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Gli anni Settanta, tra rally e Granturismo

Gli anni Settanta rappresentano per Pirelli il trionfo nelle competizioni rally e la nascita di una nuova rivoluzione: il P7, primo pneumatico radiale a sezione ribassata, mette in pratica pienamente il concetto di passaggio tecnologico dalla pista alla strada. Nato nel mondo del rally e successivamente utilizzato anche in pista, grazie alle sue elevate prestazioni viene scelto come primo equipaggiamento da diverse case produttrici di auto sportive. È la Porsche 911 Carrera Turbo ad adottarlo per prima, seguita da Lamborghini, De Tomaso, Ferrari. Si apre la strada per la messa a punto di un nuovo pneumatico ribassato da strada, codice Zeta: il Pirelli PZero.

Per Borrani, che per tutto il decennio Sessanta continua a equipaggiare auto sportive e da Granturismo, il volgere del decennio successivo segna la nascita dell’ultimo prodotto a raggi adottato dalle case automobilistiche, che stanno ormai orientandosi al più economico cerchio in lega fusa (dominante nelle vetture da pista): è il DIAL, evoluzione della ruota turbo. Nonostante il disco centrale in lega fusa stampata, il DIAL necessita del tradizionale montaggio manuale Borrani e non è in grado di competere con le ruote fuse industrializzate, che prendono il sopravvento. Ferrari e Maserati sono le ultime case a interrompere il lungo sodalizio con Borrani che prosegue la sua attività nell’Aftermarket

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Gli anni Settanta rappresentano per Pirelli il trionfo nelle competizioni rally e la nascita di una nuova rivoluzione: il P7, primo pneumatico radiale a sezione ribassata, mette in pratica pienamente il concetto di passaggio tecnologico dalla pista alla strada. Nato nel mondo del rally e successivamente utilizzato anche in pista, grazie alle sue elevate prestazioni viene scelto come primo equipaggiamento da diverse case produttrici di auto sportive. È la Porsche 911 Carrera Turbo ad adottarlo per prima, seguita da Lamborghini, De Tomaso, Ferrari. Si apre la strada per la messa a punto di un nuovo pneumatico ribassato da strada, codice Zeta: il Pirelli PZero.

Per Borrani, che per tutto il decennio Sessanta continua a equipaggiare auto sportive e da Granturismo, il volgere del decennio successivo segna la nascita dell’ultimo prodotto a raggi adottato dalle case automobilistiche, che stanno ormai orientandosi al più economico cerchio in lega fusa (dominante nelle vetture da pista): è il DIAL, evoluzione della ruota turbo. Nonostante il disco centrale in lega fusa stampata, il DIAL necessita del tradizionale montaggio manuale Borrani e non è in grado di competere con le ruote fuse industrializzate, che prendono il sopravvento. Ferrari e Maserati sono le ultime case a interrompere il lungo sodalizio con Borrani che prosegue la sua attività nell’Aftermarket

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Pirelli Collezione e Ruote Borrani, tra tradizione e innovazione

Pirelli e Ruote Borrani si incontrano oggi nuovamente, accomunate dalla volontà di recuperare valorizzare e rendere attuale il patrimonio storico-tecnico prodotto nel corso di un secolo e oltre d’impresa. Grazie al nostro Archivio Storico, costituito da quasi 4 km di documenti, e in particolare grazie agli studi sulla sezione tecnica di decine di migliaia di disegni degli stampi di vulcanizzazione, Pirelli lancia nel 2018 il progetto “Collezione”, una linea di pneumatici per auto storiche, dal design identico agli originali ma realizzati con la moderna tecnologia Pirelli. Stella Bianca, Stelvio, CINTURATO, P7: tutti i modelli che hanno fatto la storia dell’automobilismo tornano in produzione con gli elevati standard di qualità e di sicurezza garantiti oggi.

I pneumatici “Pirelli Collezione” incontrano la serie “Borrani heritage”: cerchi in lega leggera del tutto fedeli agli originali e perfettamente curati in tutti i dettagli grazie a un archivio di oltre 8.000 disegni. Anche in questo caso i cerchi “heritage” possono dirsi migliori degli originali, grazie allo sviluppo raggiunto dalle tecniche costruttive moderne che eliminano alcune imperfezioni dei cerchi d’epoca. Uno straordinario valore per i collezionisti di auto vintage.

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Pirelli e Ruote Borrani si incontrano oggi nuovamente, accomunate dalla volontà di recuperare valorizzare e rendere attuale il patrimonio storico-tecnico prodotto nel corso di un secolo e oltre d’impresa. Grazie al nostro Archivio Storico, costituito da quasi 4 km di documenti, e in particolare grazie agli studi sulla sezione tecnica di decine di migliaia di disegni degli stampi di vulcanizzazione, Pirelli lancia nel 2018 il progetto “Collezione”, una linea di pneumatici per auto storiche, dal design identico agli originali ma realizzati con la moderna tecnologia Pirelli. Stella Bianca, Stelvio, CINTURATO, P7: tutti i modelli che hanno fatto la storia dell’automobilismo tornano in produzione con gli elevati standard di qualità e di sicurezza garantiti oggi.

I pneumatici “Pirelli Collezione” incontrano la serie “Borrani heritage”: cerchi in lega leggera del tutto fedeli agli originali e perfettamente curati in tutti i dettagli grazie a un archivio di oltre 8.000 disegni. Anche in questo caso i cerchi “heritage” possono dirsi migliori degli originali, grazie allo sviluppo raggiunto dalle tecniche costruttive moderne che eliminano alcune imperfezioni dei cerchi d’epoca. Uno straordinario valore per i collezionisti di auto vintage.

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Le innovazioni degli anni Trenta: lo Stella Bianca e i cerchi extraleggeri DD

Gli anni Trenta per Pirelli sono dedicati in particolare al mondo delle corse e della velocità, con il Superflex Cord che assume la denominazione Stella Bianca: ha un disegno battistrada più complesso e sportivo, e la stella a cinque punte del marchio Pirelli è colorata di bianco. Nel 1932 nasce una vera e propria linea di pneumatici da corsa, i Supersport, inizialmente con battistrada base e poi con il disegno dello Stella bianca: è lo Stella Bianca corsa. Anche per Borrani gli anni Trenta si rivelano particolarmente proficui: nel 1931 viene progettato un cerchio appositamente pensato per le corse il DD, dal nome della lega leggera utilizzata, il duralluminio. Il materiale, più leggero rispetto all’acciaio, consente una perfetta rotondità della ruota e il particolare schema di montaggio, con i raggi esterni su tre file, aumenta la resistenza della ruota e rende più elastica la risposta alle forze perpendicolari dirette. I “magnifici” cerchi in lega leggera DD, come recita una pubblicità dell’epoca, rappresentano il fiore all’occhiello della produzione Borrani. La nostra Fondazione conserva un raro pneumatico Supersport di quel periodo con cerchio Borrani DD.

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Gli anni Trenta per Pirelli sono dedicati in particolare al mondo delle corse e della velocità, con il Superflex Cord che assume la denominazione Stella Bianca: ha un disegno battistrada più complesso e sportivo, e la stella a cinque punte del marchio Pirelli è colorata di bianco. Nel 1932 nasce una vera e propria linea di pneumatici da corsa, i Supersport, inizialmente con battistrada base e poi con il disegno dello Stella bianca: è lo Stella Bianca corsa. Anche per Borrani gli anni Trenta si rivelano particolarmente proficui: nel 1931 viene progettato un cerchio appositamente pensato per le corse il DD, dal nome della lega leggera utilizzata, il duralluminio. Il materiale, più leggero rispetto all’acciaio, consente una perfetta rotondità della ruota e il particolare schema di montaggio, con i raggi esterni su tre file, aumenta la resistenza della ruota e rende più elastica la risposta alle forze perpendicolari dirette. I “magnifici” cerchi in lega leggera DD, come recita una pubblicità dell’epoca, rappresentano il fiore all’occhiello della produzione Borrani. La nostra Fondazione conserva un raro pneumatico Supersport di quel periodo con cerchio Borrani DD.

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Leadership diverse e uniche

Raccolte in un libro sette conversazioni con altrettante donne che hanno raggiunto traguardi importanti

Una leadership non migliore di quella maschile, ma diversa. Unica. E’ sulla base di questa osservazione, non scontata, che Tonia Cartolano – giornalista e attenta osservatrice della realtà – costruisce il suo “LEADHERS” raccolta di sette conversazioni con altrettante donne che hanno scelto di raccontarsi senza filtri e mediazioni. Non interviste ma, appunto, racconti dai quali emergono esperienze di vita, successi e insuccessi, voglia di fare e, soprattutto, immagine e contenuto di una presenza femminile notevolmente diversa dai due estremi, entrambi sbagliati, attraverso i quali la donna viene spesso ancora oggi narrata: l’essere sottomessa dall’uomo da un lato, l’essere a tutti i costi di più e meglio dell’uomo dall’altro. Realtà che trovano spazio ovunque, nella società così come nelle imprese, nelle organizzazioni, nelle associazioni. E che fanno danno alle donne così come agli uomini.

Cartolano invece scrive: “Nessun affresco di eroine ribelli, di Wonder Women dei nostri giorni, ma donne che raccontano chi erano e chi sono, cosa sognavano e cosa sognano ora dopo un pezzo di vita. Non è un catalogo di donne esemplari, ma sono comunque storie educative, sono modelli da seguire, di ispirazione per altre donne, le più giovani che ne hanno bisogno, perché la strada dell’affermazione femminile è breve, recente e non scontata”. E poi ancora: “Le storie che leggerete non sono sermoni sulla leadership al femminile”.

Scorrono così nelle poco meno di duecento pagine (arricchite da una originale prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi) le storie di Elisabetta Belloni (dal 2021 Direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, DIS), Tania Cagnotto (tuffatrice europea con il maggior numero di podi in carriera), Elisabetta Franchi (stilista a capo di un’azienda che ha raggiunto 130 milioni di euro di ricavi nel 2021), Gaia Pigino (Associate Head del Centro di Biologia Strutturale di Human Technopole), Titti Postiglione (Vice Capo del Dipartimento della Protezione Civile italiana), Speranza Scappucci (direttrice d’orchestra e pianista, la prima italiana a dirigere un’opera al Teatro alla Scala di Milano), Paola Severino (avvocato, prima donna ministro della giustizia in Italia, prima rettrice nella storia dell’Università LUISS di Roma, dal 2021 Presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione).

Pagine dense eppure leggibili, quelle che scrive Tonia Cartolano. Dialoghi senza domande che forniscono un sacco di risposte. E un’indicazione che vale moltissimo: una donna “in gamba può realizzarsi tanto quanto un uomo. Senza pregiudizi, differenze né categorie. E soprattutto senza cercare di assomigliare agli uomini”. Ancora l’autrice precisa: “Leadership al femminile non significa arrivare ai vertici di una multinazionale o arrivare a capo del mondo, ma del proprio mondo sì”.

Il libro di Tonia Cartolano, se letto con attenzione, rischia di far arrabbiare molte donne e molti uomini. Ed è per questo che è un bel libro da leggere.

LEADHERS

Tonia Cartolano

Santelli Editore, 2022

Raccolte in un libro sette conversazioni con altrettante donne che hanno raggiunto traguardi importanti

Una leadership non migliore di quella maschile, ma diversa. Unica. E’ sulla base di questa osservazione, non scontata, che Tonia Cartolano – giornalista e attenta osservatrice della realtà – costruisce il suo “LEADHERS” raccolta di sette conversazioni con altrettante donne che hanno scelto di raccontarsi senza filtri e mediazioni. Non interviste ma, appunto, racconti dai quali emergono esperienze di vita, successi e insuccessi, voglia di fare e, soprattutto, immagine e contenuto di una presenza femminile notevolmente diversa dai due estremi, entrambi sbagliati, attraverso i quali la donna viene spesso ancora oggi narrata: l’essere sottomessa dall’uomo da un lato, l’essere a tutti i costi di più e meglio dell’uomo dall’altro. Realtà che trovano spazio ovunque, nella società così come nelle imprese, nelle organizzazioni, nelle associazioni. E che fanno danno alle donne così come agli uomini.

Cartolano invece scrive: “Nessun affresco di eroine ribelli, di Wonder Women dei nostri giorni, ma donne che raccontano chi erano e chi sono, cosa sognavano e cosa sognano ora dopo un pezzo di vita. Non è un catalogo di donne esemplari, ma sono comunque storie educative, sono modelli da seguire, di ispirazione per altre donne, le più giovani che ne hanno bisogno, perché la strada dell’affermazione femminile è breve, recente e non scontata”. E poi ancora: “Le storie che leggerete non sono sermoni sulla leadership al femminile”.

Scorrono così nelle poco meno di duecento pagine (arricchite da una originale prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi) le storie di Elisabetta Belloni (dal 2021 Direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, DIS), Tania Cagnotto (tuffatrice europea con il maggior numero di podi in carriera), Elisabetta Franchi (stilista a capo di un’azienda che ha raggiunto 130 milioni di euro di ricavi nel 2021), Gaia Pigino (Associate Head del Centro di Biologia Strutturale di Human Technopole), Titti Postiglione (Vice Capo del Dipartimento della Protezione Civile italiana), Speranza Scappucci (direttrice d’orchestra e pianista, la prima italiana a dirigere un’opera al Teatro alla Scala di Milano), Paola Severino (avvocato, prima donna ministro della giustizia in Italia, prima rettrice nella storia dell’Università LUISS di Roma, dal 2021 Presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione).

Pagine dense eppure leggibili, quelle che scrive Tonia Cartolano. Dialoghi senza domande che forniscono un sacco di risposte. E un’indicazione che vale moltissimo: una donna “in gamba può realizzarsi tanto quanto un uomo. Senza pregiudizi, differenze né categorie. E soprattutto senza cercare di assomigliare agli uomini”. Ancora l’autrice precisa: “Leadership al femminile non significa arrivare ai vertici di una multinazionale o arrivare a capo del mondo, ma del proprio mondo sì”.

Il libro di Tonia Cartolano, se letto con attenzione, rischia di far arrabbiare molte donne e molti uomini. Ed è per questo che è un bel libro da leggere.

LEADHERS

Tonia Cartolano

Santelli Editore, 2022

Donne e uomini d’impresa

Una ricerca appena pubblicata mette a nudo i danni provocati dagli stereotipi sulla parità di genere

 

Donne e uomini al governo dell’impresa. Eterno (spesso inutile) confronto attorno al quale lo scontro passa anche per la scarsa conoscenza delle reali situazioni. Per fare chiarezza Mariasole Bannò e Giorgia Maria D’Allura hanno condotto una ricerca con un obiettivo: proporre uno schema interpretativo e una verifica empirica dell’influsso delle donne nel governo dell’impresa su tre grandi argomenti: l’innovazione, l’internazionalizzazione e la sostenibilità delle imprese stesse. Tutto partendo da un assunto: “Le scelte strategiche e il comportamento delle imprese possono essere spiegati, almeno in parte, dal profilo dei soggetti che compongono il governo dell’impresa”. E sottolineando però un dato di fatto: “Le capacità e le competenze delle persone in posizioni di vertice non sono, ovviamente, correlate al genere. Tuttavia, la composizione di genere dell’organo di governo ha ampiamente attirato l’attenzione dei ricercatori e delle ricercatrici ed è stata studiata da numerose prospettive teoriche. La produzione scientifica fino ad oggi generata merita attenzione rispetto a un tema centrale negli studi di genere: gli stereotipi”.

La ricerca fornisce una rassegna degli studi principali ma prova anche a delineare una interpretazione nuova, e soprattutto equilibrata, delle situazioni che si generano nelle imprese.

Bannò e D’Allura esaminano prima il quado statistico delle diseguaglianze di genera a livello europeo e italiano, successivamente prendono in considerazione il contributo apportato comunque dalle teorie femministe e, quindi, quello delle teorie manageriali. Nella seconda parte dell’indagine le due ricercatrici affrontano i tre temi sui quali fornire un’interpretazione più accurata.

Tra le conclusioni, le due autrici rilevano come nei CdA “le donne sono un simbolo (token) nei CdA quando non superano una certa soglia e, pertanto, restano inascoltate”, mentre “solo se raggiungono la massa critica esse si sentono nelle condizioni di potersi esprimere liberamente e possono aspettarsi di essere ascoltate”, ma soprattutto che tutto dipende dal tipo di impresa analizzato.

Soprattutto Bannò e D’Allura sottolineano: “La letteratura sintetizzata (…) suggerisce chiaramente che l’attuale misconoscenza delle capacità e competenze delle donne deve essere necessariamente rivista”. Serve però un “nuovo approccio manageriale volto a nutrire la consapevolezza che non esistono capacità o competenze legate al genere, ma esistono contesti in cui vi sono degli stereotipi che influiscono sulla valutazione di tali competenze”.

Donne e governo d’impresa. Prospettive teoriche ed evidenze empiriche

Mariasole Bannò Giorgia Maria D’Allura

Franco Angeli Open Access, 2022

Una ricerca appena pubblicata mette a nudo i danni provocati dagli stereotipi sulla parità di genere

 

Donne e uomini al governo dell’impresa. Eterno (spesso inutile) confronto attorno al quale lo scontro passa anche per la scarsa conoscenza delle reali situazioni. Per fare chiarezza Mariasole Bannò e Giorgia Maria D’Allura hanno condotto una ricerca con un obiettivo: proporre uno schema interpretativo e una verifica empirica dell’influsso delle donne nel governo dell’impresa su tre grandi argomenti: l’innovazione, l’internazionalizzazione e la sostenibilità delle imprese stesse. Tutto partendo da un assunto: “Le scelte strategiche e il comportamento delle imprese possono essere spiegati, almeno in parte, dal profilo dei soggetti che compongono il governo dell’impresa”. E sottolineando però un dato di fatto: “Le capacità e le competenze delle persone in posizioni di vertice non sono, ovviamente, correlate al genere. Tuttavia, la composizione di genere dell’organo di governo ha ampiamente attirato l’attenzione dei ricercatori e delle ricercatrici ed è stata studiata da numerose prospettive teoriche. La produzione scientifica fino ad oggi generata merita attenzione rispetto a un tema centrale negli studi di genere: gli stereotipi”.

La ricerca fornisce una rassegna degli studi principali ma prova anche a delineare una interpretazione nuova, e soprattutto equilibrata, delle situazioni che si generano nelle imprese.

Bannò e D’Allura esaminano prima il quado statistico delle diseguaglianze di genera a livello europeo e italiano, successivamente prendono in considerazione il contributo apportato comunque dalle teorie femministe e, quindi, quello delle teorie manageriali. Nella seconda parte dell’indagine le due ricercatrici affrontano i tre temi sui quali fornire un’interpretazione più accurata.

Tra le conclusioni, le due autrici rilevano come nei CdA “le donne sono un simbolo (token) nei CdA quando non superano una certa soglia e, pertanto, restano inascoltate”, mentre “solo se raggiungono la massa critica esse si sentono nelle condizioni di potersi esprimere liberamente e possono aspettarsi di essere ascoltate”, ma soprattutto che tutto dipende dal tipo di impresa analizzato.

Soprattutto Bannò e D’Allura sottolineano: “La letteratura sintetizzata (…) suggerisce chiaramente che l’attuale misconoscenza delle capacità e competenze delle donne deve essere necessariamente rivista”. Serve però un “nuovo approccio manageriale volto a nutrire la consapevolezza che non esistono capacità o competenze legate al genere, ma esistono contesti in cui vi sono degli stereotipi che influiscono sulla valutazione di tali competenze”.

Donne e governo d’impresa. Prospettive teoriche ed evidenze empiriche

Mariasole Bannò Giorgia Maria D’Allura

Franco Angeli Open Access, 2022

La passione per le “competenze”al governo aprirà davvero una nuova stagione politica?

Competenza. E’ una delle parole ricorrenti nei discorsi politici successivi alle elezioni del 25 settembre, oltre che, naturalmente, nei confronti interni al mondo economico e imprenditoriale in difficoltà tra choc geopolitici, energia, inflazione, post-pandemia, recessione. Servono ministri “competenti”. Sono necessarie “scelte urgenti e solide competenze” per affrontare la crisi. Bisogna usare al massimo “conoscenze e competenze” per dare risposte efficaci alle emergenze e costruire robuste prospettive di sviluppo.

Finalmente.
Il governo guidato da Mario Draghi aveva già mostrato, con grande chiarezza, quanto siano rilevanti, appunto, le competenze e la credibilità internazionale per ricostruire, proprio attorno all’Italia, tradizionalmente guardata con aria critica da altri paesi europei, un alto livello di fiducia. Aveva lavorato con intelligenza politica, competenza tecnica, efficacia sui progetti del Pnrr e le realizzazioni di interventi sui problemi concreti, dimostrando tra l’altro l’importanza di tenere insieme valori politici e conoscenze di merito di problemi e soluzioni possibili. Poi, è stato fatto cadere anzitempo. Una scelta sbagliata, naturalmente, proprio mentre si aggravavano i punti di crisi da affrontare.

Così è andata, comunque. Adesso l’elettorato ha espresso una maggioranza chiara, di centro destra (formata da partiti che hanno sfiduciato il “competente” Draghi) e che ha in Parlamento (a causa di una legge elettorale fortemente maggioritaria) un’ampia forza di deputati e senatori. E la sua leader, Giorgia Meloni, è proprio quella che chiede, ad alta voce, “competenze”.

Va seriamente presa in parola.
La Meloni ha sollecitato, responsabilmente, anche un dialogo con i “corpi sociali” (le associazioni degli imprenditori, i sindacati, le strutture della società e della cultura, etc.). Un’indicazione interessante, dopo lunghi periodi in cui tra le forze politiche prevaleva la tentazione della “disintermediazione”, a favore del rapporto diretto tra leader e “popolo”, della propaganda via Tv o social media. Con scarsa pazienza per il dialogo critico.

“Ben venga l’attenzione ai corpi sociali. Ci aspettiamo di essere ascoltati dal nuovo governo sulle questioni come il lavoro, gli investimenti industriali, lo sviluppo economico, di cui siamo, appunto, competenti”, ha risposto il presidente dell’Unione Industriali di Torino Giorgio Marsiaj durante l’assemblea dell’associazione (tanto per citare solo una tra le tante riunioni di Confindustria che si tengono in questi giorni).

La consapevolezza della gravità della crisi e il bisogno di risposte adeguate rispetto al profondo disagio economico e sociale daranno davvero spazio a una nuova stagione di “primato delle competenze”? Vedremo. Speriamo.
La pandemia aveva già avuto il merito di mostrare l’infondatezza della sbrigatività demagogica del cosiddetto “uno vale uno” e del dileggio di scienziati, economisti, personalità di cultura, “competenti” (nonostante il fiorire di complottisti e amanti delle fake news). Anche adesso non si può più accettare di affrontare le questioni delle carenze energetiche e dell’inflazione, della guerra e dell’ambiente come se le scelte da prendere fossero il risultato di una diffusa chiacchiera da bar. Il diritto di opinione e di parola è naturalmente fondamentale, in democrazia. Poi, però, chi è delegato, con “competenza”, decide. Non è più tempo, insomma, di “mediocrazia”. Tutt’altro.

Lo spiegano bene anche Lorenzo Codogno, professore alla London School of Economics e Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici e professore all’Università Cattolica di Milano, nelle pagine di “Crescita economica e meritocrazia – Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce”, appena pubblicato da Il Mulino. Per affrontare la competizione internazionale, nei nuovi difficili equilibri dei mercati globali, “bisognava puntare sulla ricerca e la valorizzazione dei talenti. Invece, a eccezione di un pungo di imprese manifatturiere che esportano, è in genere prevalsa la vecchia pratica delle raccomandazioni e delle sponsorizzazioni politiche per avere un posto di lavoro e fare carriera e il merito è stato messo da parte”.

Il problema, sostengono i due economisti, riguarda tutti gli ambiti della società: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e perfino la selezione dei manager e la finanza. E’ stata messa da canto anche la Costituzione, che indica la necessità di premiare “i capaci e i meritevoli”. E gran parte dei giovani più capaci e ricchi di volontà vanno a cercare all’estero migliori condizioni di lavoro e di vita. Economia e società declinano. Come se ne esce? Le indicazioni possibili riempioni intere biblioteche. Premiare merito e capacità personali e professionali, stimolare l’intraprendenza e favorire non corporazioni e clientele ma capacità, passione, impegno e cultura sono opzioni quanto mai opportune.

Adesso, tanto parlare di “competenza”, a cominciare dal prossimo governo, produrrà buoni risultati?

Competenza. E’ una delle parole ricorrenti nei discorsi politici successivi alle elezioni del 25 settembre, oltre che, naturalmente, nei confronti interni al mondo economico e imprenditoriale in difficoltà tra choc geopolitici, energia, inflazione, post-pandemia, recessione. Servono ministri “competenti”. Sono necessarie “scelte urgenti e solide competenze” per affrontare la crisi. Bisogna usare al massimo “conoscenze e competenze” per dare risposte efficaci alle emergenze e costruire robuste prospettive di sviluppo.

Finalmente.
Il governo guidato da Mario Draghi aveva già mostrato, con grande chiarezza, quanto siano rilevanti, appunto, le competenze e la credibilità internazionale per ricostruire, proprio attorno all’Italia, tradizionalmente guardata con aria critica da altri paesi europei, un alto livello di fiducia. Aveva lavorato con intelligenza politica, competenza tecnica, efficacia sui progetti del Pnrr e le realizzazioni di interventi sui problemi concreti, dimostrando tra l’altro l’importanza di tenere insieme valori politici e conoscenze di merito di problemi e soluzioni possibili. Poi, è stato fatto cadere anzitempo. Una scelta sbagliata, naturalmente, proprio mentre si aggravavano i punti di crisi da affrontare.

Così è andata, comunque. Adesso l’elettorato ha espresso una maggioranza chiara, di centro destra (formata da partiti che hanno sfiduciato il “competente” Draghi) e che ha in Parlamento (a causa di una legge elettorale fortemente maggioritaria) un’ampia forza di deputati e senatori. E la sua leader, Giorgia Meloni, è proprio quella che chiede, ad alta voce, “competenze”.

Va seriamente presa in parola.
La Meloni ha sollecitato, responsabilmente, anche un dialogo con i “corpi sociali” (le associazioni degli imprenditori, i sindacati, le strutture della società e della cultura, etc.). Un’indicazione interessante, dopo lunghi periodi in cui tra le forze politiche prevaleva la tentazione della “disintermediazione”, a favore del rapporto diretto tra leader e “popolo”, della propaganda via Tv o social media. Con scarsa pazienza per il dialogo critico.

“Ben venga l’attenzione ai corpi sociali. Ci aspettiamo di essere ascoltati dal nuovo governo sulle questioni come il lavoro, gli investimenti industriali, lo sviluppo economico, di cui siamo, appunto, competenti”, ha risposto il presidente dell’Unione Industriali di Torino Giorgio Marsiaj durante l’assemblea dell’associazione (tanto per citare solo una tra le tante riunioni di Confindustria che si tengono in questi giorni).

La consapevolezza della gravità della crisi e il bisogno di risposte adeguate rispetto al profondo disagio economico e sociale daranno davvero spazio a una nuova stagione di “primato delle competenze”? Vedremo. Speriamo.
La pandemia aveva già avuto il merito di mostrare l’infondatezza della sbrigatività demagogica del cosiddetto “uno vale uno” e del dileggio di scienziati, economisti, personalità di cultura, “competenti” (nonostante il fiorire di complottisti e amanti delle fake news). Anche adesso non si può più accettare di affrontare le questioni delle carenze energetiche e dell’inflazione, della guerra e dell’ambiente come se le scelte da prendere fossero il risultato di una diffusa chiacchiera da bar. Il diritto di opinione e di parola è naturalmente fondamentale, in democrazia. Poi, però, chi è delegato, con “competenza”, decide. Non è più tempo, insomma, di “mediocrazia”. Tutt’altro.

Lo spiegano bene anche Lorenzo Codogno, professore alla London School of Economics e Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici e professore all’Università Cattolica di Milano, nelle pagine di “Crescita economica e meritocrazia – Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce”, appena pubblicato da Il Mulino. Per affrontare la competizione internazionale, nei nuovi difficili equilibri dei mercati globali, “bisognava puntare sulla ricerca e la valorizzazione dei talenti. Invece, a eccezione di un pungo di imprese manifatturiere che esportano, è in genere prevalsa la vecchia pratica delle raccomandazioni e delle sponsorizzazioni politiche per avere un posto di lavoro e fare carriera e il merito è stato messo da parte”.

Il problema, sostengono i due economisti, riguarda tutti gli ambiti della società: le università, le pubbliche amministrazioni, la politica, la magistratura, le Asl, il mercato del lavoro e perfino la selezione dei manager e la finanza. E’ stata messa da canto anche la Costituzione, che indica la necessità di premiare “i capaci e i meritevoli”. E gran parte dei giovani più capaci e ricchi di volontà vanno a cercare all’estero migliori condizioni di lavoro e di vita. Economia e società declinano. Come se ne esce? Le indicazioni possibili riempioni intere biblioteche. Premiare merito e capacità personali e professionali, stimolare l’intraprendenza e favorire non corporazioni e clientele ma capacità, passione, impegno e cultura sono opzioni quanto mai opportune.

Adesso, tanto parlare di “competenza”, a cominciare dal prossimo governo, produrrà buoni risultati?

Fondazione Pirelli al Festival dell’Innovazione e della Scienza

Martedì 11 ottobre, ore 11 – Biblioteca Archimede, Settimo Torinese

Torna il Festival dell’Innovazione e della Scienza, la manifestazione in collaborazione con la Fondazione Esperienze di Cultura Metropolitana organizzata dal Comune di Settimo Torinese. Dal 9 al 16 ottobre la cittadina, legata anche a Pirelli per la presenza del Polo Industriale più avanzato del Gruppo, sarà palcoscenico di una decima edizione del festival dedicato, quest’anno, al tema del digitale.

La Fondazione Pirelli parteciperà con un incontro dal titolo “Pirelli e il nostro futuro sulle strade – Mobilità sostenibile, pneumatici innovativi e sicurezza stradale” martedì 11 ottobre alle ore 11 presso la Sala Levi della Biblioteca “Archimede”. Attraverso l’uso di quiz, video e virtual tour, il team di Fondazione Pirelli Educational accompagnerà i ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado alla scoperta delle tappe principali della storia delle innovazioni di Pirelli lunga 150 anni. Grazie al team Micromobility Solutions dell’azienda, inoltre, i ragazzi potranno approfondire le trasformazioni a cui sono state soggette le nostre città, vere e proprie “smart cities”, con l’avvento dei servizi di micromobilità. Un esempio? Il servizio Pirelli Cycl-e Around, uno sharing aziendale di e-bike aperto anche a tutte quelle strutture ricettive e alle community private che desiderano investire sulla sostenibilità ambientale.

Per prenotazioni:  Scuole 11 ottobre – Festival dell’Innovazione e della Scienza (settimo-torinese.it)

Martedì 11 ottobre, ore 11 – Biblioteca Archimede, Settimo Torinese

Torna il Festival dell’Innovazione e della Scienza, la manifestazione in collaborazione con la Fondazione Esperienze di Cultura Metropolitana organizzata dal Comune di Settimo Torinese. Dal 9 al 16 ottobre la cittadina, legata anche a Pirelli per la presenza del Polo Industriale più avanzato del Gruppo, sarà palcoscenico di una decima edizione del festival dedicato, quest’anno, al tema del digitale.

La Fondazione Pirelli parteciperà con un incontro dal titolo “Pirelli e il nostro futuro sulle strade – Mobilità sostenibile, pneumatici innovativi e sicurezza stradale” martedì 11 ottobre alle ore 11 presso la Sala Levi della Biblioteca “Archimede”. Attraverso l’uso di quiz, video e virtual tour, il team di Fondazione Pirelli Educational accompagnerà i ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado alla scoperta delle tappe principali della storia delle innovazioni di Pirelli lunga 150 anni. Grazie al team Micromobility Solutions dell’azienda, inoltre, i ragazzi potranno approfondire le trasformazioni a cui sono state soggette le nostre città, vere e proprie “smart cities”, con l’avvento dei servizi di micromobilità. Un esempio? Il servizio Pirelli Cycl-e Around, uno sharing aziendale di e-bike aperto anche a tutte quelle strutture ricettive e alle community private che desiderano investire sulla sostenibilità ambientale.

Per prenotazioni:  Scuole 11 ottobre – Festival dell’Innovazione e della Scienza (settimo-torinese.it)

Imprese, enciclopedie e cambiamenti

Nel suo ultimo libro, Gianfranco Dioguardi delinea una nuova organizzazione delle produzione capace di rispondere al nuovo con il nuovo

 

 Impresa camaleontica. L’impresa che cambia di volta in volta, adattandosi alle circostanze, alle situazioni, ai repentini cambiamenti del contesto, dei mercati, delle politiche. Impresa che, quindi, deve avere dentro un bagaglio di nozioni e di capacità più complesso di prima. Come se fosse un’enciclopedia. E’ attorno a queste idee che ha ragionato Gianfranco Dioguardi – ingegnere e professore di economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Bari – per scrivere il suo “L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio” appena dato alle stampe.

Dioguardi, che viene considerato uno dei padri dell’ingegneria gestionale in Italia, osserva come la complessità del Terzo Millennio abbia capovolto la tradizionale dinamica strategica dell’impresa. Non è più possibile impostare, prima, una strategia imprenditoriale definita e su quella costruire, poi, una struttura imprenditoriale in grado di realizzarla. La mutevolezza delle situazioni, obbliga a realizzare strutture organizzative just in time, quasi “al momento” e quindi essere capaci di mettere in pratica strategie operative che tengano sempre conto delle esigenze emergenti di sostenibilità e resilienza. Ed è anzi l’impresa stessa che deve modificare la sua cultura rendendola sempre più capace di cambiamento. Partendo, spiega Dioguardi, dalla valorizzazione della ricerca e dei giovani.

Il libro inizia con una acuta istantanea di quanto sta accadendo – dalla pandemia alla guerra passando per gli effetti sull’economia e sulla società -, per arrivare subito ad approfondire prima la ricerca (iniziando dalle sue cause come la curiosità e il dubbio) e poi i nuovi protagonisti delle organizzazioni (i giovani e gli imprenditori). Successivamente, il libro indaga su alcuni “valori perduti” come lo spirito d’impresa, la cultura intesa nella sua più vasta espressione, il significato della sostenibilità, l’attenzione alla digitalizzazione. Vengono poi delineati degli scenari industriali, territoriali e urbani per arrivare ad indicare un futuro fatto di “imprese enciclopedia” e territori urbani capaci di svilupparsi in un modo nuovo più attento alle persone e all’ambiente.

Scrive Dioguardi nelle sue conclusioni: “È allora necessario pensare a nuovi modi di fare impresa adottando innovative «architetture di sistema» basate su modelli reticolari («imprese rete»), così da elaborare modelli organici di organizzazioni dalla flessibilità modificabile in tempo reale a fronte delle mutevoli esigenze manifestate dal contesto esterno in grado, peraltro, di coniugare la grande dimensione imprenditoriale con le piccole e medie aziende tipiche del contesto economico italiano. Si dovrà pensare a una istituzione del tipo «impresa enciclopedia» capace di acquisire e governare la cultura dei singoli collaboratori rendendola uno strumento strategico da trasferire sul territorio per contrastare i pericoli di emarginazione sociale”.

L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio

Gianfranco Dioguardi

Guerini Next, 2022

Nel suo ultimo libro, Gianfranco Dioguardi delinea una nuova organizzazione delle produzione capace di rispondere al nuovo con il nuovo

 

 Impresa camaleontica. L’impresa che cambia di volta in volta, adattandosi alle circostanze, alle situazioni, ai repentini cambiamenti del contesto, dei mercati, delle politiche. Impresa che, quindi, deve avere dentro un bagaglio di nozioni e di capacità più complesso di prima. Come se fosse un’enciclopedia. E’ attorno a queste idee che ha ragionato Gianfranco Dioguardi – ingegnere e professore di economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Bari – per scrivere il suo “L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio” appena dato alle stampe.

Dioguardi, che viene considerato uno dei padri dell’ingegneria gestionale in Italia, osserva come la complessità del Terzo Millennio abbia capovolto la tradizionale dinamica strategica dell’impresa. Non è più possibile impostare, prima, una strategia imprenditoriale definita e su quella costruire, poi, una struttura imprenditoriale in grado di realizzarla. La mutevolezza delle situazioni, obbliga a realizzare strutture organizzative just in time, quasi “al momento” e quindi essere capaci di mettere in pratica strategie operative che tengano sempre conto delle esigenze emergenti di sostenibilità e resilienza. Ed è anzi l’impresa stessa che deve modificare la sua cultura rendendola sempre più capace di cambiamento. Partendo, spiega Dioguardi, dalla valorizzazione della ricerca e dei giovani.

Il libro inizia con una acuta istantanea di quanto sta accadendo – dalla pandemia alla guerra passando per gli effetti sull’economia e sulla società -, per arrivare subito ad approfondire prima la ricerca (iniziando dalle sue cause come la curiosità e il dubbio) e poi i nuovi protagonisti delle organizzazioni (i giovani e gli imprenditori). Successivamente, il libro indaga su alcuni “valori perduti” come lo spirito d’impresa, la cultura intesa nella sua più vasta espressione, il significato della sostenibilità, l’attenzione alla digitalizzazione. Vengono poi delineati degli scenari industriali, territoriali e urbani per arrivare ad indicare un futuro fatto di “imprese enciclopedia” e territori urbani capaci di svilupparsi in un modo nuovo più attento alle persone e all’ambiente.

Scrive Dioguardi nelle sue conclusioni: “È allora necessario pensare a nuovi modi di fare impresa adottando innovative «architetture di sistema» basate su modelli reticolari («imprese rete»), così da elaborare modelli organici di organizzazioni dalla flessibilità modificabile in tempo reale a fronte delle mutevoli esigenze manifestate dal contesto esterno in grado, peraltro, di coniugare la grande dimensione imprenditoriale con le piccole e medie aziende tipiche del contesto economico italiano. Si dovrà pensare a una istituzione del tipo «impresa enciclopedia» capace di acquisire e governare la cultura dei singoli collaboratori rendendola uno strumento strategico da trasferire sul territorio per contrastare i pericoli di emarginazione sociale”.

L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio

Gianfranco Dioguardi

Guerini Next, 2022

Lavoro “agile”, la distanza tra realtà e regole

In un intervento apparso in Quaderni di economia del lavoro, l’analisi lucida delle nuove forme di organizzazione d’impresa

 

Lavoro “a distanza” oppure “agile”. In ogni caso, una nuova modalità di lavorare che, dalla pandemia in avanti, ha messo in discussione l’organizzazione di fabbriche e uffici. E aggiunto un altro tema di ragionamento nell’ambito di una cultura d’impresa in evoluzione continua. Fabio Pantano con il suo “Il lavoro a distanza dopo la pandemia: problemi organizzativi e soluzioni giuridiche” apparso recentemente in Quaderni di economia del lavoro, contribuisce validamente a fare un “punto della situazione” sull’argomento fornendone un’analisi efficace.

Pantano inizia sottolineando che la presenza dirompente del Covid-19 ha permesso di sperimentare i principali problemi organizzativi che il lavoro “a distanza” solleva in relazione al benessere psico-fisico dei lavoratori, al loro rendimento e al loro senso di soddisfazione rispetto all’attività svolta. Una modalità di attività che era già in qualche modo presente nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, ma che, proprio la pandemia, ha spinto ai massimi livelli facendone emergere tutti i pregi e i difetti possibili.

L’autore della ricerca spiega quindi che un approccio razionale a questi temi richiederebbe una modifica radicale dei modelli organizzativi, con un passaggio dai sistemi gestionali fondati sul controllo a una nuova impostazione incentrata sull’esaltazione della fiducia, dell’autonomia e della collaborazione. Traguardi il cui raggiungimento si scontra però con l’impreparazione della cultura giuridica che ha dimostrato, è l’opinione di Pantano, di trovarsi impreparata rispetto a questa prospettiva. In particolare, le scelte poste in essere dal legislatore si rivelano improntate a una visione tradizionale, fondata sull’idea che il lavoro sia quello svolto nell’impresa in senso fisico. In Italia, la legge n. 81/2017 rimette la definizione delle modalità di svolgimento del lavoro “agile” ad un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, tralasciando il ruolo che potrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva. Al contrario, nell’esperienza europea, proprio negli accordi sindacali dimostrano enormi potenzialità – benché ancora non del tutto esplorate – nell’adattamento dei problemi organizzativi del lavoro a distanza alle specificità dei diversi settori produttivi e delle singole aziende.

Fabio Pantano fa emergere così la distanza tra la realtà dei fatti e quella delle regole. Da un lato, il mercato, le imprese, l’economia reale procedono lungo una strada fatta di elaborazione di soluzioni nuove anche dal punto di vista culturale oltre che organizzativo, dall’altro gli apparati normativi (e spesso la sclerosi interpretativa di alcuni ambiti decisionali), continuano a proporre schemi e procedure ormai sorpassate ed inefficaci.

Il lavoro a distanza dopo la pandemia: problemi organizzativi e soluzioni giuridiche

Fabio Pantano

Quaderni di economia del lavoro, 2021 Fascicolo 113

In un intervento apparso in Quaderni di economia del lavoro, l’analisi lucida delle nuove forme di organizzazione d’impresa

 

Lavoro “a distanza” oppure “agile”. In ogni caso, una nuova modalità di lavorare che, dalla pandemia in avanti, ha messo in discussione l’organizzazione di fabbriche e uffici. E aggiunto un altro tema di ragionamento nell’ambito di una cultura d’impresa in evoluzione continua. Fabio Pantano con il suo “Il lavoro a distanza dopo la pandemia: problemi organizzativi e soluzioni giuridiche” apparso recentemente in Quaderni di economia del lavoro, contribuisce validamente a fare un “punto della situazione” sull’argomento fornendone un’analisi efficace.

Pantano inizia sottolineando che la presenza dirompente del Covid-19 ha permesso di sperimentare i principali problemi organizzativi che il lavoro “a distanza” solleva in relazione al benessere psico-fisico dei lavoratori, al loro rendimento e al loro senso di soddisfazione rispetto all’attività svolta. Una modalità di attività che era già in qualche modo presente nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, ma che, proprio la pandemia, ha spinto ai massimi livelli facendone emergere tutti i pregi e i difetti possibili.

L’autore della ricerca spiega quindi che un approccio razionale a questi temi richiederebbe una modifica radicale dei modelli organizzativi, con un passaggio dai sistemi gestionali fondati sul controllo a una nuova impostazione incentrata sull’esaltazione della fiducia, dell’autonomia e della collaborazione. Traguardi il cui raggiungimento si scontra però con l’impreparazione della cultura giuridica che ha dimostrato, è l’opinione di Pantano, di trovarsi impreparata rispetto a questa prospettiva. In particolare, le scelte poste in essere dal legislatore si rivelano improntate a una visione tradizionale, fondata sull’idea che il lavoro sia quello svolto nell’impresa in senso fisico. In Italia, la legge n. 81/2017 rimette la definizione delle modalità di svolgimento del lavoro “agile” ad un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, tralasciando il ruolo che potrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva. Al contrario, nell’esperienza europea, proprio negli accordi sindacali dimostrano enormi potenzialità – benché ancora non del tutto esplorate – nell’adattamento dei problemi organizzativi del lavoro a distanza alle specificità dei diversi settori produttivi e delle singole aziende.

Fabio Pantano fa emergere così la distanza tra la realtà dei fatti e quella delle regole. Da un lato, il mercato, le imprese, l’economia reale procedono lungo una strada fatta di elaborazione di soluzioni nuove anche dal punto di vista culturale oltre che organizzativo, dall’altro gli apparati normativi (e spesso la sclerosi interpretativa di alcuni ambiti decisionali), continuano a proporre schemi e procedure ormai sorpassate ed inefficaci.

Il lavoro a distanza dopo la pandemia: problemi organizzativi e soluzioni giuridiche

Fabio Pantano

Quaderni di economia del lavoro, 2021 Fascicolo 113

Un “capitalismo gentile” per fare crescere le impresee costruire un’economia sostenibile “a misura d’uomo”

È necessario lavorare per “un capitalismo più gentile”, sostiene Katia Da Ros, imprenditrice veneta (la sua azienda, Irinox, produce apparecchiature high tech per il freddo per l’industria alimentare) e vicepresidente di Confindustria per la sostenibilità e la cultura. Un sistema economico, cioè, fondato su una serie di valori (la sostenibilità ambientale e sociale, l’attenzione per le persone, la qualità della vita, la sicurezza sul lavoro) cui ispirare prodotti, servizi, mercati, consumi e il cui rispetto consente di costruire, anche nel lungo periodo, quel valore economico (profitti, rendimenti finanziari in Borsa, etc.) che stimola l’azienda a crescere, investire, creare lavoro e benessere diffuso.

L’uso della parola “gentilezza” nel contesto dell’economia e dell’attività d’impresa non è poi così tanto usuale (dieci anni fa pronunciarla sarebbe stato addirittura inconcepibile). Rivela però una tendenza di fondo che trova spazio crescente non solo in imprese innovative e sensibili ai temi della sostenibilità, ma anche nelle associazioni di categoria e in ambienti sociali e culturali che lavorano sui valori e i contenuti della buona cultura d’impresa.
Una serie di testimonianze importanti arrivano anche dalla rilettura e dal rilancio del “Manifesto di Assisi” per “una economia a misura d’uomo”, promossa lunedì mattina alla Luiss da Symbola e dai francescani di Assisi. Appunto i promotori, nel gennaio 2020, di quel documento, rapidamente sottoscritto da grandi associazioni (Unioncamere, Confindustria, Coldiretti) ma anche, nel corso del tempo. da una lunga serie di imprese grandi (Enel, Novamont, Arvedi, Illy, etc.).

Il senso di fondo è chiaro: le scelte di sostenibilità, la cultura, l’orientamento a un “capitalismo più gentile” consentono, proprio alle imprese italiane, di affrontare la crisi in corso facendo fronte, naturalmente, alle emergenze, ma anche e soprattutto alzando lo sguardo ampio verso l’orizzonte e facendo di quelle scelte, ragioni prodonde di competitività, di affermazione su mercati sempre più difficili, competitivi, esigenti.
Viviamo, appunto, momenti drammatici, di crisi e incertezza, tra venti di guerra, shock energetici, inflazione e recessione, con pesanti ricadute su sicurezza, lavoro, redditi e prospettive di sviluppo. Le imprese stanno ridiscutendo, sotto stress, progetti di investimento e relazioni commerciali. E proprio in un contesto così difficile è necessario qualificarsi in modo chiaro e forte nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.
I nostri valori distintivi sono l’originale “cultura politecnica” come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche e tecnologiche, una storia orientata al futuro, una robusta tendenza alla qualità. Le scelte di sostenibilità ne sono componenti essenziali. Ma anche la cultura d’impresa, attraverso i musei e gli archivi storici, come leve strategiche per navigare nella crisi e costruire progetti di crescita. La loro valorizzazione, infatti, incide positivamente su brand, orgoglio identitario dei dipendenti, attività di marketing e comunicazione, relazioni con i mercati. E, più in generale, rafforza appunto il prestigio del “made in Italy” nel mondo.

Ecco dunque il senso dell’investimento sul gusto per la bellezza e la qualità. Il miglior design, nella sua accezione più ampia e complessa, si lega all’innovazione tecnologica, rafforzando così la meccatronica e la robotica, l’automotive e la chimica, l’industria aerospaziale e la nautica, oltre che, naturalmente, i settori tradizionali del made in Italy (arredo, abbigliamento, agroindustria). È un “saper fare” ma anche un “fare bene, e fare del bene” che ha radici profonde nella sapienza dei territori produttivi e che si raccorda con scienza e ricerca dei Politecnici e delle migliori università italiane. E che, in tempi recenti, mostra di saper vivere con intraprendenza la twin transition, ambientale e digitale, economica e sociale, stimolando le capacità concorrenziali delle imprese.

Ecco, dunque, la convergenza tra una serie di riflessioni che animano, proprio in tempi di incertezza e di crisi, il discorso pubblico nel mondo dell’impresa e nei centri in cui si incrociano cultura, formazione, ricerca. Il “capitalismo gentile”, appunto. “L’impresa riformista” che fa da asse di una riscrittura critica delle mappe della produzione e dei servizi in smart cities che diventano smart lands, cioè territori produttivi densi di innovazione e capitale sociale positivo. E l’economia giusta “a misura d’uomo” o, per dirla ancora meglio, “a misura della persona e della comunità”, valorizzando l’attualità dell’esperienza di Adriano Olivetti (come suggerisce anche lo stimolante libro di Paolo Bricco su “un italiano del Novecento”, edito da Rizzoli).

Sono soprattutto le nuove generazioni a spingere in questa direzione, come consumatori, ma anche come imprenditori, produttori, soggetti consapevoli e responsabili delle attività economiche, scegliendo prodotti e servizi e privilegiando, come luoghi di lavoro, le imprese che condividono concretamente i sistemi di valore della sostenibilità (e punendo, con intelligenza critica, chi si limita a fare green washing).

Si recuperà, così, anche una sapienza antica, che affonda le sue radici nella cultura medioevale delle abbazie benedettine (la lezione dell’ora et labora), nel gusto per la bellezza nelle città dei mercanti, banchieri e manifattori come Siena e Firenze, nelle relazioni tra frati francescani e banchieri sul valore delle cose e i “beni comuni”, analizzate da grandi economisti di area cattolica come Stefano Zamagni e Luigino Bruni (il suo ultimo libro, “Capitalismo meridiano – Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto”, edito da Il Mulino, ne offre testimonianze di grande interesse). Con una indicazione essenziale: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.  Eccola, una nuova misura possibile. Su cui continuare, con “gentilezza”, a discutere.

È necessario lavorare per “un capitalismo più gentile”, sostiene Katia Da Ros, imprenditrice veneta (la sua azienda, Irinox, produce apparecchiature high tech per il freddo per l’industria alimentare) e vicepresidente di Confindustria per la sostenibilità e la cultura. Un sistema economico, cioè, fondato su una serie di valori (la sostenibilità ambientale e sociale, l’attenzione per le persone, la qualità della vita, la sicurezza sul lavoro) cui ispirare prodotti, servizi, mercati, consumi e il cui rispetto consente di costruire, anche nel lungo periodo, quel valore economico (profitti, rendimenti finanziari in Borsa, etc.) che stimola l’azienda a crescere, investire, creare lavoro e benessere diffuso.

L’uso della parola “gentilezza” nel contesto dell’economia e dell’attività d’impresa non è poi così tanto usuale (dieci anni fa pronunciarla sarebbe stato addirittura inconcepibile). Rivela però una tendenza di fondo che trova spazio crescente non solo in imprese innovative e sensibili ai temi della sostenibilità, ma anche nelle associazioni di categoria e in ambienti sociali e culturali che lavorano sui valori e i contenuti della buona cultura d’impresa.
Una serie di testimonianze importanti arrivano anche dalla rilettura e dal rilancio del “Manifesto di Assisi” per “una economia a misura d’uomo”, promossa lunedì mattina alla Luiss da Symbola e dai francescani di Assisi. Appunto i promotori, nel gennaio 2020, di quel documento, rapidamente sottoscritto da grandi associazioni (Unioncamere, Confindustria, Coldiretti) ma anche, nel corso del tempo. da una lunga serie di imprese grandi (Enel, Novamont, Arvedi, Illy, etc.).

Il senso di fondo è chiaro: le scelte di sostenibilità, la cultura, l’orientamento a un “capitalismo più gentile” consentono, proprio alle imprese italiane, di affrontare la crisi in corso facendo fronte, naturalmente, alle emergenze, ma anche e soprattutto alzando lo sguardo ampio verso l’orizzonte e facendo di quelle scelte, ragioni prodonde di competitività, di affermazione su mercati sempre più difficili, competitivi, esigenti.
Viviamo, appunto, momenti drammatici, di crisi e incertezza, tra venti di guerra, shock energetici, inflazione e recessione, con pesanti ricadute su sicurezza, lavoro, redditi e prospettive di sviluppo. Le imprese stanno ridiscutendo, sotto stress, progetti di investimento e relazioni commerciali. E proprio in un contesto così difficile è necessario qualificarsi in modo chiaro e forte nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.
I nostri valori distintivi sono l’originale “cultura politecnica” come sintesi di saperi umanistici e conoscenze scientifiche e tecnologiche, una storia orientata al futuro, una robusta tendenza alla qualità. Le scelte di sostenibilità ne sono componenti essenziali. Ma anche la cultura d’impresa, attraverso i musei e gli archivi storici, come leve strategiche per navigare nella crisi e costruire progetti di crescita. La loro valorizzazione, infatti, incide positivamente su brand, orgoglio identitario dei dipendenti, attività di marketing e comunicazione, relazioni con i mercati. E, più in generale, rafforza appunto il prestigio del “made in Italy” nel mondo.

Ecco dunque il senso dell’investimento sul gusto per la bellezza e la qualità. Il miglior design, nella sua accezione più ampia e complessa, si lega all’innovazione tecnologica, rafforzando così la meccatronica e la robotica, l’automotive e la chimica, l’industria aerospaziale e la nautica, oltre che, naturalmente, i settori tradizionali del made in Italy (arredo, abbigliamento, agroindustria). È un “saper fare” ma anche un “fare bene, e fare del bene” che ha radici profonde nella sapienza dei territori produttivi e che si raccorda con scienza e ricerca dei Politecnici e delle migliori università italiane. E che, in tempi recenti, mostra di saper vivere con intraprendenza la twin transition, ambientale e digitale, economica e sociale, stimolando le capacità concorrenziali delle imprese.

Ecco, dunque, la convergenza tra una serie di riflessioni che animano, proprio in tempi di incertezza e di crisi, il discorso pubblico nel mondo dell’impresa e nei centri in cui si incrociano cultura, formazione, ricerca. Il “capitalismo gentile”, appunto. “L’impresa riformista” che fa da asse di una riscrittura critica delle mappe della produzione e dei servizi in smart cities che diventano smart lands, cioè territori produttivi densi di innovazione e capitale sociale positivo. E l’economia giusta “a misura d’uomo” o, per dirla ancora meglio, “a misura della persona e della comunità”, valorizzando l’attualità dell’esperienza di Adriano Olivetti (come suggerisce anche lo stimolante libro di Paolo Bricco su “un italiano del Novecento”, edito da Rizzoli).

Sono soprattutto le nuove generazioni a spingere in questa direzione, come consumatori, ma anche come imprenditori, produttori, soggetti consapevoli e responsabili delle attività economiche, scegliendo prodotti e servizi e privilegiando, come luoghi di lavoro, le imprese che condividono concretamente i sistemi di valore della sostenibilità (e punendo, con intelligenza critica, chi si limita a fare green washing).

Si recuperà, così, anche una sapienza antica, che affonda le sue radici nella cultura medioevale delle abbazie benedettine (la lezione dell’ora et labora), nel gusto per la bellezza nelle città dei mercanti, banchieri e manifattori come Siena e Firenze, nelle relazioni tra frati francescani e banchieri sul valore delle cose e i “beni comuni”, analizzate da grandi economisti di area cattolica come Stefano Zamagni e Luigino Bruni (il suo ultimo libro, “Capitalismo meridiano – Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto”, edito da Il Mulino, ne offre testimonianze di grande interesse). Con una indicazione essenziale: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.  Eccola, una nuova misura possibile. Su cui continuare, con “gentilezza”, a discutere.

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