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Un viaggio tra i libri per capire la crisi di Milano e costruire risposte né giustizialiste né populiste

“Non esiste avere troppi libri, esiste solo non avere abbastanza scaffali”, dice la didascalia della bella foto d’una colonna di volumi, ricorrente su Fb (sarà merito d’un algoritmo amante della letteratura e dei lettori). E in questI giorni così densi di incertezze, sulle caratteristiche e sul futuro di Milano, nel cuore di una nuova tempesta giudiziaria e mediatica, politica e amministrativa, vale proprio la pena uscire per un momento dai percorsi delle cronache, ricorrere piuttosto ai libri e cercare, tra le loro pagine sapide e argute, utili stimoli di riflessione critica, seguendo le suggestioni di Alberto Manguel (“Vivere con i libri”, Einaudi) nel viaggio all’interno della sua biblioteca.

Prendiamo “Le città invisibili” di Italo Calvino, innanzitutto. E andiamo alla pagina conclusiva del dialogo tra il potente Kublai Khan e il saggio Marco Polo, su come affrontare “l’inferno dei viventi” e cioè “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Sostiene Calvino, dando la parola a Marco Polo: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.

Un’indicazione di metodo, dunque. Con una solida connotazione etica: nessuna rassegnazione al degrado nella zona grigia dell’indifferenza, ma semmai un impegno a capire e scegliere come agire. Affrontare dunque la crisi (nella radice della parola, dal verbo greco krino e cioè distinguere, separare, giudicare, c’è il suo profondo significato) valutandone fratture e vie d’uscita, pericoli e opportunità. Farsi carico di un “rischio” (è la parola che usa Calvino) nel dare spazio e tempo a ciò che “non è inferno”. Affrontare una sfida che oggi, a Milano, è politica e culturale, di progetto di città come comunità in movimento lungo i controversi e conflittuali percorsi della modernità. E dunque costruire un migliore futuro, meno squilibrato, più socialmente accettabile.

Milano è città riformista, nel profondo della sua cultura politica (lo testimoniano le esperienze politicamente trasversali dei suoi sindaci, dal socialista Antonio Greppi nella ricostruzione dell’immediato dopoguerra a Carlo Tognoli nei dinamici Anni Ottanta, dai primi cittadini di centro destra Luigi Albertini e Letizia Moratti a quelli di centro sinistra Giuliano Pisapia e adesso Beppe Sala). Dinamica. Produttiva. Ma anche sensibile alle dimensioni sociali. E inclusiva. Animata dall’ansia del “fare”. E contemporaneamente dal senso di responsabilità del “fare bene”. E dal solidarismo del “fare del bene”. Spirito civile da cittadini e certo non da frettolosi city users incuranti del buon destino della comunità. Dimensioni economiche ed etiche che riguardano anche le sue imprese, nella storia e nell’attualità.

Sugli scaffali della biblioteca di casa, è facile ritrovare le pagine medioevali di Bonvesin della Riva (“Le meraviglie di Milano”, tutt’altro che limitate alle architetture) e quelle del vescovo Ariberto d’Intimiano (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”, il lavoro come identità e cittadinanza, la città aperta, il senso del cambiamento e del progresso, avvenuto nel cuore dei tempi del potere feudale e delle corporazioni). La riproduzione dei disegni tecnici di Leonardo da Vinci per le “macchine” e gli ingranaggi d’una città ingegnosa e operosa (gli originali stanno nelle tavole del “Codice Atlantico” all’Ambrosiana). La lucidità civile de “Il Caffè” dei Verri e degli altri illuministi milanesi, attenti al “buon governo” e alla relazione tra diritti e doveri, leggi e giustizia, con le indicazioni di Cesare Beccaria. E ancora l’intelligenza economica di Carlo Cattaneo. La letteratura connotata da un forte senso morale di Alessandro Manzoni. E quell’idea diffusa di progresso e di civiltà, di convivenza sociale e di sviluppo, di dolore del vivere e di speranze da coltivare, di spirito di comunità e passione per la competitività (le due parole hanno un cum d’origine che le tiene insieme, in modo originale): tutte dimensioni che nel tempo segnano le opere di Testori e Gadda, Vittorini e Buzzati, Bianciardi e, perché no? Scerbanenco. Le luci e le ombre, la società civile e le marginalità sociali, sino agli spazi occupati dalla criminalità (per averne idea, basta leggere “Elementi di urbanistica noir” di Gianni Biondillo, architetto e scrittore, edito da EuroMilano).

Gli scaffali, insomma, sono particolarmente carichi di intelligenza e sapienza, per non dire dei romanzi e dei saggi di più stretta attualità. Perché “hai voglia a dire Milano, Milano. Hai voglia a scrivere Milano, Milano…”, per usare i giochi verbali di Aldo Nove sulla difficile e controversa rappresentazione della città, come fosse un iceberg, in “Milano non è Milano” (Laterza).
Cosa emerge, da questo viaggio intellettuale e, in fin dei conti, anche sentimentale (le città hanno un’anima, esercitano un fascino su chi le vive o anche solo le frequenta e le osserva, sono in grado di fare innamorare) lungo le pareti d’una casa piena di libri? L’idea forte d’una Milano molteplice, plurale, anche contraddittoria (infatti “contiene moltitudini”, per prendere in prestito le sapienti parole di Walt Whitman, amato da Vittorini) e comunque attenta alla dimensione di una “città che sale” (utile, riguardare la pittura di Boccioni). La consapevolezza della storia come percorso tutt’altro che lineare, ma semmai accidentato. Di un “corso delle cose sinuoso”, alla Merleau-Ponty. E di una volontà forte, in ogni caso, di uscire dalle crisi che nella storia sono ricorrenti. Riconoscere dunque le caratteristiche dell’inferno e averne ragione. Ben sapendo che, uscendone, non c’è il paradiso. Ma la possibilità di una Milano migliore, finché una nuova stagione di cambiamenti non imponga di definire e costruire altri assetti e inediti equilibri.

Ci sono altre pagine, con cui fare i conti. Sono quelle di Stendhal, tanto appassionatamente legato a Milano da volere che nel suo epitaffio, al cimitero di Montmartre, ci fosse scritto “milanese”. E affascinato dalla convivenza, in città, di teatro e moda, commercio e belle architetture, ricchezze eleganti e vivacità popolare (“questo popolo nato per il bello…”), intraprendenza e desiderio di “costruire una casa o se non altro rinnovare la facciata di quella ereditata dal padre”.

Di questa tendenza, che lega successo economico a decoro urbano, ricchezza ad architettura, si ritrovano testimonianze esemplari nelle immagini di Nicolò Biddau ne “I cortili di Milano”, Photo Publisher (“Le corti di Milano sono scenografie silenziose di un teatro antico, dove ogni pietra e ogni dettaglio raccontano una storia nascosta”) e in “Case milanesi” di Orsina Simona Pierini e Alessandro Isastia, Hoepli. La bellezza e il dinamismo del costruire.

Stendhal, insomma, vedeva bene le caratteristiche della sua contemporaneità e coltivava uno sguardo capace di legare l’attualità alle tendenze future. Le sue osservazioni si ritrovano, adesso, nelle considerazioni di Carlo Ratti, architetto, una vita universitaria e scientifica tra Torino e il Mit di Boston, la cura della 19° Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia e un assiduo impegno professionale sui temi della Smart City (con il suo studio CRA – Carlo Ratti e Associati lavora al masterplan dell’area milanese di Porta Romana). “Milano – sostiene su La Stampa (18 luglio) – non ha mai avuto un’anima contemplativa. E’ sempre stata mercantile, pragmatica, abituata a coniugare affari e cultura. Come raccontava, appunto, anche Stendhal. È una città di successo. La porta d’ingresso dell’Italia verso l’economia globale. Ciò che la mia collega Saskia Sassen chiama una global city. E questa condizione non è certo qualcosa di cui scusarsi. Il punto, adesso, non è eliminare lo spettacolo della modernità, ma assicurarsi che esista ancora il backstage: per studenti, migranti, innovatori, per chi prova e sbaglia”.

Milano, insomma, con i grattacieli, la finanza, la moda, gli eventi glamour, fa i conti con le tendenze internazionali. Da vivere. E però pure da governare. Insiste Ratti: “Il tema è il successo: quando una città funziona, attira persone e capitali, i prezzi salgono e l’inclusione rischia di diventare esclusione. Credo che nei prossimi anni vedremo correttivi: più edilizia accessibile, più strumenti per contenere la gentrificazione”.
Sono stati “anni di corsa”. La città è stata “un laboratorio”. E adesso, sostiene ancora Ratti (Il Giorno, 20 luglio), “bisogna evitare che si creino bolle speculative. Usando strumenti efficaci per garantire l’equilibrio della civitas, della comunità cittadina. Incentivi per costruire di più se si destinano quote di alloggi a prezzi convenzionati. Un modo per bilanciare crescita e inclusività”.

È vero, infatti, che Milano è tra le prime dieci città del mondo “in cui vogliono vivere i grandi ricchi”, dopo Singapore, Londra, Hong Kong, Monaco, Zurigo, Parigi e prima di Francoforte e Barcellona (secondo il Global Report Julius Baer, Il Sole24ore, 15 luglio): un primato a molte facce. Ma è altrettanto vero che Milano, diventando città esclusiva per ricchi del mondo, perderebbe la sua anima, metterebbe ai margini ceti medi, giovani, nuovi imprenditori ancora non arrivati al successo economico, intellettuali, creativi, persone comuni, gente seria e laboriosa. Avrebbe ristoranti e negozi di lusso. Ma non libri. Né cultura critica. Né dunque coscienza civile.

Sugli scaffali, andiamo allora a cercare altri libri per capire e ragionare: “Milanesi si diventa”, di Carlo Castellaneta (Mondadori, 1991), un romanzo sulle capacità di accoglienza di una città severa e comunque inclusiva, generosa di opportunità. E “Sulla formazione della classe dirigente – L’ultimo progetto di Raffaele Mattioli”, a cura di Francesca Pino (Aragno, 2023), una raccolta di saggi sul ruolo di un grande banchiere e mecenate, guida della Banca Commerciale Italiana dai primi anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento, uno dei protagonisti della ricostruzione e poi del boom economico italiano, come racconta anche Elena Grazioli in “Raffaele Mattioli oltre la banca. Ritratto pubblico e privato di un grande intellettuale”, Luni Editrice. Era abruzzese d’origine, Mattioli. E profondamente milanese nello stile economico e nella cultura umanistica e finanziaria. In sintesi: una finanza per l’impresa e soprattutto l’industria, non per gli speculatori e per chi vuole “fare soldi per mezzo dei soldi”.
Cosa ci dicono questi libri (e i tanti altri che potremmo consultare e citare)? Che Milano, nel suo dinamismo e nell’ansia di fare e di reggere il passo con il cambiamento e l’innovazione, se non talvolta addirittura di anticiparne tempi e modi, soffre l’imbrigliamento di regole formali e burocrazie. Città intraprendente, invece che attardarsi sulle procedure, punta ai risultati.
Oggi, senza naturalmente entrare nel merito delle indagini giudiziarie in corso (notando comunque che non sembra si sia di fronte a una “nuova Tangentopoli”: lo sostengono Michele Serra su la Repubblica e Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, 20 luglio), vale la pena affrontare la crisi senza limitarsi alle cronache e alle schermaglie della propaganda politica. E andare invece, nel necessario dibattito pubblico, al nodo dei problemi.

L’orgoglio di Milano produttiva da giocare in positivo. Le ferite sociali della metropoli da ricucire. La crescita da governare. Ma anche le leggi da riscrivere, superando lo stallo imposto da “un labirinto di regole, spesso opache e contraddittorie” (definizione di Carlo Ratti), scritte a metà del Novecento (quando altri erano i bisogni urbanistici, altri gli interessi, la finanza, le imprese). La pubblica amministrazione da rendere efficiente ed efficace, lavorando per risultati e non per procedure. Gli squilibri da capire, affrontare, provare a risolvere. I servizi pubblici e i beni comuni da garantire. Essere civitas.
Compiti da “classe dirigente”, appunto. E da coscienza civile avvertita e capace di discutere seriamente sul futuro.
Milano, infatti, lo merita. Senza farsi abbagliare dalle “mille luci”, dall’avidità delle rendite e dall’effimero degli eventi, ma nemmeno dal giustizialismo populista e dalle tentazioni della “decrescita”, comunque infelice.
Il giro degli scaffali della biblioteca racconta proprio questo: l’anima robusta e sensibile d’una grande città, che chiede di continuare a crescere, produttiva e inclusiva, innovativa e solidale, com’è sempre stata.

“Non esiste avere troppi libri, esiste solo non avere abbastanza scaffali”, dice la didascalia della bella foto d’una colonna di volumi, ricorrente su Fb (sarà merito d’un algoritmo amante della letteratura e dei lettori). E in questI giorni così densi di incertezze, sulle caratteristiche e sul futuro di Milano, nel cuore di una nuova tempesta giudiziaria e mediatica, politica e amministrativa, vale proprio la pena uscire per un momento dai percorsi delle cronache, ricorrere piuttosto ai libri e cercare, tra le loro pagine sapide e argute, utili stimoli di riflessione critica, seguendo le suggestioni di Alberto Manguel (“Vivere con i libri”, Einaudi) nel viaggio all’interno della sua biblioteca.

Prendiamo “Le città invisibili” di Italo Calvino, innanzitutto. E andiamo alla pagina conclusiva del dialogo tra il potente Kublai Khan e il saggio Marco Polo, su come affrontare “l’inferno dei viventi” e cioè “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Sostiene Calvino, dando la parola a Marco Polo: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.

Un’indicazione di metodo, dunque. Con una solida connotazione etica: nessuna rassegnazione al degrado nella zona grigia dell’indifferenza, ma semmai un impegno a capire e scegliere come agire. Affrontare dunque la crisi (nella radice della parola, dal verbo greco krino e cioè distinguere, separare, giudicare, c’è il suo profondo significato) valutandone fratture e vie d’uscita, pericoli e opportunità. Farsi carico di un “rischio” (è la parola che usa Calvino) nel dare spazio e tempo a ciò che “non è inferno”. Affrontare una sfida che oggi, a Milano, è politica e culturale, di progetto di città come comunità in movimento lungo i controversi e conflittuali percorsi della modernità. E dunque costruire un migliore futuro, meno squilibrato, più socialmente accettabile.

Milano è città riformista, nel profondo della sua cultura politica (lo testimoniano le esperienze politicamente trasversali dei suoi sindaci, dal socialista Antonio Greppi nella ricostruzione dell’immediato dopoguerra a Carlo Tognoli nei dinamici Anni Ottanta, dai primi cittadini di centro destra Luigi Albertini e Letizia Moratti a quelli di centro sinistra Giuliano Pisapia e adesso Beppe Sala). Dinamica. Produttiva. Ma anche sensibile alle dimensioni sociali. E inclusiva. Animata dall’ansia del “fare”. E contemporaneamente dal senso di responsabilità del “fare bene”. E dal solidarismo del “fare del bene”. Spirito civile da cittadini e certo non da frettolosi city users incuranti del buon destino della comunità. Dimensioni economiche ed etiche che riguardano anche le sue imprese, nella storia e nell’attualità.

Sugli scaffali della biblioteca di casa, è facile ritrovare le pagine medioevali di Bonvesin della Riva (“Le meraviglie di Milano”, tutt’altro che limitate alle architetture) e quelle del vescovo Ariberto d’Intimiano (“Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”, il lavoro come identità e cittadinanza, la città aperta, il senso del cambiamento e del progresso, avvenuto nel cuore dei tempi del potere feudale e delle corporazioni). La riproduzione dei disegni tecnici di Leonardo da Vinci per le “macchine” e gli ingranaggi d’una città ingegnosa e operosa (gli originali stanno nelle tavole del “Codice Atlantico” all’Ambrosiana). La lucidità civile de “Il Caffè” dei Verri e degli altri illuministi milanesi, attenti al “buon governo” e alla relazione tra diritti e doveri, leggi e giustizia, con le indicazioni di Cesare Beccaria. E ancora l’intelligenza economica di Carlo Cattaneo. La letteratura connotata da un forte senso morale di Alessandro Manzoni. E quell’idea diffusa di progresso e di civiltà, di convivenza sociale e di sviluppo, di dolore del vivere e di speranze da coltivare, di spirito di comunità e passione per la competitività (le due parole hanno un cum d’origine che le tiene insieme, in modo originale): tutte dimensioni che nel tempo segnano le opere di Testori e Gadda, Vittorini e Buzzati, Bianciardi e, perché no? Scerbanenco. Le luci e le ombre, la società civile e le marginalità sociali, sino agli spazi occupati dalla criminalità (per averne idea, basta leggere “Elementi di urbanistica noir” di Gianni Biondillo, architetto e scrittore, edito da EuroMilano).

Gli scaffali, insomma, sono particolarmente carichi di intelligenza e sapienza, per non dire dei romanzi e dei saggi di più stretta attualità. Perché “hai voglia a dire Milano, Milano. Hai voglia a scrivere Milano, Milano…”, per usare i giochi verbali di Aldo Nove sulla difficile e controversa rappresentazione della città, come fosse un iceberg, in “Milano non è Milano” (Laterza).
Cosa emerge, da questo viaggio intellettuale e, in fin dei conti, anche sentimentale (le città hanno un’anima, esercitano un fascino su chi le vive o anche solo le frequenta e le osserva, sono in grado di fare innamorare) lungo le pareti d’una casa piena di libri? L’idea forte d’una Milano molteplice, plurale, anche contraddittoria (infatti “contiene moltitudini”, per prendere in prestito le sapienti parole di Walt Whitman, amato da Vittorini) e comunque attenta alla dimensione di una “città che sale” (utile, riguardare la pittura di Boccioni). La consapevolezza della storia come percorso tutt’altro che lineare, ma semmai accidentato. Di un “corso delle cose sinuoso”, alla Merleau-Ponty. E di una volontà forte, in ogni caso, di uscire dalle crisi che nella storia sono ricorrenti. Riconoscere dunque le caratteristiche dell’inferno e averne ragione. Ben sapendo che, uscendone, non c’è il paradiso. Ma la possibilità di una Milano migliore, finché una nuova stagione di cambiamenti non imponga di definire e costruire altri assetti e inediti equilibri.

Ci sono altre pagine, con cui fare i conti. Sono quelle di Stendhal, tanto appassionatamente legato a Milano da volere che nel suo epitaffio, al cimitero di Montmartre, ci fosse scritto “milanese”. E affascinato dalla convivenza, in città, di teatro e moda, commercio e belle architetture, ricchezze eleganti e vivacità popolare (“questo popolo nato per il bello…”), intraprendenza e desiderio di “costruire una casa o se non altro rinnovare la facciata di quella ereditata dal padre”.

Di questa tendenza, che lega successo economico a decoro urbano, ricchezza ad architettura, si ritrovano testimonianze esemplari nelle immagini di Nicolò Biddau ne “I cortili di Milano”, Photo Publisher (“Le corti di Milano sono scenografie silenziose di un teatro antico, dove ogni pietra e ogni dettaglio raccontano una storia nascosta”) e in “Case milanesi” di Orsina Simona Pierini e Alessandro Isastia, Hoepli. La bellezza e il dinamismo del costruire.

Stendhal, insomma, vedeva bene le caratteristiche della sua contemporaneità e coltivava uno sguardo capace di legare l’attualità alle tendenze future. Le sue osservazioni si ritrovano, adesso, nelle considerazioni di Carlo Ratti, architetto, una vita universitaria e scientifica tra Torino e il Mit di Boston, la cura della 19° Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia e un assiduo impegno professionale sui temi della Smart City (con il suo studio CRA – Carlo Ratti e Associati lavora al masterplan dell’area milanese di Porta Romana). “Milano – sostiene su La Stampa (18 luglio) – non ha mai avuto un’anima contemplativa. E’ sempre stata mercantile, pragmatica, abituata a coniugare affari e cultura. Come raccontava, appunto, anche Stendhal. È una città di successo. La porta d’ingresso dell’Italia verso l’economia globale. Ciò che la mia collega Saskia Sassen chiama una global city. E questa condizione non è certo qualcosa di cui scusarsi. Il punto, adesso, non è eliminare lo spettacolo della modernità, ma assicurarsi che esista ancora il backstage: per studenti, migranti, innovatori, per chi prova e sbaglia”.

Milano, insomma, con i grattacieli, la finanza, la moda, gli eventi glamour, fa i conti con le tendenze internazionali. Da vivere. E però pure da governare. Insiste Ratti: “Il tema è il successo: quando una città funziona, attira persone e capitali, i prezzi salgono e l’inclusione rischia di diventare esclusione. Credo che nei prossimi anni vedremo correttivi: più edilizia accessibile, più strumenti per contenere la gentrificazione”.
Sono stati “anni di corsa”. La città è stata “un laboratorio”. E adesso, sostiene ancora Ratti (Il Giorno, 20 luglio), “bisogna evitare che si creino bolle speculative. Usando strumenti efficaci per garantire l’equilibrio della civitas, della comunità cittadina. Incentivi per costruire di più se si destinano quote di alloggi a prezzi convenzionati. Un modo per bilanciare crescita e inclusività”.

È vero, infatti, che Milano è tra le prime dieci città del mondo “in cui vogliono vivere i grandi ricchi”, dopo Singapore, Londra, Hong Kong, Monaco, Zurigo, Parigi e prima di Francoforte e Barcellona (secondo il Global Report Julius Baer, Il Sole24ore, 15 luglio): un primato a molte facce. Ma è altrettanto vero che Milano, diventando città esclusiva per ricchi del mondo, perderebbe la sua anima, metterebbe ai margini ceti medi, giovani, nuovi imprenditori ancora non arrivati al successo economico, intellettuali, creativi, persone comuni, gente seria e laboriosa. Avrebbe ristoranti e negozi di lusso. Ma non libri. Né cultura critica. Né dunque coscienza civile.

Sugli scaffali, andiamo allora a cercare altri libri per capire e ragionare: “Milanesi si diventa”, di Carlo Castellaneta (Mondadori, 1991), un romanzo sulle capacità di accoglienza di una città severa e comunque inclusiva, generosa di opportunità. E “Sulla formazione della classe dirigente – L’ultimo progetto di Raffaele Mattioli”, a cura di Francesca Pino (Aragno, 2023), una raccolta di saggi sul ruolo di un grande banchiere e mecenate, guida della Banca Commerciale Italiana dai primi anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento, uno dei protagonisti della ricostruzione e poi del boom economico italiano, come racconta anche Elena Grazioli in “Raffaele Mattioli oltre la banca. Ritratto pubblico e privato di un grande intellettuale”, Luni Editrice. Era abruzzese d’origine, Mattioli. E profondamente milanese nello stile economico e nella cultura umanistica e finanziaria. In sintesi: una finanza per l’impresa e soprattutto l’industria, non per gli speculatori e per chi vuole “fare soldi per mezzo dei soldi”.
Cosa ci dicono questi libri (e i tanti altri che potremmo consultare e citare)? Che Milano, nel suo dinamismo e nell’ansia di fare e di reggere il passo con il cambiamento e l’innovazione, se non talvolta addirittura di anticiparne tempi e modi, soffre l’imbrigliamento di regole formali e burocrazie. Città intraprendente, invece che attardarsi sulle procedure, punta ai risultati.
Oggi, senza naturalmente entrare nel merito delle indagini giudiziarie in corso (notando comunque che non sembra si sia di fronte a una “nuova Tangentopoli”: lo sostengono Michele Serra su la Repubblica e Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, 20 luglio), vale la pena affrontare la crisi senza limitarsi alle cronache e alle schermaglie della propaganda politica. E andare invece, nel necessario dibattito pubblico, al nodo dei problemi.

L’orgoglio di Milano produttiva da giocare in positivo. Le ferite sociali della metropoli da ricucire. La crescita da governare. Ma anche le leggi da riscrivere, superando lo stallo imposto da “un labirinto di regole, spesso opache e contraddittorie” (definizione di Carlo Ratti), scritte a metà del Novecento (quando altri erano i bisogni urbanistici, altri gli interessi, la finanza, le imprese). La pubblica amministrazione da rendere efficiente ed efficace, lavorando per risultati e non per procedure. Gli squilibri da capire, affrontare, provare a risolvere. I servizi pubblici e i beni comuni da garantire. Essere civitas.
Compiti da “classe dirigente”, appunto. E da coscienza civile avvertita e capace di discutere seriamente sul futuro.
Milano, infatti, lo merita. Senza farsi abbagliare dalle “mille luci”, dall’avidità delle rendite e dall’effimero degli eventi, ma nemmeno dal giustizialismo populista e dalle tentazioni della “decrescita”, comunque infelice.
Il giro degli scaffali della biblioteca racconta proprio questo: l’anima robusta e sensibile d’una grande città, che chiede di continuare a crescere, produttiva e inclusiva, innovativa e solidale, com’è sempre stata.

Milano, quale occupazione?

Una ricerca condotta sul mercato del lavoro del capoluogo lombardo, fotografa la situazione e i passi ancora da compiere

Milano come esempio di mercato del lavoro da studiare e comprendere. Un caso emblematico, tra progresso e innovazione ma anche a confronto con i problemi comuni ad altre aree geografiche ed economiche del Paese. Milano come caso studio, dunque, al centro dell’ampia ricerca – “Dinamiche del mercato del lavoro a Milano” – curata da Silvia Salini che ha preso spunto dalla giornata di studi “Milano Occupazione 2024 (MiO2024)” realizzata nel maggio 2024.

“Dinamiche del mercato del lavoro a Milano” è frutto della collaborazione tra il centro di ricerca Milan Economic Impact Evaluation Center (MEIEC) e l’Università degli Studi di Milano, e si inserisce tra le attività promosse dal Tavolo Territoriale della Lombardia realizzato tra Istat, Regioni e Province autonome, Anci e Upi. Ampio gruppo di lavoro, quindi, per mettere sotto la lente d’ingrandimento la situazione e l’evoluzione del mercato del lavoro del capoluogo lombardo per individuarne peculiarità e linee di evoluzione.

L’indagine esamina la domanda congiunturale locale di lavoro, le situazioni particolari dei giovani e delle donne, l’importanza dei collegamenti efficaci tra mercato reale del lavoro e amministrazioni unita a quella di avere informazioni accurate, il passaggio – cruciale – dal concetto di “un lavoro a vita” a quello di “una vita di lavori”.

Scrivono nelle conclusioni gli autori della ricerca come anche il mercato del lavoro di Milano debba ancora compiere un’evoluzione importante. Anche se, ad esempio, i contratti a tempo indeterminato paiono in aumento, molti sono gli interrogativi: “Sebbene i dati mostrino un rafforzamento di questa componente, resta da chiarire se tale crescita rappresenti un cambiamento strutturale del mercato del lavoro o se sia da interpretare come un fenomeno transitorio. In particolare, la breve durata media dei contratti e l’elevato turnover suggeriscono che il mercato non ha ancora raggiunto una piena maturità in termini di stabilità occupazionale”. E poi ancora: “Nel complesso, il mercato del lavoro milanese si presenta come un sistema in transizione, che cerca di consolidare i progressi recenti, ma che continua a confrontarsi con sfide strutturali significative”.

Dinamiche del mercato del lavoro a Milano

Silvia Salini (a cura di)

Milano University Press, 2025

Una ricerca condotta sul mercato del lavoro del capoluogo lombardo, fotografa la situazione e i passi ancora da compiere

Milano come esempio di mercato del lavoro da studiare e comprendere. Un caso emblematico, tra progresso e innovazione ma anche a confronto con i problemi comuni ad altre aree geografiche ed economiche del Paese. Milano come caso studio, dunque, al centro dell’ampia ricerca – “Dinamiche del mercato del lavoro a Milano” – curata da Silvia Salini che ha preso spunto dalla giornata di studi “Milano Occupazione 2024 (MiO2024)” realizzata nel maggio 2024.

“Dinamiche del mercato del lavoro a Milano” è frutto della collaborazione tra il centro di ricerca Milan Economic Impact Evaluation Center (MEIEC) e l’Università degli Studi di Milano, e si inserisce tra le attività promosse dal Tavolo Territoriale della Lombardia realizzato tra Istat, Regioni e Province autonome, Anci e Upi. Ampio gruppo di lavoro, quindi, per mettere sotto la lente d’ingrandimento la situazione e l’evoluzione del mercato del lavoro del capoluogo lombardo per individuarne peculiarità e linee di evoluzione.

L’indagine esamina la domanda congiunturale locale di lavoro, le situazioni particolari dei giovani e delle donne, l’importanza dei collegamenti efficaci tra mercato reale del lavoro e amministrazioni unita a quella di avere informazioni accurate, il passaggio – cruciale – dal concetto di “un lavoro a vita” a quello di “una vita di lavori”.

Scrivono nelle conclusioni gli autori della ricerca come anche il mercato del lavoro di Milano debba ancora compiere un’evoluzione importante. Anche se, ad esempio, i contratti a tempo indeterminato paiono in aumento, molti sono gli interrogativi: “Sebbene i dati mostrino un rafforzamento di questa componente, resta da chiarire se tale crescita rappresenti un cambiamento strutturale del mercato del lavoro o se sia da interpretare come un fenomeno transitorio. In particolare, la breve durata media dei contratti e l’elevato turnover suggeriscono che il mercato non ha ancora raggiunto una piena maturità in termini di stabilità occupazionale”. E poi ancora: “Nel complesso, il mercato del lavoro milanese si presenta come un sistema in transizione, che cerca di consolidare i progressi recenti, ma che continua a confrontarsi con sfide strutturali significative”.

Dinamiche del mercato del lavoro a Milano

Silvia Salini (a cura di)

Milano University Press, 2025

L’IA e il suo “governo”

L’analisi delle politiche dedicate all’Intelligenza Artificiale

 

Intelligenza Artificiale da governare su più livelli. Questione importante al pari dell’equilibrio tra potenzialità dell’IA e suoi rischi. Tema – quello dell’IA – che sta tra la cultura del produrre, la consapevolezza e le regole che le organizzazioni si devono dare. E che è anche fenomeno tecnologico che si rinnova e trasforma rapidamente e dagli impatti sociali radicali e dirompenti ai quali è possibile rispondere con strumenti diversi. Ernesto d’Albergo e Giorgio Giovanelli, con il loro “Politiche dell’intelligenza artificiale. Arene, strategie, poteri”, cercano di rispondere proprio alla domanda su quali possano essere le convergenze oppure le differenziazioni guardando al tema dell’IA dal punto di vista degli strumenti messi in campo per governarla. Il libro ricostruisce così le influenze reciproche fra fattori economici, culturali e istituzionali e il ruolo svolto dalla varietà di forze sociali, attori e sistemi politici nel complesso campo delle “politiche dell’intelligenza artificiale”.
Per rispondere alla domanda di fondo – “chi fra governi, imprese, esperti, società civile e cittadini, in che misura e come esercita potere nelle politiche dell’IA?” – l’impresa letteraria di d’Albergo e Giovanelli presenta i risultati di un’analisi delle strategie politiche orientate verso varie priorità: favorire lo sviluppo dell’innovazione tecnologica, regolare il trade-off tra potenzialità e rischi dei modelli e dei sistemi di IA o adottarli per finalità pubbliche. Nei capitoli sono quindi ricostruiti la varietà degli attori coinvolti e dei loro obiettivi, le poste in gioco, le decisioni e i principali strumenti di intervento politico che stanno orientando lo sviluppo e l’adozione dell’IA, anteponendo la priorità della tutela dei diritti umani e sociali o la deregolamentazione del suo uso, oppure cercando di conciliarli.

Si legge in uno dei passaggi introduttivo del libro che fornisce la sintesi del pensiero dei due autori, come “politica delle politiche dell’IA condivida modalità di azione, orientamenti strategici alternativi, conflittualità e stili di gestione dei conflitti con altre arene come, in epoca recente, quelle delle politiche per lo sviluppo sostenibile e del contrasto ai cambiamenti climatici”.

Politiche dell’intelligenza artificiale. Arene, strategie, poteri

Ernesto d’Albergo, Giorgio Giovanelli

Franco Angeli open access, 2025

L’analisi delle politiche dedicate all’Intelligenza Artificiale

 

Intelligenza Artificiale da governare su più livelli. Questione importante al pari dell’equilibrio tra potenzialità dell’IA e suoi rischi. Tema – quello dell’IA – che sta tra la cultura del produrre, la consapevolezza e le regole che le organizzazioni si devono dare. E che è anche fenomeno tecnologico che si rinnova e trasforma rapidamente e dagli impatti sociali radicali e dirompenti ai quali è possibile rispondere con strumenti diversi. Ernesto d’Albergo e Giorgio Giovanelli, con il loro “Politiche dell’intelligenza artificiale. Arene, strategie, poteri”, cercano di rispondere proprio alla domanda su quali possano essere le convergenze oppure le differenziazioni guardando al tema dell’IA dal punto di vista degli strumenti messi in campo per governarla. Il libro ricostruisce così le influenze reciproche fra fattori economici, culturali e istituzionali e il ruolo svolto dalla varietà di forze sociali, attori e sistemi politici nel complesso campo delle “politiche dell’intelligenza artificiale”.
Per rispondere alla domanda di fondo – “chi fra governi, imprese, esperti, società civile e cittadini, in che misura e come esercita potere nelle politiche dell’IA?” – l’impresa letteraria di d’Albergo e Giovanelli presenta i risultati di un’analisi delle strategie politiche orientate verso varie priorità: favorire lo sviluppo dell’innovazione tecnologica, regolare il trade-off tra potenzialità e rischi dei modelli e dei sistemi di IA o adottarli per finalità pubbliche. Nei capitoli sono quindi ricostruiti la varietà degli attori coinvolti e dei loro obiettivi, le poste in gioco, le decisioni e i principali strumenti di intervento politico che stanno orientando lo sviluppo e l’adozione dell’IA, anteponendo la priorità della tutela dei diritti umani e sociali o la deregolamentazione del suo uso, oppure cercando di conciliarli.

Si legge in uno dei passaggi introduttivo del libro che fornisce la sintesi del pensiero dei due autori, come “politica delle politiche dell’IA condivida modalità di azione, orientamenti strategici alternativi, conflittualità e stili di gestione dei conflitti con altre arene come, in epoca recente, quelle delle politiche per lo sviluppo sostenibile e del contrasto ai cambiamenti climatici”.

Politiche dell’intelligenza artificiale. Arene, strategie, poteri

Ernesto d’Albergo, Giorgio Giovanelli

Franco Angeli open access, 2025

Un’impresa che lascia il segno

Un nuovo appuntamento con “Pirelli, la città, la visione”, un’occasione per esplorare il nostro Archivio Storico con i suoi oltre quattro chilometri di documenti

Ci sono imprese che incidono il proprio nome nello spazio, fino ad abitare anche i luoghi dell’immaginario. Fra queste c’è Pirelli, che nasce a Milano nel 1872 con la fabbrica di via Ponte Seveso (oggi via Fabio Filzi) e continua la propria espansione in direzione multinazionale, custodendo con la città un legame radicale che dà vita a una storia davvero unica.

Nel primo articolo di questo approfondimento “Pirelli, la città, la visione” abbiamo visto come il legame di Pirelli con la città di Milano abbia assunto presto un carattere identitario, con l’ingresso di “Milano” nel nome dell’azienda e dei suoi prodotti –  dal primo marchio di fabbrica di Pirelli registrato nel 1888, alla prima unità posacavi italiana, chiamata appunto “Città di Milano”, ai primi modelli di “pneumatiche” per i velocipedi del 1894 “Tipo Milano”. E “Milano” stampata ricorre nella letteratura commerciale dell’azienda, nei cataloghi e nei listini prezzi di tutti gli articoli.

L’azienda cresce, si moltiplicano le fabbriche, i prodotti, le persone, e le relazioni con la comunità tutt’intorno, così “Pirelli” diventa presto un nome noto e prestigioso, fino ad assumere la dimensione dell’iconicità.

Partiamo da una stazione ferroviaria, un luogo fondamentale per la città e per l’industria del Novecento. È il 1914 quando viene inaugurata la stazione di Greco, all’epoca ubicata tra i comuni di Greco Milanese e Gorla Primo, poi diventata Gorlaprecotto, uniti al comune di Milano nel 1923. La stazione serviva con i suoi raccordi gli insediamenti industriali che crescevano in quella zona di Milano – Breda (poi Ansaldo), Manifattura Tabacchi, CIWL e Pirelli. “Un avvenimento rompe la semi-stasi della Bicocca. Entra, da Greco, un treno carico fino agli orli. Gomma grezza proveniente da Genova! (ed eventualmente carbone ed altre materie prime). Finalmente!” – si legge nella XXI scena di “Questa è la nostra città”, la sceneggiatura scritta da Alberto Moravia su commissione di Pirelli che nel 1947 intendeva realizzare un film per celebrare i 75 anni dell’azienda, e pubblicata quest’anno per la prima volta da Bompiani. Nel 1957 la stazione di Milano Greco viene ribattezzata Milano Greco Pirelli, in omaggio alle vicine fabbriche dell’azienda, che all’epoca occupavano gran parte del quartiere Bicocca.

Passiamo a un grattacielo, non il primo per la città di Milano, che già dagli anni Venti del secolo scorso stava incominciando a salire, con i primi edifici a essere chiamati “grattacieli”. Ma il 12 luglio 1956 viene posata ufficialmente la prima pietra del Grattacielo Pirelli, il nuovo centro direzionale del Gruppo che sorge al posto degli storici fabbricati della Brusada, la parte del primo stabilimento sopravvissuta ai bombardamenti del 1943. Progettato da Gio Ponti e Giuseppe Valtolina con il contributo di Pierluigi Nervi e Arturo Danusso, completato nel 1960 e celebrato dalla stampa internazionale come un’opera tecnicamente ed esteticamente eccezionale, il Grattacielo Pirelli è una torre in cemento armato di 127 metri e 31 piani, con una pianta larga al centro che si stringe gradatamente ai lati fin quasi a chiudersi nelle punte – la costruzione in cemento armato più alta d’Europa e la terza nel mondo, dalla straordinaria ed elegante razionalità. La sua facciata è una vetrata continua in alluminio e cristallo di 9.500 metri quadrati che di giorno riflette “i moti del cielo”, facendo stagliare il Pirellone nello skyline di Milano. Sarà di proprietà di Pirelli fino al 1978, quando verrà ceduto a Regione Lombardia, ma il suo nome resta fra i simboli e le icone della “città che sale”, conservando fino al 2010 il primato in altezza del capoluogo meneghino.

Il nome di Pirelli è legato anche a due impianti sportivi della città di Milano che hanno fatto la storia rispettivamente del calcio mondiale e del ciclismo. Appassionato di sport, Piero Pirelli, figlio maggiore del fondatore Giovanni Battista Pirelli, dopo aver contribuito nel 1899 alla fondazione del Milan Football Club (di cui è presidente tra il 1909 e il 1929), prende parte alla costruzione dello stadio di San Siro, nel 1926. La sua, è risaputo, è stata una vita tra impresa, impegno nel sociale e grande passione per lo sport.

Nel 1935 arriva il velodromo semicoperto Vigorelli, in sostituzione dell’ormai obsoleto velodromo di Corso Sempione, demolito nel 1928. Fortemente voluto da Pirelli e da Giuseppe Vigorelli, ex-pistard, industriale e commerciale per conto di Pirelli, il Vigorelli diventa sin da subito una sorta di tempio del ciclismo italiano e mondiale, che il 7 novembre 1942 è testimone del primato mondiale dell’ora di Fausto Coppi: 45,798 km. Negli anni d’oro della struttura, tra il 1949 e il 1957, sotto la supervisione del campione Alfredo Binda, si disputa nel velodromo anche il Gran Premio Pirelli, un torneo per giovani appassionati che si sfidavano in eliminatorie regionali fino alla gara finale di Milano, nel “tempio” del ciclismo.

Un nuovo appuntamento con “Pirelli, la città, la visione”, un’occasione per esplorare il nostro Archivio Storico con i suoi oltre quattro chilometri di documenti

Ci sono imprese che incidono il proprio nome nello spazio, fino ad abitare anche i luoghi dell’immaginario. Fra queste c’è Pirelli, che nasce a Milano nel 1872 con la fabbrica di via Ponte Seveso (oggi via Fabio Filzi) e continua la propria espansione in direzione multinazionale, custodendo con la città un legame radicale che dà vita a una storia davvero unica.

Nel primo articolo di questo approfondimento “Pirelli, la città, la visione” abbiamo visto come il legame di Pirelli con la città di Milano abbia assunto presto un carattere identitario, con l’ingresso di “Milano” nel nome dell’azienda e dei suoi prodotti –  dal primo marchio di fabbrica di Pirelli registrato nel 1888, alla prima unità posacavi italiana, chiamata appunto “Città di Milano”, ai primi modelli di “pneumatiche” per i velocipedi del 1894 “Tipo Milano”. E “Milano” stampata ricorre nella letteratura commerciale dell’azienda, nei cataloghi e nei listini prezzi di tutti gli articoli.

L’azienda cresce, si moltiplicano le fabbriche, i prodotti, le persone, e le relazioni con la comunità tutt’intorno, così “Pirelli” diventa presto un nome noto e prestigioso, fino ad assumere la dimensione dell’iconicità.

Partiamo da una stazione ferroviaria, un luogo fondamentale per la città e per l’industria del Novecento. È il 1914 quando viene inaugurata la stazione di Greco, all’epoca ubicata tra i comuni di Greco Milanese e Gorla Primo, poi diventata Gorlaprecotto, uniti al comune di Milano nel 1923. La stazione serviva con i suoi raccordi gli insediamenti industriali che crescevano in quella zona di Milano – Breda (poi Ansaldo), Manifattura Tabacchi, CIWL e Pirelli. “Un avvenimento rompe la semi-stasi della Bicocca. Entra, da Greco, un treno carico fino agli orli. Gomma grezza proveniente da Genova! (ed eventualmente carbone ed altre materie prime). Finalmente!” – si legge nella XXI scena di “Questa è la nostra città”, la sceneggiatura scritta da Alberto Moravia su commissione di Pirelli che nel 1947 intendeva realizzare un film per celebrare i 75 anni dell’azienda, e pubblicata quest’anno per la prima volta da Bompiani. Nel 1957 la stazione di Milano Greco viene ribattezzata Milano Greco Pirelli, in omaggio alle vicine fabbriche dell’azienda, che all’epoca occupavano gran parte del quartiere Bicocca.

Passiamo a un grattacielo, non il primo per la città di Milano, che già dagli anni Venti del secolo scorso stava incominciando a salire, con i primi edifici a essere chiamati “grattacieli”. Ma il 12 luglio 1956 viene posata ufficialmente la prima pietra del Grattacielo Pirelli, il nuovo centro direzionale del Gruppo che sorge al posto degli storici fabbricati della Brusada, la parte del primo stabilimento sopravvissuta ai bombardamenti del 1943. Progettato da Gio Ponti e Giuseppe Valtolina con il contributo di Pierluigi Nervi e Arturo Danusso, completato nel 1960 e celebrato dalla stampa internazionale come un’opera tecnicamente ed esteticamente eccezionale, il Grattacielo Pirelli è una torre in cemento armato di 127 metri e 31 piani, con una pianta larga al centro che si stringe gradatamente ai lati fin quasi a chiudersi nelle punte – la costruzione in cemento armato più alta d’Europa e la terza nel mondo, dalla straordinaria ed elegante razionalità. La sua facciata è una vetrata continua in alluminio e cristallo di 9.500 metri quadrati che di giorno riflette “i moti del cielo”, facendo stagliare il Pirellone nello skyline di Milano. Sarà di proprietà di Pirelli fino al 1978, quando verrà ceduto a Regione Lombardia, ma il suo nome resta fra i simboli e le icone della “città che sale”, conservando fino al 2010 il primato in altezza del capoluogo meneghino.

Il nome di Pirelli è legato anche a due impianti sportivi della città di Milano che hanno fatto la storia rispettivamente del calcio mondiale e del ciclismo. Appassionato di sport, Piero Pirelli, figlio maggiore del fondatore Giovanni Battista Pirelli, dopo aver contribuito nel 1899 alla fondazione del Milan Football Club (di cui è presidente tra il 1909 e il 1929), prende parte alla costruzione dello stadio di San Siro, nel 1926. La sua, è risaputo, è stata una vita tra impresa, impegno nel sociale e grande passione per lo sport.

Nel 1935 arriva il velodromo semicoperto Vigorelli, in sostituzione dell’ormai obsoleto velodromo di Corso Sempione, demolito nel 1928. Fortemente voluto da Pirelli e da Giuseppe Vigorelli, ex-pistard, industriale e commerciale per conto di Pirelli, il Vigorelli diventa sin da subito una sorta di tempio del ciclismo italiano e mondiale, che il 7 novembre 1942 è testimone del primato mondiale dell’ora di Fausto Coppi: 45,798 km. Negli anni d’oro della struttura, tra il 1949 e il 1957, sotto la supervisione del campione Alfredo Binda, si disputa nel velodromo anche il Gran Premio Pirelli, un torneo per giovani appassionati che si sfidavano in eliminatorie regionali fino alla gara finale di Milano, nel “tempio” del ciclismo.

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Il tempo degli anziani serve a costruire memoria e pensiero critico, per preparare un migliore futuro

È un esile libro, 86 pagine appena, sapienti, scorrevoli. Il titolo è “I venti”. L’ha scritto Mario Vargas Llosa, poco prima di morire (nell’aprile di quest’anno). E l’ha appena pubblicato Einaudi. Si legge in un’ora. È il punto di vista d’un padre nobile della letteratura mondiale, un memoriale, una sorta di testamento. E merita attenzione d’intelligenza e di cuore.

Si racconta che a Madrid, implicitamente metafora d’altre città, chiudono i cinema, perché oramai non li frequenta più nessuno. Deserte, le biblioteche e le librerie. Tra non molto, chiuderanno anche i musei, per mancanza di pubblico. E alle manifestazioni di protesta contro questi atti di tramonto della conoscenza e dunque dello spirito civile di una comunità, non vanno che pochi anziani, malinconici, rattristati. E inascoltati.

Tutt’attorno, è il trionfo della tecnologia e delle immagini (s’invera, peggiorata, la distopia della “società dello spettacolo” profetizzata criticamente, a metà degli anni Sessanta del Novecento, da Guy Debord): riproduzioni digitali delle opere d’arte sui display di telefonini e computer invece dei quadri dal vivo; stolte passioni per una società “Paper free” senza né libri né giornali; romanzi scritti su ordinazione dall’Artificial Intelligence invece che le opere di Tolstoj, Cervantes e Virginia Woolf. Algoritmi, invece che creatività degli artisti.

E l’artista, allora? Il protagonista del libro si smarrisce dalle parti della Biblioteca Nacional di paseo de Recoletos, nel cuore della città, è fragile e confuso, non ricorda più neppure la strada di casa. E vaga, sommerso da ricordi e rimpianti. Un anziano alla deriva. “Triste, solitario y final”, titola acutamente “Robinson” de “la Repubblica”, citando Osvaldo Soriano, per dare forza alla recensione di Paolo Di Paolo sulle scarne, ironiche ed essenziali pagine del romanzo postumo di Vargas Llosa di cui abbiamo detto. Un’elegia conservatrice della buona cultura. Monito su quanto il suo degrado finisca per coinvolgere anche il complesso delle libertà sociali, economiche, politiche.

Muoiono, i vecchi maestri (gli ultimi, per le emozioni dolenti di chi scrive, sono stati pochi giorni fa Marco Onado e Goffredo Fofi). Lasciano patrimoni di pensieri e parole, nella speranza che tra noi che restiamo ci siano pur sempre persone animate da intelligenza e passioni per continuare a farli vivere e dar frutti di nuove conoscenze e intensi racconti.

Attraversiamo con ansia tempi difficili. In cui la realtà di guerre armate e conflitti commerciali (a dispetto di un ordine internazionale e di una serie di intese economiche che credevamo valori e pratiche stabilmente acquisite) scompaginano gli equilibri del mondo. E in cui aumentano i divari, geografici, sociali, razziali, culturali, di genere e generazione. Un mondo inquieto, dolente, rancoroso. Disorientato dalla crisi dei tradizionali principi d’autorità e autorevolezza. Invaso da tecnologie sofisticate. Ma sempre più incerto rispetto al pensiero critico di cui avremmo tutti uno straordinario bisogno, proprio per navigare con senso e consapevolezza nell’universo high tech.

Anche per questo, forse, ogni morte d’una persona anziana forte d’esperienza e capace di memoria ci colpisce tanto e incupisce i nostri giorni così controversi e precari.

È un pensiero in controtendenza, l’elogio dell’importanza degli anziani, in tempi di giovanilismo diffuso e di narcisismo che, in un’interpretazione involgarita del ritratto di Dorian Gray, prova a ingannare il trascorrere del tempo e dunque a evitare anche il carico delle relative responsabilità. Forse, è persino una cattiva abitudine che gli anziani coltivano per se stessi.

Eppure, ci deve pur essere uno squilibrio di fondo con cui provare a fare i conti se cronache giornalistiche, rapporti economici e indagini sociologiche ci parlano, contemporaneamente, di un’Italia che non è “un paese per giovani” e però, pure, non è “un paese per vecchi”.

Per quel che riguarda i giovani, un dato per tutti: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila, cioè il 21% in più dell’anno precedente (ne abbiamo parlato nel blog del 24 giugno ).

Ma l’Italia non è nemmeno un buon paese per vecchi: gli anziani sono tanti, è vero, ma spesso anche solitari, fragili, impauriti, via via estranei ai meccanismi frenetici della contemporaneità. L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo quasi 59 milioni, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). Le nascite, invece continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Si vive più a lungo, e meglio. Ma siamo un paese con l’ascensore sociale bloccato. E se è vero che “il 75% della ricchezza è in mano agli over 50” (La Stampa, 10 luglio, secondo i dati del Rapporto di Proof Society), è altrettanto vero che il crescente malfunzionamento delle strutture di welfare (come testimonia il dramma dell’allungamento delle liste d’attesa per la sanità) e i nuovi assetti familiari e sociali aggravano la marginalità degli anziani non benestanti e poco autosufficienti.

Ecco il punto. C’è un’Italia da capire più a fondo e a cui dare prospettive meno squilibrate e speranze più solide. Slogan a parte, è necessario guardare meglio all’interno del corpo del Paese, imparare a leggere fuori dagli stereotipi le condizioni di periferie metropolitane, borghi montani, campagne in via d’abbandono. E curarsi molto di più delle questioni dei “beni comuni” e dei valori generali delle comunità. Costruire, insomma, percorsi di buona politica ed efficace pubblica amministrazione.

“I vecchi e i giovani”, prendendo in prestito il titolo d’un grande romanzo di Luigi Pirandello, non può essere tema da giocare su contrasti e contrapposizioni. Semmai, va pensato in nuove e originali sintesi. Tra presenze sociali e generazionali diverse. Nell’incrocio fertile tra memoria e futuro, consapevolezza storica e spazio aperto per l’innovazione. Le vicende stesse della società italiana, di queste sintesi, offrono testimonianze esemplari.

Come le pagine di Italo Calvino, ne “Le città invisibili”: “Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vederle cambiare pietra su pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi”.

Rimemorare, dunque, è la responsabilità degli anziani. E, senza cedere al narcisismo giovanilista e all’ossessione del potere, essere utili nel suggerire percorsi, nell’alimentare dubbi e domande, nel fornire materiali di pensiero critico.

Il nostro tempo di vita va naturalmente verso la scadenza. E vale la pena fare tesoro della lezione di Enzo Bianchi: aggiungere “vita ai giorni”, non potendo aggiungere “giorni alla vita”.

Saper essere maestri, insomma. Con la m minuscola. Raccontare. Insegnare. Mostrare. Far leggere e rileggere.

Torniamo, così, là dove siamo partiti. Ai “venti” di Vargas Llosa. Alla letteratura. Alle parole che a noi anziani tocca scrivere e ripetere.

Rileggendo, per esempio, José Saramago, che introduce le poesie di Fernando Pessoa: “Era un uomo che conosceva le lingue e scriveva versi. Si guadagnò il pane e il vino mettendo le parole nel posto delle parole, scrisse versi come i versi si devono scrivere come se fosse la prima volta. Ini­ziò chia­man­dosi Fer­nando, pes­soa, per­sona come tutti”.

(foto Getty Images)

È un esile libro, 86 pagine appena, sapienti, scorrevoli. Il titolo è “I venti”. L’ha scritto Mario Vargas Llosa, poco prima di morire (nell’aprile di quest’anno). E l’ha appena pubblicato Einaudi. Si legge in un’ora. È il punto di vista d’un padre nobile della letteratura mondiale, un memoriale, una sorta di testamento. E merita attenzione d’intelligenza e di cuore.

Si racconta che a Madrid, implicitamente metafora d’altre città, chiudono i cinema, perché oramai non li frequenta più nessuno. Deserte, le biblioteche e le librerie. Tra non molto, chiuderanno anche i musei, per mancanza di pubblico. E alle manifestazioni di protesta contro questi atti di tramonto della conoscenza e dunque dello spirito civile di una comunità, non vanno che pochi anziani, malinconici, rattristati. E inascoltati.

Tutt’attorno, è il trionfo della tecnologia e delle immagini (s’invera, peggiorata, la distopia della “società dello spettacolo” profetizzata criticamente, a metà degli anni Sessanta del Novecento, da Guy Debord): riproduzioni digitali delle opere d’arte sui display di telefonini e computer invece dei quadri dal vivo; stolte passioni per una società “Paper free” senza né libri né giornali; romanzi scritti su ordinazione dall’Artificial Intelligence invece che le opere di Tolstoj, Cervantes e Virginia Woolf. Algoritmi, invece che creatività degli artisti.

E l’artista, allora? Il protagonista del libro si smarrisce dalle parti della Biblioteca Nacional di paseo de Recoletos, nel cuore della città, è fragile e confuso, non ricorda più neppure la strada di casa. E vaga, sommerso da ricordi e rimpianti. Un anziano alla deriva. “Triste, solitario y final”, titola acutamente “Robinson” de “la Repubblica”, citando Osvaldo Soriano, per dare forza alla recensione di Paolo Di Paolo sulle scarne, ironiche ed essenziali pagine del romanzo postumo di Vargas Llosa di cui abbiamo detto. Un’elegia conservatrice della buona cultura. Monito su quanto il suo degrado finisca per coinvolgere anche il complesso delle libertà sociali, economiche, politiche.

Muoiono, i vecchi maestri (gli ultimi, per le emozioni dolenti di chi scrive, sono stati pochi giorni fa Marco Onado e Goffredo Fofi). Lasciano patrimoni di pensieri e parole, nella speranza che tra noi che restiamo ci siano pur sempre persone animate da intelligenza e passioni per continuare a farli vivere e dar frutti di nuove conoscenze e intensi racconti.

Attraversiamo con ansia tempi difficili. In cui la realtà di guerre armate e conflitti commerciali (a dispetto di un ordine internazionale e di una serie di intese economiche che credevamo valori e pratiche stabilmente acquisite) scompaginano gli equilibri del mondo. E in cui aumentano i divari, geografici, sociali, razziali, culturali, di genere e generazione. Un mondo inquieto, dolente, rancoroso. Disorientato dalla crisi dei tradizionali principi d’autorità e autorevolezza. Invaso da tecnologie sofisticate. Ma sempre più incerto rispetto al pensiero critico di cui avremmo tutti uno straordinario bisogno, proprio per navigare con senso e consapevolezza nell’universo high tech.

Anche per questo, forse, ogni morte d’una persona anziana forte d’esperienza e capace di memoria ci colpisce tanto e incupisce i nostri giorni così controversi e precari.

È un pensiero in controtendenza, l’elogio dell’importanza degli anziani, in tempi di giovanilismo diffuso e di narcisismo che, in un’interpretazione involgarita del ritratto di Dorian Gray, prova a ingannare il trascorrere del tempo e dunque a evitare anche il carico delle relative responsabilità. Forse, è persino una cattiva abitudine che gli anziani coltivano per se stessi.

Eppure, ci deve pur essere uno squilibrio di fondo con cui provare a fare i conti se cronache giornalistiche, rapporti economici e indagini sociologiche ci parlano, contemporaneamente, di un’Italia che non è “un paese per giovani” e però, pure, non è “un paese per vecchi”.

Per quel che riguarda i giovani, un dato per tutti: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila, cioè il 21% in più dell’anno precedente (ne abbiamo parlato nel blog del 24 giugno ).

Ma l’Italia non è nemmeno un buon paese per vecchi: gli anziani sono tanti, è vero, ma spesso anche solitari, fragili, impauriti, via via estranei ai meccanismi frenetici della contemporaneità. L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo quasi 59 milioni, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). Le nascite, invece continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Si vive più a lungo, e meglio. Ma siamo un paese con l’ascensore sociale bloccato. E se è vero che “il 75% della ricchezza è in mano agli over 50” (La Stampa, 10 luglio, secondo i dati del Rapporto di Proof Society), è altrettanto vero che il crescente malfunzionamento delle strutture di welfare (come testimonia il dramma dell’allungamento delle liste d’attesa per la sanità) e i nuovi assetti familiari e sociali aggravano la marginalità degli anziani non benestanti e poco autosufficienti.

Ecco il punto. C’è un’Italia da capire più a fondo e a cui dare prospettive meno squilibrate e speranze più solide. Slogan a parte, è necessario guardare meglio all’interno del corpo del Paese, imparare a leggere fuori dagli stereotipi le condizioni di periferie metropolitane, borghi montani, campagne in via d’abbandono. E curarsi molto di più delle questioni dei “beni comuni” e dei valori generali delle comunità. Costruire, insomma, percorsi di buona politica ed efficace pubblica amministrazione.

“I vecchi e i giovani”, prendendo in prestito il titolo d’un grande romanzo di Luigi Pirandello, non può essere tema da giocare su contrasti e contrapposizioni. Semmai, va pensato in nuove e originali sintesi. Tra presenze sociali e generazionali diverse. Nell’incrocio fertile tra memoria e futuro, consapevolezza storica e spazio aperto per l’innovazione. Le vicende stesse della società italiana, di queste sintesi, offrono testimonianze esemplari.

Come le pagine di Italo Calvino, ne “Le città invisibili”: “Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vederle cambiare pietra su pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi”.

Rimemorare, dunque, è la responsabilità degli anziani. E, senza cedere al narcisismo giovanilista e all’ossessione del potere, essere utili nel suggerire percorsi, nell’alimentare dubbi e domande, nel fornire materiali di pensiero critico.

Il nostro tempo di vita va naturalmente verso la scadenza. E vale la pena fare tesoro della lezione di Enzo Bianchi: aggiungere “vita ai giorni”, non potendo aggiungere “giorni alla vita”.

Saper essere maestri, insomma. Con la m minuscola. Raccontare. Insegnare. Mostrare. Far leggere e rileggere.

Torniamo, così, là dove siamo partiti. Ai “venti” di Vargas Llosa. Alla letteratura. Alle parole che a noi anziani tocca scrivere e ripetere.

Rileggendo, per esempio, José Saramago, che introduce le poesie di Fernando Pessoa: “Era un uomo che conosceva le lingue e scriveva versi. Si guadagnò il pane e il vino mettendo le parole nel posto delle parole, scrisse versi come i versi si devono scrivere come se fosse la prima volta. Ini­ziò chia­man­dosi Fer­nando, pes­soa, per­sona come tutti”.

(foto Getty Images)

Cosa accade quando le culture si contaminano a vicenda

Due ricerche pubblicate da poco affrontano, da ambiti diversi, il tema

Conoscersi e capirsi. Superare le barriere. Contaminare le culture e, così, renderle più grandi. Trovare strade condivise.  E traguardi da raggiungere insieme. Questione di approccio e di atteggiamento. Questione che coinvolge tutti e che nelle relazioni tra imprese – così come tra organizzazioni in generale – assume un’importanza spesso determinante. Ci ragionano, partendo da aspetti diversi, due ricerche rese note recentemente.

Faruk Ahmed, Anupam Saha, Abdullah At Tasrif e Joyshree Das – con la loro ricerca “Cultural Intelligence and Strategic Adaptation: Unpacking the Dynamics of Successful International Business Negotiations Between U.S. and Chinese Technology Firms” – affrontano il tema delle relazioni tra culture diverse guardando alla globalizzazione e alle negoziazioni commerciali internazionali di successo: ambiti in cui il successo dipende fortemente dai negoziatori.  Serve, in altri termini, una forte capacità di “navigare in paesaggi culturali e strategici complessi”. La ricerca indaga il ruolo critico della cultura e la capacità di adattamento strategico nel plasmare i risultati dei negoziati tra le imprese statunitensi e cinesi nel comparto delle moderne tecnologie. Faruk Ahmed e i suoi colleghi esplorano quindi come le diverse norme culturali, gli stili di comunicazione e le pratiche commerciali influenzino le dinamiche di negoziazione. Anche partendo da alcuni casi studio come joint venture partnership strategiche tra le principali aziende tecnologiche di entrambi i paesi. I risultati indicano che i negoziatori che dimostrano alti livelli di cultura strategica e comportamentale, insieme ad una buona dose di flessibilità strategica, sono più indicati per raggiungere accordi sostenibili e reciprocamente vantaggiosi. Imparare a conoscersi per capirsi, appunto.

Alina Omirzak – con il suo “Exploring approaches to improving communication and engagement of job seekers from different cultural contexts” – esplora invece un altro ambito delle relazioni interculturali, quello del processo di selezione e coinvolgimento nelle imprese di candidati provenienti da vari contesti culturali. La ricerca, quindi, analizza le principali barriere e sfide che sorgono durante l’interazione tra rappresentanti di diverse culture, così come moderni approcci e metodi efficaci per superarli. Anche in questa indagine vengono approfonditi alcuni casi pratici di imprese internazionali che usano con successo l’approccio  multiculturale. E anche in questo ambito, la capacità di superare le barriere e di “contaminare le singole culture” appare essere determinante.

Cultural Intelligence and Strategic Adaptation: Unpacking the Dynamics

of Successful International Business Negotiations Between U.S. and

Chinese Technology Firms

Faruk Ahmed, Anupam Saha, Abdullah At Tasrif, Joyshree Das

Pacific Journal of Business Innovation and Strategy, Vol. 2, Issue 3, 2025

Exploring approaches to improving communication and engagement of job seekers from different cultural contexts

Alina Omirzak, University Admissions Expert Almaty, Kazakhstan

Journal of Multidisciplinary Research, Volume 3, Issue 6, June – 2025

Due ricerche pubblicate da poco affrontano, da ambiti diversi, il tema

Conoscersi e capirsi. Superare le barriere. Contaminare le culture e, così, renderle più grandi. Trovare strade condivise.  E traguardi da raggiungere insieme. Questione di approccio e di atteggiamento. Questione che coinvolge tutti e che nelle relazioni tra imprese – così come tra organizzazioni in generale – assume un’importanza spesso determinante. Ci ragionano, partendo da aspetti diversi, due ricerche rese note recentemente.

Faruk Ahmed, Anupam Saha, Abdullah At Tasrif e Joyshree Das – con la loro ricerca “Cultural Intelligence and Strategic Adaptation: Unpacking the Dynamics of Successful International Business Negotiations Between U.S. and Chinese Technology Firms” – affrontano il tema delle relazioni tra culture diverse guardando alla globalizzazione e alle negoziazioni commerciali internazionali di successo: ambiti in cui il successo dipende fortemente dai negoziatori.  Serve, in altri termini, una forte capacità di “navigare in paesaggi culturali e strategici complessi”. La ricerca indaga il ruolo critico della cultura e la capacità di adattamento strategico nel plasmare i risultati dei negoziati tra le imprese statunitensi e cinesi nel comparto delle moderne tecnologie. Faruk Ahmed e i suoi colleghi esplorano quindi come le diverse norme culturali, gli stili di comunicazione e le pratiche commerciali influenzino le dinamiche di negoziazione. Anche partendo da alcuni casi studio come joint venture partnership strategiche tra le principali aziende tecnologiche di entrambi i paesi. I risultati indicano che i negoziatori che dimostrano alti livelli di cultura strategica e comportamentale, insieme ad una buona dose di flessibilità strategica, sono più indicati per raggiungere accordi sostenibili e reciprocamente vantaggiosi. Imparare a conoscersi per capirsi, appunto.

Alina Omirzak – con il suo “Exploring approaches to improving communication and engagement of job seekers from different cultural contexts” – esplora invece un altro ambito delle relazioni interculturali, quello del processo di selezione e coinvolgimento nelle imprese di candidati provenienti da vari contesti culturali. La ricerca, quindi, analizza le principali barriere e sfide che sorgono durante l’interazione tra rappresentanti di diverse culture, così come moderni approcci e metodi efficaci per superarli. Anche in questa indagine vengono approfonditi alcuni casi pratici di imprese internazionali che usano con successo l’approccio  multiculturale. E anche in questo ambito, la capacità di superare le barriere e di “contaminare le singole culture” appare essere determinante.

Cultural Intelligence and Strategic Adaptation: Unpacking the Dynamics

of Successful International Business Negotiations Between U.S. and

Chinese Technology Firms

Faruk Ahmed, Anupam Saha, Abdullah At Tasrif, Joyshree Das

Pacific Journal of Business Innovation and Strategy, Vol. 2, Issue 3, 2025

Exploring approaches to improving communication and engagement of job seekers from different cultural contexts

Alina Omirzak, University Admissions Expert Almaty, Kazakhstan

Journal of Multidisciplinary Research, Volume 3, Issue 6, June – 2025

Imprese familiari, come e perché

La descrizione, l’analisi e la gestione di una forma diffusa e particolare di fare impresa

Imprese familiari, ovvero imprese indicate come “spina dorsale” di molte economie ma, tutto sommato, poco conosciute e appesantite da una serie di miti che spesso non hanno nulla a che fare con la realtà. Capirne la vera natura, e le dinamiche di azione ed evoluzione, significa comprendere una parte importante della cultura del produrre di un territorio (e dell’Italia in particolare). È quanto prova a fare – riuscendoci – “Imprese familiari. Teoria e pratica per gestire con intenzione” scritto a quattro mani da Cristina Bettinelli e Olivia Mathijsen, che offre un’analisi di questa categoria di attività imprenditoriali, guidando il lettore attraverso la comprensione delle relative complessità e traiettorie evolutive.
Avvalendosi di modelli teorici, casi e strumenti pratici, il libro riflette su temi come la governance, i conflitti, i valori e la cultura. Il testo affronta il tema del passaggio generazionale illustrando come coltivare la capacità di gestione (stewardship) nelle generazioni future. Il filo conduttore è l’intenzionalità nell’affrontare consapevolmente questi argomenti.

Il libro inizia con un passaggio importante: affrontare e sfatare sei miti collegati all’immagine delle imprese familiari che non hanno ragione d’essere. Chi legge passa quindi ai criteri per la definizione delle imprese familiari e poi alle “tre dimensioni evolutive” di queste organizzazioni della produzione: la proprietà, la famiglia e l’impresa in quanto tale. Il libro prosegue approfondendo il tema, complesso e variegato, del governo delle diverse dimensioni che nell’impresa familiare trovano sintesi per poi passare ad altri temi fondamentali: l’intreccio tra valori e cultura nelle imprese familiari, i conflitti, le comunicazioni e le emozioni che possono caratterizzare queste attività. Chiudono la fatica letteraria di Bettinelli e Mathijsen due altri argomenti fondamentali: il nodo del passaggio generazionale e quello della necessità di trasmettere alle nuove generazioni la capacità gestionale necessaria per condurre un’impresa. Due casi studio – Pastificio Rana S.p.A e Distillatori Nonino S.R.L. – completano la teoria illustrata nel libro.

Quanto scritto da Cristina Bettinelli e Olivia Mathijsen è un buono strumento per iniziare a capire una dimensione certamente particolare del fare impresa.

Imprese familiari. Teoria e pratica per gestire con intenzione

Cristina Bettinelli, Olivia Mathijsen

Guerini Next, 2024

La descrizione, l’analisi e la gestione di una forma diffusa e particolare di fare impresa

Imprese familiari, ovvero imprese indicate come “spina dorsale” di molte economie ma, tutto sommato, poco conosciute e appesantite da una serie di miti che spesso non hanno nulla a che fare con la realtà. Capirne la vera natura, e le dinamiche di azione ed evoluzione, significa comprendere una parte importante della cultura del produrre di un territorio (e dell’Italia in particolare). È quanto prova a fare – riuscendoci – “Imprese familiari. Teoria e pratica per gestire con intenzione” scritto a quattro mani da Cristina Bettinelli e Olivia Mathijsen, che offre un’analisi di questa categoria di attività imprenditoriali, guidando il lettore attraverso la comprensione delle relative complessità e traiettorie evolutive.
Avvalendosi di modelli teorici, casi e strumenti pratici, il libro riflette su temi come la governance, i conflitti, i valori e la cultura. Il testo affronta il tema del passaggio generazionale illustrando come coltivare la capacità di gestione (stewardship) nelle generazioni future. Il filo conduttore è l’intenzionalità nell’affrontare consapevolmente questi argomenti.

Il libro inizia con un passaggio importante: affrontare e sfatare sei miti collegati all’immagine delle imprese familiari che non hanno ragione d’essere. Chi legge passa quindi ai criteri per la definizione delle imprese familiari e poi alle “tre dimensioni evolutive” di queste organizzazioni della produzione: la proprietà, la famiglia e l’impresa in quanto tale. Il libro prosegue approfondendo il tema, complesso e variegato, del governo delle diverse dimensioni che nell’impresa familiare trovano sintesi per poi passare ad altri temi fondamentali: l’intreccio tra valori e cultura nelle imprese familiari, i conflitti, le comunicazioni e le emozioni che possono caratterizzare queste attività. Chiudono la fatica letteraria di Bettinelli e Mathijsen due altri argomenti fondamentali: il nodo del passaggio generazionale e quello della necessità di trasmettere alle nuove generazioni la capacità gestionale necessaria per condurre un’impresa. Due casi studio – Pastificio Rana S.p.A e Distillatori Nonino S.R.L. – completano la teoria illustrata nel libro.

Quanto scritto da Cristina Bettinelli e Olivia Mathijsen è un buono strumento per iniziare a capire una dimensione certamente particolare del fare impresa.

Imprese familiari. Teoria e pratica per gestire con intenzione

Cristina Bettinelli, Olivia Mathijsen

Guerini Next, 2024

La dignità dell’uomo di fronte alle macchine

Il ragionamento di Paolo Benanti sull’IA riporta al centro l’umanità consapevole che tutti dobbiamo avere

 

L’attività umana a confronto con le macchine. Sfida ormai secolare che, tuttavia, in questi ultimi tempi pare assumere con l’Intelligenza Artificiale, nelle vesti di ChatGPT e dei Large Language Models (LLM), connotati non solo nuovi ma in grado di confondere l’agire stesso dell’uomo. Tanto che occorre chiedersi se davvero le nuove tecnologie siano strumenti di progresso oppure di oppressione e mortificazione della natura umana. Interrogativi importanti, attorno ai quali è necessario ragionare qualsiasi ruolo ci si ritrovi ad avere. Vale anche, quindi, per gli uomini d’impresa che proprio delle nuove tecnologie possono ritrovarsi a farne uso.

Di fronte a questi temi, leggere il breve libro di Paolo Benanti – teologo ed esperto di innovazione – è cosa davvero da fare. E con grande attenzione.

“L’uomo è un algoritmo? Il senso dell’umano e l’intelligenza artificiale” è lo sviluppo della prolusione che l’autore ha pronunciato all’Università di Camerino in occasione del conferimento del dottorato honoris causa in Computer Science e Mathematics, ma è soprattutto un viaggio in forma di racconto lungo le ultime frontiere dell’innovazione in relazione alla vita e all’agire umano.

L’autore inizia chiedendosi che cosa sia davvero al giorno d’oggi essere uomini e ricorda il mito di Ulisse che ci insegna che la ricerca umana di senso è guidata dall’intelligenza, nelle sue due declinazioni: νοῦς e μῆτις, intuizione e pratica.È, viene ricordato, dalla sinergia di queste facoltà che sono nate le grandi invenzioni che segnano la nostra specie, a partire dalla “grande invenzione del linguaggio”. Quel linguaggio che oggi però non sembra più essere una prerogativa esclusivamente umana. L’introduzione, tramite l’IA, di una lingua computazionale che riconfigura in modo nuovo parola e pensiero, pare mettere tutto in discussione di volta in volta minacciando oppure esaltando l’agire umano.

Benanti accompagna quindi chi legge in una breve e suggestiva riflessione etica sul paradosso della tecnica. Ma quindi come fare per non essere confusi e sopraffatti? Muovendosi tra informatica, filosofia e spiritualità Benanti avanza una proposta semplice ma dirompente, capace di restituire centralità alla dimensione umana. Recuperare oggi un “pregiudizio umanista” che non vuol dire ripudiare il progresso, ma riaffermarne la sfida più autentica – vivere una vita buona e consapevole, una vita dignitosa – facendo uso anche dell’IA che però deve tornare a essere uno strumento nelle nostre mani, al servizio della piena dignità umana. Sfida, questa, che non può essere condotta e vinta dagli individui ma dalla comunità di questi.

Il libro di Paolo Benanti è di quelli da leggere e rileggere (come ha fatto Sebastiano Maffettone che ne ha curato la prefazione).  Bellissimo uno degli ultimi passaggi del libro: “La dignità umana è il livello al di là del quale la convivenza degli uomini non può più regredire, nemmeno in un’epoca come la nostra in cui le macchine ci sfidano con le loro capacità a comunicare in maniera rinnovata la semantica e il senso della nostra condizione umana”.

L’uomo è un algoritmo? Il senso dell’umano e l’intelligenza artificiale

Paolo Benanti

Castelvecchio, 2025

Il ragionamento di Paolo Benanti sull’IA riporta al centro l’umanità consapevole che tutti dobbiamo avere

 

L’attività umana a confronto con le macchine. Sfida ormai secolare che, tuttavia, in questi ultimi tempi pare assumere con l’Intelligenza Artificiale, nelle vesti di ChatGPT e dei Large Language Models (LLM), connotati non solo nuovi ma in grado di confondere l’agire stesso dell’uomo. Tanto che occorre chiedersi se davvero le nuove tecnologie siano strumenti di progresso oppure di oppressione e mortificazione della natura umana. Interrogativi importanti, attorno ai quali è necessario ragionare qualsiasi ruolo ci si ritrovi ad avere. Vale anche, quindi, per gli uomini d’impresa che proprio delle nuove tecnologie possono ritrovarsi a farne uso.

Di fronte a questi temi, leggere il breve libro di Paolo Benanti – teologo ed esperto di innovazione – è cosa davvero da fare. E con grande attenzione.

“L’uomo è un algoritmo? Il senso dell’umano e l’intelligenza artificiale” è lo sviluppo della prolusione che l’autore ha pronunciato all’Università di Camerino in occasione del conferimento del dottorato honoris causa in Computer Science e Mathematics, ma è soprattutto un viaggio in forma di racconto lungo le ultime frontiere dell’innovazione in relazione alla vita e all’agire umano.

L’autore inizia chiedendosi che cosa sia davvero al giorno d’oggi essere uomini e ricorda il mito di Ulisse che ci insegna che la ricerca umana di senso è guidata dall’intelligenza, nelle sue due declinazioni: νοῦς e μῆτις, intuizione e pratica.È, viene ricordato, dalla sinergia di queste facoltà che sono nate le grandi invenzioni che segnano la nostra specie, a partire dalla “grande invenzione del linguaggio”. Quel linguaggio che oggi però non sembra più essere una prerogativa esclusivamente umana. L’introduzione, tramite l’IA, di una lingua computazionale che riconfigura in modo nuovo parola e pensiero, pare mettere tutto in discussione di volta in volta minacciando oppure esaltando l’agire umano.

Benanti accompagna quindi chi legge in una breve e suggestiva riflessione etica sul paradosso della tecnica. Ma quindi come fare per non essere confusi e sopraffatti? Muovendosi tra informatica, filosofia e spiritualità Benanti avanza una proposta semplice ma dirompente, capace di restituire centralità alla dimensione umana. Recuperare oggi un “pregiudizio umanista” che non vuol dire ripudiare il progresso, ma riaffermarne la sfida più autentica – vivere una vita buona e consapevole, una vita dignitosa – facendo uso anche dell’IA che però deve tornare a essere uno strumento nelle nostre mani, al servizio della piena dignità umana. Sfida, questa, che non può essere condotta e vinta dagli individui ma dalla comunità di questi.

Il libro di Paolo Benanti è di quelli da leggere e rileggere (come ha fatto Sebastiano Maffettone che ne ha curato la prefazione).  Bellissimo uno degli ultimi passaggi del libro: “La dignità umana è il livello al di là del quale la convivenza degli uomini non può più regredire, nemmeno in un’epoca come la nostra in cui le macchine ci sfidano con le loro capacità a comunicare in maniera rinnovata la semantica e il senso della nostra condizione umana”.

L’uomo è un algoritmo? Il senso dell’umano e l’intelligenza artificiale

Paolo Benanti

Castelvecchio, 2025

Che impatto dall’attenzione all’ambiente?

La cura della sostenibilità d’impresa valutata con i principi dell’economia civile

Tenere conto dell’impatto dell’impresa sull’ambiente. Indicazione fondamentale – ormai – per pressoché tutte le realtà produttive delle economie evolute. Indicazione che, però, deve fare i conti non solo con la consapevolezza del problema, ma pure con i principi cardine della produzione e dell’economia civile. “Dare un senso all’agire delle imprese: uno sguardo civile sulla valutazione d’impatto” – ricerca di Sabrina Bonomi, associato di organizzazione aziendale – cerca di andare a fondo delle relazioni tra le preoccupazioni e i risvolti ambientali dell’agire delle organizzazioni della produzione e i dettami dell’economia civile vista come ultima frontiera della buona cultura d’impresa.

Bonomi, in particolare, indaga sulle relazioni tra tecniche e strumenti della produzione che hanno cura degli aspetti di sostenibilità ambientale e le ricadute di questi sulla società intorno all’organizzazione che li mette in campo.

La selezione di strumenti appropriati – sottolinea la ricerca – richiede abilità nell’analisi e nella gestione del valore creato rispetto ai principi dell’economia civile. Per arrivare ad indicazioni operative, Sabrina Bonomi mette a fuoco prima il paradigma dell’economia civile, poi il ruolo dell’impresa al suo interno, quindi le tecniche di valutazione dell’impatto dell’impresa introducendo MindSEC: un metodo di verifica basato sui principi dell’economia civile. L’approccio teorico viene poi “provato” con una serie di casi empirici.

Scrive Bonomi nelle conclusioni che il “metodo di valutazione di impatto basato sul paradigma dell’economia civile porta a imprenditori e manager a scegliere comportamenti virtuosi e coerenti con esso, nell’interesse del bene comune come del proprio: i vantaggi culturali, ambientali, sociali, economici e relazionali sono generati dalla capacità di coinvolgere diverse abilità e passioni, che garantiscono qualità e continuità dell’impegno preso e ne generano altri che portano a un cambiamento positivo nella comunità e nell’ambiente di cui, oggi più che mai, c’è bisogno”.

 

Dare un senso all’agire delle imprese: uno sguardo civile sulla valutazione d’impatto

Sabrina Bonomi

ImpresaProgetto. Electronic Journal of management, 2, 2025

La cura della sostenibilità d’impresa valutata con i principi dell’economia civile

Tenere conto dell’impatto dell’impresa sull’ambiente. Indicazione fondamentale – ormai – per pressoché tutte le realtà produttive delle economie evolute. Indicazione che, però, deve fare i conti non solo con la consapevolezza del problema, ma pure con i principi cardine della produzione e dell’economia civile. “Dare un senso all’agire delle imprese: uno sguardo civile sulla valutazione d’impatto” – ricerca di Sabrina Bonomi, associato di organizzazione aziendale – cerca di andare a fondo delle relazioni tra le preoccupazioni e i risvolti ambientali dell’agire delle organizzazioni della produzione e i dettami dell’economia civile vista come ultima frontiera della buona cultura d’impresa.

Bonomi, in particolare, indaga sulle relazioni tra tecniche e strumenti della produzione che hanno cura degli aspetti di sostenibilità ambientale e le ricadute di questi sulla società intorno all’organizzazione che li mette in campo.

La selezione di strumenti appropriati – sottolinea la ricerca – richiede abilità nell’analisi e nella gestione del valore creato rispetto ai principi dell’economia civile. Per arrivare ad indicazioni operative, Sabrina Bonomi mette a fuoco prima il paradigma dell’economia civile, poi il ruolo dell’impresa al suo interno, quindi le tecniche di valutazione dell’impatto dell’impresa introducendo MindSEC: un metodo di verifica basato sui principi dell’economia civile. L’approccio teorico viene poi “provato” con una serie di casi empirici.

Scrive Bonomi nelle conclusioni che il “metodo di valutazione di impatto basato sul paradigma dell’economia civile porta a imprenditori e manager a scegliere comportamenti virtuosi e coerenti con esso, nell’interesse del bene comune come del proprio: i vantaggi culturali, ambientali, sociali, economici e relazionali sono generati dalla capacità di coinvolgere diverse abilità e passioni, che garantiscono qualità e continuità dell’impegno preso e ne generano altri che portano a un cambiamento positivo nella comunità e nell’ambiente di cui, oggi più che mai, c’è bisogno”.

 

Dare un senso all’agire delle imprese: uno sguardo civile sulla valutazione d’impatto

Sabrina Bonomi

ImpresaProgetto. Electronic Journal of management, 2, 2025

Medtec, laureati i primi medici-ingegneri Milano rilancia il soft power della cultura politecnica

Un medico ingegnere, una sintesi originale tra competenze diverse, in grado di tenere insieme l’anatomia e le macchine tecnologiche più sofisticate, l’attenzione specialistica per la salute e la capacità di usare tutti gli strumenti digitali per diagnosi e terapia e prevenzione sanitaria. Di conoscere a fondo, insomma, quella creazione straordinaria, complessa e fragile, che è il corpo umano e di governare, a suo vantaggio, le possibilità offerte dall’Intelligenza Artificiale. A metà della scorsa settimana, a Milano, si sono laureati i primi 37 studenti di un corso di studi interdisciplinare, la Medtec School, nata sei anni fa dalla collaborazione tra la Humanitas University e il Politecnico (Corriere della Sera, 3 luglio). E la città conferma, così, una sua caratteristica di fondo: essere avanguardia nella formazione di alto livello, punto di riferimento internazionale delle Life Sciences, centro culturale di sperimentazione, ibridazione e sintesi di saperi diversi, lungo le nuove frontiere high tech. Una metropoli politecnica.

Sostiene Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico: “La convergenza tra Medicina e Ingegneria rappresenta un fattore di sviluppo economico e sociale a livello globale e nasce come eccellenza italiana. E la nostra speranza è che i neolaureati scelgano di specializzarsi qui e di lavorare in strutture ospedaliere e aziende del nostro paese”. E Luigi Maria Terracciano, rettore della Humanitas University: “L’obiettivo che ci siamo dati è formare professionisti capaci di governare l’evoluzione tecnologica in campo medico, mantenendo lo sguardo umano e la relazione con il paziente. Si tratta di un’esperienza universitaria con sbocchi importanti nel settore ospedaliero ma anche nell’ambito della ricerca avanzata”.

La Medtec School oggi ha 389 iscritti (il 58% sono studentesse), con una forte capacità di attrazione internazionale: il 17% vengono dall’estero, soprattutto da Francia, Grecia e Turchia. Quest’anno i laureati saranno in tutto 42. I corsi sono naturalmente in inglese, si svolgono a semestri alterni al Politecnico e alla Humanitas University e traggono vantaggio anche dal fitto sistema di relazioni che le due università hanno con docenti e ricercatori dei grandi atenei e dei migliori centri di ricerca nei principali paesi del mondo. Riprova dei vantaggi di una cultura scientifica critica, dialettica, aperta all’innovazione e sensibile agli stimoli di cambiamento.

È proprio questa, d’altronde, nella storia e nella pur controversa contemporaneità, una caratteristica di fondo di Milano, oramai la principale città universitaria italiana, con oltre 220mila studenti in una decina tra università (sempre meglio inserite nelle più prestigiose classifiche internazionali) e scuole di alta formazione (nel mondo del design e della moda). La caratteristica di chi, nell’accoglienza (comunque esigente, severa, produttiva), sa costruire stimoli di crescita e tenere insieme competitività e inclusione sociale, cittadinanza (uno spirito civile, di comunità) e intraprendenza, mercato e welfare. E anche se queste attitudini oggi conoscono un momento di crisi, una trasformazione delle tendenze di fondo (molti superficiali city users, un numero crescente di abitanti in difficoltà per gli alti costi dell’abitare e del vivere) e si ascoltano frequenti critiche e autocritiche sulle trasformazioni della “milanesità” (Milano è la città italiana più incline a discutere su se stessa, spregiudicatamente), è comunque vero che proprio qui continuano a nascere e maturare culture, fenomeni economici e sociali, processi che anticipano e strutturano modi d’essere, lavorare e produrre che innervano altri territori della Grande Milano, dell’Italia e della parte più dinamica e produttiva dell’Europa. Milano metropoli aperta, spazio di relazioni e contaminazioni.

È a Milano, d’altronde, che si rinnovano i fondamenti della “cultura politecnica”, diffusa tra le sue imprese e i suoi centri culturali e formativi, con solide basi nell’Ottocento di Carlo Cattaneo e frequenti trasformazioni negli anni fecondi d’inizio Novecento (l’Esposizione Universale del 1906), poi in quelli del boom economico e delle dinamiche riviste aziendali di Pirelli, Olivetti, Eni e Finmeccanica, testimonianza di una feconda “civiltà delle macchine” e poi ancora nell’inquieto passaggio contemporaneo di secolo e millennio (“Stiamo trasecolando”, avrebbe commemtato ironicamente uno spirito caustico come Enzo Sellerio).

Ed è appunto qui, nelle stanze di Assolombarda, connotata dalle architetture firmate Gio Ponti, che si insiste sulla necessità di avere una maggiore e migliore formazione culturale e universitaria Stem (Science, Technology , Engineering e Mathematics) anche per rafforzare e rilanciare la competitività internazionale delle imprese e però si insiste anche su una aggiunta essenziale: la “A” di Arts e cioè le conoscenze umanistiche, la cultura della bellezza. Un’indicazione elaborata e resa pubblica durante la presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca (2013- 2017) e adesso ripresa in vari ambienti economici nazionali ed europei. Rocca, appunto, presidente dell’Humanitas. I medici-ingegneri ne sono testimonianza. Così come gli ingegneri filosofi su cui il Politecnico di Milano, così come quello di Torino, insistono da anni.

Questa dimensione della “cultura politecnica”, che si può anche definire come “umanesimo industriale” che oggi si declina in “umanesimo digitale” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), è quanto mai utile anche per riflettere sulla forza del soft power espressa dal Made in Italy. Téchne e cioè saper fare e gusto per la bellezza (intesa anche come senso della misura, dell’equilibrio, della forma che esprime qualità della funzione: se n’è parlato nei giorni scorsi al Forum dei Territori di UniCredit per la Lombardia). Cultura del progetto che innerva la cultura del prodotto (gli oggetti esposti all’ADI Design Museum, premiati negli anni con il “Compasso d’Oro” ne sono chiare testimonianze). Produzioni di qualità nei settori di meccanica e meccatronica, aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, robotica e automotive, chimica e farmaceutica (le Life Sciences, appunto), oltre che nei tradizionali settori di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare.

Innovazione, tecnologie d’avanguardia, bellezza. Un soft power inimitabile, da spendere di più e meglio nella competizione internazionale, grazie a una nuova e migliore politica industriale nazionale ed europea. E da valorizzare non solo come produttività, ma anche come attrattività per una migliore qualità della vita e del lavoro.

La Medtec School, da cui è cominciato il nostro ragionamento, ne è un buon esempio. Ibridazioni da valorizzare.

Un medico ingegnere, una sintesi originale tra competenze diverse, in grado di tenere insieme l’anatomia e le macchine tecnologiche più sofisticate, l’attenzione specialistica per la salute e la capacità di usare tutti gli strumenti digitali per diagnosi e terapia e prevenzione sanitaria. Di conoscere a fondo, insomma, quella creazione straordinaria, complessa e fragile, che è il corpo umano e di governare, a suo vantaggio, le possibilità offerte dall’Intelligenza Artificiale. A metà della scorsa settimana, a Milano, si sono laureati i primi 37 studenti di un corso di studi interdisciplinare, la Medtec School, nata sei anni fa dalla collaborazione tra la Humanitas University e il Politecnico (Corriere della Sera, 3 luglio). E la città conferma, così, una sua caratteristica di fondo: essere avanguardia nella formazione di alto livello, punto di riferimento internazionale delle Life Sciences, centro culturale di sperimentazione, ibridazione e sintesi di saperi diversi, lungo le nuove frontiere high tech. Una metropoli politecnica.

Sostiene Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico: “La convergenza tra Medicina e Ingegneria rappresenta un fattore di sviluppo economico e sociale a livello globale e nasce come eccellenza italiana. E la nostra speranza è che i neolaureati scelgano di specializzarsi qui e di lavorare in strutture ospedaliere e aziende del nostro paese”. E Luigi Maria Terracciano, rettore della Humanitas University: “L’obiettivo che ci siamo dati è formare professionisti capaci di governare l’evoluzione tecnologica in campo medico, mantenendo lo sguardo umano e la relazione con il paziente. Si tratta di un’esperienza universitaria con sbocchi importanti nel settore ospedaliero ma anche nell’ambito della ricerca avanzata”.

La Medtec School oggi ha 389 iscritti (il 58% sono studentesse), con una forte capacità di attrazione internazionale: il 17% vengono dall’estero, soprattutto da Francia, Grecia e Turchia. Quest’anno i laureati saranno in tutto 42. I corsi sono naturalmente in inglese, si svolgono a semestri alterni al Politecnico e alla Humanitas University e traggono vantaggio anche dal fitto sistema di relazioni che le due università hanno con docenti e ricercatori dei grandi atenei e dei migliori centri di ricerca nei principali paesi del mondo. Riprova dei vantaggi di una cultura scientifica critica, dialettica, aperta all’innovazione e sensibile agli stimoli di cambiamento.

È proprio questa, d’altronde, nella storia e nella pur controversa contemporaneità, una caratteristica di fondo di Milano, oramai la principale città universitaria italiana, con oltre 220mila studenti in una decina tra università (sempre meglio inserite nelle più prestigiose classifiche internazionali) e scuole di alta formazione (nel mondo del design e della moda). La caratteristica di chi, nell’accoglienza (comunque esigente, severa, produttiva), sa costruire stimoli di crescita e tenere insieme competitività e inclusione sociale, cittadinanza (uno spirito civile, di comunità) e intraprendenza, mercato e welfare. E anche se queste attitudini oggi conoscono un momento di crisi, una trasformazione delle tendenze di fondo (molti superficiali city users, un numero crescente di abitanti in difficoltà per gli alti costi dell’abitare e del vivere) e si ascoltano frequenti critiche e autocritiche sulle trasformazioni della “milanesità” (Milano è la città italiana più incline a discutere su se stessa, spregiudicatamente), è comunque vero che proprio qui continuano a nascere e maturare culture, fenomeni economici e sociali, processi che anticipano e strutturano modi d’essere, lavorare e produrre che innervano altri territori della Grande Milano, dell’Italia e della parte più dinamica e produttiva dell’Europa. Milano metropoli aperta, spazio di relazioni e contaminazioni.

È a Milano, d’altronde, che si rinnovano i fondamenti della “cultura politecnica”, diffusa tra le sue imprese e i suoi centri culturali e formativi, con solide basi nell’Ottocento di Carlo Cattaneo e frequenti trasformazioni negli anni fecondi d’inizio Novecento (l’Esposizione Universale del 1906), poi in quelli del boom economico e delle dinamiche riviste aziendali di Pirelli, Olivetti, Eni e Finmeccanica, testimonianza di una feconda “civiltà delle macchine” e poi ancora nell’inquieto passaggio contemporaneo di secolo e millennio (“Stiamo trasecolando”, avrebbe commemtato ironicamente uno spirito caustico come Enzo Sellerio).

Ed è appunto qui, nelle stanze di Assolombarda, connotata dalle architetture firmate Gio Ponti, che si insiste sulla necessità di avere una maggiore e migliore formazione culturale e universitaria Stem (Science, Technology , Engineering e Mathematics) anche per rafforzare e rilanciare la competitività internazionale delle imprese e però si insiste anche su una aggiunta essenziale: la “A” di Arts e cioè le conoscenze umanistiche, la cultura della bellezza. Un’indicazione elaborata e resa pubblica durante la presidenza Assolombarda di Gianfelice Rocca (2013- 2017) e adesso ripresa in vari ambienti economici nazionali ed europei. Rocca, appunto, presidente dell’Humanitas. I medici-ingegneri ne sono testimonianza. Così come gli ingegneri filosofi su cui il Politecnico di Milano, così come quello di Torino, insistono da anni.

Questa dimensione della “cultura politecnica”, che si può anche definire come “umanesimo industriale” che oggi si declina in “umanesimo digitale” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), è quanto mai utile anche per riflettere sulla forza del soft power espressa dal Made in Italy. Téchne e cioè saper fare e gusto per la bellezza (intesa anche come senso della misura, dell’equilibrio, della forma che esprime qualità della funzione: se n’è parlato nei giorni scorsi al Forum dei Territori di UniCredit per la Lombardia). Cultura del progetto che innerva la cultura del prodotto (gli oggetti esposti all’ADI Design Museum, premiati negli anni con il “Compasso d’Oro” ne sono chiare testimonianze). Produzioni di qualità nei settori di meccanica e meccatronica, aerospazio, cantieristica navale, gomma e plastica, robotica e automotive, chimica e farmaceutica (le Life Sciences, appunto), oltre che nei tradizionali settori di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare.

Innovazione, tecnologie d’avanguardia, bellezza. Un soft power inimitabile, da spendere di più e meglio nella competizione internazionale, grazie a una nuova e migliore politica industriale nazionale ed europea. E da valorizzare non solo come produttività, ma anche come attrattività per una migliore qualità della vita e del lavoro.

La Medtec School, da cui è cominciato il nostro ragionamento, ne è un buon esempio. Ibridazioni da valorizzare.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?