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Storia di un manifesto: l’artista Manlio per le biciclette Wolsit gommate Pirelli

Manlio, nome d’arte di Manlio Parrini (1901-1968), è stato un pittore attivo principalmente tra la fine anni Venti e gli anni Trenta e uno dei nomi più rappresentativi dello stile monumentalistico in voga in quel periodo. Autore di numerose pubblicità, soprattutto per la Fiera di Milano, firma anche alcuni manifesti per le biciclette Wolsit e Legnano, entrambe gommate Pirelli. La Società anonima Wolseley Italiana (abbreviata in Wolsit) viene fondata ai primi del Novecento a Legnano quando la Franco Tosi, in joint venture con Emilio Bozzi, acquisisce la licenza del marchio inglese Wolseley per la fabbricazione di auto, biciclette e aerei. Abbandonata quasi subito la produzione di automobili (quella di velivoli avrà vita brevissima, dal 1912 al 1925), la Wolsit continua con la fabbricazione di biciclette, che si conquistano una larga fama per la loro linea e qualità meccanica. La Pirelli, ormai avviata nella produzione di pneumatici per biciclette, iniziata nel 1890, fornisce i tubolari.

Negli anni Venti Manlio realizza una pubblicità per la casa legnanese, recentemente acquisita dalla Fondazione Pirelli: un grande manifesto murale di 140 x 100 cm che raffigura il ciclista Costante Girardengo mentre imbraccia una bicicletta Wolsit gommata Pirelli. La pubblicità è databile tra il 1925 e il 1926, anni nei quali Girardengo gareggia per la squadra, vincendo per la quarta e la quinta volta la Milano-Sanremo e giungendo secondo al Giro d’Italia dopo aver ottenuto sei vittorie di tappa. Nel 1927 è costretto a ritirarsi per un infortunio.  In quell’anno, con l’uscita della Franco Tosi, la Wolsit cambia nome in Legnano. Manlio realizza una pubblicità anche per quest’ultima, con uno stile più vicino alla sua produzione prevalente in stile monumentalistico: il manifesto, conservato presso la Collezione Salce di Treviso, reca una visionaria rappresentazione di una monumentale fabbrica dalla quale emerge un braccio che regge una bicicletta. Grandi campioni per grandi manifesti, che attraverso le immagini raccontano storie d’imprese, prodotti e campioni.

Manlio, nome d’arte di Manlio Parrini (1901-1968), è stato un pittore attivo principalmente tra la fine anni Venti e gli anni Trenta e uno dei nomi più rappresentativi dello stile monumentalistico in voga in quel periodo. Autore di numerose pubblicità, soprattutto per la Fiera di Milano, firma anche alcuni manifesti per le biciclette Wolsit e Legnano, entrambe gommate Pirelli. La Società anonima Wolseley Italiana (abbreviata in Wolsit) viene fondata ai primi del Novecento a Legnano quando la Franco Tosi, in joint venture con Emilio Bozzi, acquisisce la licenza del marchio inglese Wolseley per la fabbricazione di auto, biciclette e aerei. Abbandonata quasi subito la produzione di automobili (quella di velivoli avrà vita brevissima, dal 1912 al 1925), la Wolsit continua con la fabbricazione di biciclette, che si conquistano una larga fama per la loro linea e qualità meccanica. La Pirelli, ormai avviata nella produzione di pneumatici per biciclette, iniziata nel 1890, fornisce i tubolari.

Negli anni Venti Manlio realizza una pubblicità per la casa legnanese, recentemente acquisita dalla Fondazione Pirelli: un grande manifesto murale di 140 x 100 cm che raffigura il ciclista Costante Girardengo mentre imbraccia una bicicletta Wolsit gommata Pirelli. La pubblicità è databile tra il 1925 e il 1926, anni nei quali Girardengo gareggia per la squadra, vincendo per la quarta e la quinta volta la Milano-Sanremo e giungendo secondo al Giro d’Italia dopo aver ottenuto sei vittorie di tappa. Nel 1927 è costretto a ritirarsi per un infortunio.  In quell’anno, con l’uscita della Franco Tosi, la Wolsit cambia nome in Legnano. Manlio realizza una pubblicità anche per quest’ultima, con uno stile più vicino alla sua produzione prevalente in stile monumentalistico: il manifesto, conservato presso la Collezione Salce di Treviso, reca una visionaria rappresentazione di una monumentale fabbrica dalla quale emerge un braccio che regge una bicicletta. Grandi campioni per grandi manifesti, che attraverso le immagini raccontano storie d’imprese, prodotti e campioni.

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Obiettivi e “capitani” d’impresa

Un carteggio tra due attenti osservatori del sistema della produzione, ripercorre la modernità e le sue sfide

 

Obiettivi d’impresa e “capitani” d’impresa. Leader e leadership. Organizzazioni della produzione rese vive da imprenditori e manager dediti ad uno scopo. Anche nella perigliosa navigazione dell’oggi. Temi importanti, di oggi e per domani. Temi che si confrontano, pressoché ogni giorno, con la complessità del presente e l’incertezza del futuro. Paolo Iacci e Luca Solari – rispettivamente Presidente di Eca Italia e di AIDP Promotion il primo, ordinario presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore di OrgTech, il secondo -, ragionano su questo insieme di argomenti guardando all’evoluzione del sistema delle imprese ma usando un tradizionale strumento di scambio delle idee: la lettera. E’ nato così “Purpose e leadership ibrida. Carteggio su organizzazioni, persone e società”, un libro contenuto in termini di numero di pagine ma estremamente denso in termini di idee e di “provocazioni” nell’ambito, come recita il sottotitolo, del dibattito attorno alle organizzazioni, alle persone e ai sistemi sociali.

Il carteggio, perché proprio di questo si tratta, inizia il 25 aprile 2019 con una lettera di Iacci su “Leadership e deponenza” e si conclude il 21 maggio 2022 con una missiva di Solari che ragiona sulla “leadership ibrida”. In mezzo mesi di ragionamenti attorno al cambiamento avvenuto negli anni che indica la necessità di investimenti in tecnologia, ma anche nuovi processi, competenze e tecniche manageriali più ampie. La constatazione attorno alla quale lavorano Iacci e Solari è che ci si trova davanti ad una nuova e più radicale domanda di benessere da parte delle persone a cui le imprese non riescono ancora a dare una risposta sufficientemente articolata e di cui le grandi dimissioni sono solo la punta dell’iceberg. E’ necessario, in altri termini, che la cultura della buona impresa riveda anche il tema del purpose aziendale (cioè dello scopo per il quale un’azienda è stata creata) e della sostenibilità come ragion d’essere delle imprese. Temi che, poi, si collegano con quello di una nuova leadership, nella società civile come nelle organizzazioni. Leader che abbiano la capacità di essere plurali e ibridi, inclusivi ed espressione di tutti, capaci di adattarsi a strutture e organizzazioni della produzione che non hanno nemmeno più le caratteristiche fisiche di un tempo (lontano non secoli ma pochi anni).

Il libro di Iacci e Solari è così una sorta di viaggio dentro la modernità che cambia. Un viaggio da percorrere con attenzione, mai banale e sempre avvincente. Tutto da leggere.

Purpose e leadership ibrida. Carteggio su organizzazioni, persone e società

Paolo Iacci, Luca Solari

Franco Angeli, 2022

Un carteggio tra due attenti osservatori del sistema della produzione, ripercorre la modernità e le sue sfide

 

Obiettivi d’impresa e “capitani” d’impresa. Leader e leadership. Organizzazioni della produzione rese vive da imprenditori e manager dediti ad uno scopo. Anche nella perigliosa navigazione dell’oggi. Temi importanti, di oggi e per domani. Temi che si confrontano, pressoché ogni giorno, con la complessità del presente e l’incertezza del futuro. Paolo Iacci e Luca Solari – rispettivamente Presidente di Eca Italia e di AIDP Promotion il primo, ordinario presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore di OrgTech, il secondo -, ragionano su questo insieme di argomenti guardando all’evoluzione del sistema delle imprese ma usando un tradizionale strumento di scambio delle idee: la lettera. E’ nato così “Purpose e leadership ibrida. Carteggio su organizzazioni, persone e società”, un libro contenuto in termini di numero di pagine ma estremamente denso in termini di idee e di “provocazioni” nell’ambito, come recita il sottotitolo, del dibattito attorno alle organizzazioni, alle persone e ai sistemi sociali.

Il carteggio, perché proprio di questo si tratta, inizia il 25 aprile 2019 con una lettera di Iacci su “Leadership e deponenza” e si conclude il 21 maggio 2022 con una missiva di Solari che ragiona sulla “leadership ibrida”. In mezzo mesi di ragionamenti attorno al cambiamento avvenuto negli anni che indica la necessità di investimenti in tecnologia, ma anche nuovi processi, competenze e tecniche manageriali più ampie. La constatazione attorno alla quale lavorano Iacci e Solari è che ci si trova davanti ad una nuova e più radicale domanda di benessere da parte delle persone a cui le imprese non riescono ancora a dare una risposta sufficientemente articolata e di cui le grandi dimissioni sono solo la punta dell’iceberg. E’ necessario, in altri termini, che la cultura della buona impresa riveda anche il tema del purpose aziendale (cioè dello scopo per il quale un’azienda è stata creata) e della sostenibilità come ragion d’essere delle imprese. Temi che, poi, si collegano con quello di una nuova leadership, nella società civile come nelle organizzazioni. Leader che abbiano la capacità di essere plurali e ibridi, inclusivi ed espressione di tutti, capaci di adattarsi a strutture e organizzazioni della produzione che non hanno nemmeno più le caratteristiche fisiche di un tempo (lontano non secoli ma pochi anni).

Il libro di Iacci e Solari è così una sorta di viaggio dentro la modernità che cambia. Un viaggio da percorrere con attenzione, mai banale e sempre avvincente. Tutto da leggere.

Purpose e leadership ibrida. Carteggio su organizzazioni, persone e società

Paolo Iacci, Luca Solari

Franco Angeli, 2022

“Lavoro soddisfatto”

Pubblicata una ricerca che cera di mettere in relazione la flessibilità del mercato del lavoro con il grado di soddisfazione dello stesso nelle imprese

Lavorare ed essere soddisfatti di quello che si fa. Traguardo raggiunto forse ancora da (troppo) pochi. Eppure traguardo possibile. Anche se occorre fare i conti con le modalità di lavoro, con gli assetti organizzativi e con quelli contrattuali. Senza dire delle relazioni, importanti, tra lavoro e contesto sociale ed economico.
E’ attorno a questi temi che hanno ragionato Giorgio Liotti e Marco Musella nel loro “Flessibilità e soddisfazione per il lavoro: una riflessione generale” apparso recentemente.
Obiettivo principale della ricerca è stato quello di “iniziare a colmare” la lacuna di conoscenza delle relazioni tra flessibilità del mercato del lavoro e soddisfazione per il lavoro assunta come indicatore del livello di fiducia dei lavoratori nell’impresa. I due autori, in particolare, si sono concentrati sul periodo 2001 e il 2018 del quale hanno analizzato varie componenti economiche e sociali per arrivare, appunto, a delineare lo “stato dei rapporti” tra impresa e lavoro.
L’indagine di Liotti e Musella inizia da una serie di constatazioni. Prima di tutto il radicale cambio delle regole di funzionamento del mercato del lavoro; poi l’approfondimento delle caratteristiche della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro stesso. Quello che si chiedono i due ricercatori è allora come l’introduzione delle politiche di flessibilità, “che hanno reso via via il lavoro più instabile e precario”, abbia “influito sulla sinergia tra lavoratore ed imprenditore”.
Tema complesso, quello affrontato dalla ricerca, che riesce a fornire due risposte diverse. Considerando il periodo 2001-2008, viene spiegato nelle conclusioni, “ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro si associa una repentina riduzione della soddisfazione dei lavoratori”. Analizzando invece il periodo 2009-2018, questa relazione inversa sembra svanire.
Giorgio Liotti e Marco Musella tornano così agli assunti iniziali: nella messa a fuco dei rapporti tra soddisfazione del lavoro e flessibilità del mercato del lavoro, entrano in gioco notevoli argomenti, che vanno approfonditi probabilmente di volta in volta con attenzioni diverse.

Flessibilità e soddisfazione per il lavoro: una riflessione generale
Giorgio Liotti, Marco Musella
Quaderni di economia del lavoro, 2021 Fascicolo 113

Pubblicata una ricerca che cera di mettere in relazione la flessibilità del mercato del lavoro con il grado di soddisfazione dello stesso nelle imprese

Lavorare ed essere soddisfatti di quello che si fa. Traguardo raggiunto forse ancora da (troppo) pochi. Eppure traguardo possibile. Anche se occorre fare i conti con le modalità di lavoro, con gli assetti organizzativi e con quelli contrattuali. Senza dire delle relazioni, importanti, tra lavoro e contesto sociale ed economico.
E’ attorno a questi temi che hanno ragionato Giorgio Liotti e Marco Musella nel loro “Flessibilità e soddisfazione per il lavoro: una riflessione generale” apparso recentemente.
Obiettivo principale della ricerca è stato quello di “iniziare a colmare” la lacuna di conoscenza delle relazioni tra flessibilità del mercato del lavoro e soddisfazione per il lavoro assunta come indicatore del livello di fiducia dei lavoratori nell’impresa. I due autori, in particolare, si sono concentrati sul periodo 2001 e il 2018 del quale hanno analizzato varie componenti economiche e sociali per arrivare, appunto, a delineare lo “stato dei rapporti” tra impresa e lavoro.
L’indagine di Liotti e Musella inizia da una serie di constatazioni. Prima di tutto il radicale cambio delle regole di funzionamento del mercato del lavoro; poi l’approfondimento delle caratteristiche della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro stesso. Quello che si chiedono i due ricercatori è allora come l’introduzione delle politiche di flessibilità, “che hanno reso via via il lavoro più instabile e precario”, abbia “influito sulla sinergia tra lavoratore ed imprenditore”.
Tema complesso, quello affrontato dalla ricerca, che riesce a fornire due risposte diverse. Considerando il periodo 2001-2008, viene spiegato nelle conclusioni, “ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro si associa una repentina riduzione della soddisfazione dei lavoratori”. Analizzando invece il periodo 2009-2018, questa relazione inversa sembra svanire.
Giorgio Liotti e Marco Musella tornano così agli assunti iniziali: nella messa a fuco dei rapporti tra soddisfazione del lavoro e flessibilità del mercato del lavoro, entrano in gioco notevoli argomenti, che vanno approfonditi probabilmente di volta in volta con attenzioni diverse.

Flessibilità e soddisfazione per il lavoro: una riflessione generale
Giorgio Liotti, Marco Musella
Quaderni di economia del lavoro, 2021 Fascicolo 113

Nell’Italia della crisi e dell’“inverno demografico” bisogna spendere di più e meglio per la scuola

“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della magistratura e della Corte Costituzionale”. Sono parole di Piero Calamandrei, uno dei più importanti padri costituenti della Repubblica. E vale la pena ricordarle ancora oggi, dopo una campagna elettorale in cui di scuola si è parlato pochissimo, nonostante il Pnrr – un vero e proprio vincolo politico-amministrativo della nuova legislatura – destini risorse quanto mai rilevanti ai temi dell’istruzione, cercando di costruire le condizioni migliori per la Next Generation cui è indirizzato il Recovery Fund della Ue per provare a uscire dalla crisi post pandemia da Covid19 e dalla recessione conseguente.
Scuola come luogo essenziale di studio e apprendimento, di costruzione della conoscenza, di radicamento nella coscienza degli studenti, fin dalle prime classi delle elementari, dei valori e delle regole della cittadinanza responsabile e del senso di appartenenza attiva a una comunità, locale e nazionale e, alzando lo sguardo i all’orizzonte, anche europea.
Scuola, appunto, da vivere essa stessa, nel microcosmo dello spazio di formazione, come comunità animata da soggetti diversi, con un’attenzione speciale per le ragazze e i ragazzi che studiano e certo non come luogo di prevalenza di interessi di corporazioni molto sindacalizzate (i docenti, il personale amministrativo).

Scuola, ancora, come territorio didattico in cui “imparare a imparare”, proprio nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” in rapida e radicale mutazione e in cui i saperi umanistici e scientifici sono valori e strumenti necessari per rafforzare le basi della convivenza civile e dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.
Ma come sta la scuola italiana? Uno studio recente della Fondazione Agnelli (“Il Sole24Ore”, 22 settembre) documenta come si spendano male le risorse pubbliche, soprattutto all’università e quanto dunque ci sia da lavorare per essere all’altezza delle sfide che vengono dagli altri paesi della Ue e, più in generale, dell’Ocse.
Per ogni singolo studente, dai 6 ai 15 anni, l’Italia investe circa 75mila euro, collocandosi, a parità di potere d’acquisto, sopra la media Ue. Spendiamo troppo poco, invece, per l’università, lo 0,3% del Pil. Il che, dal punto di vista statistico, porta al dato secondo cui, per la formazione, in termini aggregati (dalle elementari all’università) l’Italia impieghi il 4,3% del Pil di fronte a una media europea del 4,9%. Pochi investimenti, pochi laureati, in sintesi.
Guardando meglio i dati pubblicati dalla Fondazione Agnelli, vediamo che in Italia, calcolando il calo demografico, si perdono il 12,8% di alunni in dieci anni (dal 2020 al 2030), mentre il personale della scuola è già aumentato del 20% nell’ultimo decennio (il che spiega l’elevato livello di spesa). Per guardare un altro dato: quest’anno sono appena tornati in classe 7,272 milioni di ragazze e ragazzi. Erano 7,5 milioni nel ‘20/‘21: “In due anni persi 230mila studenti”, titola “IlSole24Ore” (12 settembre).

I dati, nel tempo, peggiorano. In questo ‘22 i nuovi nati, secondo l’Istat, saranno 385mila, il 14,5% in meno rispetto al ‘21. Camminiamo spediti, insomma, verso un vero e proprio “inverno demografico”, con un’Italia che invecchia e con un crescente squilibrio generazionale che incide su Pil, assistenza, previdenza, quantità e qualità della spesa pubblica per investimenti (“Nel 2050 crolla al 50% la quota degli italiani in età lavorativa”, calcola l’Istat). Con una ipoteca sulla sostenibilità economica e sociale del futuro.
Un quadro complesso, insomma. Che incide sull’attualità e il destino della scuola. Con una buona notizia: il rapporto tra studenti e docenti migliora (dal 10,9% dell’anno scolastico 2014/15 all’8,6% del ‘21/‘22) con effetti potenzialmente positivi sulla qualità dell’insegnamento, visto anche che il rapporto alunni per classe è passato dal 20,4 del ‘20/‘21 al 19,9 di quest’anno.
Ma anche con una cattiva notizia: tra i professori diminuiscono i docenti di ruolo e aumentano quelli a tempo determinato. E restano comunque bassi gli stipendi: le differenziazioni per merito restano in buona parte bloccate per pressioni sindacali egualitarie.

Commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: “In Italia, per la scuola, forse, più che spendere poco, si è speso male, alla luce dei risultati insoddisfacenti nelle scuole secondarie, nettamente inferiori alle medie europee e con enormi divari territoriali e sociali. E’ un campanello d’allarme per chi governa, A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del Pnrr”.
Ci sono ancora altri dati, su cui riflettere. Nel ‘21 il 41% della popolazione Ue tra i 24 e i 34 anni aveva almeno una laurea. Il 57%, guardando alla media Ocse. In Italia, appena il 28% (per non parlare dell’ancora più allarmante carenza di lauree Stem, in materie scientifiche, cioè).
Rilevante anche la “povertà educativa”: 13 milioni di persone fra i 25 e i 64 anni, il 39% della popolazione in quella fascia d’età, ha appena la licenza media inferiore.

Le conseguenze sia sul mercato del lavoro che sullo sviluppo, ma anche sulla consapevolezza generale della portata dei problemi politici e sociali e dunque sull’esercizio dei diritti o e dei doveri di cittadinanza attiva e responsabile sono evidente, note, drammaticamente crescenti.
Chiede dunque attenzione, la scuola. Da ripensare, riformare, ricostruire e rilanciare come funzione essenziale di sviluppo e di convivenza civile, di miglioramento della qualità della democrazia. Perché sviluppo e libertà democratiche, virtù repubblicane dei diritti e dei doveri, benessere e partecipazione si tengono insieme.

Torniamo a Calamandrei: “Trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può fare”.

“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della magistratura e della Corte Costituzionale”. Sono parole di Piero Calamandrei, uno dei più importanti padri costituenti della Repubblica. E vale la pena ricordarle ancora oggi, dopo una campagna elettorale in cui di scuola si è parlato pochissimo, nonostante il Pnrr – un vero e proprio vincolo politico-amministrativo della nuova legislatura – destini risorse quanto mai rilevanti ai temi dell’istruzione, cercando di costruire le condizioni migliori per la Next Generation cui è indirizzato il Recovery Fund della Ue per provare a uscire dalla crisi post pandemia da Covid19 e dalla recessione conseguente.
Scuola come luogo essenziale di studio e apprendimento, di costruzione della conoscenza, di radicamento nella coscienza degli studenti, fin dalle prime classi delle elementari, dei valori e delle regole della cittadinanza responsabile e del senso di appartenenza attiva a una comunità, locale e nazionale e, alzando lo sguardo i all’orizzonte, anche europea.
Scuola, appunto, da vivere essa stessa, nel microcosmo dello spazio di formazione, come comunità animata da soggetti diversi, con un’attenzione speciale per le ragazze e i ragazzi che studiano e certo non come luogo di prevalenza di interessi di corporazioni molto sindacalizzate (i docenti, il personale amministrativo).

Scuola, ancora, come territorio didattico in cui “imparare a imparare”, proprio nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” in rapida e radicale mutazione e in cui i saperi umanistici e scientifici sono valori e strumenti necessari per rafforzare le basi della convivenza civile e dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.
Ma come sta la scuola italiana? Uno studio recente della Fondazione Agnelli (“Il Sole24Ore”, 22 settembre) documenta come si spendano male le risorse pubbliche, soprattutto all’università e quanto dunque ci sia da lavorare per essere all’altezza delle sfide che vengono dagli altri paesi della Ue e, più in generale, dell’Ocse.
Per ogni singolo studente, dai 6 ai 15 anni, l’Italia investe circa 75mila euro, collocandosi, a parità di potere d’acquisto, sopra la media Ue. Spendiamo troppo poco, invece, per l’università, lo 0,3% del Pil. Il che, dal punto di vista statistico, porta al dato secondo cui, per la formazione, in termini aggregati (dalle elementari all’università) l’Italia impieghi il 4,3% del Pil di fronte a una media europea del 4,9%. Pochi investimenti, pochi laureati, in sintesi.
Guardando meglio i dati pubblicati dalla Fondazione Agnelli, vediamo che in Italia, calcolando il calo demografico, si perdono il 12,8% di alunni in dieci anni (dal 2020 al 2030), mentre il personale della scuola è già aumentato del 20% nell’ultimo decennio (il che spiega l’elevato livello di spesa). Per guardare un altro dato: quest’anno sono appena tornati in classe 7,272 milioni di ragazze e ragazzi. Erano 7,5 milioni nel ‘20/‘21: “In due anni persi 230mila studenti”, titola “IlSole24Ore” (12 settembre).

I dati, nel tempo, peggiorano. In questo ‘22 i nuovi nati, secondo l’Istat, saranno 385mila, il 14,5% in meno rispetto al ‘21. Camminiamo spediti, insomma, verso un vero e proprio “inverno demografico”, con un’Italia che invecchia e con un crescente squilibrio generazionale che incide su Pil, assistenza, previdenza, quantità e qualità della spesa pubblica per investimenti (“Nel 2050 crolla al 50% la quota degli italiani in età lavorativa”, calcola l’Istat). Con una ipoteca sulla sostenibilità economica e sociale del futuro.
Un quadro complesso, insomma. Che incide sull’attualità e il destino della scuola. Con una buona notizia: il rapporto tra studenti e docenti migliora (dal 10,9% dell’anno scolastico 2014/15 all’8,6% del ‘21/‘22) con effetti potenzialmente positivi sulla qualità dell’insegnamento, visto anche che il rapporto alunni per classe è passato dal 20,4 del ‘20/‘21 al 19,9 di quest’anno.
Ma anche con una cattiva notizia: tra i professori diminuiscono i docenti di ruolo e aumentano quelli a tempo determinato. E restano comunque bassi gli stipendi: le differenziazioni per merito restano in buona parte bloccate per pressioni sindacali egualitarie.

Commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: “In Italia, per la scuola, forse, più che spendere poco, si è speso male, alla luce dei risultati insoddisfacenti nelle scuole secondarie, nettamente inferiori alle medie europee e con enormi divari territoriali e sociali. E’ un campanello d’allarme per chi governa, A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del Pnrr”.
Ci sono ancora altri dati, su cui riflettere. Nel ‘21 il 41% della popolazione Ue tra i 24 e i 34 anni aveva almeno una laurea. Il 57%, guardando alla media Ocse. In Italia, appena il 28% (per non parlare dell’ancora più allarmante carenza di lauree Stem, in materie scientifiche, cioè).
Rilevante anche la “povertà educativa”: 13 milioni di persone fra i 25 e i 64 anni, il 39% della popolazione in quella fascia d’età, ha appena la licenza media inferiore.

Le conseguenze sia sul mercato del lavoro che sullo sviluppo, ma anche sulla consapevolezza generale della portata dei problemi politici e sociali e dunque sull’esercizio dei diritti o e dei doveri di cittadinanza attiva e responsabile sono evidente, note, drammaticamente crescenti.
Chiede dunque attenzione, la scuola. Da ripensare, riformare, ricostruire e rilanciare come funzione essenziale di sviluppo e di convivenza civile, di miglioramento della qualità della democrazia. Perché sviluppo e libertà democratiche, virtù repubblicane dei diritti e dei doveri, benessere e partecipazione si tengono insieme.

Torniamo a Calamandrei: “Trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può fare”.

Pirelli sull’Autostrada del Sole

È il 4 ottobre del 1964 quando viene inaugurata l’Autostrada del Sole che collega Milano a Napoli. Il progettista è Piero Puricelli, ingegnere e architetto che nel 1922 realizza anche il Circuito dell’Autodromo di Monza. La famosa A1 è la più lunga autostrada italiana ancora attiva, che corre lungo la Penisola per 760 chilometri attraversando Bologna, Firenze e Roma.

E la storia di Pirelli si intreccia così anche con l’Autostrada del Sole: siamo alla fine degli anni del boom economico, è un’Italia che cambia, cresce, viaggia. Cambiamo i consumi, i costumi e il progetto dell’Autostrada ne è un simbolo: è un’ampia striscia d’asfalto collega il Nord al Sud che attraversa la pianura padana e gli Appennini. Anticipa uno dei segni di quei tempi, il movimento. E Pirelli ne fa parte, è infatti tra le quattro società (FIAT, Agip e Italcementi) che compongono il consorzio aziendale SISI (Società Iniziative Strade Italiane) nato per seguire l’interesse comune legato alla viabilità automobilistica. Pirelli comunica e amplifica in quegli anni la visibilità di questo progetto nei materiali di comunicazione, in audiovisivi, nei servizi fotografici e articoli pubblicati sulla Rivista Pirelli.

Sfrecciano infatti sull’asfalto la Jaguar E type e il TIR con logo Pirelli, protagonisti del celebre documentario “La lepre e la tartaruga” realizzato nel 1966 dal futuro regista di “Momenti di Gloria”, Hugh Hudson, e ispirato alla famosa favola di La Fontaine. Il mediometraggio mostra con un montaggio alternato il viaggio sull’Autostrada del Sole da Napoli a Milano, di una giovane straniera a bordo dell’autosportiva e di un camionista italiano alla guida del TIR. È un racconto dell’Italia degli anni Sessanta fra tradizione e modernizzazione ed è vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali, dal Festival Internazionale del Film Industriale del 1966 alla Fiera Industriale di Mosca del 1968.

E ancora sull’Autostrada del Sole si fermano gli automobilisti che intraprendono questo lungo viaggio. Si concedono una pausa nelle aree di sosta che iniziano a comparire sulle strade e che punteggiano il paesaggio italiano che scorre dai finestrini.  E durante la pausa si può approfittare dei box Pirelli per il cambio gomme e per dare una controllata ai pneumatici prima di ripartire, perché la sicurezza, ora che c’è anche il CINTURATO Pirelli, viene prima di tutto.

Il progetto dell’Autostrada viene seguito anche sulla Rivista Pirelli: numerosi sono gli articoli firmati dall’ingegnere Guglielmo Zambrini, specializzato in questioni di mobilità, trasporti e territorio intorno alla Politica autostradale e Programmazione dell’epoca. Le immagini che scorrono sono quelle di alti viadotti che sfidano le regole della moderna ingegneria edile, l’idea di un’innovazione infrastrutturale che cambierà per sempre il modo di viaggiare degli italiani. Sono infatti gli anni del nuovo codice della strada e delle nuove segnaletiche che si basano sui modelli internazionali.

L’Autostrada è uno dei tanti esempi che dimostrano come Pirelli sia sempre stata promotrice della modernità, partecipando attivamente ai cambiamenti del Paese e facendo riscoprire agli italiani un nuovo modo di conoscere e scoprire l’Italia.

È il 4 ottobre del 1964 quando viene inaugurata l’Autostrada del Sole che collega Milano a Napoli. Il progettista è Piero Puricelli, ingegnere e architetto che nel 1922 realizza anche il Circuito dell’Autodromo di Monza. La famosa A1 è la più lunga autostrada italiana ancora attiva, che corre lungo la Penisola per 760 chilometri attraversando Bologna, Firenze e Roma.

E la storia di Pirelli si intreccia così anche con l’Autostrada del Sole: siamo alla fine degli anni del boom economico, è un’Italia che cambia, cresce, viaggia. Cambiamo i consumi, i costumi e il progetto dell’Autostrada ne è un simbolo: è un’ampia striscia d’asfalto collega il Nord al Sud che attraversa la pianura padana e gli Appennini. Anticipa uno dei segni di quei tempi, il movimento. E Pirelli ne fa parte, è infatti tra le quattro società (FIAT, Agip e Italcementi) che compongono il consorzio aziendale SISI (Società Iniziative Strade Italiane) nato per seguire l’interesse comune legato alla viabilità automobilistica. Pirelli comunica e amplifica in quegli anni la visibilità di questo progetto nei materiali di comunicazione, in audiovisivi, nei servizi fotografici e articoli pubblicati sulla Rivista Pirelli.

Sfrecciano infatti sull’asfalto la Jaguar E type e il TIR con logo Pirelli, protagonisti del celebre documentario “La lepre e la tartaruga” realizzato nel 1966 dal futuro regista di “Momenti di Gloria”, Hugh Hudson, e ispirato alla famosa favola di La Fontaine. Il mediometraggio mostra con un montaggio alternato il viaggio sull’Autostrada del Sole da Napoli a Milano, di una giovane straniera a bordo dell’autosportiva e di un camionista italiano alla guida del TIR. È un racconto dell’Italia degli anni Sessanta fra tradizione e modernizzazione ed è vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali, dal Festival Internazionale del Film Industriale del 1966 alla Fiera Industriale di Mosca del 1968.

E ancora sull’Autostrada del Sole si fermano gli automobilisti che intraprendono questo lungo viaggio. Si concedono una pausa nelle aree di sosta che iniziano a comparire sulle strade e che punteggiano il paesaggio italiano che scorre dai finestrini.  E durante la pausa si può approfittare dei box Pirelli per il cambio gomme e per dare una controllata ai pneumatici prima di ripartire, perché la sicurezza, ora che c’è anche il CINTURATO Pirelli, viene prima di tutto.

Il progetto dell’Autostrada viene seguito anche sulla Rivista Pirelli: numerosi sono gli articoli firmati dall’ingegnere Guglielmo Zambrini, specializzato in questioni di mobilità, trasporti e territorio intorno alla Politica autostradale e Programmazione dell’epoca. Le immagini che scorrono sono quelle di alti viadotti che sfidano le regole della moderna ingegneria edile, l’idea di un’innovazione infrastrutturale che cambierà per sempre il modo di viaggiare degli italiani. Sono infatti gli anni del nuovo codice della strada e delle nuove segnaletiche che si basano sui modelli internazionali.

L’Autostrada è uno dei tanti esempi che dimostrano come Pirelli sia sempre stata promotrice della modernità, partecipando attivamente ai cambiamenti del Paese e facendo riscoprire agli italiani un nuovo modo di conoscere e scoprire l’Italia.

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Novità dall’Archivio Storico online: le immagini del welfare aziendale Pirelli dal secondo dopoguerra ai primi anni Settanta

“Entrare oggi nelle vaste e linde sale della Bicocca destinate alle mense e visitare gli annessi servizi; prendere conoscenza dell’organizzazione di spacci e mense; rendersi edotti del funzionamento del servizio medico e delle infermerie dalle moderne attrezzature; visitare gli asili, le case di cura, i laboratori di apprendistato e via dicendo; tutto ciò è cagione di grande compiacimento per il cammino già percorso ed anche di sprone a fare sempre di più.”

Con queste parole Alberto Pirelli ripercorre nel 1946 nel suo libro “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale” i risultati raggiunti dall’azienda nelle iniziative che oggi definiremmo di “welfare aziendale”, alle quali sin dai primissimi tempi il padre e fondatore Giovanni Battista si era dedicato. Pochi anni dopo la fondazione della società, Pirelli comprende infatti l’importanza di investire su forme di previdenza e assistenza sociale e avvia iniziative all’avanguardia come l’istituzione, nel 1877, di una “Cassa sociale” che elargisce sussidi in caso di malattia – uno dei primi esempi di intervento a sostegno dei lavoratori introdotti da una grande azienda – o l’istituzione del Servizio di Assistenza Sanitaria nel 1926 in favore dei dipendenti e dei loro familiari, che fornisce consulenze specialistiche, esami di laboratorio, cure domiciliari e notevoli facilitazioni per il ricovero in ospedali e in case di salute. Con il crescere dell’azienda, si intensificano le attività assistenziali in favore dei lavoratori, che vanno a coprire non solo la sfera della salute ma anche quella della famiglia, del tempo libero e dello sport.

Sono da oggi disponibili nell’Archivio Storico online nuovi materiali, del periodo dal secondo dopoguerra ai primi anni Settanta del Novecento, che documentano queste attività: si tratta di numerose fotografie dell’archivio della Direzione Propaganda Pirelli, utilizzate principalmente per illustrare le iniziative di welfare ai dipendenti o al più largo pubblico tramite le riviste aziendali. Le fotografie riguardano ad esempio il servizio mensa dello stabilimento Bicocca: quella per gli operai, fotografata dopo i lavori di ammodernamento condotti nel 1955, e la mensa impiegati disegnata dall’architetto Giulio Minoletti e dall’ingegner Giuseppe Chiodi, con le fasi della costruzione, gli interni modernissimi, la sala ristorante con i suoi 770 posti. E poi le iniziative a sostegno della famiglia, dalla cura per i figli (con asili, doposcuola e colonie – prima fra tutte la colonia di Pietra Ligure, inaugurata nel 1947 – e con l’Istituto Piero Pirelli, inaugurato nel 1958 come centro di formazione professionale per i figli dei dipendenti) fino alla cura per gli anziani, con la casa di riposo di Induno Olona, in provincia di Varese. Le immagini documentano anche le iniziative attivate dall’azienda nell’ambito dell’assistenza sanitaria, con l’ambulatorio ma anche con il laboratorio di psicotecnica, creato nel 1935, per eseguire test ed esami per la selezione del personale e la prevenzione degli infortuni. E ancora: gli alloggi per i dipendenti, con la creazione del villaggio di Cinisello Balsamo realizzato nel 1953 nell’ambito del piano di costruzioni dell’INA-Casa.

Un ampio capitolo della documentazione fotografica riguarda le attività del Gruppo Sportivo Pirelli, istituito nel 1922 con lo scopo di diffondere lo sport tra i lavoratori e le loro famiglie e che negli anni Settanta arriva ad articolarsi in 18 sezioni dedicate ad altrettante discipline sportive, con oltre 2.500 iscritti che si allenano negli impianti sportivi di fronte alla fabbrica. Le fotografie sono firmate da alcuni grandi nomi, come Vincenzo Aragozzini, Aldo Ballo, Ugo Mulas, Enzo Nocera.

Tornando alle parole di Alberto Pirelli: “Siamo dunque nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine ed agli sviluppi dell’impresa, ed abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”.

“Entrare oggi nelle vaste e linde sale della Bicocca destinate alle mense e visitare gli annessi servizi; prendere conoscenza dell’organizzazione di spacci e mense; rendersi edotti del funzionamento del servizio medico e delle infermerie dalle moderne attrezzature; visitare gli asili, le case di cura, i laboratori di apprendistato e via dicendo; tutto ciò è cagione di grande compiacimento per il cammino già percorso ed anche di sprone a fare sempre di più.”

Con queste parole Alberto Pirelli ripercorre nel 1946 nel suo libro “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale” i risultati raggiunti dall’azienda nelle iniziative che oggi definiremmo di “welfare aziendale”, alle quali sin dai primissimi tempi il padre e fondatore Giovanni Battista si era dedicato. Pochi anni dopo la fondazione della società, Pirelli comprende infatti l’importanza di investire su forme di previdenza e assistenza sociale e avvia iniziative all’avanguardia come l’istituzione, nel 1877, di una “Cassa sociale” che elargisce sussidi in caso di malattia – uno dei primi esempi di intervento a sostegno dei lavoratori introdotti da una grande azienda – o l’istituzione del Servizio di Assistenza Sanitaria nel 1926 in favore dei dipendenti e dei loro familiari, che fornisce consulenze specialistiche, esami di laboratorio, cure domiciliari e notevoli facilitazioni per il ricovero in ospedali e in case di salute. Con il crescere dell’azienda, si intensificano le attività assistenziali in favore dei lavoratori, che vanno a coprire non solo la sfera della salute ma anche quella della famiglia, del tempo libero e dello sport.

Sono da oggi disponibili nell’Archivio Storico online nuovi materiali, del periodo dal secondo dopoguerra ai primi anni Settanta del Novecento, che documentano queste attività: si tratta di numerose fotografie dell’archivio della Direzione Propaganda Pirelli, utilizzate principalmente per illustrare le iniziative di welfare ai dipendenti o al più largo pubblico tramite le riviste aziendali. Le fotografie riguardano ad esempio il servizio mensa dello stabilimento Bicocca: quella per gli operai, fotografata dopo i lavori di ammodernamento condotti nel 1955, e la mensa impiegati disegnata dall’architetto Giulio Minoletti e dall’ingegner Giuseppe Chiodi, con le fasi della costruzione, gli interni modernissimi, la sala ristorante con i suoi 770 posti. E poi le iniziative a sostegno della famiglia, dalla cura per i figli (con asili, doposcuola e colonie – prima fra tutte la colonia di Pietra Ligure, inaugurata nel 1947 – e con l’Istituto Piero Pirelli, inaugurato nel 1958 come centro di formazione professionale per i figli dei dipendenti) fino alla cura per gli anziani, con la casa di riposo di Induno Olona, in provincia di Varese. Le immagini documentano anche le iniziative attivate dall’azienda nell’ambito dell’assistenza sanitaria, con l’ambulatorio ma anche con il laboratorio di psicotecnica, creato nel 1935, per eseguire test ed esami per la selezione del personale e la prevenzione degli infortuni. E ancora: gli alloggi per i dipendenti, con la creazione del villaggio di Cinisello Balsamo realizzato nel 1953 nell’ambito del piano di costruzioni dell’INA-Casa.

Un ampio capitolo della documentazione fotografica riguarda le attività del Gruppo Sportivo Pirelli, istituito nel 1922 con lo scopo di diffondere lo sport tra i lavoratori e le loro famiglie e che negli anni Settanta arriva ad articolarsi in 18 sezioni dedicate ad altrettante discipline sportive, con oltre 2.500 iscritti che si allenano negli impianti sportivi di fronte alla fabbrica. Le fotografie sono firmate da alcuni grandi nomi, come Vincenzo Aragozzini, Aldo Ballo, Ugo Mulas, Enzo Nocera.

Tornando alle parole di Alberto Pirelli: “Siamo dunque nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine ed agli sviluppi dell’impresa, ed abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”.

Rileggere l’articolo 9 della Costituzione su cultura, scienza e ambiente per fare dell’Italia il centro d’un nuovo Bauhaus

Rileggere l’articolo 9 della Costituzione, per ragionare sulle strategie e sulla qualità dello sviluppo economico e sociale del nostro Paese. E riflettere sull’attualità dell’impegno formale e solenne secondo cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Un impegno aggiornato, di recente, nel febbraio di quest’anno, aggiungendo che “la Repubblica tutela l’ambiente e l’ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Delle valenze tradizionali e rinnovate dell’articolo 9 si è sentita chiara l’eco durante la presentazione del Rapporto “Io sono cultura 2022 – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, curato da Symbola e Unioncamere e discusso al MAXXI di Roma, ragionando sul valore economico del sistema produttivo culturale e creativo (88,6 miliardi, con capacità di attivazione di 252 miliardi e con 1,5 milioni di occupati) e sull’importanza dei processi e dei prodotti culturali per la competitività e la crescita delle imprese italiane sui mercati internazionali. Stimolando anche la crescita della qualità e dell’efficienza delle imprese culturali e creative.

La strategia di fondo è impegnativa: fare dell’Italia, come sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola, “la protagonista della nuovo Bauhaus fortemente voluto dalla Commissione Ue, per rinsaldare i legami tra il mondo della cultura e della creatività e i mondi della produzione, della scienza e della tecnologia, orientandoli alla transizione ecologica indicata dal Next Generation Ue”

Ecco l’importanza della rilettura dell’articolo 9 della Costituzione. Perché? Per capire meglio, vale la pena fare un passo indietro nella storia.

Quell’articolo sta tra i dodici “Principi fondamentali”. Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, nel 1946- ‘47, vi avevano dedicato profonda e competente attenzione Concetto Marchesi, uno dei maggiori latinisti del Novecento, comunista e Costantino Mortati, costituzionalista di grande competenza (sui suoi libri si sono formate generazioni di giuristi sino alla fine degli anni Sessanta), democristiano e il giovane, brillantissimo Aldo Moro. E al termine di un lungo e travagliato dibattito, si era arrivati a una formulazione originale, che non si ritrova in altre costituzioni novecentesche ma fa rivivere comunque i temi culturali, estetici ed etici della carta della Repubblica di Weimar (per cercare di saperne e capirne di più si può riprendere in mano il libro pubblicato nel 2018 da Carocci e curato da Tomaso Montanari nell’interessante collana dedicata appunto ai “Principi fondamentali” costituzionali).

È una formulazione che tiene insieme cultura umanistica e scienza, bellezza e tecnologia, patrimonio storico e artistico e, appunto, paesaggio: una vera e propria “cultura politecnica”. E apre la strada per una serie di augurabili scelte politiche in chiave di sviluppo sostenibile e di attuazione dei principi ESG (enviromental, social e governance), secondo le indicazioni dell’Accordo di Parigi del 2015 per affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici.

L’articolo 9, appunto per queste caratteristiche, nel corso del tempo ha acquisito una crescente attualità (nonostante la drammatica incuria dell’ambiente e del paesaggio, di cui continuiamo a subire le drammatiche conseguenze). E proprio oggi, con la nuova formulazione e nel contesto di una maggiore sensibilità internazionale, rilancia la sua forza normativa e programmatica, adatto com’è alla nuova stagione della “economia della conoscenza”, della sostenibilità ambientale e sociali, della doppia transizione green e digital su cui rilanciare la collaborazione tra istituzioni pubbliche, imprese private e strutture del “terzo settore”.

Le imprese italiane sono strette tra fratture e incertezze vecchie (la stagnante produttività di sistema solo in parte compensata dalla produttività della manifattura di qualità, le crescenti carenze politiche e amministrative, l’“inverno demografico” che incide negativamente sul PIL, la bassa scolarità generale sino al numero dei laureati nettamente al di sotto delle necessità del paese e dei confronti con gli altri paesi UE) e nuove (la crisi energetica, l’inflazione, le ombre di recessione legate alla guerra in Ucraina e alle tensioni geopolitiche). Esprimono grandi preoccupazioni per il futuro. Eppure, come in tutte le crisi precedenti (dalla Grande Crisi finanziaria del 2008 alla pandemia da Covid19), sanno di poter contare sulla straordinaria capacità adattativa della propria intraprendenza, su una flessibilità innovativa che investe processi e prodotti, su una resilienza che non è ripiegamento assistenziale e protezionistico ma forza di rapido ed efficace adattamento alle mutate condizioni di mercato.

Il radicamento in territori ricchi di conoscenze legate al “fare, e fare bene”, la “cultura politecnica” del design e della qualità, la vocazione internazionale, la capacità di coinvolgimento produttivo delle persone legate all’idea dell’impresa come comunità responsabile sono valori forti, proprio in tempi di transizione e di nuove sfide. E le capacità di concepire l’ambiente e la cultura come risorse, la bellezza come indicazione di qualità, la storia come riferimento di futuro sono connotazioni su cui fare affidamento.

Le politiche industriali nazionali ed europee per Industria 4.0 hanno agevolato questo processo di innovazione e competitività. E si spera che adesso il governo che verrà continui su questa strada, nell’interesse italiano nel contesto UE.

La sostenibilità ambientale e sociale è vissuta dalle imprese non come vincolo, ma come asset di competitività, con primati di livello europeo. La ricerca scientifica applicata rafforza la produttività di distretti, reti, filiere produttive, supply chain. L’impegno delle fondazioni che innervano i territori stimola, con l’apertura degli ITS (Istituti tecnici superiori), i processi formativi in linea con le esigenze delle imprese.

Questo quadro di riferimento – si è detto durante il dibattito su “Io sono cultura” – stimola le imprese a investire sulle attività culturali, non tanto in termini di mecenatismo (sempre comunque benvenuto) quanto soprattutto nella considerazione della cultura come strumento produttivo, elemento distintivo di prodotti e servizi, insistendo su una vera e propria “cultura politecnica del made in Italy” fondata su bellezza e qualità, design, scienza, tecnologia e funzionalità. Una cultura che connota meccanica e meccatronica, automotive e chimica, aerospazio e cantieristica navale, oltre che i settori tradizionali (arredamento, agroindustria, abbigliamento).

Il saper fare è essenziale. Ma non basta. Serve una svolta anche nel saper raccontare. Produrre. E rappresentare. Costruire un nuovo racconto dell’Italia manifatturiera e produttiva. E stimolare, proprio riprendendo in mano le indicazioni strategiche dell’articolo 9 della Costituzione, una nuova e profonda valorizzazione delle qualità del sistema Paese. Ricordando che “l’Italia deve fare bene l’Italia”, come ama dire Symbola. E dando corpo a quella straordinaria idea del “patriottismo dolce” che aveva connotato la presidenza della Repubblica sotto la guida di Carlo Azeglio Ciampi, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Rileggere l’articolo 9 della Costituzione, per ragionare sulle strategie e sulla qualità dello sviluppo economico e sociale del nostro Paese. E riflettere sull’attualità dell’impegno formale e solenne secondo cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Un impegno aggiornato, di recente, nel febbraio di quest’anno, aggiungendo che “la Repubblica tutela l’ambiente e l’ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Delle valenze tradizionali e rinnovate dell’articolo 9 si è sentita chiara l’eco durante la presentazione del Rapporto “Io sono cultura 2022 – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, curato da Symbola e Unioncamere e discusso al MAXXI di Roma, ragionando sul valore economico del sistema produttivo culturale e creativo (88,6 miliardi, con capacità di attivazione di 252 miliardi e con 1,5 milioni di occupati) e sull’importanza dei processi e dei prodotti culturali per la competitività e la crescita delle imprese italiane sui mercati internazionali. Stimolando anche la crescita della qualità e dell’efficienza delle imprese culturali e creative.

La strategia di fondo è impegnativa: fare dell’Italia, come sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola, “la protagonista della nuovo Bauhaus fortemente voluto dalla Commissione Ue, per rinsaldare i legami tra il mondo della cultura e della creatività e i mondi della produzione, della scienza e della tecnologia, orientandoli alla transizione ecologica indicata dal Next Generation Ue”

Ecco l’importanza della rilettura dell’articolo 9 della Costituzione. Perché? Per capire meglio, vale la pena fare un passo indietro nella storia.

Quell’articolo sta tra i dodici “Principi fondamentali”. Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, nel 1946- ‘47, vi avevano dedicato profonda e competente attenzione Concetto Marchesi, uno dei maggiori latinisti del Novecento, comunista e Costantino Mortati, costituzionalista di grande competenza (sui suoi libri si sono formate generazioni di giuristi sino alla fine degli anni Sessanta), democristiano e il giovane, brillantissimo Aldo Moro. E al termine di un lungo e travagliato dibattito, si era arrivati a una formulazione originale, che non si ritrova in altre costituzioni novecentesche ma fa rivivere comunque i temi culturali, estetici ed etici della carta della Repubblica di Weimar (per cercare di saperne e capirne di più si può riprendere in mano il libro pubblicato nel 2018 da Carocci e curato da Tomaso Montanari nell’interessante collana dedicata appunto ai “Principi fondamentali” costituzionali).

È una formulazione che tiene insieme cultura umanistica e scienza, bellezza e tecnologia, patrimonio storico e artistico e, appunto, paesaggio: una vera e propria “cultura politecnica”. E apre la strada per una serie di augurabili scelte politiche in chiave di sviluppo sostenibile e di attuazione dei principi ESG (enviromental, social e governance), secondo le indicazioni dell’Accordo di Parigi del 2015 per affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici.

L’articolo 9, appunto per queste caratteristiche, nel corso del tempo ha acquisito una crescente attualità (nonostante la drammatica incuria dell’ambiente e del paesaggio, di cui continuiamo a subire le drammatiche conseguenze). E proprio oggi, con la nuova formulazione e nel contesto di una maggiore sensibilità internazionale, rilancia la sua forza normativa e programmatica, adatto com’è alla nuova stagione della “economia della conoscenza”, della sostenibilità ambientale e sociali, della doppia transizione green e digital su cui rilanciare la collaborazione tra istituzioni pubbliche, imprese private e strutture del “terzo settore”.

Le imprese italiane sono strette tra fratture e incertezze vecchie (la stagnante produttività di sistema solo in parte compensata dalla produttività della manifattura di qualità, le crescenti carenze politiche e amministrative, l’“inverno demografico” che incide negativamente sul PIL, la bassa scolarità generale sino al numero dei laureati nettamente al di sotto delle necessità del paese e dei confronti con gli altri paesi UE) e nuove (la crisi energetica, l’inflazione, le ombre di recessione legate alla guerra in Ucraina e alle tensioni geopolitiche). Esprimono grandi preoccupazioni per il futuro. Eppure, come in tutte le crisi precedenti (dalla Grande Crisi finanziaria del 2008 alla pandemia da Covid19), sanno di poter contare sulla straordinaria capacità adattativa della propria intraprendenza, su una flessibilità innovativa che investe processi e prodotti, su una resilienza che non è ripiegamento assistenziale e protezionistico ma forza di rapido ed efficace adattamento alle mutate condizioni di mercato.

Il radicamento in territori ricchi di conoscenze legate al “fare, e fare bene”, la “cultura politecnica” del design e della qualità, la vocazione internazionale, la capacità di coinvolgimento produttivo delle persone legate all’idea dell’impresa come comunità responsabile sono valori forti, proprio in tempi di transizione e di nuove sfide. E le capacità di concepire l’ambiente e la cultura come risorse, la bellezza come indicazione di qualità, la storia come riferimento di futuro sono connotazioni su cui fare affidamento.

Le politiche industriali nazionali ed europee per Industria 4.0 hanno agevolato questo processo di innovazione e competitività. E si spera che adesso il governo che verrà continui su questa strada, nell’interesse italiano nel contesto UE.

La sostenibilità ambientale e sociale è vissuta dalle imprese non come vincolo, ma come asset di competitività, con primati di livello europeo. La ricerca scientifica applicata rafforza la produttività di distretti, reti, filiere produttive, supply chain. L’impegno delle fondazioni che innervano i territori stimola, con l’apertura degli ITS (Istituti tecnici superiori), i processi formativi in linea con le esigenze delle imprese.

Questo quadro di riferimento – si è detto durante il dibattito su “Io sono cultura” – stimola le imprese a investire sulle attività culturali, non tanto in termini di mecenatismo (sempre comunque benvenuto) quanto soprattutto nella considerazione della cultura come strumento produttivo, elemento distintivo di prodotti e servizi, insistendo su una vera e propria “cultura politecnica del made in Italy” fondata su bellezza e qualità, design, scienza, tecnologia e funzionalità. Una cultura che connota meccanica e meccatronica, automotive e chimica, aerospazio e cantieristica navale, oltre che i settori tradizionali (arredamento, agroindustria, abbigliamento).

Il saper fare è essenziale. Ma non basta. Serve una svolta anche nel saper raccontare. Produrre. E rappresentare. Costruire un nuovo racconto dell’Italia manifatturiera e produttiva. E stimolare, proprio riprendendo in mano le indicazioni strategiche dell’articolo 9 della Costituzione, una nuova e profonda valorizzazione delle qualità del sistema Paese. Ricordando che “l’Italia deve fare bene l’Italia”, come ama dire Symbola. E dando corpo a quella straordinaria idea del “patriottismo dolce” che aveva connotato la presidenza della Repubblica sotto la guida di Carlo Azeglio Ciampi, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Azienda e impresa “sociale”

Una ricerca elaborata nell’ambito dell’Università di Parma mette a punto l’attuale schema di ragionamento della buona cultura d’impresa

 

Aziende e imprese come elementi non solo economici, organizzazioni responsabili nei confronti del sistema sociale, oltre che economico, nel quale esistono ed operano. Temi oggi pressoché acquisiti dalla gran parte della letteratura e degli approcci gestionali d’impresa, ma mai comunque scontati oppure sufficientemente approfonditi. Da qui l’utilità dello studio di Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello e Arianna Lazzini dell’Università di Parma che indaga attorno alla “Creazione e condivisione di valore una prospettiva economico-sociale” da parte, appunto, delle aziende.

Il ragionamento delle tre ricercatrici parte dalla considerazione che le aziende possono e devono essere osservabili come “sistemi sociali aperti, ossia rappresentabili in forma di modelli in cui sono definiti gli elementi tra loro legati da relazioni di interdipendenza”. Balluchi, Iacoviello e Lazzini, poi, proseguono spiegando che “sarebbe, forse, più appropriato sostenere che le aziende sono osservabili e rappresentabili come sistemi ovvero come combinazioni di sottosistemi, presi in esame dagli studiosi, letti e interpretati secondo prospettive diverse e con scopi conoscitivi diversi”. Ma, viene sottolineato nella ricerca, per comprendere bene l’agire aziendale occorre chiedersi quale sia il vero obiettivo dell’azienda stessa. Partendo sempre dalla constatazione di aver davanti “sistemi aperti che interagiscono con il loro ambiente” e che creano o mantengono con l’ambiente stesso “un processo di scambio” . Azienda, quindi, come “sistema aperto,” che “offre beni e servizi atti a soddisfare bisogni umani, ed è centro di attrazione di lavoro e capitale” . Non solo profitto, quindi ma anche altro. In definitiva, è la conclusione di Balluchi, Iacoviello e Lazzini “ciò che compie l’azienda non riguarda solo sé stessa: di fatto, l’azienda svolge una funzione sociale in quanto nasce per soddisfare i bisogni umani e in quanto è composta da persone al proprio interno e collegata con altre, e con entità, formazioni riconducibili a persone”.

Si legge nelle conclusioni dell’indagine: “La sfida per le aziende si svolge, oggi, su un piano differente rispetto al passato quando la dimensione preponderante dell’equilibrio economico era la redditività e un spesso orientamento limitato al breve periodo. Ciò che sembra essere cambiato, non sono certo le determinanti dell’equilibrio economico, ma il peso che la società nel suo complesso, e dunque le aziende medesime, attribuiscono ad esse. Le dimensioni sviluppo (sostenibile) e consenso sociale giocano oggi un ruolo primario, rappresentando le variabili determinanti nell’innescare processi virtuosi volti ad alimentare e incrementare la redditività. Tale cambiamento permea l’intera azienda travolgendo (…), tutte le aree aziendali dalla comunicazione, interna ed esterna, al controllo stimolando l’emergere di sistemi di governance economico-sociale”.

Lo studio di  Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello e Arianna Lazzini non aggiunge nulla di particolarmente nuovo alla moderna interpretazione dell’agire d’impresa, ma ha il grande merito di dare un’organizzazione sistematica e comprensibile all’insieme di ragionamenti che sostiene, oggi, la buona cultura d’impresa.

Creazione e condivisione di valore una prospettiva economico-sociale

Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello, Arianna Lazzini

in “Studi in onore di Luciano Marchi”, Giappichelli, 2021

 

Una ricerca elaborata nell’ambito dell’Università di Parma mette a punto l’attuale schema di ragionamento della buona cultura d’impresa

 

Aziende e imprese come elementi non solo economici, organizzazioni responsabili nei confronti del sistema sociale, oltre che economico, nel quale esistono ed operano. Temi oggi pressoché acquisiti dalla gran parte della letteratura e degli approcci gestionali d’impresa, ma mai comunque scontati oppure sufficientemente approfonditi. Da qui l’utilità dello studio di Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello e Arianna Lazzini dell’Università di Parma che indaga attorno alla “Creazione e condivisione di valore una prospettiva economico-sociale” da parte, appunto, delle aziende.

Il ragionamento delle tre ricercatrici parte dalla considerazione che le aziende possono e devono essere osservabili come “sistemi sociali aperti, ossia rappresentabili in forma di modelli in cui sono definiti gli elementi tra loro legati da relazioni di interdipendenza”. Balluchi, Iacoviello e Lazzini, poi, proseguono spiegando che “sarebbe, forse, più appropriato sostenere che le aziende sono osservabili e rappresentabili come sistemi ovvero come combinazioni di sottosistemi, presi in esame dagli studiosi, letti e interpretati secondo prospettive diverse e con scopi conoscitivi diversi”. Ma, viene sottolineato nella ricerca, per comprendere bene l’agire aziendale occorre chiedersi quale sia il vero obiettivo dell’azienda stessa. Partendo sempre dalla constatazione di aver davanti “sistemi aperti che interagiscono con il loro ambiente” e che creano o mantengono con l’ambiente stesso “un processo di scambio” . Azienda, quindi, come “sistema aperto,” che “offre beni e servizi atti a soddisfare bisogni umani, ed è centro di attrazione di lavoro e capitale” . Non solo profitto, quindi ma anche altro. In definitiva, è la conclusione di Balluchi, Iacoviello e Lazzini “ciò che compie l’azienda non riguarda solo sé stessa: di fatto, l’azienda svolge una funzione sociale in quanto nasce per soddisfare i bisogni umani e in quanto è composta da persone al proprio interno e collegata con altre, e con entità, formazioni riconducibili a persone”.

Si legge nelle conclusioni dell’indagine: “La sfida per le aziende si svolge, oggi, su un piano differente rispetto al passato quando la dimensione preponderante dell’equilibrio economico era la redditività e un spesso orientamento limitato al breve periodo. Ciò che sembra essere cambiato, non sono certo le determinanti dell’equilibrio economico, ma il peso che la società nel suo complesso, e dunque le aziende medesime, attribuiscono ad esse. Le dimensioni sviluppo (sostenibile) e consenso sociale giocano oggi un ruolo primario, rappresentando le variabili determinanti nell’innescare processi virtuosi volti ad alimentare e incrementare la redditività. Tale cambiamento permea l’intera azienda travolgendo (…), tutte le aree aziendali dalla comunicazione, interna ed esterna, al controllo stimolando l’emergere di sistemi di governance economico-sociale”.

Lo studio di  Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello e Arianna Lazzini non aggiunge nulla di particolarmente nuovo alla moderna interpretazione dell’agire d’impresa, ma ha il grande merito di dare un’organizzazione sistematica e comprensibile all’insieme di ragionamenti che sostiene, oggi, la buona cultura d’impresa.

Creazione e condivisione di valore una prospettiva economico-sociale

Federica Balluchi, Giuseppina Iacoviello, Arianna Lazzini

in “Studi in onore di Luciano Marchi”, Giappichelli, 2021

 

Avere ben “conposta” mente

Il libro di un mercante del Quattrocento ripropone temi e profili dell’impresa validi ancora oggi

Il mercante deve essere homo di ben conposta mente, integro et saldo, extimando in grande dignità la sua parola et in suma integrità la sua promessa (…). Indicazioni scritte nel 1458 che, a ben vedere, valgono tutte ancora oggi. Modernissime. “Mercante”, cioè uomo d’affari, imprenditore “integro et saldo”, cinquecento anni fa come oggi. Indicazione limpida e chiara che arriva da Benedetto Cotrugli e dal suo “Libro dell’arte di mercatura” appena riscoperto e rieditato a cura dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Cotrugli è considerato da alcuni il fondatore delle discipline economico-aziendali: mercante e umanista rinascimentale, con il suo libro ha tracciato una strada per poi essere dimenticato per secoli. Eppure questo libro rappresenta, con ragione, uno dei contributi fondamentali per la comprensione delle origini del management e delle pratiche commerciali moderne, un testo che, tra l’altro, anticipa di oltre cinquecento anni molti dei princìpi del cosiddetto umanesimo imprenditoriale e della responsabilità sociale.

Oggi il racconto “dell’arte della mercatura” viene riproposto nel testo originale (l’italiano antico) con accanto la versione in italiano contemporaneo. Preceduto da due saggi che ne illustrano contenuto, importanza e significato, il libro di Cotrugli inizia con l’illustrazione dell’origine e delle caratteristiche della “mercatura” (cioè dell’attività economica così come la si intendeva circa cinquecento anni fa), per passare poi alla religione che si confà al buon mercate e quindi alla “vita civile” che il mercante deve seguire per arrivare alle “virtù economiche” dello stesso quando voglia dirsi davvero tale e corretto.

Capitoli densi quelli di Cotrugli, pieni di economia ma anche di politica, dirittura morale, regole per il saper vivere in società e per saper porre la giusta attenzione verso gli altri (quella che oggi passa come responsabilità sociale d’impresa). Lungo il testo si rincorrono così termini importante anche per la buona impresa moderna come prudenza, integrità, diligenza, giustizia, costanza, autorità, temperanza e molti altri ancora.

Lettura certo non sempre facile quella di Cotrugli, ma lettura da provare a fare, con impegno e attenzione, anche (e soprattutto) oggi, in un momento storico complesso e difficile come quello che non solo il sistema delle imprese sta vivendo. Per non dimenticare la validità dell’indicazione dello stesso autore: avere ben conposta mente.

Il libro dell’arte di mercatura

Benedetto Cotrugli

a cura di AA.VV., Guerini NEXT, 2022

Il libro di un mercante del Quattrocento ripropone temi e profili dell’impresa validi ancora oggi

Il mercante deve essere homo di ben conposta mente, integro et saldo, extimando in grande dignità la sua parola et in suma integrità la sua promessa (…). Indicazioni scritte nel 1458 che, a ben vedere, valgono tutte ancora oggi. Modernissime. “Mercante”, cioè uomo d’affari, imprenditore “integro et saldo”, cinquecento anni fa come oggi. Indicazione limpida e chiara che arriva da Benedetto Cotrugli e dal suo “Libro dell’arte di mercatura” appena riscoperto e rieditato a cura dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Cotrugli è considerato da alcuni il fondatore delle discipline economico-aziendali: mercante e umanista rinascimentale, con il suo libro ha tracciato una strada per poi essere dimenticato per secoli. Eppure questo libro rappresenta, con ragione, uno dei contributi fondamentali per la comprensione delle origini del management e delle pratiche commerciali moderne, un testo che, tra l’altro, anticipa di oltre cinquecento anni molti dei princìpi del cosiddetto umanesimo imprenditoriale e della responsabilità sociale.

Oggi il racconto “dell’arte della mercatura” viene riproposto nel testo originale (l’italiano antico) con accanto la versione in italiano contemporaneo. Preceduto da due saggi che ne illustrano contenuto, importanza e significato, il libro di Cotrugli inizia con l’illustrazione dell’origine e delle caratteristiche della “mercatura” (cioè dell’attività economica così come la si intendeva circa cinquecento anni fa), per passare poi alla religione che si confà al buon mercate e quindi alla “vita civile” che il mercante deve seguire per arrivare alle “virtù economiche” dello stesso quando voglia dirsi davvero tale e corretto.

Capitoli densi quelli di Cotrugli, pieni di economia ma anche di politica, dirittura morale, regole per il saper vivere in società e per saper porre la giusta attenzione verso gli altri (quella che oggi passa come responsabilità sociale d’impresa). Lungo il testo si rincorrono così termini importante anche per la buona impresa moderna come prudenza, integrità, diligenza, giustizia, costanza, autorità, temperanza e molti altri ancora.

Lettura certo non sempre facile quella di Cotrugli, ma lettura da provare a fare, con impegno e attenzione, anche (e soprattutto) oggi, in un momento storico complesso e difficile come quello che non solo il sistema delle imprese sta vivendo. Per non dimenticare la validità dell’indicazione dello stesso autore: avere ben conposta mente.

Il libro dell’arte di mercatura

Benedetto Cotrugli

a cura di AA.VV., Guerini NEXT, 2022

La storia del design italiano
in mostra a Trieste

Apre oggi, al Magazzino delle Idee di Trieste, la mostra L’Italia e l’Alliance Graphique Internationale. 25 grafici del ’900, organizzata da ERPAC, Ente Regionale per il patrimonio culturale del Friuli Venezia Giulia e curata da Carlo Vinti. La mostra è dedicata a venticinque grafici italiani che hanno fatto parte dell’AGI, l’associazione che dal 1951 riunisce i professionisti più importanti del settore della grafica, ed è realizzata in concomitanza con il settantesimo congresso annuale dell’associazione, in corso dal 19 al 23 settembre nella città friulana.

Attraverso l’opera dei venticinque designer dell’AGI, la mostra ripercorre più di cinquant’anni di storia del design grafico in Italia. Tra i nomi illustri non possono naturalmente mancare alcuni dei protagonisti della comunicazione visiva di Pirelli: da a Riccardo Manzi a Bruno Munari, da Bob Noorda a Pino Tovaglia. E ancora Walter Ballmer, Erberto Carboni, Franco Grignani, Albe Steiner.

La Fondazione Pirelli partecipa alla mostra con numerosi materiali pubblicitari originali, tra bozzetti, manifesti, pieghevoli, opuscoli e cartelli vetrina, e che documentano alcune delle più belle campagne pubblicitarie Pirelli: il labirinto di Munari per la pubblicità delle suole Pirelli Coria, l’uomo al volante col pneumatico sugli occhi della campagna “Ad occhi chiusi” di Manzi, l’innovativa pubblicità “Viaggiare sul sicuro” di Tovaglia e Catellani per il Cinturato Pirelli. E ancora, lo straordinario logo del pneumatico BS3 disegnato nel 1959 da Giulio Confalonieri e Ilio Negri. Dalla Fondazione Pirelli provengono anche alcuni materiali esposti nelle tre isole tematiche che inquadrano il lavoro dei venticinque designer sullo sfondo di alcuni sviluppi importanti della grafica in Italia e nel mondo: una pubblicità di Lora Lamm per il pneumatico scooter e una di Aldo Calabresi per il pneumatico Inverno.

La mostra resterà allestita fino al 6 gennaio 2023 ed è accompagnata da un catalogo edito da Corraini Edizioni.

Apre oggi, al Magazzino delle Idee di Trieste, la mostra L’Italia e l’Alliance Graphique Internationale. 25 grafici del ’900, organizzata da ERPAC, Ente Regionale per il patrimonio culturale del Friuli Venezia Giulia e curata da Carlo Vinti. La mostra è dedicata a venticinque grafici italiani che hanno fatto parte dell’AGI, l’associazione che dal 1951 riunisce i professionisti più importanti del settore della grafica, ed è realizzata in concomitanza con il settantesimo congresso annuale dell’associazione, in corso dal 19 al 23 settembre nella città friulana.

Attraverso l’opera dei venticinque designer dell’AGI, la mostra ripercorre più di cinquant’anni di storia del design grafico in Italia. Tra i nomi illustri non possono naturalmente mancare alcuni dei protagonisti della comunicazione visiva di Pirelli: da a Riccardo Manzi a Bruno Munari, da Bob Noorda a Pino Tovaglia. E ancora Walter Ballmer, Erberto Carboni, Franco Grignani, Albe Steiner.

La Fondazione Pirelli partecipa alla mostra con numerosi materiali pubblicitari originali, tra bozzetti, manifesti, pieghevoli, opuscoli e cartelli vetrina, e che documentano alcune delle più belle campagne pubblicitarie Pirelli: il labirinto di Munari per la pubblicità delle suole Pirelli Coria, l’uomo al volante col pneumatico sugli occhi della campagna “Ad occhi chiusi” di Manzi, l’innovativa pubblicità “Viaggiare sul sicuro” di Tovaglia e Catellani per il Cinturato Pirelli. E ancora, lo straordinario logo del pneumatico BS3 disegnato nel 1959 da Giulio Confalonieri e Ilio Negri. Dalla Fondazione Pirelli provengono anche alcuni materiali esposti nelle tre isole tematiche che inquadrano il lavoro dei venticinque designer sullo sfondo di alcuni sviluppi importanti della grafica in Italia e nel mondo: una pubblicità di Lora Lamm per il pneumatico scooter e una di Aldo Calabresi per il pneumatico Inverno.

La mostra resterà allestita fino al 6 gennaio 2023 ed è accompagnata da un catalogo edito da Corraini Edizioni.

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