiene pagine di straordinario interesse sugli investimenti olivettiani a Pozzuoli e sulle idee che da Ivrea si muovono verso un qualificato sviluppo economico del Mezzogiorno): se è necessario ragionare in termini di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, economico e culturale, è necessario mettere al centro della discussione una riflessione critica e propositiva sull’industria, come spina dorsale di un processo creativo di lavoro, redditi, benessere. Un processo di cambiamento, che coinvolga anche agricoltura, turismo, salute. Quasi una vera e propria “metamorfosi”: dal Sud assistenziale e rancoroso, adagiato su scelte distorsive come il “reddito di cittadinanza” (non stimola occupazione e viene comunque incontro in modo inadeguato ai bisogni diffusi di sussistenza e di contrasto alla povertà) e su nostalgie neo-borboniche a un Sud propagonista di processi produttivi, nel contesto del rilancio dell’Europa e di risposte alla ritrovata centralità geopolitica del Mediterraneo.

Un Sud, insomma, legato a manifattura, mercato, merito (se merito è premio all’intraprendenza, alla creatività, alla qualità del lavoro ben fatto).

Ecco, allora, perché ha senso parlare di “fabbriche” o, meglio ancora di “neofabbriche”, le manifatture in cui high tech, produzione, ricerca, servizi, logistica si incrociano con i saperi dei territori e le innovazioni della scienza. Tutto caratteristiche di cui proprio il Mezzogiorno, nel corso del tempo, ha dato brillanti testimonianze.

Le cronache economiche raccontano, da qualche tempo, l’attenzione per le intelligenze delle ragazze e dei ragazzi del Sud da parte di grandi e medie imprese, Google e Accenture, Apple e Microsoft, Kpmg e Bosch, Pirelli e Bip, Stm e Technoprobe, etc. Digital Economy e diffusione dell’Intelligenza Arttificiale stimolano il processo.

Se i dati Istat parlano di crescita del divario Nord-Sud, carenze degli investimenti, “fuga dei cervelli”, impoverimento materiale e intellettuale, la sfida dell’inversione di tendenza è comunque aperta. E il suo cardine è appunto, la fabbrica. Che fa bene. Anche al Mezzogiorno, appunto.

Rapporti di genere nelle imprese e attenzione all’ambiente, un approfondimento

Una tesi di laurea discussa all’Università di Padova ragiona sulle relazioni tra gender diversity  ed Esg

Disparità di genere. Condizione ancora molto presente in svariati ambiti del sistema economico. Non solo in Italia, ma forse in Italia più che altrove. Paradosso – in realtà solo apparente -, in un modo sempre più aperto, libero, interconnesso, che dovrebbe essere inclusivo e non escludente. E’ attorno a questi argomenti che ragiona Vera Artuso con il suo lavoro di ricerca che ha preso forma in una tesi – “Gender diversity nel governo d’impresa e performance ambientale” -, discussa presso l’Università di Padova nell’ambito del corso di economia.

Artuso parte dalla costatazione della realtà: “In un mondo all’insegna dell’innovazione, del progresso nello sviluppo sostenibile, culturale e sociale, la disparità di genere nelle aziende è un problema rilevante in diversi paesi, tra cui purtroppo, anche in Italia”. Obiettivo dell’indagine è allora quello di analizzare “la potenzialità del ruolo della donna all’interno delle imprese, con particolare riguardo alla performance sostenibile e ambientale”. Oltre a questo, Artuso cerca di fornire “informazioni e dimostrazioni che possano facilitare la presa di coscienza e che aiutino il lettore a comprendere al meglio come il problema del cambiamento climatico sia profondamente legato alla disparità di genere, evidenziando la necessità di agire in maniera diversa rispetto a quanto sia stato fatto fino ad oggi”.

Compiti ambiziosi, quelli di Artuso, che nell’indagine vengono affrontati prima con una analisi di cosa non funziona nel meccanismo delle cosiddette “quote rosa” e, poi, con un approfondimento dei collegamenti e dell’influenza delle donne nell’ambito delle azioni Esg.  Successivamente, la stessa indagine prende in considerazione un particolare comparto – quello bancario -, per verificare quanto prima messo a fuoco.

Artuso conclude: “Consolidare la presenza femminile nelle imprese aiuta non solo a raggiungere una società egualitaria ma ha risvolti positivi sulle problematiche ambientali e permette il miglioramento della performance sostenibile”. Nello stesso tempo, tuttavia, la ricerca ha verificato che “la materia legislativa in merito alle quote minime obbligatorie non è sufficiente a generare una adeguata consapevolezza proprio perché il famoso ‘tetto di cristallo’ regge su problematiche quali stereotipi di genere e convinzioni che non possono essere abbattute tramite un semplice obbligo numerico imposto dalle autorità. Tuttavia, gli stessi atteggiamenti morali e intellettuali che ostentano l’esclusione delle donne possono essere utilizzati per spiegare la spinta motivazionale di queste ultime che si ritrovano più coinvolte in azioni a sostegno della società e soprattutto dell’ambiente”.

Regole ma anche visione del mondo, cultura dell’organizzazione ma anche sensibilità diverse. Appaiono essere questi gli elementi portanti delineati dalla ricerca di vera Artuso, che indicano un rapporto di genere vario e complesso, da coltivare ma certamente da non perdere.

Gender diversity nel governo d’impresa e performance ambientale

Vera Artuso

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2021-2022

Una tesi di laurea discussa all’Università di Padova ragiona sulle relazioni tra gender diversity  ed Esg

Disparità di genere. Condizione ancora molto presente in svariati ambiti del sistema economico. Non solo in Italia, ma forse in Italia più che altrove. Paradosso – in realtà solo apparente -, in un modo sempre più aperto, libero, interconnesso, che dovrebbe essere inclusivo e non escludente. E’ attorno a questi argomenti che ragiona Vera Artuso con il suo lavoro di ricerca che ha preso forma in una tesi – “Gender diversity nel governo d’impresa e performance ambientale” -, discussa presso l’Università di Padova nell’ambito del corso di economia.

Artuso parte dalla costatazione della realtà: “In un mondo all’insegna dell’innovazione, del progresso nello sviluppo sostenibile, culturale e sociale, la disparità di genere nelle aziende è un problema rilevante in diversi paesi, tra cui purtroppo, anche in Italia”. Obiettivo dell’indagine è allora quello di analizzare “la potenzialità del ruolo della donna all’interno delle imprese, con particolare riguardo alla performance sostenibile e ambientale”. Oltre a questo, Artuso cerca di fornire “informazioni e dimostrazioni che possano facilitare la presa di coscienza e che aiutino il lettore a comprendere al meglio come il problema del cambiamento climatico sia profondamente legato alla disparità di genere, evidenziando la necessità di agire in maniera diversa rispetto a quanto sia stato fatto fino ad oggi”.

Compiti ambiziosi, quelli di Artuso, che nell’indagine vengono affrontati prima con una analisi di cosa non funziona nel meccanismo delle cosiddette “quote rosa” e, poi, con un approfondimento dei collegamenti e dell’influenza delle donne nell’ambito delle azioni Esg.  Successivamente, la stessa indagine prende in considerazione un particolare comparto – quello bancario -, per verificare quanto prima messo a fuoco.

Artuso conclude: “Consolidare la presenza femminile nelle imprese aiuta non solo a raggiungere una società egualitaria ma ha risvolti positivi sulle problematiche ambientali e permette il miglioramento della performance sostenibile”. Nello stesso tempo, tuttavia, la ricerca ha verificato che “la materia legislativa in merito alle quote minime obbligatorie non è sufficiente a generare una adeguata consapevolezza proprio perché il famoso ‘tetto di cristallo’ regge su problematiche quali stereotipi di genere e convinzioni che non possono essere abbattute tramite un semplice obbligo numerico imposto dalle autorità. Tuttavia, gli stessi atteggiamenti morali e intellettuali che ostentano l’esclusione delle donne possono essere utilizzati per spiegare la spinta motivazionale di queste ultime che si ritrovano più coinvolte in azioni a sostegno della società e soprattutto dell’ambiente”.

Regole ma anche visione del mondo, cultura dell’organizzazione ma anche sensibilità diverse. Appaiono essere questi gli elementi portanti delineati dalla ricerca di vera Artuso, che indicano un rapporto di genere vario e complesso, da coltivare ma certamente da non perdere.

Gender diversity nel governo d’impresa e performance ambientale

Vera Artuso

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2021-2022

Per merito e non per altro

Un libro appena pubblicato approfondisce con efficacia i collegamenti tra competenze e sviluppo. E applica l’analisi al caso italiano

 

Merito. Merito vero, riconosciuto, condiviso, apprezzato e valorizzato. E anche competenza in quello che si è chiamati a fare. E voglia di fare partendo da queste basi. E non da altre. Accade anche in Italia, ma ancora troppo poco. Ed è (anche) per questo che il Paese non cresce da almeno un quarto di secolo. Questione di schemi d’azione, ma anche e soprattutto di cultura d’impresa e non solo, che va rivista, rilanciata e riformata.

Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli (rispettivamente professore alla London School of Economics e Vice Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici), ragionano proprio sui collegamenti tra sviluppo e merito, tra crescita e competenze nel loro “Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce” appena pubblicato.

Il punto d’inizio è una constatazione: nel momento in cui debito pubblico e svalutazione, sui quali si era basata la crescita degli anni Settanta, hanno smesso di essere disponibili, il Paese doveva puntare sulla ricerca e sulla valorizzazione dei suoi talenti (che pur esistono) ma non lo ha fatto. Certo, le eccezioni ci sono state e ci sono, ma non a sufficienza. A prevalere, invece, è stata la “pratica delle raccomandazioni” e delle “sponsorizzazioni politiche”. Un po’ per tutto e un po’ ovunque: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e persino la selezione dei manager e la finanza. E adesso l’Italia ne paga le conseguenze.

Il racconto di tutto questo inizia con una parte (“Meritocrazia e declino”) che riassume gli argomenti di base del libro; si passa poi ad una seconda parte (“Evidenze comparative: la società”) e terza parte (“Evidenze comparative: l’economia”), dove si esaminano i dati internazionali su settori fondamentali della vita civile come il capitale sociale, la governance, l’economia, il divario di genere, quello Nord-Sud, la disuguaglianza e la mobilità sociale. Ma si indaga poi sul perché sia difficile fare impresa in Italia e sul tema della competitività, sul malfunzionamento del mercato del lavoro, sul motivo per cui le imprese rimangono piccole. Tutto poi si conclude con una serie di “suggerimenti” e sul ruolo del merito per lo sviluppo economico.

Il libro di Codogno e Galli non è solo una raccolta di problemi, ma vuole anche essere sprone cambiare rotta. Partendo dal fatto che, per trovare soluzioni adeguate, il primo passo è quello di avere piena coscienza dei problemi, che invece sono spesso, esplicitamente o implicitamente, negati.

Illuminanti, tra le molte, le ultime pagine del libro in cui si parla di umiltà, conoscenza,  coraggio e fiducia nel futuro come delle qualità che dovrebbe essere più esercitate. Da tutti.

Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce

Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli

Il Mulino, 2022

Un libro appena pubblicato approfondisce con efficacia i collegamenti tra competenze e sviluppo. E applica l’analisi al caso italiano

 

Merito. Merito vero, riconosciuto, condiviso, apprezzato e valorizzato. E anche competenza in quello che si è chiamati a fare. E voglia di fare partendo da queste basi. E non da altre. Accade anche in Italia, ma ancora troppo poco. Ed è (anche) per questo che il Paese non cresce da almeno un quarto di secolo. Questione di schemi d’azione, ma anche e soprattutto di cultura d’impresa e non solo, che va rivista, rilanciata e riformata.

Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli (rispettivamente professore alla London School of Economics e Vice Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici), ragionano proprio sui collegamenti tra sviluppo e merito, tra crescita e competenze nel loro “Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce” appena pubblicato.

Il punto d’inizio è una constatazione: nel momento in cui debito pubblico e svalutazione, sui quali si era basata la crescita degli anni Settanta, hanno smesso di essere disponibili, il Paese doveva puntare sulla ricerca e sulla valorizzazione dei suoi talenti (che pur esistono) ma non lo ha fatto. Certo, le eccezioni ci sono state e ci sono, ma non a sufficienza. A prevalere, invece, è stata la “pratica delle raccomandazioni” e delle “sponsorizzazioni politiche”. Un po’ per tutto e un po’ ovunque: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e persino la selezione dei manager e la finanza. E adesso l’Italia ne paga le conseguenze.

Il racconto di tutto questo inizia con una parte (“Meritocrazia e declino”) che riassume gli argomenti di base del libro; si passa poi ad una seconda parte (“Evidenze comparative: la società”) e terza parte (“Evidenze comparative: l’economia”), dove si esaminano i dati internazionali su settori fondamentali della vita civile come il capitale sociale, la governance, l’economia, il divario di genere, quello Nord-Sud, la disuguaglianza e la mobilità sociale. Ma si indaga poi sul perché sia difficile fare impresa in Italia e sul tema della competitività, sul malfunzionamento del mercato del lavoro, sul motivo per cui le imprese rimangono piccole. Tutto poi si conclude con una serie di “suggerimenti” e sul ruolo del merito per lo sviluppo economico.

Il libro di Codogno e Galli non è solo una raccolta di problemi, ma vuole anche essere sprone cambiare rotta. Partendo dal fatto che, per trovare soluzioni adeguate, il primo passo è quello di avere piena coscienza dei problemi, che invece sono spesso, esplicitamente o implicitamente, negati.

Illuminanti, tra le molte, le ultime pagine del libro in cui si parla di umiltà, conoscenza,  coraggio e fiducia nel futuro come delle qualità che dovrebbe essere più esercitate. Da tutti.

Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce

Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli

Il Mulino, 2022

Investire su scienza e ricerca di base: le idee di Aspen, la lezione di Calvino

Nella stagione lunga e controversa delle incertezze e dei conflitti, dei populismi volgari e sciatti e delle retoriche autoritarie alimentate anche dalle fake news, le chiavi per non rimanerne né vittime né complici né spettatori impotenti stanno, per esempio, in una riflessione di Italo Calvino sul nuovo millennio che si stava aprendo: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno” (lo ricorda Ernesto Ferrero, nel suo essenziale “Album di famiglia – Maestri del Novecento ritratti dal vivo”, appena pubblicato da Einaudi).

Era un uomo severo, curioso e creativo, Calvino. Un intellettuale consapevole della necessità di scrivere nuove mappe del sapere, tra umanesimo e scienza e della responsabilità di non cedere mai alla retorica del successo ma di impegnarsi, semmai, nella fatica della profondità. Perché, per fare bene il lavoro intellettuale, è necessario “non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire che possa interessare tale pubblico. Ciò richiede capacità di reinventarsi senza tradire il proprio mestiere” (la frase è di Sabino Cassese, grande giurista e sapiente civil servant).

Fare bene le cose difficili, dunque. Come sapeva anche un altro maestro di letteratura e di vita del nostro Novecento, Gianni Rodari: “E’ difficile, fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare La Rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi”.

C’è, nell’impegno di Calvino, la passione per il racconto, la dedizione scrupolosa alla teoria e alla pratica della letteratura (l’attività editoriale, per Einaudi, ne è conferma) ma anche la cura per approfondire e divulgare la lezione della scienza: un umanesimo memore delle virtù di sintesi rinascimentali e una cultura politecnica sofisticata e internazionale.

Viene in mente, appunto, la sua lezione culturale e civile (“diffidare della faciloneria”, “puntare sulla precisione”) leggendo le pagine del Rapporto “Aspen Global Initiative in Favor of Pure Science”, appena pubblicato, dopo un paio d’anni di discussioni su iniziativa degli Aspen Institute in Italia e negli Usa (il documento integrale è consultabile su https://www.aspeninstitute.it/system/files/inline/Pure-Science-Aspen-Institute-2022.pdf ).

L’obiettivo è prezioso: mettere la scienza pura al centro delle politiche pubbliche e private e sensibilizzare i decisori politici ed economici sull’importanza degli investimenti in questo campo (ne avevamo già parlato in questo blog nell’autunno del 2021, durante i primi lavori di elaborazione del documento). L’idea di fondo è, insomma, stimolare “una leadership illuminata, a livello globale” che sappia tenere in primo piano valori e interessi per il “generale benessere dell’umanità”.

Il documento spiega, appunto, che il progresso della scienza pura è positivo in sé, dato che corrisponde a una delle fondamentali vie di civilizzazione: capire a fondo chi siamo e le caratteristiche del mondo fisico e biologico in cui viviamo. Valori forti – insiste il documento dell’Aspen – che incidono anche sul progresso materiale e sulla qualità della vita. Senza le scoperte della termodinamica, della relatività e della fisica quantistica, della teoria dell’evoluzione e della chimica teorica, tanto per citare solo alcuni campi scientifici, noi umani vivremmo una vita più povera e meno interessante.

Proprio in questi nostri ultimi anni, segnati dalla pandemia da Covid19 e dall’aggravarsi degli effetti negativi del climate change, si è diffusa una maggiore consapevolezza della necessità di insistere sulla ricerca. Siamo stati in grado di avere rapidamente i vaccini anti Covid proprio grazie ai progressi della ricerca di base sui “vettori” di medicinali. E le attività di indagine che riguardano i temi dell’energia, dell’acqua, dell’alimentazione, delle emissioni nocive, della deforestazione e dell’allarmante modifica dei cicli di natura e vita vegetale e animale possono oggi darci indicazioni preziose sulla cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, con il supporto dell’Intelligenza Artificiale per affrontare le questioni dello sviluppo sostenibile.

Ricerca, dunque, come priorità di strategie politiche ma anche di investimenti privati.

Purtroppo, nota ancora l’Aspen, quasi dovunque il sostegno alla ricerca scientifica di base è in netta caduta e va rilanciato, in collaborazione tra governi, pubbliche amministrazioni, università e imprese private

Un capitolo è dedicato dal Rapporto a ognuno dei paesi Aspen coinvolti. Per l’Italia, oltre al basso livello degli investimenti pubblici (ben al di sotto della media Ue), si segnala la frammentazione delle iniziative e la carente collaborazione tra mondo pubblico e strutture private (un limite che un uso corretto delle risorse del Pnrr potrebbe significativamente superare).

Ecco dunque l’importanza di un rilancio della discussione. Maggiori fondi, proprio per la ricerca di base. E definizione di criteri di misurazione dei risultati che vadano ben al di là degli effetti immediati. Una responsabilità dei grandi organismi internazionali e degli Stati, a cominciare da quelli caratterizzati da una chiara democrazia liberale (il documento Aspen, d’altronde, ricorda bene il nesso tra libertà di ricerca e libertà democratiche). Ma anche un compito per le opinioni pubbliche più lungimiranti e sensibili, ben consapevoli dei nessi tra conoscenza, sostenibilità ambientale e sociale (la lotta alle diseguaglianze), innovazione, qualità della vita (la salute ne è, naturalmente, parte essenziale), prospettive di fiducia nel futuro delle nuove generazioni.

Compito impegnativo, appunto. Difficile (riecco Calvino e i suoi stimoli a fare, e fare bene). Ma indispensabile, pena il degrado della vita quotidiana e delle prospettive di sviluppo. Pena, cioè, il precipitare nell’inferno del degrado della vita economica e civile.

A proposito di “inferno”, vale la pena rileggere un’altra fondamentale lezione di Calvino, l’ultima pagina de “Le città invisibili”, un romanzo scritto all’inizio dei difficili e dolorosi anni Settanta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Riconoscere, fare durare, dare spazio. Puntare dunque sulla qualità. E “la precisione”. Anche qui, sta la responsabilità della scienza e della ricerca.

Nella stagione lunga e controversa delle incertezze e dei conflitti, dei populismi volgari e sciatti e delle retoriche autoritarie alimentate anche dalle fake news, le chiavi per non rimanerne né vittime né complici né spettatori impotenti stanno, per esempio, in una riflessione di Italo Calvino sul nuovo millennio che si stava aprendo: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno” (lo ricorda Ernesto Ferrero, nel suo essenziale “Album di famiglia – Maestri del Novecento ritratti dal vivo”, appena pubblicato da Einaudi).

Era un uomo severo, curioso e creativo, Calvino. Un intellettuale consapevole della necessità di scrivere nuove mappe del sapere, tra umanesimo e scienza e della responsabilità di non cedere mai alla retorica del successo ma di impegnarsi, semmai, nella fatica della profondità. Perché, per fare bene il lavoro intellettuale, è necessario “non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire che possa interessare tale pubblico. Ciò richiede capacità di reinventarsi senza tradire il proprio mestiere” (la frase è di Sabino Cassese, grande giurista e sapiente civil servant).

Fare bene le cose difficili, dunque. Come sapeva anche un altro maestro di letteratura e di vita del nostro Novecento, Gianni Rodari: “E’ difficile, fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare La Rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi”.

C’è, nell’impegno di Calvino, la passione per il racconto, la dedizione scrupolosa alla teoria e alla pratica della letteratura (l’attività editoriale, per Einaudi, ne è conferma) ma anche la cura per approfondire e divulgare la lezione della scienza: un umanesimo memore delle virtù di sintesi rinascimentali e una cultura politecnica sofisticata e internazionale.

Viene in mente, appunto, la sua lezione culturale e civile (“diffidare della faciloneria”, “puntare sulla precisione”) leggendo le pagine del Rapporto “Aspen Global Initiative in Favor of Pure Science”, appena pubblicato, dopo un paio d’anni di discussioni su iniziativa degli Aspen Institute in Italia e negli Usa (il documento integrale è consultabile su https://www.aspeninstitute.it/system/files/inline/Pure-Science-Aspen-Institute-2022.pdf ).

L’obiettivo è prezioso: mettere la scienza pura al centro delle politiche pubbliche e private e sensibilizzare i decisori politici ed economici sull’importanza degli investimenti in questo campo (ne avevamo già parlato in questo blog nell’autunno del 2021, durante i primi lavori di elaborazione del documento). L’idea di fondo è, insomma, stimolare “una leadership illuminata, a livello globale” che sappia tenere in primo piano valori e interessi per il “generale benessere dell’umanità”.

Il documento spiega, appunto, che il progresso della scienza pura è positivo in sé, dato che corrisponde a una delle fondamentali vie di civilizzazione: capire a fondo chi siamo e le caratteristiche del mondo fisico e biologico in cui viviamo. Valori forti – insiste il documento dell’Aspen – che incidono anche sul progresso materiale e sulla qualità della vita. Senza le scoperte della termodinamica, della relatività e della fisica quantistica, della teoria dell’evoluzione e della chimica teorica, tanto per citare solo alcuni campi scientifici, noi umani vivremmo una vita più povera e meno interessante.

Proprio in questi nostri ultimi anni, segnati dalla pandemia da Covid19 e dall’aggravarsi degli effetti negativi del climate change, si è diffusa una maggiore consapevolezza della necessità di insistere sulla ricerca. Siamo stati in grado di avere rapidamente i vaccini anti Covid proprio grazie ai progressi della ricerca di base sui “vettori” di medicinali. E le attività di indagine che riguardano i temi dell’energia, dell’acqua, dell’alimentazione, delle emissioni nocive, della deforestazione e dell’allarmante modifica dei cicli di natura e vita vegetale e animale possono oggi darci indicazioni preziose sulla cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, con il supporto dell’Intelligenza Artificiale per affrontare le questioni dello sviluppo sostenibile.

Ricerca, dunque, come priorità di strategie politiche ma anche di investimenti privati.

Purtroppo, nota ancora l’Aspen, quasi dovunque il sostegno alla ricerca scientifica di base è in netta caduta e va rilanciato, in collaborazione tra governi, pubbliche amministrazioni, università e imprese private

Un capitolo è dedicato dal Rapporto a ognuno dei paesi Aspen coinvolti. Per l’Italia, oltre al basso livello degli investimenti pubblici (ben al di sotto della media Ue), si segnala la frammentazione delle iniziative e la carente collaborazione tra mondo pubblico e strutture private (un limite che un uso corretto delle risorse del Pnrr potrebbe significativamente superare).

Ecco dunque l’importanza di un rilancio della discussione. Maggiori fondi, proprio per la ricerca di base. E definizione di criteri di misurazione dei risultati che vadano ben al di là degli effetti immediati. Una responsabilità dei grandi organismi internazionali e degli Stati, a cominciare da quelli caratterizzati da una chiara democrazia liberale (il documento Aspen, d’altronde, ricorda bene il nesso tra libertà di ricerca e libertà democratiche). Ma anche un compito per le opinioni pubbliche più lungimiranti e sensibili, ben consapevoli dei nessi tra conoscenza, sostenibilità ambientale e sociale (la lotta alle diseguaglianze), innovazione, qualità della vita (la salute ne è, naturalmente, parte essenziale), prospettive di fiducia nel futuro delle nuove generazioni.

Compito impegnativo, appunto. Difficile (riecco Calvino e i suoi stimoli a fare, e fare bene). Ma indispensabile, pena il degrado della vita quotidiana e delle prospettive di sviluppo. Pena, cioè, il precipitare nell’inferno del degrado della vita economica e civile.

A proposito di “inferno”, vale la pena rileggere un’altra fondamentale lezione di Calvino, l’ultima pagina de “Le città invisibili”, un romanzo scritto all’inizio dei difficili e dolorosi anni Settanta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Riconoscere, fare durare, dare spazio. Puntare dunque sulla qualità. E “la precisione”. Anche qui, sta la responsabilità della scienza e della ricerca.

Gli anni Venti, i pneumatici e le ruote delle vittorie

Centocinquanta anni fa, nel 1872 a Milano, nasce la G.B. Pirelli & C., che rapidamente si afferma in tutti i settori di applicazione della gomma elastica: articoli tecnici e di consumo, cavi, pneumatici. Nel 1902 è la prima impresa in Italia ad avviare uno sviluppo produttivo all’estero. Il 22 aprile 1922, sempre a Milano, Carlo Borrani ed Ettore Ambrosetti costituiscono la società Italiana Rudge Whitworth per la produzione di ruote metalliche a raggi, su licenza della casa inglese detentrice del brevetto di un rapido sistema di montaggio. Grazie a questo e alla leggerezza del cerchio a raggi, le ruote Rudge Whitworth suscitano rapidamente l’interesse delle più importanti case auto del tempo, soprattutto nell’ambito delle competizioni sportive.

È qui che le strade di Borrani e di Pirelli si incontrano. In quel 1922 la Pirelli, già attiva da 50 anni e con una solida espansione a livello internazionale, lancia sul mercato un’innovazione tecnologica destinata a diffondersi rapidamente nel mondo sportivo: è il pneumatico Cord, caratterizzato dall’utilizzo nella carcassa di un tessuto gommato senza trama costituito del solo ordito di cordoncini gommati. Eliminando il problema dell’attrito tra le cordicelle del normale tessuto, il pneumatico Cord offre resistenza e durata superiori rispetto al pneumatico “tradizionale”. Nel 1924 si aggiunge la versione Superflex, che dimezza la pressione di gonfiaggio, e aumentando la larghezza del pneumatico, garantisce un maggiore comfort. Come si legge in un pieghevole pubblicitario del 1924 conservato nel nostro Archivio Storico, la versione Superflex a bassa pressione viene fornita già completa di cerchio per auto Fiat 501 e 502, Ansaldo, OM 4 cilindri, Bianchi 18 e Ford: il cerchio è Rudge Whitworth. Pirelli e Borrani conquistano così in breve tempo tutte le auto da corsa e da strada di lusso.

Alla ripresa delle competizioni automobilistiche dopo la guerra, si aggiudicano numerose vittorie con auto Fiat e Alfa Romeo, e i prodotti si guadagnano l’appellativo di pneumatico e ruota “delle vittorie”. Nel 1924 le vetture Alfa Romeo – che si affacciano proprio quell’anno al mondo del Grand Prix con la gloriosa P2 – trionfano al Gran Premio d’Europa di Lione. L’anno seguente, sulla pista di Monza, l’Alfa si aggiudica il Campionato del mondo con la leggendaria vittoria di Gastone Brilli-Peri.

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Centocinquanta anni fa, nel 1872 a Milano, nasce la G.B. Pirelli & C., che rapidamente si afferma in tutti i settori di applicazione della gomma elastica: articoli tecnici e di consumo, cavi, pneumatici. Nel 1902 è la prima impresa in Italia ad avviare uno sviluppo produttivo all’estero. Il 22 aprile 1922, sempre a Milano, Carlo Borrani ed Ettore Ambrosetti costituiscono la società Italiana Rudge Whitworth per la produzione di ruote metalliche a raggi, su licenza della casa inglese detentrice del brevetto di un rapido sistema di montaggio. Grazie a questo e alla leggerezza del cerchio a raggi, le ruote Rudge Whitworth suscitano rapidamente l’interesse delle più importanti case auto del tempo, soprattutto nell’ambito delle competizioni sportive.

È qui che le strade di Borrani e di Pirelli si incontrano. In quel 1922 la Pirelli, già attiva da 50 anni e con una solida espansione a livello internazionale, lancia sul mercato un’innovazione tecnologica destinata a diffondersi rapidamente nel mondo sportivo: è il pneumatico Cord, caratterizzato dall’utilizzo nella carcassa di un tessuto gommato senza trama costituito del solo ordito di cordoncini gommati. Eliminando il problema dell’attrito tra le cordicelle del normale tessuto, il pneumatico Cord offre resistenza e durata superiori rispetto al pneumatico “tradizionale”. Nel 1924 si aggiunge la versione Superflex, che dimezza la pressione di gonfiaggio, e aumentando la larghezza del pneumatico, garantisce un maggiore comfort. Come si legge in un pieghevole pubblicitario del 1924 conservato nel nostro Archivio Storico, la versione Superflex a bassa pressione viene fornita già completa di cerchio per auto Fiat 501 e 502, Ansaldo, OM 4 cilindri, Bianchi 18 e Ford: il cerchio è Rudge Whitworth. Pirelli e Borrani conquistano così in breve tempo tutte le auto da corsa e da strada di lusso.

Alla ripresa delle competizioni automobilistiche dopo la guerra, si aggiudicano numerose vittorie con auto Fiat e Alfa Romeo, e i prodotti si guadagnano l’appellativo di pneumatico e ruota “delle vittorie”. Nel 1924 le vetture Alfa Romeo – che si affacciano proprio quell’anno al mondo del Grand Prix con la gloriosa P2 – trionfano al Gran Premio d’Europa di Lione. L’anno seguente, sulla pista di Monza, l’Alfa si aggiudica il Campionato del mondo con la leggendaria vittoria di Gastone Brilli-Peri.

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L’epoca d’oro della Formula 1

Nel 1950 nasce la Formula 1 e per le competizioni automobilistiche si apre un nuovo capitolo. Continua il sodalizio con Alfa Romeo, che al Gran Premio di Monza del 3 settembre 1950 si aggiudica il primo mondiale della storia della Formula 1 con la Alfa 158 guidata da Nino Farina. Il pneumatico è lo Stella Bianca corsa e sulle ruote si distingue la mano che dal 1939 – anno in cui l’“Italiana Rudge Whitworth” cambia denominazione in “Carlo Borrani” -caratterizza il marchio della ditta. Lo raccontano alcuni scatti del fotografo Federico Patellani, noto per i suoi reportage negli anni della ripresa dopo la guerra, che proprio in quello storico Gran Premio ritrae i meccanici del servizio corse Pirelli ai box mentre controllano e bilanciano le ruote dell’Alfa 158. Se quella con Alfa Romeo e Maserati è una collaborazione storica avviata all’epoca dei Grand Prix d’anteguerra e che prosegue anche negli anni Cinquanta, un marchio nuovo si presenta ora nel mondo delle corse: la Ferrari. Il rapporto di Borrani con Enzo Ferrari ha inizio durante la Coppa Acerbo del 1924, quando il giovane pilota ottiene uno dei migliori risultati della sua carriera sportiva con l’Alfa Romeo equipaggiata con ruote “Rudge Whitworth”. Da allora, per la sua Scuderia Ferrari in Alfa Romeo e in seguito per le auto prodotte con il marchio del cavallino rampante sceglie pneumatici Pirelli e ruote Borrani.

Che si tratti di Alfa Romeo, Maserati o Ferrari, nelle competizioni i pneumatici e le ruote “delle vittorie” sono la prima scelta di ogni casa automobilistica, e i successi si susseguono per tutti gli anni Cinquanta. Allo Stella Bianca segue lo Stelvio. I cerchi Borrani in alluminio, realizzati dal 1948 senza piastre di giunzione grazie alle moderne tecniche di saldatura, diventano “Record”.

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Nel 1950 nasce la Formula 1 e per le competizioni automobilistiche si apre un nuovo capitolo. Continua il sodalizio con Alfa Romeo, che al Gran Premio di Monza del 3 settembre 1950 si aggiudica il primo mondiale della storia della Formula 1 con la Alfa 158 guidata da Nino Farina. Il pneumatico è lo Stella Bianca corsa e sulle ruote si distingue la mano che dal 1939 – anno in cui l’“Italiana Rudge Whitworth” cambia denominazione in “Carlo Borrani” -caratterizza il marchio della ditta. Lo raccontano alcuni scatti del fotografo Federico Patellani, noto per i suoi reportage negli anni della ripresa dopo la guerra, che proprio in quello storico Gran Premio ritrae i meccanici del servizio corse Pirelli ai box mentre controllano e bilanciano le ruote dell’Alfa 158. Se quella con Alfa Romeo e Maserati è una collaborazione storica avviata all’epoca dei Grand Prix d’anteguerra e che prosegue anche negli anni Cinquanta, un marchio nuovo si presenta ora nel mondo delle corse: la Ferrari. Il rapporto di Borrani con Enzo Ferrari ha inizio durante la Coppa Acerbo del 1924, quando il giovane pilota ottiene uno dei migliori risultati della sua carriera sportiva con l’Alfa Romeo equipaggiata con ruote “Rudge Whitworth”. Da allora, per la sua Scuderia Ferrari in Alfa Romeo e in seguito per le auto prodotte con il marchio del cavallino rampante sceglie pneumatici Pirelli e ruote Borrani.

Che si tratti di Alfa Romeo, Maserati o Ferrari, nelle competizioni i pneumatici e le ruote “delle vittorie” sono la prima scelta di ogni casa automobilistica, e i successi si susseguono per tutti gli anni Cinquanta. Allo Stella Bianca segue lo Stelvio. I cerchi Borrani in alluminio, realizzati dal 1948 senza piastre di giunzione grazie alle moderne tecniche di saldatura, diventano “Record”.

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