Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Settembre, si riparte. Dando risposte ai dati che rivelano la crisi demografica e la mancanza di lavoratori di qualità

Arriva settembre, cambio di stagione. Sono finite le vacanze (quest’anno più brevi e risparmiose per migliaia di famiglie). La luce, non più diffusa come d’estate, comincia a subire le ombre nette e taglienti che annunciano l’autunno. E “lo stupore della notte spalancata sul mare” (secondo le parole di una delle più belle canzoni di Mina) cede il passo alla quotidianità del lavoro che riprende. Bisogna ritornare a fare i conti con una realtà malcerta e difficile.
Non si sono attenuate le tensioni delle guerre e dei conflitti geopolitici e commerciali. Tutt’altro. E si ripresentano davanti ai decisori politici e all’opinione pubblica tutte le questioni che per un momento avevamo tenuto un po’ meno da conto.
Un paio di dati, per ragionare (e per non dimenticare che senza numeri certi né statistiche autorevoli e attendibili non sono possibili né il buon governo né l’economia di mercato né, soprattutto, la democrazia). Il primo dato ha a che fare con la demografia: quest’anno nasceranno appena 340mila bambini, 30mila in meno rispetto al 2024, con un calo sempre più accentuato (nel ‘24, erano 10mila in meno che nel ‘23). Il secondo dato: le imprese cercano 2,3 milioni di laureati e diplomati tecnici ma ne trovano solo una parte e dunque crescono meno (Il Sole24Ore, 21 agosto).
Sono dati resi noti dai quotidiani proprio nei giorni d’estate (la buona informazione non va mai in vacanza; e senza di essa non ci sono né mercato né democrazia). Ma forse sono stati letti distrattamente, tra un tuffo al mare, un’affollata passeggiata in montagna e un gin tonic al tramonto, senza pensieri.
Perché partiamo da questi dati? Per indicare le questioni di fondo con cui fare i conti, per poter finalmente costruire progetti sostenibili di sviluppo e, guardando all’Europa, per impostare politiche di lungo periodo, evitando la marginalità e poi il declino (“L’illusione di un’Europa forte è già evaporata: è marginale e spettatrice”, ha ricordato Mario Draghi al Meeting di Rimini il 22 agosto) dell’area del mondo in cui sinora convivono valori e stili di vita essenziali, da difendere e rilanciare: l’economia libera, il welfare e, appunto, la democrazia rappresentativa. La libertà e la solidarietà. Il senso critico della storia e l’innovazione legata alla ricerca scientifica libera e autonoma. La memoria e il futuro. L’obiettivo: dare alle Ue una forte soggettività politica, a partire dai grandi temi della sicurezza, dell’energia, dell’innovazione, delle politiche industriali e della formazione (Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore, 31 agosto).
I dati, dunque. Cominciando con quelli del cosiddetto “inverno demografico”, testimoniato sia dalla crescente diminuzione del numero dei nati di cui abbiamo appena detto e da un tasso di fecondità (1,18 figli per donna) tra i più bassi d’Europa (la media europea è di 1,38, quella mondiale è di 2,20). L’Ocse calcola che al 2060 l’Italia perderà 12 milioni di lavoratori attivi, una diminuzione del 34% rispetto a oggi, 4 volte maggiore della media dei 38 paesi Ocse. E se non salirà la produttività, il Pil pro capite scenderà in media dello 0,5% all’anno (Il Sole24Ore 25 e 29 luglio). In sintesi, stiamo diventando un paese sempre più vecchio, impoverito, segnato da disagi e solitudini (il 41% delle famiglie sarà formato nel 2050 da una persona sola, secondo l’Istat).
Ancora un dato inquietante: “Aule vuote: in dieci anni l’Italia perderà 1 milione di alunni”, secondo le statistiche Inail validate dal Mef , il ministero dell’Economia (Il Sole24Ore, 13 agosto).
Popolazione in discesa, lavoratori in diminuzione, “economia della conoscenza” privata dell’asset fondamentale e cioè le persone. Imprese in difficoltà. Crescita economica di medio periodo sempre più stentata.
Anche da questo punto di vista, il mercato del lavoro, ecco due serie di dati tra i tanti: “Allarme sulle lauree Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): potrebbero mancare tra i 9mila e i 18mila lavoratori ogni anno”, stima il Rapporto Excelsior di Unioncamere, nel contesto di quel fabbisogno attuale di 2,3 milioni di laureati e diplomatici tecnici, in parte insoddisfatto, di cui abbiamo parlato all’inizio. Con conseguenze negative proprio su settori di punta della nostra competitività industriale. “Elettronica, la carenza di addetti frena sette imprese su dieci”, calcola l’Anie, l’associazione di settore di Confindustria (Il Sole24Ore, 26 agosto). E ancora: “Piccole imprese a corto di talenti: tre su quattro faticano a trovare competenze e profili. Per i posti da operaio specializzato vanno deserti 4 colloqui su 10”, Corriere della Sera, 31 agosto su dati Unioncamere/ ministero del Lavoro rielaborati dalla Cgia di Mestre).
Giavazzi
“Economia reale anemica”, sentenzia Carlo Cottarelli (Corriere della Sera, 12 agosto), anche se i dati sull’occupazione sono generalmente positivi (24milioni 326mila occupati a giugno, in crescita sui mesi precedenti) e – aggiunge Cottarelli – “i conti pubblici in ordine danno credibilità all’Italia”.
Ci sono altri dati da ricordare, accanto a quelli dell’inverno demografico e del mismatch tra offerta e domanda di lavoro. Tra il 2011 e il 2024 oltre 619mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato l’Italia, con un saldo netto negativo di 433mila unità. E il fenomeno è in crescita: solo nel ‘24, il saldo stimato ha superato le 55mila unità, quasi cinque volte il livello del 2011. “L’Italia continua a perdere giovani e non è solo una questione numerica: è una perdita di capitale umano, di energie, di prosperità futura”, sostiene Luca Paolazzi (Huffington Post, 16 luglio).
Sorprendente – insiste Paolazzi – la geografia dell’esodo: le regioni più colpite sono soprattutto le più sviluppate: Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige, in cui oltre il 50% dei giovani emigrati ha almeno una laurea: “Un’emigrazione selettiva, che coinvolge i più formati, spesso attratti da contesti esteri dove il titolo di studio ha un valore più riconosciuto e le prospettive di carriera sono più chiare”.
Una perdita pesantissima di capitale umano e di capitale sociale che nel medio periodo può drasticamente abbattere le prospettive di crescita economica e di sviluppo sostenibile dell’Italia, condannandola alla marginalità, non solo economica ma anche politica.
“C’è un legame inscindibile tra nascite e crescita”, documenta Alessandro Rosina, autorevole demografo (Il Sole24Ore, 25 luglio), ricordando che “il Pil dipende da tre elementi: il numero di persone in età attiva, il tasso di occupazione, la produttività. E tutti questi fattori sono legati in modo interdipendente con i meccanismi delle dinamiche demografiche”.
Ecco il punto politico: fare scelte che insistano sulla qualità della vita e del lavoro, sulla formazione, sulla sostenibilità dei processi economici e sociali, sull’attrattività dell’Italia nei confronti di giovani che vengano dal resto del mondo e qui da noi vogliano costruire un migliore futuro. L’obiettivo, spiega Rosina, è “rendere l’Italia un paese in cui si può lavorare bene, crescere bene fin dall’infanzia, vivere bene in tutte le fasi della vita, scegliere di rimanere, integrare positivamente esperienze e provenienze diverse. Puntiamo la barra in questa direzione e ci troveremo anche con più benessere economico e più figli desiderati”.
Sarebbe importante, nella nostra ripresa d’attività, in politica e nelle imprese, muoversi in questa direzione. E trovarne tracce concrete e lungimiranti fin dalla prossima Legge Finanziaria che il governo si prepara a varare. Con senso di responsabilità per un’Italia migliore, più competitiva, attrattiva e solidale.

(Foto Getty Images)

Arriva settembre, cambio di stagione. Sono finite le vacanze (quest’anno più brevi e risparmiose per migliaia di famiglie). La luce, non più diffusa come d’estate, comincia a subire le ombre nette e taglienti che annunciano l’autunno. E “lo stupore della notte spalancata sul mare” (secondo le parole di una delle più belle canzoni di Mina) cede il passo alla quotidianità del lavoro che riprende. Bisogna ritornare a fare i conti con una realtà malcerta e difficile.
Non si sono attenuate le tensioni delle guerre e dei conflitti geopolitici e commerciali. Tutt’altro. E si ripresentano davanti ai decisori politici e all’opinione pubblica tutte le questioni che per un momento avevamo tenuto un po’ meno da conto.
Un paio di dati, per ragionare (e per non dimenticare che senza numeri certi né statistiche autorevoli e attendibili non sono possibili né il buon governo né l’economia di mercato né, soprattutto, la democrazia). Il primo dato ha a che fare con la demografia: quest’anno nasceranno appena 340mila bambini, 30mila in meno rispetto al 2024, con un calo sempre più accentuato (nel ‘24, erano 10mila in meno che nel ‘23). Il secondo dato: le imprese cercano 2,3 milioni di laureati e diplomati tecnici ma ne trovano solo una parte e dunque crescono meno (Il Sole24Ore, 21 agosto).
Sono dati resi noti dai quotidiani proprio nei giorni d’estate (la buona informazione non va mai in vacanza; e senza di essa non ci sono né mercato né democrazia). Ma forse sono stati letti distrattamente, tra un tuffo al mare, un’affollata passeggiata in montagna e un gin tonic al tramonto, senza pensieri.
Perché partiamo da questi dati? Per indicare le questioni di fondo con cui fare i conti, per poter finalmente costruire progetti sostenibili di sviluppo e, guardando all’Europa, per impostare politiche di lungo periodo, evitando la marginalità e poi il declino (“L’illusione di un’Europa forte è già evaporata: è marginale e spettatrice”, ha ricordato Mario Draghi al Meeting di Rimini il 22 agosto) dell’area del mondo in cui sinora convivono valori e stili di vita essenziali, da difendere e rilanciare: l’economia libera, il welfare e, appunto, la democrazia rappresentativa. La libertà e la solidarietà. Il senso critico della storia e l’innovazione legata alla ricerca scientifica libera e autonoma. La memoria e il futuro. L’obiettivo: dare alle Ue una forte soggettività politica, a partire dai grandi temi della sicurezza, dell’energia, dell’innovazione, delle politiche industriali e della formazione (Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore, 31 agosto).
I dati, dunque. Cominciando con quelli del cosiddetto “inverno demografico”, testimoniato sia dalla crescente diminuzione del numero dei nati di cui abbiamo appena detto e da un tasso di fecondità (1,18 figli per donna) tra i più bassi d’Europa (la media europea è di 1,38, quella mondiale è di 2,20). L’Ocse calcola che al 2060 l’Italia perderà 12 milioni di lavoratori attivi, una diminuzione del 34% rispetto a oggi, 4 volte maggiore della media dei 38 paesi Ocse. E se non salirà la produttività, il Pil pro capite scenderà in media dello 0,5% all’anno (Il Sole24Ore 25 e 29 luglio). In sintesi, stiamo diventando un paese sempre più vecchio, impoverito, segnato da disagi e solitudini (il 41% delle famiglie sarà formato nel 2050 da una persona sola, secondo l’Istat).
Ancora un dato inquietante: “Aule vuote: in dieci anni l’Italia perderà 1 milione di alunni”, secondo le statistiche Inail validate dal Mef , il ministero dell’Economia (Il Sole24Ore, 13 agosto).
Popolazione in discesa, lavoratori in diminuzione, “economia della conoscenza” privata dell’asset fondamentale e cioè le persone. Imprese in difficoltà. Crescita economica di medio periodo sempre più stentata.
Anche da questo punto di vista, il mercato del lavoro, ecco due serie di dati tra i tanti: “Allarme sulle lauree Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): potrebbero mancare tra i 9mila e i 18mila lavoratori ogni anno”, stima il Rapporto Excelsior di Unioncamere, nel contesto di quel fabbisogno attuale di 2,3 milioni di laureati e diplomatici tecnici, in parte insoddisfatto, di cui abbiamo parlato all’inizio. Con conseguenze negative proprio su settori di punta della nostra competitività industriale. “Elettronica, la carenza di addetti frena sette imprese su dieci”, calcola l’Anie, l’associazione di settore di Confindustria (Il Sole24Ore, 26 agosto). E ancora: “Piccole imprese a corto di talenti: tre su quattro faticano a trovare competenze e profili. Per i posti da operaio specializzato vanno deserti 4 colloqui su 10”, Corriere della Sera, 31 agosto su dati Unioncamere/ ministero del Lavoro rielaborati dalla Cgia di Mestre).
Giavazzi
“Economia reale anemica”, sentenzia Carlo Cottarelli (Corriere della Sera, 12 agosto), anche se i dati sull’occupazione sono generalmente positivi (24milioni 326mila occupati a giugno, in crescita sui mesi precedenti) e – aggiunge Cottarelli – “i conti pubblici in ordine danno credibilità all’Italia”.
Ci sono altri dati da ricordare, accanto a quelli dell’inverno demografico e del mismatch tra offerta e domanda di lavoro. Tra il 2011 e il 2024 oltre 619mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato l’Italia, con un saldo netto negativo di 433mila unità. E il fenomeno è in crescita: solo nel ‘24, il saldo stimato ha superato le 55mila unità, quasi cinque volte il livello del 2011. “L’Italia continua a perdere giovani e non è solo una questione numerica: è una perdita di capitale umano, di energie, di prosperità futura”, sostiene Luca Paolazzi (Huffington Post, 16 luglio).
Sorprendente – insiste Paolazzi – la geografia dell’esodo: le regioni più colpite sono soprattutto le più sviluppate: Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige, in cui oltre il 50% dei giovani emigrati ha almeno una laurea: “Un’emigrazione selettiva, che coinvolge i più formati, spesso attratti da contesti esteri dove il titolo di studio ha un valore più riconosciuto e le prospettive di carriera sono più chiare”.
Una perdita pesantissima di capitale umano e di capitale sociale che nel medio periodo può drasticamente abbattere le prospettive di crescita economica e di sviluppo sostenibile dell’Italia, condannandola alla marginalità, non solo economica ma anche politica.
“C’è un legame inscindibile tra nascite e crescita”, documenta Alessandro Rosina, autorevole demografo (Il Sole24Ore, 25 luglio), ricordando che “il Pil dipende da tre elementi: il numero di persone in età attiva, il tasso di occupazione, la produttività. E tutti questi fattori sono legati in modo interdipendente con i meccanismi delle dinamiche demografiche”.
Ecco il punto politico: fare scelte che insistano sulla qualità della vita e del lavoro, sulla formazione, sulla sostenibilità dei processi economici e sociali, sull’attrattività dell’Italia nei confronti di giovani che vengano dal resto del mondo e qui da noi vogliano costruire un migliore futuro. L’obiettivo, spiega Rosina, è “rendere l’Italia un paese in cui si può lavorare bene, crescere bene fin dall’infanzia, vivere bene in tutte le fasi della vita, scegliere di rimanere, integrare positivamente esperienze e provenienze diverse. Puntiamo la barra in questa direzione e ci troveremo anche con più benessere economico e più figli desiderati”.
Sarebbe importante, nella nostra ripresa d’attività, in politica e nelle imprese, muoversi in questa direzione. E trovarne tracce concrete e lungimiranti fin dalla prossima Legge Finanziaria che il governo si prepara a varare. Con senso di responsabilità per un’Italia migliore, più competitiva, attrattiva e solidale.

(Foto Getty Images)

Leopoldo Pirelli, illuminista e imprenditore capace di vivere e anticipare i tempi

I finalisti del 63° Premio Campiello raccontano i loro libri

Il racconto di un Nord non solo geografico, che nasce da memorie, sentimenti e relazioni; la follia e la poesia nella vita di un medico dell’Ottocento e della sua compagna; otto racconti ammantati di invernitudine, tra desideri e paure; una storia nera, con fatti di sangue che si svolgono in Maremma all’alba dell’epoca fascista; un viaggio nei luoghi e nelle memorie dei roghi dei libri nella storia dell’umanità, riflettendo sul potere della lettura. Chi si aggiudicherà la sessantatreesima edizione del Premio Campiello?

In attesa di conoscere la risposta a questa domanda, Fondazione Pirelli ha dialogato con i 5 autori finalisti, che hanno raccontato i loro libri. Durante la settimana che precede la proclamazione del vincitore potremo ascoltare le loro voci, scoprendo un libro al giorno attraverso le video interviste che troverete su questa pagina.

Ecco il programma completo:

Lunedì 8 settembre 2025: Marco Belpoliti – Nord nord (Einaudi)

Martedì 9 settembre 2025: Wanda Marasco – Di spalle a questo mondo (Neri Pozza)

Mercoledì 10 settembre 2025: Monica Pareschi – Inverness (Polidoro)

Giovedì 11 settembre 2025: Alberto Prunetti – Troncamacchioni (Feltrinelli)

Venerdì 12 settembre 2025: Fabio Stassi – Bebelplatz (Sellerio)

 

La Cerimonia di Premiazione, trasmessa in diretta su RAI5, si svolgerà sabato 13 settembre, presso il Teatro La Fenice di Venezia, dove verrà proclamato il vincitore del Premio Campiello 2025, anche quest’anno sostenuto da Pirelli, da sempre in prima linea nel supporto alle iniziative di promozione della lettura e della Cultura d’impresa.

Buona visione e buona lettura.

Il racconto di un Nord non solo geografico, che nasce da memorie, sentimenti e relazioni; la follia e la poesia nella vita di un medico dell’Ottocento e della sua compagna; otto racconti ammantati di invernitudine, tra desideri e paure; una storia nera, con fatti di sangue che si svolgono in Maremma all’alba dell’epoca fascista; un viaggio nei luoghi e nelle memorie dei roghi dei libri nella storia dell’umanità, riflettendo sul potere della lettura. Chi si aggiudicherà la sessantatreesima edizione del Premio Campiello?

In attesa di conoscere la risposta a questa domanda, Fondazione Pirelli ha dialogato con i 5 autori finalisti, che hanno raccontato i loro libri. Durante la settimana che precede la proclamazione del vincitore potremo ascoltare le loro voci, scoprendo un libro al giorno attraverso le video interviste che troverete su questa pagina.

Ecco il programma completo:

Lunedì 8 settembre 2025: Marco Belpoliti – Nord nord (Einaudi)

Martedì 9 settembre 2025: Wanda Marasco – Di spalle a questo mondo (Neri Pozza)

Mercoledì 10 settembre 2025: Monica Pareschi – Inverness (Polidoro)

Giovedì 11 settembre 2025: Alberto Prunetti – Troncamacchioni (Feltrinelli)

Venerdì 12 settembre 2025: Fabio Stassi – Bebelplatz (Sellerio)

 

La Cerimonia di Premiazione, trasmessa in diretta su RAI5, si svolgerà sabato 13 settembre, presso il Teatro La Fenice di Venezia, dove verrà proclamato il vincitore del Premio Campiello 2025, anche quest’anno sostenuto da Pirelli, da sempre in prima linea nel supporto alle iniziative di promozione della lettura e della Cultura d’impresa.

Buona visione e buona lettura.

Multimedia

Video

Un illuminista in azienda

Leopoldo Pirelli, 100 anni dalla nascita dell’imprenditore che ha segnato la storia di Pirelli e dell’Italia

Leopoldo Pirelli, un secolo di visione e d’impresa

Leopoldo Pirelli,
“l’imprenditore
gentiluomo”

Il 27 agosto 1925, a Velate, in provincia di Varese, nasce Leopoldo Pirelli, erede di una famiglia d’imprenditori che ha segnato profondamente la storia industriale del nostro Paese. Il nonno, Giovanni Battista, fonda Pirelli nel 1872, portando in Italia l’innovazione della gomma vulcanizzata, mentre il padre Alberto guida l’azienda a partire dall’inizio degli anni Trenta, nel difficile periodo del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale. Sarà l’ingegner Leopoldo, “l’imprenditore gentiluomo”, a imprimere un nuovo passo al Gruppo nella seconda metà del Novecento.

Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, Leopoldo Pirelli è avviato all’impresa di famiglia con la lucidità di chi sa che il ruolo non è un diritto, ma un impegno. Inizia un rigoroso apprendistato che lo porta a conoscere l’azienda in ogni suo aspetto: contabilità generale a Basilea, contabilità industriale a Bruxelles, acquisti a Londra e poi il suo primo incarico ufficiale, capoturno di un reparto nella fabbrica pneumatici di Tivoli. Nei dieci anni consecutivi viene gradualmente coinvolto nella conduzione dell’azienda, dividendo l’ufficio con il padre, le due scrivanie una di fronte all’altra.
Negli anni Cinquanta, mentre Milano si rimette in piedi dopo le distruzioni belliche, Pirelli si pone l’obiettivo di una nuova sede direzionale della società e a dar corpo all’idea viene chiamato l’architetto Gio Ponti, deciso a realizzare un “monumento ad onore della città e della civiltà”. Sorge così nel 1960 uno dei simboli più forti della rinascita economica del Paese: il Grattacielo Pirelli. L’ingegner Leopoldo dà il via a questo progetto visionario a fianco del padre Alberto, vedendo nel “Pirellone” non solo un quartier generale adeguato all’eccellenza del Gruppo ma un’opera d’arte architettonica, un manifesto di modernità, un emblema dell’identità visiva di Milano. E soprattutto, la dimostrazione che l’impresa può essere innovazione, bellezza e cultura.

Nel 1965 Leopoldo Pirelli assume la carica di Presidente: è l’inizio di una nuova era per l’azienda. Con rigore e senso del dovere, segna positivamente il corso della storia economica italiana: i tempi felici del boom e quelli critici degli shock petroliferi, l’“autunno caldo” dei conflitti sindacali e gli “anni di piombo” del terrorismo, tra sfide e grandi cambiamenti, come testimoniato dall’elaborazione del “Rapporto Pirelli” per la riforma di Confindustria e dalla ricerca di migliori relazioni industriali con il pacchetto di proposte soprannominato poi “decretone”, con il quale cerca di anticipare le richieste dei lavoratori. E poi ancora il Progetto Bicocca, voluto da Leopoldo Pirelli e condotto a partire dagli anni Ottanta dallo studio dell’architetto Vittorio Gregotti, che prefigura la nascita di un nuovo concetto di urbanistica moderna: dalle fabbriche di prodotti alle fabbriche di idee e conoscenza, con l’intenzione di connettere l’area aziendale con il tessuto urbano circostante, in costante dialogo tra presente, passato e futuro.

Nel 1986, in occasione del conferimento della medaglia di Socio onorario del Collegio degli Ingegneri di Milano, l’ingegner Leopoldo decide di raccontare ciò che ha imparato dopo una vita trascorsa alla guida del Gruppo. Non con numeri, risultati o traguardi personali, ma con parole misurate, com’è nel suo stile. Le chiama “Le dieci regole del buon imprenditore”, ma in realtà sono qualcosa di più: un codice morale, un’eredità di pensiero. Sono valori vissuti ogni giorno, in azienda, tra le persone. Leopoldo sostiene che l’industria non sia solo profitto, ma un pilastro civile, un luogo dove innovazione e responsabilità sociale devono crescere insieme. E soprattutto afferma che fare impresa significhi prima di tutto assumersi un dovere, verso chi lavora e verso il mondo che ci circonda.

Nel 1996, dopo oltre trent’anni alla guida del Gruppo, Leopoldo Pirelli lascia la presidenza a favore di Marco Tronchetti Provera. A cent’anni dalla sua nascita, vogliamo ricordare una figura che ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’impresa di famiglia e, più in generale, alla trasformazione economica e culturale del Paese; un uomo attento alle persone e ai valori, la cui idea di impresa come luogo di dialogo e crescita condivisa rimane ancora oggi un riferimento imprescindibile.

Il 27 agosto 1925, a Velate, in provincia di Varese, nasce Leopoldo Pirelli, erede di una famiglia d’imprenditori che ha segnato profondamente la storia industriale del nostro Paese. Il nonno, Giovanni Battista, fonda Pirelli nel 1872, portando in Italia l’innovazione della gomma vulcanizzata, mentre il padre Alberto guida l’azienda a partire dall’inizio degli anni Trenta, nel difficile periodo del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale. Sarà l’ingegner Leopoldo, “l’imprenditore gentiluomo”, a imprimere un nuovo passo al Gruppo nella seconda metà del Novecento.

Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, Leopoldo Pirelli è avviato all’impresa di famiglia con la lucidità di chi sa che il ruolo non è un diritto, ma un impegno. Inizia un rigoroso apprendistato che lo porta a conoscere l’azienda in ogni suo aspetto: contabilità generale a Basilea, contabilità industriale a Bruxelles, acquisti a Londra e poi il suo primo incarico ufficiale, capoturno di un reparto nella fabbrica pneumatici di Tivoli. Nei dieci anni consecutivi viene gradualmente coinvolto nella conduzione dell’azienda, dividendo l’ufficio con il padre, le due scrivanie una di fronte all’altra.
Negli anni Cinquanta, mentre Milano si rimette in piedi dopo le distruzioni belliche, Pirelli si pone l’obiettivo di una nuova sede direzionale della società e a dar corpo all’idea viene chiamato l’architetto Gio Ponti, deciso a realizzare un “monumento ad onore della città e della civiltà”. Sorge così nel 1960 uno dei simboli più forti della rinascita economica del Paese: il Grattacielo Pirelli. L’ingegner Leopoldo dà il via a questo progetto visionario a fianco del padre Alberto, vedendo nel “Pirellone” non solo un quartier generale adeguato all’eccellenza del Gruppo ma un’opera d’arte architettonica, un manifesto di modernità, un emblema dell’identità visiva di Milano. E soprattutto, la dimostrazione che l’impresa può essere innovazione, bellezza e cultura.

Nel 1965 Leopoldo Pirelli assume la carica di Presidente: è l’inizio di una nuova era per l’azienda. Con rigore e senso del dovere, segna positivamente il corso della storia economica italiana: i tempi felici del boom e quelli critici degli shock petroliferi, l’“autunno caldo” dei conflitti sindacali e gli “anni di piombo” del terrorismo, tra sfide e grandi cambiamenti, come testimoniato dall’elaborazione del “Rapporto Pirelli” per la riforma di Confindustria e dalla ricerca di migliori relazioni industriali con il pacchetto di proposte soprannominato poi “decretone”, con il quale cerca di anticipare le richieste dei lavoratori. E poi ancora il Progetto Bicocca, voluto da Leopoldo Pirelli e condotto a partire dagli anni Ottanta dallo studio dell’architetto Vittorio Gregotti, che prefigura la nascita di un nuovo concetto di urbanistica moderna: dalle fabbriche di prodotti alle fabbriche di idee e conoscenza, con l’intenzione di connettere l’area aziendale con il tessuto urbano circostante, in costante dialogo tra presente, passato e futuro.

Nel 1986, in occasione del conferimento della medaglia di Socio onorario del Collegio degli Ingegneri di Milano, l’ingegner Leopoldo decide di raccontare ciò che ha imparato dopo una vita trascorsa alla guida del Gruppo. Non con numeri, risultati o traguardi personali, ma con parole misurate, com’è nel suo stile. Le chiama “Le dieci regole del buon imprenditore”, ma in realtà sono qualcosa di più: un codice morale, un’eredità di pensiero. Sono valori vissuti ogni giorno, in azienda, tra le persone. Leopoldo sostiene che l’industria non sia solo profitto, ma un pilastro civile, un luogo dove innovazione e responsabilità sociale devono crescere insieme. E soprattutto afferma che fare impresa significhi prima di tutto assumersi un dovere, verso chi lavora e verso il mondo che ci circonda.

Nel 1996, dopo oltre trent’anni alla guida del Gruppo, Leopoldo Pirelli lascia la presidenza a favore di Marco Tronchetti Provera. A cent’anni dalla sua nascita, vogliamo ricordare una figura che ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’impresa di famiglia e, più in generale, alla trasformazione economica e culturale del Paese; un uomo attento alle persone e ai valori, la cui idea di impresa come luogo di dialogo e crescita condivisa rimane ancora oggi un riferimento imprescindibile.

Multimedia

Images

Lo skándalon di Milano e la necessità di un Piano Casa per ceti medi e studenti

Necesse est enim ut veniant scandala, si legge nel Vangelo secondo Matteo. Una frase così densa di intelligenza e senso storico viene oggi in mente pensando, pur nel piccolo della nostra storia, alla lezione da trarre dalle attuali vicende giudiziarie e politiche che investono Milano, la sua amministrazione, i suoi progetti di sviluppo. Ed è proprio l’etimologia della parola, dal greco antico skándalon e cioè inciampo oppure ostacolo, a metterci sulla buona strada.

Al di là degli esiti delle inchieste della Procura della Repubblica (la giustizia faccia il suo corso, no?) e senza farsi distrarre dal clamore mediatico e dalla foga giustizialista dei “processi sommari” via social media, è proprio “l’inciampo” sulla strada della retorica del successo di Milano come metropoli attrattiva e mai ferma, a costringere tutti a una riflessione approfondita sulle nuove caratteristiche della città, sul suo essere o meno “un modello” e sui paradigmi di uno sviluppo che ancora una volta dovrà essere capace di tenere insieme produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà. Perché tutto può fare Milano tranne che ridursi a essere (secondo il ruvido ma pertinente giudizio di Alberto Mattioli, La Stampa, 17 luglio) “bella senz’anima, sempre più scintillante e sempre meno autentica”.

Milano, d’altronde, non è solo Milano, ma Italia. E la nostra città più internazionale. Economicamente, un motore di peso europeo. Culturalmente e socialmente, un cardine per l’innovazione (in tutti gli aspetti, anche quelli negativi, da governare e limitare). “Milano è un asset, serve difenderla e proporre una visione”, scrivono in un editoriale su Il Sole24Ore (25 luglio), Emanuele Orsini, presidente di Confindustria e Alvise Biffi, presidente di Assolombarda. Una scelta politica e comunicativa rilevante, di respiro nazionale: l’imprenditoria non sta a guardare e, ancora una volta, è pronta a fare la sua parte per la ripresa e il rilancio della metropoli e del Paese, “lavorando congiuntamente tra istituzioni, aziende, università, società civile”. D’altronde, la declinazione delle sintonie tra produttività e solidarietà, tra radici locali e sguardo globale, è ben salda nella cultura di Assolombarda. “Insieme”, è il titolo del volume, curato dalla Fondazione Assolombarda ed edito da Marsilio, che ne celebra gli ottant’anni di storia. E “Far volare Milano per far volare l’Italia” era l’indicazione strategica di una delle presidenze più visionarie e ambiziose, quella di Gianfelice Rocca (2013-2017). Un’idea ancora attuale.

Proviamo, dunque, a ragionare meglio sullo skándalon. E partire dal ricordo di una data: 1942. Il 17 agosto di quell’anno (stagione di guerra, tensioni militari e preoccupazioni sociali), il governo Mussolini, subito dopo l’approvazione del Codice Civile, emana la legge n. 1150, per definire una disciplina urbanistica generale e uniforme su tutto il territorio nazionale, innovando i “piani regolatori edilizi” e introducendo i “piani regolatori generali” e i “piani territoriali di coordinamento”. Più di ottant’anni dopo, quella legge è ancora in vigore, facendo sempre da architrave della legislazione urbanistica nazionale. Con numerose modifiche, integrazioni e variazioni, naturalmente. Ma con un effetto di complessità e confusione, nella sua applicazione. Anche perché nel frattempo sono cambiate le città, si sono evoluti gli stili di vita e le abitudini dell’abitare, si sono radicalmente trasformati i processi produttivi, economici e sociali e modificati i business models degli investitori finanziari e dei costruttori edili. Tutto un altro mondo, insomma. Con norme che sempre più faticosamente inquadrano e disciplinano efficacemente le tensioni e le tendenze che riguardano lo sviluppo delle città e un bene primario degli italiani: la casa.

Chi conosce la storia politica italiana ricorda il “Piano casa” che, dal 1949 al 1963, portò a robusti interventi per l’edilizia residenziale pubblica, agevolando una profonda trasformazione di città e paesi (il “Piano Fanfani”, dal nome del suo ideatore, ministro del Lavoro). E un altro intervento nel 1962, con una legge, la numero 167, voluta dall’allora ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, stimolò la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia residenziale pubblica per oltre 5 milioni di abitanti.

Erano i tempi del boom economico. L’impetuosa forza della ricostruzione e poi della ripresa aveva spostato milioni di persone dal Sud al Nord delle fabbriche, dai paesi contadini alle più dinamiche aree industriali in cui cercare nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita. A Milano e a Torino, innanzitutto. E la politica e l’intervento pubblico cercavano di rispondere ai nuovi bisogni sociali.

In un contesto così stravolgente, a Sullo, però, nel 1963, non riuscì la riforma chiave, quella urbanistica, avversata duramente dai grandi proprietari fondiari, dalle destre e alla fine rinnegata dalla stessa Dc, con effetti di crisi sul primo governo di centro sinistra, presieduto da Aldo Moro (il Partito socialista italiano entrava finalmente nella “stanza dei bottoni” ma il suo slancio riformista veniva nettamente rallentato). Niente riforma di modernizzazione e semplificazione, per cercare di dare casa agli italiani ma anche per frenare le pretese di chi, allora, stava mettendo “le mani sulla città” (secondo l’efficace titolo di un film di Francesco Rosi sulle speculazioni edilizie, soprattutto a Roma e nelle città del Sud). Compito arduo, in questo Paese, fare riforme incisive.

In sintesi: per quel che riguarda l’edilizia, l’Italia cambia ma le leggi no, tranne aggiustamenti e caute eppur confuse modernizzazioni. Come si sa da gran tempo e come rilevano anche adesso, nei commenti subito dopo lo skándalon di Milano, quattro personaggi molto diversi tra loro. Innanzitutto, uno studioso di grande acume come Piero Bassetti, ex presidente della Regione Lombardia: “Il pacchetto normativo, anche nel campo delle costruzioni, dell’edilizia e dello sviluppo urbanistico è antico e inadeguato” e siamo di fronte a “una dialettica non semplice tra nuovi interessi e normative arretrate” (la Repubblica, 17 luglio e Il Foglio, 22 luglio). Poi, ecco un ex sindaco di Milano come Gabriele Albertini, centro destra, che durante i suoi due mandati, dal 1997 al 2006, aveva avviato la rigenerazione urbana su 11 milioni di metri quadrati lasciati liberi dalle dismissioni industriali: “Una norma mai abrogata, ancorché scritta nel 1942: da questo nodo politico derivano tutti i problemi” (Il Sole24Ore, 26 luglio). E ancora, la presidentessa dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili Federica Brancaccio: “A Milano c’è un problema di interpretazione della legge regionale lombarda e delle delibere comunali che a essa fanno riferimento e di omogeneizzazione di questa interpretazione con la normativa nazionale che data al 1942. Un paradosso”, Il Foglio 24 luglio). E, per finire, Carlo Ratti, architetto e urbanista, professore al Mit di Boston: “Chiunque abbia avuto a che fare con i permessi edilizi conosce bene i meandri della burocrazia italiana. La normativa è un labirinto opaco che ostacola tanto l’efficienza quanto la trasparenza” (Il Sole24Ore, 27 luglio).

Vicenda giudiziaria milanese a parte, lo skándalon, dunque, ci dice che c’è un problema giuridico-amministrativo da affrontare: norme da riscrivere (una responsabilità non dei sindaci, ma del governo nazionale e del Parlamento), procedure da chiarire e semplificare, buon governo da incentivare con una legislazione all’altezza dei nuovi tempi (con tanto di interessi legittimi da soddisfare e nuove tecniche finanziarie e tecnologie costruttive  di cui tenere conto). E una governance del territorio che si basi sul fatto che “a livello amministrativo e decisionale Milano non può fermarsi al perimetro comunale. Dobbiamo dare poteri alla città metropolitana”, come sostiene Francesco Billari, demografo, rettore dell’università Bocconi (Corriere della Sera, 23 luglio). Milano da governare anche nelle interconnessioni tra servizi e movimenti di persone, idee, capitali. Nella mappa ideale di una “Grande Milano”, nelle relazioni con le altre città vicine.

Necesse est enim ut veniant scandala una questione di efficienza. Di efficacia delle scelte economiche, urbanistiche, sociali. Ed è una questione di legalità, nel senso più ampio e pieno del termine.

C’è, appunto, anche una domanda sociale da soddisfare: dare case a ceti sociali in cambiamento  e, naturalmente, agli studenti che scelgono sempre più numerosi Milano per frequentare l’università e costruirsi un orizzonte professionale di qualità. Perché, come sostiene Carlo Cottarelli, economista di vaste competenze internazionali, “il problema di Milano non è che si costruiscono grattacieli, ma che non si costruiscono abbastanza case per il ceto medio” (Corriere della Sera, 23 luglio).

Che fare? Trovare un equilibrio tra le costruzioni per i ceti benestanti, anche internazionali, attratti da Milano e quelle per i ceti medi e medio-bassi, con una remunerazione dell’investimento in un tempo più lungo di quello delle più esigenti dinamiche di profitto, con una leva di vantaggio fiscale e un uso accorto degli oneri di urbanizzazione a carico dei grandi fondi immobiliari. Un insieme di scelte politiche, insomma.

Ecco il punto. La Procura fa il suo mestiere, si muove secondo le leggi in vigore. Ma anche chi amministra una città in continua trasformazione fa il suo, cercando di dare risposte a chi investe, ai giovani che scelgono Milano prefigurando un migliore futuro, a chi avverte ancora il fascino di lavorare, creare, progettare, produrre. Vogliono fare il loro mestiere gli imprenditori. E i cittadini, che ancora coltivano i valori di Milano civitas, competitiva ma anche  inclusiva.

Sono tutte questioni che investono Milano. Ma vanno oltre Milano. “Le leggi urbanistiche le scrive la politica, i magistrati devono limitarsi a combattere i reati”, sintetizza Claudio Martelli, una vita spesa da politico socialista e da ministro (pure della Giustizia), un’attenzione speciale per Milano, la sua città (La Stampa, 22 luglio). Il guaio, però, è che la politica, sulle leggi urbanistiche, come abbiamo visto, non è stata finora all’altezza delle sue responsabilità.

“Milano, è ora di pensare al secondo atto”, sintetizza l’architetto Ratti, ben consapevole del valore economico e dei valori etici che non possono non ispirare una smart city.

Come? Si riparla di Piano Casa, memori (con tutte le debite differenze) di quel ministro Fanfani di cui abbiamo parlato: risorse pubbliche per edilizia residenziale privata.

Il Comune di Milano ha lanciato un suo “Piano casa”, per la costruzione di 10mila alloggi a prezzo calmierato in dieci anni (canone di locazione attorno ai 600 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri), “a settembre pubblicheremo il primo bando”, annuncia Emmanuel Conte, assessore al Bilancio, al Demanio e, appunto, al Piano Casa (Corriere della Sera, 26 luglio).

Federica Brancaccio, Ance, guarda, oltre che a Milano, a esigenze più generali: “Serve un Piano Casa da 15 miliardi”, sostiene (Il Sole24Ore, 23 luglio), da finanziare con risorse statali e della Ue da usare come leva anche per robusti investimenti privati. Valutando pure quali meritino agevolazioni normative e fiscali: “Immaginiamo un rating di impatto sociale, una griglia di requisiti per garantire la possibilità di mettere sul mercato case a prezzi accessibili e riportare la città a ciò che dovrebbe essere per i cittadini: una fucina di stimolo e di crescita, dove possano vivere giovani, anziani e famiglie e dove l’ascensore sociale funzioni” (se ne parlerà ad ottobre al convegno “Città nel futuro 2030-2050”, sotto la guida di Francesco Rutelli).

Milano, anche in questo skándalon, sta mostrando una qualità forte del suo carattere, costruito nel corso di una lunga storia (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana): l’attitudine alla discussione, critica e anche profondamente autocritica. E alla indicazione di soluzioni per i problemi, anche i più difficili. In questi giorni controversi, si va avanti così.

Necesse est enim ut veniant scandala, si legge nel Vangelo secondo Matteo. Una frase così densa di intelligenza e senso storico viene oggi in mente pensando, pur nel piccolo della nostra storia, alla lezione da trarre dalle attuali vicende giudiziarie e politiche che investono Milano, la sua amministrazione, i suoi progetti di sviluppo. Ed è proprio l’etimologia della parola, dal greco antico skándalon e cioè inciampo oppure ostacolo, a metterci sulla buona strada.

Al di là degli esiti delle inchieste della Procura della Repubblica (la giustizia faccia il suo corso, no?) e senza farsi distrarre dal clamore mediatico e dalla foga giustizialista dei “processi sommari” via social media, è proprio “l’inciampo” sulla strada della retorica del successo di Milano come metropoli attrattiva e mai ferma, a costringere tutti a una riflessione approfondita sulle nuove caratteristiche della città, sul suo essere o meno “un modello” e sui paradigmi di uno sviluppo che ancora una volta dovrà essere capace di tenere insieme produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà. Perché tutto può fare Milano tranne che ridursi a essere (secondo il ruvido ma pertinente giudizio di Alberto Mattioli, La Stampa, 17 luglio) “bella senz’anima, sempre più scintillante e sempre meno autentica”.

Milano, d’altronde, non è solo Milano, ma Italia. E la nostra città più internazionale. Economicamente, un motore di peso europeo. Culturalmente e socialmente, un cardine per l’innovazione (in tutti gli aspetti, anche quelli negativi, da governare e limitare). “Milano è un asset, serve difenderla e proporre una visione”, scrivono in un editoriale su Il Sole24Ore (25 luglio), Emanuele Orsini, presidente di Confindustria e Alvise Biffi, presidente di Assolombarda. Una scelta politica e comunicativa rilevante, di respiro nazionale: l’imprenditoria non sta a guardare e, ancora una volta, è pronta a fare la sua parte per la ripresa e il rilancio della metropoli e del Paese, “lavorando congiuntamente tra istituzioni, aziende, università, società civile”. D’altronde, la declinazione delle sintonie tra produttività e solidarietà, tra radici locali e sguardo globale, è ben salda nella cultura di Assolombarda. “Insieme”, è il titolo del volume, curato dalla Fondazione Assolombarda ed edito da Marsilio, che ne celebra gli ottant’anni di storia. E “Far volare Milano per far volare l’Italia” era l’indicazione strategica di una delle presidenze più visionarie e ambiziose, quella di Gianfelice Rocca (2013-2017). Un’idea ancora attuale.

Proviamo, dunque, a ragionare meglio sullo skándalon. E partire dal ricordo di una data: 1942. Il 17 agosto di quell’anno (stagione di guerra, tensioni militari e preoccupazioni sociali), il governo Mussolini, subito dopo l’approvazione del Codice Civile, emana la legge n. 1150, per definire una disciplina urbanistica generale e uniforme su tutto il territorio nazionale, innovando i “piani regolatori edilizi” e introducendo i “piani regolatori generali” e i “piani territoriali di coordinamento”. Più di ottant’anni dopo, quella legge è ancora in vigore, facendo sempre da architrave della legislazione urbanistica nazionale. Con numerose modifiche, integrazioni e variazioni, naturalmente. Ma con un effetto di complessità e confusione, nella sua applicazione. Anche perché nel frattempo sono cambiate le città, si sono evoluti gli stili di vita e le abitudini dell’abitare, si sono radicalmente trasformati i processi produttivi, economici e sociali e modificati i business models degli investitori finanziari e dei costruttori edili. Tutto un altro mondo, insomma. Con norme che sempre più faticosamente inquadrano e disciplinano efficacemente le tensioni e le tendenze che riguardano lo sviluppo delle città e un bene primario degli italiani: la casa.

Chi conosce la storia politica italiana ricorda il “Piano casa” che, dal 1949 al 1963, portò a robusti interventi per l’edilizia residenziale pubblica, agevolando una profonda trasformazione di città e paesi (il “Piano Fanfani”, dal nome del suo ideatore, ministro del Lavoro). E un altro intervento nel 1962, con una legge, la numero 167, voluta dall’allora ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, stimolò la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia residenziale pubblica per oltre 5 milioni di abitanti.

Erano i tempi del boom economico. L’impetuosa forza della ricostruzione e poi della ripresa aveva spostato milioni di persone dal Sud al Nord delle fabbriche, dai paesi contadini alle più dinamiche aree industriali in cui cercare nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita. A Milano e a Torino, innanzitutto. E la politica e l’intervento pubblico cercavano di rispondere ai nuovi bisogni sociali.

In un contesto così stravolgente, a Sullo, però, nel 1963, non riuscì la riforma chiave, quella urbanistica, avversata duramente dai grandi proprietari fondiari, dalle destre e alla fine rinnegata dalla stessa Dc, con effetti di crisi sul primo governo di centro sinistra, presieduto da Aldo Moro (il Partito socialista italiano entrava finalmente nella “stanza dei bottoni” ma il suo slancio riformista veniva nettamente rallentato). Niente riforma di modernizzazione e semplificazione, per cercare di dare casa agli italiani ma anche per frenare le pretese di chi, allora, stava mettendo “le mani sulla città” (secondo l’efficace titolo di un film di Francesco Rosi sulle speculazioni edilizie, soprattutto a Roma e nelle città del Sud). Compito arduo, in questo Paese, fare riforme incisive.

In sintesi: per quel che riguarda l’edilizia, l’Italia cambia ma le leggi no, tranne aggiustamenti e caute eppur confuse modernizzazioni. Come si sa da gran tempo e come rilevano anche adesso, nei commenti subito dopo lo skándalon di Milano, quattro personaggi molto diversi tra loro. Innanzitutto, uno studioso di grande acume come Piero Bassetti, ex presidente della Regione Lombardia: “Il pacchetto normativo, anche nel campo delle costruzioni, dell’edilizia e dello sviluppo urbanistico è antico e inadeguato” e siamo di fronte a “una dialettica non semplice tra nuovi interessi e normative arretrate” (la Repubblica, 17 luglio e Il Foglio, 22 luglio). Poi, ecco un ex sindaco di Milano come Gabriele Albertini, centro destra, che durante i suoi due mandati, dal 1997 al 2006, aveva avviato la rigenerazione urbana su 11 milioni di metri quadrati lasciati liberi dalle dismissioni industriali: “Una norma mai abrogata, ancorché scritta nel 1942: da questo nodo politico derivano tutti i problemi” (Il Sole24Ore, 26 luglio). E ancora, la presidentessa dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili Federica Brancaccio: “A Milano c’è un problema di interpretazione della legge regionale lombarda e delle delibere comunali che a essa fanno riferimento e di omogeneizzazione di questa interpretazione con la normativa nazionale che data al 1942. Un paradosso”, Il Foglio 24 luglio). E, per finire, Carlo Ratti, architetto e urbanista, professore al Mit di Boston: “Chiunque abbia avuto a che fare con i permessi edilizi conosce bene i meandri della burocrazia italiana. La normativa è un labirinto opaco che ostacola tanto l’efficienza quanto la trasparenza” (Il Sole24Ore, 27 luglio).

Vicenda giudiziaria milanese a parte, lo skándalon, dunque, ci dice che c’è un problema giuridico-amministrativo da affrontare: norme da riscrivere (una responsabilità non dei sindaci, ma del governo nazionale e del Parlamento), procedure da chiarire e semplificare, buon governo da incentivare con una legislazione all’altezza dei nuovi tempi (con tanto di interessi legittimi da soddisfare e nuove tecniche finanziarie e tecnologie costruttive  di cui tenere conto). E una governance del territorio che si basi sul fatto che “a livello amministrativo e decisionale Milano non può fermarsi al perimetro comunale. Dobbiamo dare poteri alla città metropolitana”, come sostiene Francesco Billari, demografo, rettore dell’università Bocconi (Corriere della Sera, 23 luglio). Milano da governare anche nelle interconnessioni tra servizi e movimenti di persone, idee, capitali. Nella mappa ideale di una “Grande Milano”, nelle relazioni con le altre città vicine.

Necesse est enim ut veniant scandala una questione di efficienza. Di efficacia delle scelte economiche, urbanistiche, sociali. Ed è una questione di legalità, nel senso più ampio e pieno del termine.

C’è, appunto, anche una domanda sociale da soddisfare: dare case a ceti sociali in cambiamento  e, naturalmente, agli studenti che scelgono sempre più numerosi Milano per frequentare l’università e costruirsi un orizzonte professionale di qualità. Perché, come sostiene Carlo Cottarelli, economista di vaste competenze internazionali, “il problema di Milano non è che si costruiscono grattacieli, ma che non si costruiscono abbastanza case per il ceto medio” (Corriere della Sera, 23 luglio).

Che fare? Trovare un equilibrio tra le costruzioni per i ceti benestanti, anche internazionali, attratti da Milano e quelle per i ceti medi e medio-bassi, con una remunerazione dell’investimento in un tempo più lungo di quello delle più esigenti dinamiche di profitto, con una leva di vantaggio fiscale e un uso accorto degli oneri di urbanizzazione a carico dei grandi fondi immobiliari. Un insieme di scelte politiche, insomma.

Ecco il punto. La Procura fa il suo mestiere, si muove secondo le leggi in vigore. Ma anche chi amministra una città in continua trasformazione fa il suo, cercando di dare risposte a chi investe, ai giovani che scelgono Milano prefigurando un migliore futuro, a chi avverte ancora il fascino di lavorare, creare, progettare, produrre. Vogliono fare il loro mestiere gli imprenditori. E i cittadini, che ancora coltivano i valori di Milano civitas, competitiva ma anche  inclusiva.

Sono tutte questioni che investono Milano. Ma vanno oltre Milano. “Le leggi urbanistiche le scrive la politica, i magistrati devono limitarsi a combattere i reati”, sintetizza Claudio Martelli, una vita spesa da politico socialista e da ministro (pure della Giustizia), un’attenzione speciale per Milano, la sua città (La Stampa, 22 luglio). Il guaio, però, è che la politica, sulle leggi urbanistiche, come abbiamo visto, non è stata finora all’altezza delle sue responsabilità.

“Milano, è ora di pensare al secondo atto”, sintetizza l’architetto Ratti, ben consapevole del valore economico e dei valori etici che non possono non ispirare una smart city.

Come? Si riparla di Piano Casa, memori (con tutte le debite differenze) di quel ministro Fanfani di cui abbiamo parlato: risorse pubbliche per edilizia residenziale privata.

Il Comune di Milano ha lanciato un suo “Piano casa”, per la costruzione di 10mila alloggi a prezzo calmierato in dieci anni (canone di locazione attorno ai 600 euro al mese per un appartamento di 100 metri quadri), “a settembre pubblicheremo il primo bando”, annuncia Emmanuel Conte, assessore al Bilancio, al Demanio e, appunto, al Piano Casa (Corriere della Sera, 26 luglio).

Federica Brancaccio, Ance, guarda, oltre che a Milano, a esigenze più generali: “Serve un Piano Casa da 15 miliardi”, sostiene (Il Sole24Ore, 23 luglio), da finanziare con risorse statali e della Ue da usare come leva anche per robusti investimenti privati. Valutando pure quali meritino agevolazioni normative e fiscali: “Immaginiamo un rating di impatto sociale, una griglia di requisiti per garantire la possibilità di mettere sul mercato case a prezzi accessibili e riportare la città a ciò che dovrebbe essere per i cittadini: una fucina di stimolo e di crescita, dove possano vivere giovani, anziani e famiglie e dove l’ascensore sociale funzioni” (se ne parlerà ad ottobre al convegno “Città nel futuro 2030-2050”, sotto la guida di Francesco Rutelli).

Milano, anche in questo skándalon, sta mostrando una qualità forte del suo carattere, costruito nel corso di una lunga storia (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana): l’attitudine alla discussione, critica e anche profondamente autocritica. E alla indicazione di soluzioni per i problemi, anche i più difficili. In questi giorni controversi, si va avanti così.

Cosa accade quando un’industria chiude

Le conseguenze sull’economia locale del fallimento di un grande stabilimento

Quando chiude un’impresa si perde un pezzo di storia umana, si tarpano le ali allo sviluppo: in qualche modo si torna indietro. È l’esperienza a dirlo, anche se non mancano casi di rinascita e rilancio. Ma il percorso è sempre tortuoso e faticoso, denso di incognite. Analizzare alcuni dei casi più emblematici è importante. E lo ha fatto Francesco David, economista della Divisione Analisi e ricerca economica territoriale della Banca d’Italia sede di Palermo, con il suo Occasional Paper “Gli effetti della chiusura di un grande stabilimento industriale sull’economia locale” riferito al caso della chiusura dello stabilimento FIAT di Termini Imerese in Sicilia.

David parte da assunto: la presenza di grandi stabilimenti industriali porta benefici alle economie locali, ma può tradursi in un’eccessiva dipendenza dei territori dalle scelte di singoli operatori, soprattutto quando in essi si concentra una rilevante quota di occupati. La dimostrazione è proprio nel caso di Termini Imerese. Il lavoro analizza quindi le conseguenze socio-economiche della chiusura nel 2011 dello stabilimento FIAT che occupava il 43% degli addetti industriali dell’omonimo sistema locale del lavoro.

La ricerca, dopo aver inquadrato l’argomento e sintetizzato la storia dello stabilimento dalla sua creazione, approfondisce con metodi statistici l’impatto sull’occupazione e sul territorio della chiusura dell’impianto. L’autore dimostra che a Termini Imerese a seguito della chiusura, l’occupazione è calata in misura consistente rispetto a uno scenario di prosecuzione dell’attività (1.500 occupati), con una diminuzione del tasso di occupazione stimabile in 3,9 punti percentuali alla fine del 2021. L’impatto ha riguardato soprattutto l’occupazione diretta, con effetti limitati sull’indotto, ma ha avuto anche altri seguiti: un calo demografico, una riduzione del reddito locale e una diminuzione dei valori immobiliari.

Francesco David fa così emergere, anche in termini quantitativi, il “peso” importante della buona gestione d’impresa, i suoi riflessi sul territorio che vanno ben al di là della semplice economia, le conseguenze di politiche industriali non sempre attente e di una cultura del produrre che deve farsi ogni giorno di più attenta ad una molteplicità di fattori.

Gli effetti della chiusura di un grande stabilimento industriale sull’economia locale

Francesco David

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza (Occasional Papaers), n. 952, luglio 2025

Le conseguenze sull’economia locale del fallimento di un grande stabilimento

Quando chiude un’impresa si perde un pezzo di storia umana, si tarpano le ali allo sviluppo: in qualche modo si torna indietro. È l’esperienza a dirlo, anche se non mancano casi di rinascita e rilancio. Ma il percorso è sempre tortuoso e faticoso, denso di incognite. Analizzare alcuni dei casi più emblematici è importante. E lo ha fatto Francesco David, economista della Divisione Analisi e ricerca economica territoriale della Banca d’Italia sede di Palermo, con il suo Occasional Paper “Gli effetti della chiusura di un grande stabilimento industriale sull’economia locale” riferito al caso della chiusura dello stabilimento FIAT di Termini Imerese in Sicilia.

David parte da assunto: la presenza di grandi stabilimenti industriali porta benefici alle economie locali, ma può tradursi in un’eccessiva dipendenza dei territori dalle scelte di singoli operatori, soprattutto quando in essi si concentra una rilevante quota di occupati. La dimostrazione è proprio nel caso di Termini Imerese. Il lavoro analizza quindi le conseguenze socio-economiche della chiusura nel 2011 dello stabilimento FIAT che occupava il 43% degli addetti industriali dell’omonimo sistema locale del lavoro.

La ricerca, dopo aver inquadrato l’argomento e sintetizzato la storia dello stabilimento dalla sua creazione, approfondisce con metodi statistici l’impatto sull’occupazione e sul territorio della chiusura dell’impianto. L’autore dimostra che a Termini Imerese a seguito della chiusura, l’occupazione è calata in misura consistente rispetto a uno scenario di prosecuzione dell’attività (1.500 occupati), con una diminuzione del tasso di occupazione stimabile in 3,9 punti percentuali alla fine del 2021. L’impatto ha riguardato soprattutto l’occupazione diretta, con effetti limitati sull’indotto, ma ha avuto anche altri seguiti: un calo demografico, una riduzione del reddito locale e una diminuzione dei valori immobiliari.

Francesco David fa così emergere, anche in termini quantitativi, il “peso” importante della buona gestione d’impresa, i suoi riflessi sul territorio che vanno ben al di là della semplice economia, le conseguenze di politiche industriali non sempre attente e di una cultura del produrre che deve farsi ogni giorno di più attenta ad una molteplicità di fattori.

Gli effetti della chiusura di un grande stabilimento industriale sull’economia locale

Francesco David

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza (Occasional Papaers), n. 952, luglio 2025

Racconti di lavoro, fabbriche e uffici

Quando è la letteratura a far parlare la cultura del produrre

Esseri umani e lavoro, uffici e fabbriche. Comunità fatte di fatiche e sogni, conflitti e speranze comuni. Cultura del produrre che si fa concretezza operosa. E voglia di benessere. E materia densa tutta da raccontare. E spesso, molto spesso, così è stato nella storia della letteratura e pure nell’odierna letteratura. È importante, ogni tanto, andare (o tornare) ad alcuni degli innumerevoli esempi di racconti di lavoro e impresa di cui proprio la letteratura è zeppa: magari per rileggerli oppure per leggerli la prima volta.

Così, è possibile leggere “Gli impiegati” (del 1844 ma ancora per certi versi attuale e comunque tutto da leggere) scritto da Honoré de Balzac che descrive con impietosa arguzia il mondo degli uffici del tempo (che assomiglia per molti aspetti a quello di oggi). Xavier Rabourdin, il protagonista, lavora in uno “stanzone”, quello che oggi potrebbe essere indicato come open space, e combatte ogni giorno per far carriera così come combattono, tutto sommato in un ambiente ben diverso i protagonisti di Hard Times for These Times (“Tempi difficili”) di Charles Dickens che descrive senza mezzi termini fabbriche e rapporti di lavoro nei primi tempi della Rivoluzione industriale inglese. Dickens aveva vissuto (seppur per un breve tempo) la fabbrica ed era poi diventato giornalista parlamentare: unisce la capacità di raccontare con quella di vedere. Senza mezzi termini, appunto. Ad iniziare dai luoghi e dai personaggi. “A Coketown  – scrive Dickens – gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante (…).C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire”.

Già la fabbrica come luogo di conflitto (ma anche di riscossa) e di confronto, così come di alienazione. Che è ciò che accade al protagonista di una novella (“Il treno ha fischiato…”) del 1925 di Luigi Pirandello che racconta di Belluca, un computista esempio di impiegato che passa la sua vita tra un ufficio amministrativo, dov’è anche bistrattato dai colleghi, e una famiglia che deve accudire e dalla quale non trae nulla di positivo. Belluca alla fine impazzisce.

Lavoro e impresa come ambiti di esclusiva fatica e alienazione? È evidente che non è così, anche se spesso sono stati questi aspetti ad essere più colti dalla letteratura. Uno esempio contrario basta per tutti, quello di Primo Levi che nel suo “La chiave a stella” dice sì della fatica del lavoro e della fabbrica ma anche della sua bellezza. Levi – scrittore, chimico, uomo di lettere e di scienze, testimone dell’Olocausto ma anche, appunto, del lavoro d’impresa -, racconta di un particolare aspetto della felicità umana in uno dei passi più conosciuti della sua opera. “Se si escludono – scrive -, istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla Terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono”.

Gli impiegati

Balzac de Honoré

Garzanti, 1996

Tempi difficili

Dickens Charles

Feltrinelli, 2015

Il treno ha fischiato…

in, “Novelle per un anno. L’uomo solo”

Pirandello Luigi

Mondadori (edizioni varie)

La chiave a stella

Levi Primo

Einaudi (edizioni varie)

Quando è la letteratura a far parlare la cultura del produrre

Esseri umani e lavoro, uffici e fabbriche. Comunità fatte di fatiche e sogni, conflitti e speranze comuni. Cultura del produrre che si fa concretezza operosa. E voglia di benessere. E materia densa tutta da raccontare. E spesso, molto spesso, così è stato nella storia della letteratura e pure nell’odierna letteratura. È importante, ogni tanto, andare (o tornare) ad alcuni degli innumerevoli esempi di racconti di lavoro e impresa di cui proprio la letteratura è zeppa: magari per rileggerli oppure per leggerli la prima volta.

Così, è possibile leggere “Gli impiegati” (del 1844 ma ancora per certi versi attuale e comunque tutto da leggere) scritto da Honoré de Balzac che descrive con impietosa arguzia il mondo degli uffici del tempo (che assomiglia per molti aspetti a quello di oggi). Xavier Rabourdin, il protagonista, lavora in uno “stanzone”, quello che oggi potrebbe essere indicato come open space, e combatte ogni giorno per far carriera così come combattono, tutto sommato in un ambiente ben diverso i protagonisti di Hard Times for These Times (“Tempi difficili”) di Charles Dickens che descrive senza mezzi termini fabbriche e rapporti di lavoro nei primi tempi della Rivoluzione industriale inglese. Dickens aveva vissuto (seppur per un breve tempo) la fabbrica ed era poi diventato giornalista parlamentare: unisce la capacità di raccontare con quella di vedere. Senza mezzi termini, appunto. Ad iniziare dai luoghi e dai personaggi. “A Coketown  – scrive Dickens – gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante (…).C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire”.

Già la fabbrica come luogo di conflitto (ma anche di riscossa) e di confronto, così come di alienazione. Che è ciò che accade al protagonista di una novella (“Il treno ha fischiato…”) del 1925 di Luigi Pirandello che racconta di Belluca, un computista esempio di impiegato che passa la sua vita tra un ufficio amministrativo, dov’è anche bistrattato dai colleghi, e una famiglia che deve accudire e dalla quale non trae nulla di positivo. Belluca alla fine impazzisce.

Lavoro e impresa come ambiti di esclusiva fatica e alienazione? È evidente che non è così, anche se spesso sono stati questi aspetti ad essere più colti dalla letteratura. Uno esempio contrario basta per tutti, quello di Primo Levi che nel suo “La chiave a stella” dice sì della fatica del lavoro e della fabbrica ma anche della sua bellezza. Levi – scrittore, chimico, uomo di lettere e di scienze, testimone dell’Olocausto ma anche, appunto, del lavoro d’impresa -, racconta di un particolare aspetto della felicità umana in uno dei passi più conosciuti della sua opera. “Se si escludono – scrive -, istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla Terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono”.

Gli impiegati

Balzac de Honoré

Garzanti, 1996

Tempi difficili

Dickens Charles

Feltrinelli, 2015

Il treno ha fischiato…

in, “Novelle per un anno. L’uomo solo”

Pirandello Luigi

Mondadori (edizioni varie)

La chiave a stella

Levi Primo

Einaudi (edizioni varie)

Multimedia

Images
CIAO, COME POSSO AIUTARTI?