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Il ragazzo scrivano di Raffaello e il bisogno di cultura critica contro il mito di Narciso

Un vento impetuoso gli scompiglia i capelli. Ma non ne turba la concentrazione. Sta in piedi, appoggiato al muro, con le gambe intrecciate, per tenersi meglio in equilibrio. E scrive, con il volto chino sul quaderno poggiato al di sopra del ginocchio e la penna ben salda nella mano, per dare alle parole e forse ai disegni tutta l’attenzione che meritano.

È poco più che un ragazzo, uno studente o un giovane di bottega, un aspirante artista o scienziato. E sembra incurante del mondo che gli sta attorno. Eppure quello che lo circonda è un mondo solenne. Filosofi, matematici, scienziati. Una sintesi della conoscenza. Una metafora della sapienza. Con l’uomo al centro.

Ecco “La scuola di Atene”, il grande affresco dipinto da Raffaello all’inizio del Cinquecento nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane” all’interno dei Palazzi Apostolici (il cartone preparatorio, affascinante come le migliori testimonianze della creatività in fieri, domina una delle sale più importanti dell’Ambrosiana di Milano). Un capolavoro del Rinascimento, simbolo di un mondo che affonda le sue radici nella grande cultura classica e dunque può ambire a prefigurare un miglior futuro di bellezza e ragione. Un “tempio della Filosofia”, per rifarsi a un’idea di Marsilio Ficino, sapiente interprete dell’Umanesimo.

Al centro, alla sommità di un’ampia scalinata, ci sono Aristotele e Platone. Tutt’attorno, i discepoli, reali o ideali. Intenti a discutere di astronomia e geometria, degli spazi celesti e del turbinio delle idee. Ci sono, tra i personaggi, Zenone ed Epicuro, Euclide o forse Archimede. Ma anche due figure d’attualità. Michelangelo, un po’ separato dai gruppi, pensoso e distratto dal disegno che sta abbozzando, solitario, ombroso (com’era per attitudine e carattere, un maestro infastidito dai suoi contemporanei e dagli stessi allievi). E Raffaello, che dall’alto, quasi di profilo, si compiace di tale e tanta adunata d’intelletti (lui stesso, dunque, un “maestro” in quell’adunata). Polemiche tra artisti. Ma anche rappresentazione di diverse concezioni della vita e dell’arte. Tra il tormento e il sublime.

E quel ragazzo nervoso, che scrive nel vento? Nulla si sa di lui. Né Vasari né altri critici e storici, nel corso del tempo, si sono mai posti il problema di chi fosse e del perché proprio tra i suoi capelli s’insinuasse un soffio d’aria potente.

Il corso delle cose, però, è sinuoso. E quel ragazzo scrivano viene prelevato di peso dall’affresco di Raffaello e promosso dai Guns N’ Roses a personaggio centrale, isolato sulle due copertine, una in giallo-rosso e l’altra in azzurro-viola, di “Use Your Illusion”, il doppio album del settembre 1991 che ospita, tra gli altri brani (come le famose “Don’t cry” e “Live and let die”), una delle più intense versioni di “Knockin’ On Heaven’s Door”, la struggente canzone scritta nel 1973 da Bob Dylan per la colonna sonora di “Pat Garrett e Billy Kid” di Sam Peckinpah, l’elegia della morte dello sceriffo Baker, un uomo buono, tutt’altro che lo stereotipo d’un eroe western. Uno come tanti di noi, travolti dalla storia.

Saper fare buon uso delle proprie illusioni. E, mentre il sole della vita tramonta, bussare alle porte del Paradiso, in cerca di pace. Proprio quella pace che i nostri tempi così incerti e controversi non sembrano proprio concederci. Nonostante le promesse umanistiche del dominio saggio della Conoscenza. E le successive speranze illuministe del trionfo della Ragione.

E così, quel ragazzo di Raffaello riportato a nuova vita dai Guns N’ Roses oggi, come allora, ci parla d’inquietudine. E di un mai tramontato bisogno di segni in cui tradurla e provare a placarla. Di dipinti. Di parole sapienti.

Il gioco tra la pittura rinascimentale e il grande rock contemporaneo affiora dalla conversazione di un acuto banchiere, Ugo Loeser, Ceo di Arca Fondi. E l’occasione è la presentazione di un sapiente, essenziale libro di Patrizia Fontana, “Dai forma al tuo talento” (Franco Angeli Editore), un “racconto di viaggio” tra i problemi e le speranze delle nuove generazioni in cerca di realizzazione, personale oltre che professionale.

Un sondaggio condotto tra gennaio e febbraio ‘25 da “Talent in Motion” su 1.600 giovani adulti (dai 20 ai 30 anni, per l’86% in possesso di laurea) mostra che l’80% degli intervistati ha “paura del fallimento”, di “deludere se stessi” e “gli altri”. Quasi tutti considerano “significativo” “il successo” (85%) ma temono di “sbagliare le scelte lavorative” (75%) e in ogni caso il 78% confessa di non sapere come muoversi  “nell’attuale contesto di incertezza lavorativa”. In ogni caso, il 76% “prova ansia di fronte alla competizione”.

Una generazione in drammatica crisi di fiducia. In costante condizione di acuta preoccupazione per l’incrocio inquietante tra tensioni geopolitiche ed economiche generali e scarsa affidabilità nelle proprie capacità, nel buon uso dei propri “talenti”.

Tanta incertezza mina le possibilità di costruzione del futuro. Il senso di comunità. Le fondamenta stesse dell’economia di mercato e della democrazia liberale. E pretende risposte.

Da questo punto di vista, la parola “talento” usata da Patrizia Fontana non può non rinviare all’omonima parabola evangelica, all’intelligenza progettuale e realizzativa dei servi che, invece di mettere la moneta avuta dal padrone al riparo dai rischi, sotterrandola, la investono e la fanno fruttare. E se quel talento non è inteso soltanto in senso stretto, monetario, allora il riferimento della parabola assume una portata ancora più ampia, culturale e, perché no? etica. Indicando qualità personali e sociali da impiegare per superare timori e paure e dunque rafforzare il bene comune, i “beni pubblici”, gli interessi generali.

Come? Oltre che guardare dentro di sé, è necessario imparare a valutare i contesti in cui le proprie scelte si inseriscono, le condizioni in cui ci si troverà a operare. Studiare bene storia e geografia, politica ed economia, situazioni sociali e cambiamenti del panorama scientifico e tecnologico. In tempi di così radicali, rapide e impetuose mutazioni degli assetti dei mercati e, più in generale, degli equilibri socio-economici, occorre avere un’attitudine flessibile e spregiudicata (nel senso etimologico, dell’assenza di pregiudizi) allo studio e all’adattamento alle novità. Servono competenze, è vero. Ma soprattutto una robusta e ambiziosa inclinazione alla conoscenza. La cui base sta nel saper fare domande. Occorre “imparare a imparare”, suggeriscono i buoni maestri.

È necessario, insomma, contribuire a scrivere nuove mappe cognitive, seguendo proprio una strada già indicata con chiarezza, da tempo, dai protagonisti della cultura d’impresa: valorizzare una “cultura politecnica” che lega i saperi umanistici con le conoscenze scientifiche, il senso della bellezza così radicato nella cultura italiana con l’inclinazione all’intraprendenza originale e all’innovazione, l’importanza della consapevolezza storica con l’attitudine a pensare “storie al futuro”. Insistendo sull’ “avvenire della memoria”, memori comunque dell’avvertimento alla cautela di Leonardo Sciascia: “Se la memoria ha un futuro…”.

Una lezione da “umanesimo industriale”, dunque. Ed è proprio la struttura degli algoritmi, la costruzione dei meccanismi dell’Artificial Intelligence oramai molto diffusa, a dirci che c’è bisogno d’un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze.

Una cultura critica, dunque. Come orizzonte di conoscenza. E come indirizzo etico. Una riposta su cui insistere, proprio con le nuove generazioni. Con le ragazze e i ragazzi che continuano a porsi e a porre alle nostre generazioni di genitori e nonni domande di senso e di costruzione di valori.

È un obbligo, provare a dare risposte cariche di possibilità di fiducia nel futuro. Anche per evitare la trappola della caduta nel dominio di Narciso, mito negativo, simbolo di morte (il personaggio annega, nell’ammirarsi fatuo e fatale nello specchio d’acqua) e di nichilismo, tutto il contrario del bisogno diffuso di creatività, di comunità e, perché no?, di competitività (che – ricordiamolo – viene dal latino cum e petere, e cioè muoversi insieme verso un orizzonte condiviso). E per non ritrovarsi nemmeno preda di una vera e propria solitudine tecnologica, in cui si dialoga con l’AI pur di avere un confronto, senza rendersi conto d’essere di fronte non “allo sguardo dell’altro” in cui costruire la propria, pur problematica, identità, ma alla manipolazione d’un ingannevole specchio.

E così si torna all’inquietudine e alla scrittura salvifica del ragazzo di Raffaello. Raffigurazione d’ognuno di noi, del nostro onesto e sincero tentativo di delineare il nostro destino. Lasciando comunque che il vento gli scompigli e ci scompigli i capelli. E le idee. Ricordandosi ancora di Bob Dylan, “Blowin’ in the Wind”, appunto.

(foto: Getty Images)

Un vento impetuoso gli scompiglia i capelli. Ma non ne turba la concentrazione. Sta in piedi, appoggiato al muro, con le gambe intrecciate, per tenersi meglio in equilibrio. E scrive, con il volto chino sul quaderno poggiato al di sopra del ginocchio e la penna ben salda nella mano, per dare alle parole e forse ai disegni tutta l’attenzione che meritano.

È poco più che un ragazzo, uno studente o un giovane di bottega, un aspirante artista o scienziato. E sembra incurante del mondo che gli sta attorno. Eppure quello che lo circonda è un mondo solenne. Filosofi, matematici, scienziati. Una sintesi della conoscenza. Una metafora della sapienza. Con l’uomo al centro.

Ecco “La scuola di Atene”, il grande affresco dipinto da Raffaello all’inizio del Cinquecento nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane” all’interno dei Palazzi Apostolici (il cartone preparatorio, affascinante come le migliori testimonianze della creatività in fieri, domina una delle sale più importanti dell’Ambrosiana di Milano). Un capolavoro del Rinascimento, simbolo di un mondo che affonda le sue radici nella grande cultura classica e dunque può ambire a prefigurare un miglior futuro di bellezza e ragione. Un “tempio della Filosofia”, per rifarsi a un’idea di Marsilio Ficino, sapiente interprete dell’Umanesimo.

Al centro, alla sommità di un’ampia scalinata, ci sono Aristotele e Platone. Tutt’attorno, i discepoli, reali o ideali. Intenti a discutere di astronomia e geometria, degli spazi celesti e del turbinio delle idee. Ci sono, tra i personaggi, Zenone ed Epicuro, Euclide o forse Archimede. Ma anche due figure d’attualità. Michelangelo, un po’ separato dai gruppi, pensoso e distratto dal disegno che sta abbozzando, solitario, ombroso (com’era per attitudine e carattere, un maestro infastidito dai suoi contemporanei e dagli stessi allievi). E Raffaello, che dall’alto, quasi di profilo, si compiace di tale e tanta adunata d’intelletti (lui stesso, dunque, un “maestro” in quell’adunata). Polemiche tra artisti. Ma anche rappresentazione di diverse concezioni della vita e dell’arte. Tra il tormento e il sublime.

E quel ragazzo nervoso, che scrive nel vento? Nulla si sa di lui. Né Vasari né altri critici e storici, nel corso del tempo, si sono mai posti il problema di chi fosse e del perché proprio tra i suoi capelli s’insinuasse un soffio d’aria potente.

Il corso delle cose, però, è sinuoso. E quel ragazzo scrivano viene prelevato di peso dall’affresco di Raffaello e promosso dai Guns N’ Roses a personaggio centrale, isolato sulle due copertine, una in giallo-rosso e l’altra in azzurro-viola, di “Use Your Illusion”, il doppio album del settembre 1991 che ospita, tra gli altri brani (come le famose “Don’t cry” e “Live and let die”), una delle più intense versioni di “Knockin’ On Heaven’s Door”, la struggente canzone scritta nel 1973 da Bob Dylan per la colonna sonora di “Pat Garrett e Billy Kid” di Sam Peckinpah, l’elegia della morte dello sceriffo Baker, un uomo buono, tutt’altro che lo stereotipo d’un eroe western. Uno come tanti di noi, travolti dalla storia.

Saper fare buon uso delle proprie illusioni. E, mentre il sole della vita tramonta, bussare alle porte del Paradiso, in cerca di pace. Proprio quella pace che i nostri tempi così incerti e controversi non sembrano proprio concederci. Nonostante le promesse umanistiche del dominio saggio della Conoscenza. E le successive speranze illuministe del trionfo della Ragione.

E così, quel ragazzo di Raffaello riportato a nuova vita dai Guns N’ Roses oggi, come allora, ci parla d’inquietudine. E di un mai tramontato bisogno di segni in cui tradurla e provare a placarla. Di dipinti. Di parole sapienti.

Il gioco tra la pittura rinascimentale e il grande rock contemporaneo affiora dalla conversazione di un acuto banchiere, Ugo Loeser, Ceo di Arca Fondi. E l’occasione è la presentazione di un sapiente, essenziale libro di Patrizia Fontana, “Dai forma al tuo talento” (Franco Angeli Editore), un “racconto di viaggio” tra i problemi e le speranze delle nuove generazioni in cerca di realizzazione, personale oltre che professionale.

Un sondaggio condotto tra gennaio e febbraio ‘25 da “Talent in Motion” su 1.600 giovani adulti (dai 20 ai 30 anni, per l’86% in possesso di laurea) mostra che l’80% degli intervistati ha “paura del fallimento”, di “deludere se stessi” e “gli altri”. Quasi tutti considerano “significativo” “il successo” (85%) ma temono di “sbagliare le scelte lavorative” (75%) e in ogni caso il 78% confessa di non sapere come muoversi  “nell’attuale contesto di incertezza lavorativa”. In ogni caso, il 76% “prova ansia di fronte alla competizione”.

Una generazione in drammatica crisi di fiducia. In costante condizione di acuta preoccupazione per l’incrocio inquietante tra tensioni geopolitiche ed economiche generali e scarsa affidabilità nelle proprie capacità, nel buon uso dei propri “talenti”.

Tanta incertezza mina le possibilità di costruzione del futuro. Il senso di comunità. Le fondamenta stesse dell’economia di mercato e della democrazia liberale. E pretende risposte.

Da questo punto di vista, la parola “talento” usata da Patrizia Fontana non può non rinviare all’omonima parabola evangelica, all’intelligenza progettuale e realizzativa dei servi che, invece di mettere la moneta avuta dal padrone al riparo dai rischi, sotterrandola, la investono e la fanno fruttare. E se quel talento non è inteso soltanto in senso stretto, monetario, allora il riferimento della parabola assume una portata ancora più ampia, culturale e, perché no? etica. Indicando qualità personali e sociali da impiegare per superare timori e paure e dunque rafforzare il bene comune, i “beni pubblici”, gli interessi generali.

Come? Oltre che guardare dentro di sé, è necessario imparare a valutare i contesti in cui le proprie scelte si inseriscono, le condizioni in cui ci si troverà a operare. Studiare bene storia e geografia, politica ed economia, situazioni sociali e cambiamenti del panorama scientifico e tecnologico. In tempi di così radicali, rapide e impetuose mutazioni degli assetti dei mercati e, più in generale, degli equilibri socio-economici, occorre avere un’attitudine flessibile e spregiudicata (nel senso etimologico, dell’assenza di pregiudizi) allo studio e all’adattamento alle novità. Servono competenze, è vero. Ma soprattutto una robusta e ambiziosa inclinazione alla conoscenza. La cui base sta nel saper fare domande. Occorre “imparare a imparare”, suggeriscono i buoni maestri.

È necessario, insomma, contribuire a scrivere nuove mappe cognitive, seguendo proprio una strada già indicata con chiarezza, da tempo, dai protagonisti della cultura d’impresa: valorizzare una “cultura politecnica” che lega i saperi umanistici con le conoscenze scientifiche, il senso della bellezza così radicato nella cultura italiana con l’inclinazione all’intraprendenza originale e all’innovazione, l’importanza della consapevolezza storica con l’attitudine a pensare “storie al futuro”. Insistendo sull’ “avvenire della memoria”, memori comunque dell’avvertimento alla cautela di Leonardo Sciascia: “Se la memoria ha un futuro…”.

Una lezione da “umanesimo industriale”, dunque. Ed è proprio la struttura degli algoritmi, la costruzione dei meccanismi dell’Artificial Intelligence oramai molto diffusa, a dirci che c’è bisogno d’un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze.

Una cultura critica, dunque. Come orizzonte di conoscenza. E come indirizzo etico. Una riposta su cui insistere, proprio con le nuove generazioni. Con le ragazze e i ragazzi che continuano a porsi e a porre alle nostre generazioni di genitori e nonni domande di senso e di costruzione di valori.

È un obbligo, provare a dare risposte cariche di possibilità di fiducia nel futuro. Anche per evitare la trappola della caduta nel dominio di Narciso, mito negativo, simbolo di morte (il personaggio annega, nell’ammirarsi fatuo e fatale nello specchio d’acqua) e di nichilismo, tutto il contrario del bisogno diffuso di creatività, di comunità e, perché no?, di competitività (che – ricordiamolo – viene dal latino cum e petere, e cioè muoversi insieme verso un orizzonte condiviso). E per non ritrovarsi nemmeno preda di una vera e propria solitudine tecnologica, in cui si dialoga con l’AI pur di avere un confronto, senza rendersi conto d’essere di fronte non “allo sguardo dell’altro” in cui costruire la propria, pur problematica, identità, ma alla manipolazione d’un ingannevole specchio.

E così si torna all’inquietudine e alla scrittura salvifica del ragazzo di Raffaello. Raffigurazione d’ognuno di noi, del nostro onesto e sincero tentativo di delineare il nostro destino. Lasciando comunque che il vento gli scompigli e ci scompigli i capelli. E le idee. Ricordandosi ancora di Bob Dylan, “Blowin’ in the Wind”, appunto.

(foto: Getty Images)

Conciliare modernità e velocità con tradizione e attenzione

Discussa all’Università di Milano una tesi di ricerca che attraverso l’analisi dell’industria della moda delinea un importante salto della cultura del produrre

 

Conciliare sostenibilità con competitività e modernità con tradizione. Obiettivi – di fatto – comuni alla gran parte delle imprese italiane, obiettivi che, per alcuni comparti, si fanno più urgenti. È il caso delle imprese della moda strette da una parte tra velocità e cambiamento continui e, dall’altra, dalla necessità di rendere sempre più compatibile con l’ambiente il loro agire. Senza perdere di vista l’essenza del prodotto in termini di qualità e originalità.

È attorno a questi temi che ha lavorato Serena Autorino con la sua tesi di Dottorato di ricerca discussa recentemente presso l’Università di Milano. “Valorizzazione dell’Heritage, Circolarità, Vintage e Upcycling. Opportunità per le aziende per una Moda più Sostenibile”, costituisce una analisi ampia e approfondita della complessa – e non ancora conclusa – trasformazione del settore delle imprese della moda alle prese, appunto, tra la necessità di essere sempre più competitive e quella di tenere conto dei riflessi del loro agire sull’ambiente e sulle persone.

È quindi lo studio di una contraddizione, quello intrapreso da Autorino, che dopo aver messo a fuoco il problema riconosce però una serie di casi virtuosi nell’ambito del panorama delle aziende italiane. “Se una così ampia problematica sembra essere ancora lontana da una risoluzione – viene spiegato – è importante però riconoscere che numerose aziende stanno compiendo grandi sforzi per offrire prodotti e mettere in atto cicli produttivi più etici ed influenzare positivamente il sistema, anche collaborando con attori esterni”. Tra i casi citati quelli di Ermenegildo Zegna e Successori Reda, appartenenti al Distretto Biellese, o Rifò Lab, marchio che realizza capi in tessuti rigenerati nato a Prato; ma si sono voluti descrivere anche esempi di brand che sfruttano l’upcycling, così come alcune piccole attività legate al vintage che hanno avviato dei business con tratti contemporanei ed innovativi, che rimettono in circolo capi del passato senza tralasciare le esigenze e i gusti delle nuove generazioni.

Ad emergere nel lavoro di Serena Autorino è l’importanza di un sistema circolare che parte dal design fino ad arrivare alla gestione dei capi a fine vita, di cui sono responsabili le aziende quanto i consumatori.

La ricerca di Autorino non si ferma però qui, perché ulteriori aspetti rilevanti che emergono sono il recupero tessile come pratica storica italiana con grande potenziale per il futuro; il valore degli archivi aziendali, che attraverso la conservazione e reinterpretazione del passato, offrono ispirazione per capsule collection, progetti e un design più consapevole, promuovendo qualità e durevolezza; l’affermarsi del second hand e del vintage come opzioni sempre più apprezzate dei consumatori; l’utilizzo dell’heritage nelle strategie di alcuni nomi del lusso italiani, che dimostra il ruolo centrale della tradizione per il cambiamento; l’importanza della divulgazione e della formazione sia verso la futura generazione di designer, sia verso i consumatori. Serena Autorino, in sintesi, prende spunto dal complesso e variegato sistema della moda italiana per delineare un salto in avanti importante della cultura della produzione.

Valorizzazione dell’Heritage, Circolarità, Vintage e Upcycling. Opportunità per le aziende per una Moda più Sostenibile

Serena Autorino

Tesi di Dottorato di ricerca, Università degli studi di Milano, Corso di Dottorato in Studi Storici, Ciclo XXXVII, Dipartimento di Studi storici, 2024

 

Discussa all’Università di Milano una tesi di ricerca che attraverso l’analisi dell’industria della moda delinea un importante salto della cultura del produrre

 

Conciliare sostenibilità con competitività e modernità con tradizione. Obiettivi – di fatto – comuni alla gran parte delle imprese italiane, obiettivi che, per alcuni comparti, si fanno più urgenti. È il caso delle imprese della moda strette da una parte tra velocità e cambiamento continui e, dall’altra, dalla necessità di rendere sempre più compatibile con l’ambiente il loro agire. Senza perdere di vista l’essenza del prodotto in termini di qualità e originalità.

È attorno a questi temi che ha lavorato Serena Autorino con la sua tesi di Dottorato di ricerca discussa recentemente presso l’Università di Milano. “Valorizzazione dell’Heritage, Circolarità, Vintage e Upcycling. Opportunità per le aziende per una Moda più Sostenibile”, costituisce una analisi ampia e approfondita della complessa – e non ancora conclusa – trasformazione del settore delle imprese della moda alle prese, appunto, tra la necessità di essere sempre più competitive e quella di tenere conto dei riflessi del loro agire sull’ambiente e sulle persone.

È quindi lo studio di una contraddizione, quello intrapreso da Autorino, che dopo aver messo a fuoco il problema riconosce però una serie di casi virtuosi nell’ambito del panorama delle aziende italiane. “Se una così ampia problematica sembra essere ancora lontana da una risoluzione – viene spiegato – è importante però riconoscere che numerose aziende stanno compiendo grandi sforzi per offrire prodotti e mettere in atto cicli produttivi più etici ed influenzare positivamente il sistema, anche collaborando con attori esterni”. Tra i casi citati quelli di Ermenegildo Zegna e Successori Reda, appartenenti al Distretto Biellese, o Rifò Lab, marchio che realizza capi in tessuti rigenerati nato a Prato; ma si sono voluti descrivere anche esempi di brand che sfruttano l’upcycling, così come alcune piccole attività legate al vintage che hanno avviato dei business con tratti contemporanei ed innovativi, che rimettono in circolo capi del passato senza tralasciare le esigenze e i gusti delle nuove generazioni.

Ad emergere nel lavoro di Serena Autorino è l’importanza di un sistema circolare che parte dal design fino ad arrivare alla gestione dei capi a fine vita, di cui sono responsabili le aziende quanto i consumatori.

La ricerca di Autorino non si ferma però qui, perché ulteriori aspetti rilevanti che emergono sono il recupero tessile come pratica storica italiana con grande potenziale per il futuro; il valore degli archivi aziendali, che attraverso la conservazione e reinterpretazione del passato, offrono ispirazione per capsule collection, progetti e un design più consapevole, promuovendo qualità e durevolezza; l’affermarsi del second hand e del vintage come opzioni sempre più apprezzate dei consumatori; l’utilizzo dell’heritage nelle strategie di alcuni nomi del lusso italiani, che dimostra il ruolo centrale della tradizione per il cambiamento; l’importanza della divulgazione e della formazione sia verso la futura generazione di designer, sia verso i consumatori. Serena Autorino, in sintesi, prende spunto dal complesso e variegato sistema della moda italiana per delineare un salto in avanti importante della cultura della produzione.

Valorizzazione dell’Heritage, Circolarità, Vintage e Upcycling. Opportunità per le aziende per una Moda più Sostenibile

Serena Autorino

Tesi di Dottorato di ricerca, Università degli studi di Milano, Corso di Dottorato in Studi Storici, Ciclo XXXVII, Dipartimento di Studi storici, 2024

 

Quale tecnica e per quale compito?

Pubblicato un abbecedario che raccoglie 19 vocaboli per conoscere e ragionare meglio sull’evoluzione dell’economia e della società

Tecnica e quindi progresso, produzione, crescita, sviluppo ma anche sfruttamento, alienazione, controllo e molto altro ancora. Tra i vocaboli oggi di gran moda, certamente c’è anche “tecnica” che nella gran parte dei casi evoca scenari dell’agire e del pensare umano che paiono oggi trasparenti e inconfutabili; scenari in cui l’uomo come soggetto cosciente è attore rispetto sia alla storia sia alla natura. E d’altra parte, indubbiamente mai come oggi la terra è avvolta in una rete di attività tecniche, al punto che non vi è più luogo che non porti il segno della trasformazione umana. Eppure mai come oggi l’umanità nel suo complesso appare incapace di dirigere verso una meta accettabile e condivisibile la propria azione: il disastro ambientale, il diffondersi delle guerre, le ingiustizie economiche si impongono a livello planetario. Una condizione  che ha del paradossale e del drammatico tenendo anche conto che qualsiasi soluzione da parte dell’uomo – proprio nella sua dimensione di progettazione tecnica – pare in grado solo di accelerare l’apocalisse incombente. Ma la tecnica dovrebbe essere “utile” e non “nociva”, dovrebbe essere “amica” e non “nemica”.

È da questa serie di complesse considerazioni che Maurizio Guerri (docente di estetica all’Accademia di Brera), ha tratto spunto per comporre, coinvolgendo più firme, “Le parole della tecnica. Concetti, ideologie, prospettive”, una sorta di abbecedario che raccoglie 19 parole che con la tecnica hanno a che fare. Un’impresa che si fonda – scrive il curatore – sulla possibilità  di “praticare una conoscenza che sia in grado di imporsi come forma di resistenza, di redenzione o almeno di diserzione” rispetto al pensare comune. Tornare, in altri termini, alla conoscenza del significato delle parole e quindi al loro reale contenuto, per capire meglio dove si è e soprattutto dove si può andare.

Rigorosamente in ordine alfabetico, i vocaboli che vengono affrontati sono alienazione, artefatto, automazione, biopolitica, capitalismo, controllo, corpo, design, dispositivo, gamificazione, globalizzazione, guerra, immagine, intelligenza artificiale, lavoro, metropoli, progresso, spazio, tempo. Per ognuno di essi viene tentata una analisi ma soprattutto ne viene data una illustrazione per condurre chi legge oltre al significato comune.

Il libro curato da Maurizio Guerri non è certamente qualcosa da leggere distrattamente, e non è nemmeno di facilissima lettura, ma è certamente uno strumento per comprendere, come si diceva prima, il contenuto reale di concetti troppo spesso abusati e stravolti.

Le parole della tecnica. Concetti, ideologie, prospettive

Maurizio Guerri (a cura di)

Einaudi, 2025

Pubblicato un abbecedario che raccoglie 19 vocaboli per conoscere e ragionare meglio sull’evoluzione dell’economia e della società

Tecnica e quindi progresso, produzione, crescita, sviluppo ma anche sfruttamento, alienazione, controllo e molto altro ancora. Tra i vocaboli oggi di gran moda, certamente c’è anche “tecnica” che nella gran parte dei casi evoca scenari dell’agire e del pensare umano che paiono oggi trasparenti e inconfutabili; scenari in cui l’uomo come soggetto cosciente è attore rispetto sia alla storia sia alla natura. E d’altra parte, indubbiamente mai come oggi la terra è avvolta in una rete di attività tecniche, al punto che non vi è più luogo che non porti il segno della trasformazione umana. Eppure mai come oggi l’umanità nel suo complesso appare incapace di dirigere verso una meta accettabile e condivisibile la propria azione: il disastro ambientale, il diffondersi delle guerre, le ingiustizie economiche si impongono a livello planetario. Una condizione  che ha del paradossale e del drammatico tenendo anche conto che qualsiasi soluzione da parte dell’uomo – proprio nella sua dimensione di progettazione tecnica – pare in grado solo di accelerare l’apocalisse incombente. Ma la tecnica dovrebbe essere “utile” e non “nociva”, dovrebbe essere “amica” e non “nemica”.

È da questa serie di complesse considerazioni che Maurizio Guerri (docente di estetica all’Accademia di Brera), ha tratto spunto per comporre, coinvolgendo più firme, “Le parole della tecnica. Concetti, ideologie, prospettive”, una sorta di abbecedario che raccoglie 19 parole che con la tecnica hanno a che fare. Un’impresa che si fonda – scrive il curatore – sulla possibilità  di “praticare una conoscenza che sia in grado di imporsi come forma di resistenza, di redenzione o almeno di diserzione” rispetto al pensare comune. Tornare, in altri termini, alla conoscenza del significato delle parole e quindi al loro reale contenuto, per capire meglio dove si è e soprattutto dove si può andare.

Rigorosamente in ordine alfabetico, i vocaboli che vengono affrontati sono alienazione, artefatto, automazione, biopolitica, capitalismo, controllo, corpo, design, dispositivo, gamificazione, globalizzazione, guerra, immagine, intelligenza artificiale, lavoro, metropoli, progresso, spazio, tempo. Per ognuno di essi viene tentata una analisi ma soprattutto ne viene data una illustrazione per condurre chi legge oltre al significato comune.

Il libro curato da Maurizio Guerri non è certamente qualcosa da leggere distrattamente, e non è nemmeno di facilissima lettura, ma è certamente uno strumento per comprendere, come si diceva prima, il contenuto reale di concetti troppo spesso abusati e stravolti.

Le parole della tecnica. Concetti, ideologie, prospettive

Maurizio Guerri (a cura di)

Einaudi, 2025

Come una città

Milano e Pirelli, centri di produzione culturale, protagoniste della nuova tappa dell’approfondimento “Pirelli, la città, la visione”. Dal nostro Archivio Storico i documenti e le testimonianze di un’azienda che ha messo al centro dell’impresa l’impegno per la promozione dell’arte e della cultura

Dal Dopoguerra agli anni Sessanta del Novecento, le grandi imprese italiane sono realtà culturali oltre che produttive, collaborano con scrittori, intellettuali, artisti nello sviluppo di modelli aziendali che mettono insieme la cultura tecnico-scientifica con il sapere umanistico, al contempo contribuendo al progresso culturale della comunità. Fra queste, Pirelli vive una stagione di straordinaria fertilitàtà, di vero e proprio “umanesimo industriale”, stimolata anche dall’ambiente milanese, che in quello stesso periodo attraversava un momento di intensa vitalità e ricchezza, al punto da diventare polo di attrazione internazionale per artisti e intellettuali.

C’è un anno in particolare che fa da centro-stella in questa relazione ed è il 1947, quando nasce il Piccolo Teatro della Città di Milano, teatro municipale “per tutti”, fondato per iniziativa di Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi, sostenuto dal Comune di Milano, e debutta il Centro Culturale Pirelli, circolo aziendale diretto da Silvestro Severgnini, amico di Paolo Grassi, con lo scopo di offrire ai lavoratori eventi e iniziative nel campo della musica, del teatro, delle arti figurative, del cinema, della letteratura.

“Una formula nuova, ed abbastanza indovinata, per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”: l’azienda “fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere” secondo la definizione del suo stesso ideatore nell’articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli n° 1 del 1951.

Fra il Piccolo Teatro di Milano e il Centro Culturale Pirelli nasce un immediato sodalizio, che risulta simbolico del percorso che città e azienda stanno compiendo. Del resto, può un’azienda che ha raggiunto nel 1950 quasi il milione di metri quadrati di estensione non considerarsi a sua volta come una città?

“Anche l’operaio non vive di solo pane” titola nel 1947 un trafiletto del Notiziario aziendale – pubblicazione curata dai lavoratori del Gruppo nel dopoguerra – che così continua: “se si vuole rasserenare gli animi dei lavoratori […] occorre avvicinarli all’arte, a un’arte piana e vivificatrice […] Un’iniziativa a questo scopo è sorta recentemente sotto gli auspici del Sindaco di Milano, ed è già in atto. A detto teatro si accede anche con abbonamenti di modesto importo (e lo stesso nostro Centro Culturale vi ha aderito)”.

Con il passare degli anni l’offerta del Centro Culturale è sempre più ampia, Pirelli si affianca ad altre istituzioni culturali milanesi, come la Scala, i Pomeriggi Musicali o il Teatro del Popolo, nel 1952 arriva a fornire 12.495 presenze alla stagione lirica e concertistica milanese, diventando “per le sue proporzioni un fatto della cultura cittadina” (Rivista Pirelli, “La fabbrica è aperta ai movimenti della cultura”) e, dal 1960, godrà di un proprio prestigioso spazio, l’auditorium all’interno del Grattacielo Pirelli, dopo aver abbandonato i locali del “Ritrovo” presso il vecchio stabilimento della “Brusada”. Si rinnova così lo slancio dell’attività culturale del Centro, che organizza concerti, convegni, letture, proiezioni, presentazioni, con ospiti autorevoli e illustri, scrittori, giornalisti, poeti – fra i tanti Italo Calvino, Umberto Eco, Guido Lopez, Salvatore Quasimodo, Mario Soldati – e personalità accademiche e politiche.

Nel frattempo, su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese. Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la Rivista Pirelli nasce con lo scopo di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica, affrontando temi relativi alla produzione industriale, alla scienza, alla tecnologia, sono affrontati accanto a interventi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. Tra le firme troviamo quelle di Giulio Carlo Argan, Dino Buzzati, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Arrigo Levi, Eugenio Montale, Fernanda Pivano, Franco Quadri, Alberto Ronchey, Elio Vittorini e decine di altri, mentre a impreziosire le pagine della Rivista splendidi reportage di maestri della fotografia come Arno Hammacher, Pepi Merisio, Ugo Mulas, Federico Patellani, Fulvio Roiter, Enzo Sellerioillustrazioni firmate da artisti come Renato Guttuso, Riccardo Manzi e Alessandro Mendini.

L’esperienza della Rivista Pirelli è documentata dal volume «Umanesimo industriale. Antologia di pensieri, parole, immagini  e innovazioni», curato dalla Fondazione Pirelli ed edito nel 2019 da Mondadori, e tutti i 131 numeri, insieme a un fondo fotografico di 6.000 immagini, di cui 3.500 pubblicate e 2.500 inedite, sono conservati presso l’Archivio Storico di Pirelli, compreso il primo, con il suo editoriale firmato da Alberto Pirelli, chiarificatore della vocazione autentica e originale di questo esperimento editoriale: “Utilizza questa industria un numero enorme di prodotti diversi […] impiega la più grande varietà di macchine e utensili […] Quante possibilità dunque di contribuire all’evoluzione della vita moderna […] Ma se potremo in questa rivista qualche volta sollevarci un po’ più in su, lo faremo col senso che ogni contributo alla civiltà meccanizzata va inquadrato nei più alti valori sociali e culturali della vita”.

Milano e Pirelli, centri di produzione culturale, protagoniste della nuova tappa dell’approfondimento “Pirelli, la città, la visione”. Dal nostro Archivio Storico i documenti e le testimonianze di un’azienda che ha messo al centro dell’impresa l’impegno per la promozione dell’arte e della cultura

Dal Dopoguerra agli anni Sessanta del Novecento, le grandi imprese italiane sono realtà culturali oltre che produttive, collaborano con scrittori, intellettuali, artisti nello sviluppo di modelli aziendali che mettono insieme la cultura tecnico-scientifica con il sapere umanistico, al contempo contribuendo al progresso culturale della comunità. Fra queste, Pirelli vive una stagione di straordinaria fertilitàtà, di vero e proprio “umanesimo industriale”, stimolata anche dall’ambiente milanese, che in quello stesso periodo attraversava un momento di intensa vitalità e ricchezza, al punto da diventare polo di attrazione internazionale per artisti e intellettuali.

C’è un anno in particolare che fa da centro-stella in questa relazione ed è il 1947, quando nasce il Piccolo Teatro della Città di Milano, teatro municipale “per tutti”, fondato per iniziativa di Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi, sostenuto dal Comune di Milano, e debutta il Centro Culturale Pirelli, circolo aziendale diretto da Silvestro Severgnini, amico di Paolo Grassi, con lo scopo di offrire ai lavoratori eventi e iniziative nel campo della musica, del teatro, delle arti figurative, del cinema, della letteratura.

“Una formula nuova, ed abbastanza indovinata, per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”: l’azienda “fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere” secondo la definizione del suo stesso ideatore nell’articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli n° 1 del 1951.

Fra il Piccolo Teatro di Milano e il Centro Culturale Pirelli nasce un immediato sodalizio, che risulta simbolico del percorso che città e azienda stanno compiendo. Del resto, può un’azienda che ha raggiunto nel 1950 quasi il milione di metri quadrati di estensione non considerarsi a sua volta come una città?

“Anche l’operaio non vive di solo pane” titola nel 1947 un trafiletto del Notiziario aziendale – pubblicazione curata dai lavoratori del Gruppo nel dopoguerra – che così continua: “se si vuole rasserenare gli animi dei lavoratori […] occorre avvicinarli all’arte, a un’arte piana e vivificatrice […] Un’iniziativa a questo scopo è sorta recentemente sotto gli auspici del Sindaco di Milano, ed è già in atto. A detto teatro si accede anche con abbonamenti di modesto importo (e lo stesso nostro Centro Culturale vi ha aderito)”.

Con il passare degli anni l’offerta del Centro Culturale è sempre più ampia, Pirelli si affianca ad altre istituzioni culturali milanesi, come la Scala, i Pomeriggi Musicali o il Teatro del Popolo, nel 1952 arriva a fornire 12.495 presenze alla stagione lirica e concertistica milanese, diventando “per le sue proporzioni un fatto della cultura cittadina” (Rivista Pirelli, “La fabbrica è aperta ai movimenti della cultura”) e, dal 1960, godrà di un proprio prestigioso spazio, l’auditorium all’interno del Grattacielo Pirelli, dopo aver abbandonato i locali del “Ritrovo” presso il vecchio stabilimento della “Brusada”. Si rinnova così lo slancio dell’attività culturale del Centro, che organizza concerti, convegni, letture, proiezioni, presentazioni, con ospiti autorevoli e illustri, scrittori, giornalisti, poeti – fra i tanti Italo Calvino, Umberto Eco, Guido Lopez, Salvatore Quasimodo, Mario Soldati – e personalità accademiche e politiche.

Nel frattempo, su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese. Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la Rivista Pirelli nasce con lo scopo di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica, affrontando temi relativi alla produzione industriale, alla scienza, alla tecnologia, sono affrontati accanto a interventi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. Tra le firme troviamo quelle di Giulio Carlo Argan, Dino Buzzati, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Arrigo Levi, Eugenio Montale, Fernanda Pivano, Franco Quadri, Alberto Ronchey, Elio Vittorini e decine di altri, mentre a impreziosire le pagine della Rivista splendidi reportage di maestri della fotografia come Arno Hammacher, Pepi Merisio, Ugo Mulas, Federico Patellani, Fulvio Roiter, Enzo Sellerioillustrazioni firmate da artisti come Renato Guttuso, Riccardo Manzi e Alessandro Mendini.

L’esperienza della Rivista Pirelli è documentata dal volume «Umanesimo industriale. Antologia di pensieri, parole, immagini  e innovazioni», curato dalla Fondazione Pirelli ed edito nel 2019 da Mondadori, e tutti i 131 numeri, insieme a un fondo fotografico di 6.000 immagini, di cui 3.500 pubblicate e 2.500 inedite, sono conservati presso l’Archivio Storico di Pirelli, compreso il primo, con il suo editoriale firmato da Alberto Pirelli, chiarificatore della vocazione autentica e originale di questo esperimento editoriale: “Utilizza questa industria un numero enorme di prodotti diversi […] impiega la più grande varietà di macchine e utensili […] Quante possibilità dunque di contribuire all’evoluzione della vita moderna […] Ma se potremo in questa rivista qualche volta sollevarci un po’ più in su, lo faremo col senso che ogni contributo alla civiltà meccanizzata va inquadrato nei più alti valori sociali e culturali della vita”.

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Lavoro qualificato, stipendi più alti, innovazione: ecco le scelte per frenare la fuga dei nostri giovani

L’Italia invecchia. Fa sempre meno figli. E vede andar via, di anno in anno più numerosi, le sue ragazze e i suoi ragazzi, soprattutto quelli con alto titolo di studio e maggiore intraprendenza. In prospettiva, s’impoverisce: meno giovani, meno lavoro, meno imprese, meno Prodotto interno lordo, meno produttività ma anche minore passione per l’innovazione, minore coesione e sociale e più fragile spirito civile legato ai valori di comunità. Italia in declino, insomma? Ancora no. Ma i rischi sono forti.

Sono queste le considerazioni che tornano prepotenti in mente leggendo, negli ultimi giorni, una serie di dati economici e demografici, a conferma di tendenze note da tempo eppure, di volta in volta, sempre più allarmanti. E purtroppo, nonostante i passi avanti fatti, ancora non adeguatamente centrali nel discorso pubblico e politico, a parte le retoriche sull’attenzione per le nuove generazioni.

Quali dati? L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo 58 milioni 934 mila, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). E le nascite continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Ecco un altro dato quanto mai negativo: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila (il 21% in più dell’anno precedente). Quasi centomila laureati spariti dal nostro mercato del lavoro. Si sono formati nelle nostre scuole, hanno imparato sofisticate e solide conoscenze nelle nostre università (parecchie delle quali sono oramai tra le migliori del mondo: il Politecnico di Milano è appena entrato nella classifica delle prime cento) e adesso però sono risorse di qualità, “talenti”, si usa dire, a disposizione di altri paesi, altri sistemi produttivi, altre società. Uno spreco, insomma, ancora più grave nella stagione in cui la principale leva competitiva è, appunto, “l’economia della conoscenza”. E l’Italia, con il 20,7% di laureati contro una media Ue del 32%, non ricresce affatto a soddisfare le necessità di lavoro qualificato delle imprese ma anche delle pubbliche amministrazioni e dei servizi (la sanità, per esempio).

Sempre l’Istat documenta che nel biennio ‘23-‘24 gli espatri dei cittadini italiani (270mila) sono aumentati del 39,3% (facendo sempre riferimento al numero di coloro che cambiano residenza, nettamente inferiore a quello di chi va all’estero restando formalmente iscritto all’anagrafe delle città d’origine). Scelte temporanee o di lungo periodo. Comunque con pochi rientri: tra il ‘19 e il ‘23 sono espatriati 192 mila italiani, d’età compresa fra i 25 e i 34 anni e ne sono rientrati 73mila. Quasi 120mila sono rimasti all’estero.

Dove? Nel Regno Unito, poi in Germania, in Svizzera, in Francia e in Spagna, innanzitutto (la fonte è sempre l’Istat). “Non abbiamo investito sulla loro formazione, sulle politiche attive, sulla ricerca, sulla valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende. Non stiamo consentendo ai giovani di sentirsi parte attiva di una società che cresce e migliora con loro. Gli altri Paesi, invece, risultano più attrattivi”, sintetizza Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica all’università Cattolica di Milano (La Stampa, 18 giugno).

Per capire meglio perché tanti ragazzi vadano via, basta dare un occhiata anche alle retribuzioni. L’ultimo rapporto di Almalaurea (il consorzio che riunisce 82 atenei italiani) documenta come “il valore medio degli stipendi in Italia sia molto basso: a parità di livello educativo all’estero i laureati percepiscono il 54% in più che in Italia, a un anno dalla laurea e il 62% per i laureati da cinque anni” (Il Sole24Ore, 17 giugno).

Eppure, nonostante siano malpagati, i nostri laureati sono davvero bravi. Anche nel mondo della ricerca. Come confermano gli ultimi dati sugli Erc Advanced Grants, i finanziamenti europei destinati ai ricercatori senior: l’Italia è terza, in Europa, dopo il Regno Unito e la Germania, avendo appena superato la Francia e l’Olanda. E, se si guarda al passaporto dei ricercatori, l’Italia è addirittura seconda, alle spalle della Germania. Il problema, per il Paese, che molti degli italiani che si aggiudicano i finanziamenti Erc lavorano stabilmente all’estero: quest’anno, su 37 premiati, 23 lavorano in Italia e 14 all’estero (Corriere della Sera, 18 giugno). Nel ‘23 il quadro era peggiore: 22 all’estero e 12 in Italia. Si registra, insomma, un’interessante tendenza al miglioramento della qualità e delle opportunità offerte dai centri italiani. Il tempo ci dirà quanto questa tendenza si possa consolidare o meno.

Ecco il punto chiave delle vicende di cui stiamo parlando: per trattenere in Italia i nostri laureati ma anche per essere attrattivi nei confronti delle ragazze e dei ragazzi internazionali serve investire molto di più nella ricerca (ben oltre l’attuale 1,4% del Pil, quota bassissima rispetto alla media Ue superiore al 2%), nella formazione di qualità, ma anche negli stipendi, nelle opportunità di carriera, nella costruzione di migliori condizioni di affermazione e sviluppo delle opportunità professionali e personali.

Le scelte da fare chiamano in causa la spesa pubblica, anche quella del Pnrr, che stando alle premesse del Next Generation Ue, avrebbe dovuto privilegiare le varie opportunità della “economia della conoscenza”, nel contesto degli stimoli e dei supporti alle transizioni ambientali e digitale (la spesa in corso non punta se non parzialmente agli obiettivi di partenza). Le scelte di cambiamento da fare riguardano anche le imprese: gli stipendi d’ingresso sono bassi e nelle aziende piccole e medie, tutt’ora a forte dominanza familiare nella gestione, le possibilità per giovani laureati sono ancora quanto mai ridotte. “Ma il Paese pensa ai giovani?”, si chiede polemicamente un economista accorto come Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 19 giugno), forte anche dell’esperienza di governo fatta a Palazzo Chigi durante la presidenza del Consiglio di Mario Draghi. L’Italia in cui prevalgono gli anziani, d’altronde, lascia sempre meno spazio, anche sociale e culturale, alle nuove generazioni. Che emigrano. Appesantendo così il clima e le abitudini del “paese per vecchi”, con le sue paure e la sua sospettosità verso il cambiamento. Un circuito vizioso.

Servono maggiori e più mirati investimenti pubblici e privati, dunque. Innovazione. E scelte che premino conoscenze, competenze, intraprendenza, cultura internazionale. Tutto il contrario delle tendenze alla conservazione e delle resistenze alla modernizzazione. E della diffusione del “lavoro povero”, tipico di una tendenza politica diffusa che continua a trascurare l’industria, i servizi high tech, gli stimoli di politica industriale ai settori più produttivi e innovativi. Per dirla in sintesi: “Università, lavoro, stipendi: serve una politica europea”, sostiene Patrizio Bianchi, economista, ex rettore universitario a Ferrara ed ex assessore al Lavoro alla Regione Emilia. E Rosina: “Garantire ai nostri giovani condizioni pari a quelle che trovano negli altri paesi europei è una sfida cruciale per la crescita e lo sviluppo dell’Italia”. Sfida di buona politica, appunto. E di sguardo davvero aperto sul futuro.

(foto Getty Images)

L’Italia invecchia. Fa sempre meno figli. E vede andar via, di anno in anno più numerosi, le sue ragazze e i suoi ragazzi, soprattutto quelli con alto titolo di studio e maggiore intraprendenza. In prospettiva, s’impoverisce: meno giovani, meno lavoro, meno imprese, meno Prodotto interno lordo, meno produttività ma anche minore passione per l’innovazione, minore coesione e sociale e più fragile spirito civile legato ai valori di comunità. Italia in declino, insomma? Ancora no. Ma i rischi sono forti.

Sono queste le considerazioni che tornano prepotenti in mente leggendo, negli ultimi giorni, una serie di dati economici e demografici, a conferma di tendenze note da tempo eppure, di volta in volta, sempre più allarmanti. E purtroppo, nonostante i passi avanti fatti, ancora non adeguatamente centrali nel discorso pubblico e politico, a parte le retoriche sull’attenzione per le nuove generazioni.

Quali dati? L’Istat certifica che un quarto della popolazione italiana (siamo 58 milioni 934 mila, al 1° gennaio ‘25) ha più di 65 anni e in 4milioni 591mila persone superano gli 80 anni (50mila in più rispetto al ‘24). Le speranze di vita alla nascita hanno raggiunto gli 81,4 anni per gli uomini e gli 85,5 per le donne (quasi cinque mesi in più rispetto al ‘23). E le nascite continuano a diminuire: 370 mila nuovi nati nel ‘24, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna, uno dei più bassi in Europa.

Ecco un altro dato quanto mai negativo: negli ultimi dieci anni, 97 mila giovani laureati hanno lasciato il Paese, in cerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. E questo dato medio, nel corso del tempo, tende a peggiorare. Nel solo ‘23, erano 21mila (il 21% in più dell’anno precedente). Quasi centomila laureati spariti dal nostro mercato del lavoro. Si sono formati nelle nostre scuole, hanno imparato sofisticate e solide conoscenze nelle nostre università (parecchie delle quali sono oramai tra le migliori del mondo: il Politecnico di Milano è appena entrato nella classifica delle prime cento) e adesso però sono risorse di qualità, “talenti”, si usa dire, a disposizione di altri paesi, altri sistemi produttivi, altre società. Uno spreco, insomma, ancora più grave nella stagione in cui la principale leva competitiva è, appunto, “l’economia della conoscenza”. E l’Italia, con il 20,7% di laureati contro una media Ue del 32%, non ricresce affatto a soddisfare le necessità di lavoro qualificato delle imprese ma anche delle pubbliche amministrazioni e dei servizi (la sanità, per esempio).

Sempre l’Istat documenta che nel biennio ‘23-‘24 gli espatri dei cittadini italiani (270mila) sono aumentati del 39,3% (facendo sempre riferimento al numero di coloro che cambiano residenza, nettamente inferiore a quello di chi va all’estero restando formalmente iscritto all’anagrafe delle città d’origine). Scelte temporanee o di lungo periodo. Comunque con pochi rientri: tra il ‘19 e il ‘23 sono espatriati 192 mila italiani, d’età compresa fra i 25 e i 34 anni e ne sono rientrati 73mila. Quasi 120mila sono rimasti all’estero.

Dove? Nel Regno Unito, poi in Germania, in Svizzera, in Francia e in Spagna, innanzitutto (la fonte è sempre l’Istat). “Non abbiamo investito sulla loro formazione, sulle politiche attive, sulla ricerca, sulla valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende. Non stiamo consentendo ai giovani di sentirsi parte attiva di una società che cresce e migliora con loro. Gli altri Paesi, invece, risultano più attrattivi”, sintetizza Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica all’università Cattolica di Milano (La Stampa, 18 giugno).

Per capire meglio perché tanti ragazzi vadano via, basta dare un occhiata anche alle retribuzioni. L’ultimo rapporto di Almalaurea (il consorzio che riunisce 82 atenei italiani) documenta come “il valore medio degli stipendi in Italia sia molto basso: a parità di livello educativo all’estero i laureati percepiscono il 54% in più che in Italia, a un anno dalla laurea e il 62% per i laureati da cinque anni” (Il Sole24Ore, 17 giugno).

Eppure, nonostante siano malpagati, i nostri laureati sono davvero bravi. Anche nel mondo della ricerca. Come confermano gli ultimi dati sugli Erc Advanced Grants, i finanziamenti europei destinati ai ricercatori senior: l’Italia è terza, in Europa, dopo il Regno Unito e la Germania, avendo appena superato la Francia e l’Olanda. E, se si guarda al passaporto dei ricercatori, l’Italia è addirittura seconda, alle spalle della Germania. Il problema, per il Paese, che molti degli italiani che si aggiudicano i finanziamenti Erc lavorano stabilmente all’estero: quest’anno, su 37 premiati, 23 lavorano in Italia e 14 all’estero (Corriere della Sera, 18 giugno). Nel ‘23 il quadro era peggiore: 22 all’estero e 12 in Italia. Si registra, insomma, un’interessante tendenza al miglioramento della qualità e delle opportunità offerte dai centri italiani. Il tempo ci dirà quanto questa tendenza si possa consolidare o meno.

Ecco il punto chiave delle vicende di cui stiamo parlando: per trattenere in Italia i nostri laureati ma anche per essere attrattivi nei confronti delle ragazze e dei ragazzi internazionali serve investire molto di più nella ricerca (ben oltre l’attuale 1,4% del Pil, quota bassissima rispetto alla media Ue superiore al 2%), nella formazione di qualità, ma anche negli stipendi, nelle opportunità di carriera, nella costruzione di migliori condizioni di affermazione e sviluppo delle opportunità professionali e personali.

Le scelte da fare chiamano in causa la spesa pubblica, anche quella del Pnrr, che stando alle premesse del Next Generation Ue, avrebbe dovuto privilegiare le varie opportunità della “economia della conoscenza”, nel contesto degli stimoli e dei supporti alle transizioni ambientali e digitale (la spesa in corso non punta se non parzialmente agli obiettivi di partenza). Le scelte di cambiamento da fare riguardano anche le imprese: gli stipendi d’ingresso sono bassi e nelle aziende piccole e medie, tutt’ora a forte dominanza familiare nella gestione, le possibilità per giovani laureati sono ancora quanto mai ridotte. “Ma il Paese pensa ai giovani?”, si chiede polemicamente un economista accorto come Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 19 giugno), forte anche dell’esperienza di governo fatta a Palazzo Chigi durante la presidenza del Consiglio di Mario Draghi. L’Italia in cui prevalgono gli anziani, d’altronde, lascia sempre meno spazio, anche sociale e culturale, alle nuove generazioni. Che emigrano. Appesantendo così il clima e le abitudini del “paese per vecchi”, con le sue paure e la sua sospettosità verso il cambiamento. Un circuito vizioso.

Servono maggiori e più mirati investimenti pubblici e privati, dunque. Innovazione. E scelte che premino conoscenze, competenze, intraprendenza, cultura internazionale. Tutto il contrario delle tendenze alla conservazione e delle resistenze alla modernizzazione. E della diffusione del “lavoro povero”, tipico di una tendenza politica diffusa che continua a trascurare l’industria, i servizi high tech, gli stimoli di politica industriale ai settori più produttivi e innovativi. Per dirla in sintesi: “Università, lavoro, stipendi: serve una politica europea”, sostiene Patrizio Bianchi, economista, ex rettore universitario a Ferrara ed ex assessore al Lavoro alla Regione Emilia. E Rosina: “Garantire ai nostri giovani condizioni pari a quelle che trovano negli altri paesi europei è una sfida cruciale per la crescita e lo sviluppo dell’Italia”. Sfida di buona politica, appunto. E di sguardo davvero aperto sul futuro.

(foto Getty Images)

Cosa spinge la transizione digitale

Uno studio di Banca d’Italia fornisce un’analisi sulle cause della diffusione di cloud computing e Intelligenza artificiale (AI) tra le aziende italiane

Nuove tecnologie a confronto con le imprese che le devono adottare. Sfida importante, che può determinare il futuro di molte organizzazioni della produzione. Capire le condizioni per le quali una tecnologia innovativa può trovare reale spazio nelle aziende è quindi più che importante. Soprattutto nel caso delle tecnologie digitali avanzate, che stanno rimodellando l’organizzazione e le prestazioni delle imprese, ma per le quali le prove complete sulla loro adozione rimangono scarse. Per comprendere, occorrono però indagini attente e analitiche. È il caso di “Embracing the digital transition: the adoption of cloud computing and AI by Italian firms”, ricerca condotta nell’ambito di Banca d’Italia e basata sui dati delle indagini aziendali dell’Istituto per valutare l’assorbimento del cloud computing e Intelligenza artificiale (AI) tra le aziende italiane.

I numeri fondamentali che emergono dalla ricerca sono chiari. All’inizio del 2024, oltre il 50% delle aziende con almeno 20 dipendenti avevano adottato servizi cloud, mostrando una variazione minima tra i settori e suggerendo che questa tecnologia sta diventando un’infrastruttura standard. L’adozione dell’IA rimane invece più limitata – in aumento dal 4% nel 2020 al 13% nel 2024 – e tende comunque ad essere un passo ancora sperimentale all’interno dell’impresa oppure qualcosa adottato per specifiche attività. MA che cosa spinge oppure allontana dall’IA un’impresa? Stando alla ricerca, i tassi di adozione sono fortemente associati alle dimensioni dell’azienda, all’attività di esportazione, alla capacità di innovazione; anche la qualità manageriale e gli investimenti digitali precedenti influenzano l’assorbimento dell’IA. Questione di cultura gestionale e tecnica, quindi. La ricerca di Banca d’Italia, va però oltre e indaga anche sulle aspettative sull’IA generativa che, viene rilevato, puntano alla trasformazione del lavoro piuttosto che al suo spostamento. L’analisi – è il parere dei ricercatori – rivela che l’adozione della tecnologia digitale è positiva e correlata alla crescita dell’occupazione realizzata e prevista.

Embracing the digital transition: the adoption of cloud computing and AI by Italian firms

Lorenzo Bencivelli, Sara Formai, Elena Mattevi, Tullia Padellini

Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasion Papers, n. 946, giugno 2025

Uno studio di Banca d’Italia fornisce un’analisi sulle cause della diffusione di cloud computing e Intelligenza artificiale (AI) tra le aziende italiane

Nuove tecnologie a confronto con le imprese che le devono adottare. Sfida importante, che può determinare il futuro di molte organizzazioni della produzione. Capire le condizioni per le quali una tecnologia innovativa può trovare reale spazio nelle aziende è quindi più che importante. Soprattutto nel caso delle tecnologie digitali avanzate, che stanno rimodellando l’organizzazione e le prestazioni delle imprese, ma per le quali le prove complete sulla loro adozione rimangono scarse. Per comprendere, occorrono però indagini attente e analitiche. È il caso di “Embracing the digital transition: the adoption of cloud computing and AI by Italian firms”, ricerca condotta nell’ambito di Banca d’Italia e basata sui dati delle indagini aziendali dell’Istituto per valutare l’assorbimento del cloud computing e Intelligenza artificiale (AI) tra le aziende italiane.

I numeri fondamentali che emergono dalla ricerca sono chiari. All’inizio del 2024, oltre il 50% delle aziende con almeno 20 dipendenti avevano adottato servizi cloud, mostrando una variazione minima tra i settori e suggerendo che questa tecnologia sta diventando un’infrastruttura standard. L’adozione dell’IA rimane invece più limitata – in aumento dal 4% nel 2020 al 13% nel 2024 – e tende comunque ad essere un passo ancora sperimentale all’interno dell’impresa oppure qualcosa adottato per specifiche attività. MA che cosa spinge oppure allontana dall’IA un’impresa? Stando alla ricerca, i tassi di adozione sono fortemente associati alle dimensioni dell’azienda, all’attività di esportazione, alla capacità di innovazione; anche la qualità manageriale e gli investimenti digitali precedenti influenzano l’assorbimento dell’IA. Questione di cultura gestionale e tecnica, quindi. La ricerca di Banca d’Italia, va però oltre e indaga anche sulle aspettative sull’IA generativa che, viene rilevato, puntano alla trasformazione del lavoro piuttosto che al suo spostamento. L’analisi – è il parere dei ricercatori – rivela che l’adozione della tecnologia digitale è positiva e correlata alla crescita dell’occupazione realizzata e prevista.

Embracing the digital transition: the adoption of cloud computing and AI by Italian firms

Lorenzo Bencivelli, Sara Formai, Elena Mattevi, Tullia Padellini

Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasion Papers, n. 946, giugno 2025

Brand, immagine e contenuto d’impresa

Gli elementi fondamentali delle relazioni tra marca e organizzazione della produzione

 

Immagine e contenuto. Soprattutto immagine, per comunicare certezze sul contenuto. E dare tranquillità. Le relazioni tra brand (marca) e successo d’impresa sono, spesso, molto strette e complesse. Indicano, queste relazioni, anche un particolare aspetto della cultura del produrre che si racconta davanti al consumatore. Attorno a tutto questo ragiona il libro di Roberto De Luca “Brand e sostenibilità. Il ruolo degli intangibles nelle determinazioni quantitative d’azienda” appena pubblicato in open access.

Il libro prende le mosse dalla constatazione che un numero sempre crescente di aziende è consapevole che, nell’attuale contesto competitivo, uno dei punti di forza sia costituito dal brand associato ai loro prodotti o servizi. È anche una questione di scelte e di tempo per le scelte (una condizione che vale per gli individui e per le organizzazioni). Detto in altro modo, di fronte alla complessità si cerca sempre di più la semplicità. Anche nelle scelte. Da qui, appunto, il valore dei brand che semplificano le decisioni dei consumatori e delle imprese, riducono il rischio percepito e definiscono le aspettative.

Obiettivo del libro è quindi quello di approfondire, in prospettiva economico-aziendale, i principali problemi di misurazione economica della marca e delle sue influenze. Questo traguardo viene raggiunto attraverso l’analisi di un’ampia letteratura sull’argomento in particolare riguardo all’evoluzione del brand, della brand equity e del suo ruolo nel corso degli anni, i problemi connessi alla valutazione del brand e delle tecniche maggiormente utilizzate per il suo sviluppo, l’influenza della marca e degli investimenti per costruire il brand all’interno dei mercati.

Il libro di De Luca è così una sorta di cassetta degli attrezzi che consente, attraverso la raccolta dei risultati della letteratura di ricerca sul tema, di affrontare il brand d’impresa in modo più consapevole e avveduto.

Brand e sostenibilità. Il ruolo degli intangibles nelle determinazioni quantitative d’azienda

Roberto De Luca

Economia Ricerche, Dipartimento di Scienze aziendali – Management e Information Systems dell’Università degli studi di Salerno, Franco Angeli open access, 2025

Gli elementi fondamentali delle relazioni tra marca e organizzazione della produzione

 

Immagine e contenuto. Soprattutto immagine, per comunicare certezze sul contenuto. E dare tranquillità. Le relazioni tra brand (marca) e successo d’impresa sono, spesso, molto strette e complesse. Indicano, queste relazioni, anche un particolare aspetto della cultura del produrre che si racconta davanti al consumatore. Attorno a tutto questo ragiona il libro di Roberto De Luca “Brand e sostenibilità. Il ruolo degli intangibles nelle determinazioni quantitative d’azienda” appena pubblicato in open access.

Il libro prende le mosse dalla constatazione che un numero sempre crescente di aziende è consapevole che, nell’attuale contesto competitivo, uno dei punti di forza sia costituito dal brand associato ai loro prodotti o servizi. È anche una questione di scelte e di tempo per le scelte (una condizione che vale per gli individui e per le organizzazioni). Detto in altro modo, di fronte alla complessità si cerca sempre di più la semplicità. Anche nelle scelte. Da qui, appunto, il valore dei brand che semplificano le decisioni dei consumatori e delle imprese, riducono il rischio percepito e definiscono le aspettative.

Obiettivo del libro è quindi quello di approfondire, in prospettiva economico-aziendale, i principali problemi di misurazione economica della marca e delle sue influenze. Questo traguardo viene raggiunto attraverso l’analisi di un’ampia letteratura sull’argomento in particolare riguardo all’evoluzione del brand, della brand equity e del suo ruolo nel corso degli anni, i problemi connessi alla valutazione del brand e delle tecniche maggiormente utilizzate per il suo sviluppo, l’influenza della marca e degli investimenti per costruire il brand all’interno dei mercati.

Il libro di De Luca è così una sorta di cassetta degli attrezzi che consente, attraverso la raccolta dei risultati della letteratura di ricerca sul tema, di affrontare il brand d’impresa in modo più consapevole e avveduto.

Brand e sostenibilità. Il ruolo degli intangibles nelle determinazioni quantitative d’azienda

Roberto De Luca

Economia Ricerche, Dipartimento di Scienze aziendali – Management e Information Systems dell’Università degli studi di Salerno, Franco Angeli open access, 2025

Milano vive di mercato e innovazione ma ha bisogno anche di buona politica

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scriveva Italo Calvino nelle pagine de “Le città invisibili”, considerato come “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”. Era il 1972, inizio d’una stagione difficile e controversa, di violenze terroristiche e criminali (gli “anni di piombo”, appunto) ma anche di tensioni politiche e sociali, di speranze e di riforme (lo Statuto dei lavoratori, la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’abolizione dei manicomi e tanto altro ancora). E l’Italia, dopo la fine del boom economico dei Roaring Sixties, provava a fare i conti con una modernità quanto mai carica di ombre e contrasti. Cambiavano consumi e costumi, restavano insuperati parecchi vizi nazionali, a cominciare dal carente senso civico diffuso. Le città, di tanto e tale travaglio, erano il punto di condensa maggiore, l’immagine più evidente. “Difficile viverle”, appunto. E indispensabile, semmai, nel corso del tempo, “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Le parole di Calvino, sapiente e dolente profeta, come ogni vero poeta, tornano in mente proprio in questi giorni in cui si torna a ragionare sull’attualità e sul futuro di Milano, dividendosi tra la soddisfazione per le novità che continuano ad arrivare (la preparazione delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, la conclusione del restauro d’un simbolo come Torre Velasca, l’avvio del Piano Casa del Comune per 10mila nuovi alloggi a basso prezzo, i progetti immobiliari su San Cristoforo e Scalo Farini, tanto per fare solo pochi esempi) e le preoccupazioni per i problemi irrisolti. L’obiettivo è capire come fare fronte alle “Urgenze di Milano”, come recita il tema dell’ultima riunione del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini e convocato, con ampia partecipazione di studiosi e protagonisti della vita economica, culturale e sociale, in una sala della Triennale, proprio accanto agli spazi in cui è stata allestita la grande mostra internazionale su “Shapes of Inequalities”.

Ecco il punto, la domanda cui calvinianamente Milano deve provare finalmente a rispondere: come riprodurre la sua storica capacità d’essere, contemporaneamente, produttiva e solidale, competitiva e socialmente inclusiva, come costruire, insomma, ricchezza ma anche coesione sociale. Perché i divari economici, culturali, geopolitici, generazionali e cognitivi – le “Inequalities” della mostra in Triennale – aumentano e diventano sempre più intollerabili. E dunque sono necessarie scelte strategiche per evitare fratture che, anche qui in Italia e nelle altre società occidentali, mettano in crisi le relazioni tra democrazia, economia di mercato e welfare e alterino profondamente gli equilibri tra libertà, intraprendenza e benessere. Per poter continuare, insomma, a essere, anche nei nostri tempi incerti e laceranti, “liberi e uguali”, usando i termini del “Manifesto per una società giusta” scritto da Daniel Chandler, economista e filosofo della London School of Economics (il libro è stato appena pubblicato da Laterza, “un saggio lucido e importante”, secondo Amartya Sen, premio Nobel per l’economia).

Che risposte? Né la nostalgia canaglia né il malinconico amarcord di quando si era “con il cuore in mano”. Né l’arroganza del successo né il vanto di lavorare e produrre, sempre, nonostante tutto. Né l’esasperazione della paura per l’insicurezza (i reati di sangue e le rapine sono diminuite e c’è ancora chi ha memoria di quando, proprio negli anni Settanta, a parte il terrorismo e le stragi, le sparatorie tra le bande criminali di Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda dominavano i giorni e le notti della città) né l’indifferenza per il disagio sociale nelle periferie e per la giusta preoccupazione per la microcriminalità e le truffe agli anziani.

Milano è città di contraddizioni, perché “contiene moltitudini”. E per affrontarle ha bisogno di intelligenza progettuale e di buona cultura, economica, politica e amministrativa. Facendo tesoro, per esempio, della lezione di Lewis Mumford, uno dei maggiori sociologhi del Novecento, quando distingueva tra “l’utopia della fuga” (costruire castelli in aria, lasciandosi il mondo com’è) e “l’utopia della ricostruzione”, il pensiero positivo per immaginare e trovare strumenti e metodi per dare vita al futuro.

Torniamo, così, alla Torre Velasca. Simbolo della Milano dinamica e innovativa degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se all’inizio poco amata da tanti milanesi (“il grattacielo con le bretelle”, la chiamavano) torna, dopo anni di restauro, a occupare i primi posti della classifica del lusso, proprietà della Hines americana, 26 piani di uffici e appartamenti. E si apre su un’area pedonale molto curata, di fronte al palazzo dell’Assolombarda progettato da Gio Ponti e da poco rimesso a nuovo, ben collegato al solenne edificio rinascimentale della Ca’ Granda in via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale. Eccola, dunque, in uno spazio urbano particolare, la Milano della storia e dell’innovazione, della grande architettura e dell’impresa, del benessere visibile e della più raffinata economia della conoscenza.

Ma Milano è anche molto altro. Sia le “mille luci” vistose dei nuovi ricchi internazionali attratti dalla Milano post Expo considerata come The place to be e degli eventi modaioli. Sia il disagio abitativo di decine di migliaia di persone del ceto medio che non sono in grado di fare fronte al boom dei valori immobiliari. Un contrasto da cui uscire. Con scelte politiche e di buona amministrazione.

Milano è infatti metropoli forte d’una robusta cultura d’impresa e di mercato e non può non continuare a essere tale. Ma non deve essere lasciata solo alle dinamiche di mercato, pena il suo degrado in una “città dei ricchi” che espelle giovani, studiosi, imprenditori alle prime mosse, ricercatori, ma anche tranvieri, impiegati e medi dirigenti delle imprese e delle banche, professori di liceo, commercianti estranei alle dinamiche del lusso ma indispensabili alla vita quotidiana.

Rischia, insomma, di continuare a perdere cives, cittadini attenti alle dinamiche positive della vita quotidiana per seguire mode e ritmi dei city users. Abdica alla sua anima. E al suo complesso “capitale sociale” forte di diversità di provenienze, caratteri e aspirazioni ma anche di un solido senso di appartenenza.

È una buona notizia, dunque, il Piano Casa annunciato dal Comune guidato dal sindaco Beppe Sala, per 10mila case a basso costo, nell’arco dei prossimi dieci anni. Le prime 24 offerte per le aree su cui costruire sono già arrivate (Il Sole24Ore, 29 maggio). Nel mondo immobiliare, oltre che i grandi fondi internazionali, si presentano nuovi protagonisti dell’edilizia abitativa più popolare.

Le discussioni in corso sulle “urgenze” per il rilancio della città, da considerare nella sua dimensione “grande”, metropolitana, interconnessa con altre metropoli (Torino, Bologna) e città medie e medio-grandi (Brescia, Bergamo, Verona, Pavia, etc) vanno avanti. Si apprezza la capacità di Milano d’essere molto critica, autocritica e comunque capace di ripresa di fronte alle crisi (dopo la fine del boom, poi dopo gli anni di piombo e ancora dopo la tempesta di Tangentopoli, con la fine del mito della “capitale morale”. E si fa il conto sulle risorse disponibili: l’attrattività ancora viva per persone, idee e capitali; la diffusione della “economia della conoscenza” grazie anche alle sue università di crescente prestigio europeo e internazionale; una intraprendenza diffusa nelle relazioni tra città e territori industriali collegati. E la solidità delle sue virtù civili, antiche e contemporanee.

Sarebbe importante che di questi temi si occupassero con senso di responsabilità anche le forze politiche, in vista delle elezioni per il nuovo sindaco in calendario nel ‘27. Parlando dunque non di persone da candidare per vincere né di giochi di equilibro tra partiti e correnti, ma di come affrontare e cercare di risolvere temi veri, dallo sviluppo equilibrato alla sicurezza, dai rapporti con l’Europa al peso sulla vita nazionale, dalla qualità della vita all’invecchiamento crescente e alle solitudini (i cittadini con più di 60 anni sono il 28% della popolazione contro il 21% della media nazionale e il 56,7% delle famiglie sono composte da una sola persona), dalle nuove povertà alle domande di futuro giustamente poste dalle nuove generazioni che continuano a guardare a Milano con attenzione e speranza.

Rieccoci dunque tornati a Calvino e alle qualità necessarie d’una città, coniugare sicurezza e ricerca di felicità, crescita e sostenibilità, esigenze individuali e valori generali, pragmatismo e sguardo lungo sul futuro. Milano, nel passato anche recente, grazie al buon lavoro dei suoi sindaci, un impasto virtuoso di riformismo, sapienza politica e capacità amministrative, c’è riuscita. Vale la pena ripensarne e ripeterne la lezione.

(foto Getty Images)

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scriveva Italo Calvino nelle pagine de “Le città invisibili”, considerato come “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”. Era il 1972, inizio d’una stagione difficile e controversa, di violenze terroristiche e criminali (gli “anni di piombo”, appunto) ma anche di tensioni politiche e sociali, di speranze e di riforme (lo Statuto dei lavoratori, la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’abolizione dei manicomi e tanto altro ancora). E l’Italia, dopo la fine del boom economico dei Roaring Sixties, provava a fare i conti con una modernità quanto mai carica di ombre e contrasti. Cambiavano consumi e costumi, restavano insuperati parecchi vizi nazionali, a cominciare dal carente senso civico diffuso. Le città, di tanto e tale travaglio, erano il punto di condensa maggiore, l’immagine più evidente. “Difficile viverle”, appunto. E indispensabile, semmai, nel corso del tempo, “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Le parole di Calvino, sapiente e dolente profeta, come ogni vero poeta, tornano in mente proprio in questi giorni in cui si torna a ragionare sull’attualità e sul futuro di Milano, dividendosi tra la soddisfazione per le novità che continuano ad arrivare (la preparazione delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, la conclusione del restauro d’un simbolo come Torre Velasca, l’avvio del Piano Casa del Comune per 10mila nuovi alloggi a basso prezzo, i progetti immobiliari su San Cristoforo e Scalo Farini, tanto per fare solo pochi esempi) e le preoccupazioni per i problemi irrisolti. L’obiettivo è capire come fare fronte alle “Urgenze di Milano”, come recita il tema dell’ultima riunione del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini e convocato, con ampia partecipazione di studiosi e protagonisti della vita economica, culturale e sociale, in una sala della Triennale, proprio accanto agli spazi in cui è stata allestita la grande mostra internazionale su “Shapes of Inequalities”.

Ecco il punto, la domanda cui calvinianamente Milano deve provare finalmente a rispondere: come riprodurre la sua storica capacità d’essere, contemporaneamente, produttiva e solidale, competitiva e socialmente inclusiva, come costruire, insomma, ricchezza ma anche coesione sociale. Perché i divari economici, culturali, geopolitici, generazionali e cognitivi – le “Inequalities” della mostra in Triennale – aumentano e diventano sempre più intollerabili. E dunque sono necessarie scelte strategiche per evitare fratture che, anche qui in Italia e nelle altre società occidentali, mettano in crisi le relazioni tra democrazia, economia di mercato e welfare e alterino profondamente gli equilibri tra libertà, intraprendenza e benessere. Per poter continuare, insomma, a essere, anche nei nostri tempi incerti e laceranti, “liberi e uguali”, usando i termini del “Manifesto per una società giusta” scritto da Daniel Chandler, economista e filosofo della London School of Economics (il libro è stato appena pubblicato da Laterza, “un saggio lucido e importante”, secondo Amartya Sen, premio Nobel per l’economia).

Che risposte? Né la nostalgia canaglia né il malinconico amarcord di quando si era “con il cuore in mano”. Né l’arroganza del successo né il vanto di lavorare e produrre, sempre, nonostante tutto. Né l’esasperazione della paura per l’insicurezza (i reati di sangue e le rapine sono diminuite e c’è ancora chi ha memoria di quando, proprio negli anni Settanta, a parte il terrorismo e le stragi, le sparatorie tra le bande criminali di Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda dominavano i giorni e le notti della città) né l’indifferenza per il disagio sociale nelle periferie e per la giusta preoccupazione per la microcriminalità e le truffe agli anziani.

Milano è città di contraddizioni, perché “contiene moltitudini”. E per affrontarle ha bisogno di intelligenza progettuale e di buona cultura, economica, politica e amministrativa. Facendo tesoro, per esempio, della lezione di Lewis Mumford, uno dei maggiori sociologhi del Novecento, quando distingueva tra “l’utopia della fuga” (costruire castelli in aria, lasciandosi il mondo com’è) e “l’utopia della ricostruzione”, il pensiero positivo per immaginare e trovare strumenti e metodi per dare vita al futuro.

Torniamo, così, alla Torre Velasca. Simbolo della Milano dinamica e innovativa degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se all’inizio poco amata da tanti milanesi (“il grattacielo con le bretelle”, la chiamavano) torna, dopo anni di restauro, a occupare i primi posti della classifica del lusso, proprietà della Hines americana, 26 piani di uffici e appartamenti. E si apre su un’area pedonale molto curata, di fronte al palazzo dell’Assolombarda progettato da Gio Ponti e da poco rimesso a nuovo, ben collegato al solenne edificio rinascimentale della Ca’ Granda in via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale. Eccola, dunque, in uno spazio urbano particolare, la Milano della storia e dell’innovazione, della grande architettura e dell’impresa, del benessere visibile e della più raffinata economia della conoscenza.

Ma Milano è anche molto altro. Sia le “mille luci” vistose dei nuovi ricchi internazionali attratti dalla Milano post Expo considerata come The place to be e degli eventi modaioli. Sia il disagio abitativo di decine di migliaia di persone del ceto medio che non sono in grado di fare fronte al boom dei valori immobiliari. Un contrasto da cui uscire. Con scelte politiche e di buona amministrazione.

Milano è infatti metropoli forte d’una robusta cultura d’impresa e di mercato e non può non continuare a essere tale. Ma non deve essere lasciata solo alle dinamiche di mercato, pena il suo degrado in una “città dei ricchi” che espelle giovani, studiosi, imprenditori alle prime mosse, ricercatori, ma anche tranvieri, impiegati e medi dirigenti delle imprese e delle banche, professori di liceo, commercianti estranei alle dinamiche del lusso ma indispensabili alla vita quotidiana.

Rischia, insomma, di continuare a perdere cives, cittadini attenti alle dinamiche positive della vita quotidiana per seguire mode e ritmi dei city users. Abdica alla sua anima. E al suo complesso “capitale sociale” forte di diversità di provenienze, caratteri e aspirazioni ma anche di un solido senso di appartenenza.

È una buona notizia, dunque, il Piano Casa annunciato dal Comune guidato dal sindaco Beppe Sala, per 10mila case a basso costo, nell’arco dei prossimi dieci anni. Le prime 24 offerte per le aree su cui costruire sono già arrivate (Il Sole24Ore, 29 maggio). Nel mondo immobiliare, oltre che i grandi fondi internazionali, si presentano nuovi protagonisti dell’edilizia abitativa più popolare.

Le discussioni in corso sulle “urgenze” per il rilancio della città, da considerare nella sua dimensione “grande”, metropolitana, interconnessa con altre metropoli (Torino, Bologna) e città medie e medio-grandi (Brescia, Bergamo, Verona, Pavia, etc) vanno avanti. Si apprezza la capacità di Milano d’essere molto critica, autocritica e comunque capace di ripresa di fronte alle crisi (dopo la fine del boom, poi dopo gli anni di piombo e ancora dopo la tempesta di Tangentopoli, con la fine del mito della “capitale morale”. E si fa il conto sulle risorse disponibili: l’attrattività ancora viva per persone, idee e capitali; la diffusione della “economia della conoscenza” grazie anche alle sue università di crescente prestigio europeo e internazionale; una intraprendenza diffusa nelle relazioni tra città e territori industriali collegati. E la solidità delle sue virtù civili, antiche e contemporanee.

Sarebbe importante che di questi temi si occupassero con senso di responsabilità anche le forze politiche, in vista delle elezioni per il nuovo sindaco in calendario nel ‘27. Parlando dunque non di persone da candidare per vincere né di giochi di equilibro tra partiti e correnti, ma di come affrontare e cercare di risolvere temi veri, dallo sviluppo equilibrato alla sicurezza, dai rapporti con l’Europa al peso sulla vita nazionale, dalla qualità della vita all’invecchiamento crescente e alle solitudini (i cittadini con più di 60 anni sono il 28% della popolazione contro il 21% della media nazionale e il 56,7% delle famiglie sono composte da una sola persona), dalle nuove povertà alle domande di futuro giustamente poste dalle nuove generazioni che continuano a guardare a Milano con attenzione e speranza.

Rieccoci dunque tornati a Calvino e alle qualità necessarie d’una città, coniugare sicurezza e ricerca di felicità, crescita e sostenibilità, esigenze individuali e valori generali, pragmatismo e sguardo lungo sul futuro. Milano, nel passato anche recente, grazie al buon lavoro dei suoi sindaci, un impasto virtuoso di riformismo, sapienza politica e capacità amministrative, c’è riuscita. Vale la pena ripensarne e ripeterne la lezione.

(foto Getty Images)

Fare (bene) impresa in un contesto complesso e composito

Il ruolo e la funzione della geopolitica nella gestione delle aziende

 

Complesso e composito. Può essere definito così il panorama – e soprattutto il sistema di relazioni – entro il quale le imprese oggi devono muoversi. Un contesto davvero nuovo per molti aspetti, che deve essere prima compreso e poi affrontato con grande attenzione. Anche con letture che possano fornire non un manuale d’istruzioni, ma un metodo di interpretazione della realtà funzionale alle migliori scelte da compiere. A questo serve leggere “Geopolitica per le imprese. Ripensare il business nei mercati post-globali” scritto da Marco Valigi (politologo, docente presso ESCP Business School e Università Cattolica).

Il libro prende le mosse da una considerazione: dal 2020 a oggi una serie di eventi internazionali impropriamente definiti di “geopolitica” hanno esercitato un impatto notevole sugli individui, le società e le attività economiche. Di fronte a una globalizzazione che ha assunto un aspetto a macchia di leopardo, nella quale interconnessione e divisioni coesistono, alimentano conflitti commerciali che sempre di più diventano identitari e in molti casi militari, gli “affari” sono diventati un’attività molto più complicata di quanto non lo fosse in passato. Un’attività che, come si diceva all’inizio, deve fare i conti con un panorama complesso e composito.

Si tratta di una condizione alla quale imprenditori e manager devono rispondere senza, in molti casi, avere un adeguato bagaglio di conoscenze. È sempre più richiesta, in altri termini, la capacità di percepire e interpretare segnali estranei al contesto delle imprese, della formazione di chi le guida, della stessa sensibilità di chi è coinvolto.

Da qui l’utilità del libro di Valigi che, prima di tutto, cerca di fare chiarezza sul legame tra business e geopolitica e quindi sull’utilità di tenere conto di quest’ultima nelle attività d’impresa. Il libro inizia con una definizione di cosa sia la geopolitica per passare subito a considerare il contesto internazionale come potenziale ambito di generazione di valore e quindi arrivare a considerare questa materia come elemento delle organizzazioni della produzione. Il libro, poi, passa a considerare alcuni elementi puntuali delle relazioni che devono instaurarsi: la formazione delle persone, la sensibilità al rischio, le dimensioni aziendali, la capacità di riuscire a “guardare oltre l’impresa”.

Scrive l’autore nelle ultime pagine del suo libro: “Pensare al proprio business in una prospettiva effettivamente connotata da un approccio geopolitico (…) e progettare un’organizzazione strutturata in modo adeguato ad agire nel contesto internazionalizzato di oggi, imporrà di andare alla ricerca delle risorse finanziarie per costruirla, del know-how teologico necessario a farla funzionare e, infine, del capitale umano adatto a governarla”.

Geopolitica per le imprese. Ripensare il business nei mercati post-globali

Marco Valigi

Egea, 2025

Il ruolo e la funzione della geopolitica nella gestione delle aziende

 

Complesso e composito. Può essere definito così il panorama – e soprattutto il sistema di relazioni – entro il quale le imprese oggi devono muoversi. Un contesto davvero nuovo per molti aspetti, che deve essere prima compreso e poi affrontato con grande attenzione. Anche con letture che possano fornire non un manuale d’istruzioni, ma un metodo di interpretazione della realtà funzionale alle migliori scelte da compiere. A questo serve leggere “Geopolitica per le imprese. Ripensare il business nei mercati post-globali” scritto da Marco Valigi (politologo, docente presso ESCP Business School e Università Cattolica).

Il libro prende le mosse da una considerazione: dal 2020 a oggi una serie di eventi internazionali impropriamente definiti di “geopolitica” hanno esercitato un impatto notevole sugli individui, le società e le attività economiche. Di fronte a una globalizzazione che ha assunto un aspetto a macchia di leopardo, nella quale interconnessione e divisioni coesistono, alimentano conflitti commerciali che sempre di più diventano identitari e in molti casi militari, gli “affari” sono diventati un’attività molto più complicata di quanto non lo fosse in passato. Un’attività che, come si diceva all’inizio, deve fare i conti con un panorama complesso e composito.

Si tratta di una condizione alla quale imprenditori e manager devono rispondere senza, in molti casi, avere un adeguato bagaglio di conoscenze. È sempre più richiesta, in altri termini, la capacità di percepire e interpretare segnali estranei al contesto delle imprese, della formazione di chi le guida, della stessa sensibilità di chi è coinvolto.

Da qui l’utilità del libro di Valigi che, prima di tutto, cerca di fare chiarezza sul legame tra business e geopolitica e quindi sull’utilità di tenere conto di quest’ultima nelle attività d’impresa. Il libro inizia con una definizione di cosa sia la geopolitica per passare subito a considerare il contesto internazionale come potenziale ambito di generazione di valore e quindi arrivare a considerare questa materia come elemento delle organizzazioni della produzione. Il libro, poi, passa a considerare alcuni elementi puntuali delle relazioni che devono instaurarsi: la formazione delle persone, la sensibilità al rischio, le dimensioni aziendali, la capacità di riuscire a “guardare oltre l’impresa”.

Scrive l’autore nelle ultime pagine del suo libro: “Pensare al proprio business in una prospettiva effettivamente connotata da un approccio geopolitico (…) e progettare un’organizzazione strutturata in modo adeguato ad agire nel contesto internazionalizzato di oggi, imporrà di andare alla ricerca delle risorse finanziarie per costruirla, del know-how teologico necessario a farla funzionare e, infine, del capitale umano adatto a governarla”.

Geopolitica per le imprese. Ripensare il business nei mercati post-globali

Marco Valigi

Egea, 2025

Dall’economia tradizionale all’economia green

Una ricerca di dottorato cerca di verificare la teoria nella pratica di due territori

Si fa presto a dire transizione ecologica. Perché il passaggio dall’attuale condizione della produzione – ancora piuttosto generalizzata – ad una più attenta ai risvolti ambientali della stessa, è certamente un percorso da compiere per tutte le aziende che, tuttavia, viene intrapreso in modi e forme diverse. Capirne gli impatti sociali oltre che economici (e con una particolare attenzione alle politiche di genere) è certamente cosa buona da fare. Ed è quanto si è prefissa Elisa Errico con il suo lavoro di dottorato di ricerca che ha preso forma compiuta nella tesi di dottorato “Le PMI alla prova della green economy: impatti sociali e inclusione di genere”.

La stessa Errico nelle prime pagine della ricerca spiega come l’intento del lavoro sia quello di esplorare “la transizione ecologica delle piccole e medie imprese (PMI) italiane, con un focus specifico sugli impatti distributivi, sociali e di genere generati da questi processi di cambiamento”.

Lo studio adotta quindi come riferimenti teorici la letteratura sui sistemi di innovazione territoriali, settoriali e sullo sviluppo locale, rapportandola a quella internazionale sulla governance delle transizioni  e sul rapporto tra queste, sistemi capitalistici e impatti sulle disuguaglianze. La ricerca ha quindi quattro obiettivi principali. Analizzare se, e per quali motivi, la transizione ecologica delle PMI rappresenti un processo di innovazione diverso rispetto a quello delle imprese più strutturate. Considerare come particolari fattori di contesto, che formano la governance della transizione ecologica, influenzino le capacità delle PMI di assorbire le cosiddette “eco-innovazioni”.  Valutare se e in che modo a differenti modelli di governance corrispondano impatti distributivi diversi. Elaborare, infine, suggerimenti per la ricerca futura e per le politiche utili ai decisori pubblici e agli operatori di settore per migliorare e rendere più inclusivi i processi di transizione. Errico, inoltre, unisce il ragionamento teorico con una parte di analisi sul campo con due casi, quello della bergamasca Rubber Valley e quello del distretto della gomma di Torino.

Il lavoro di ricerca di Elisa Errico aggiunge una tappa importante nel percorso di comprensione della diffusione della cosiddetta green economy in Italia.

Le PMI alla prova della green economy: impatti sociali e inclusione di genere

Elisa Errico

Tesi di dottorato in Sociologia, XXXVII ciclo, Scuola di Dottorato in Scienze Sociali ed Economiche

Sapienza Università di Roma, 2025

Una ricerca di dottorato cerca di verificare la teoria nella pratica di due territori

Si fa presto a dire transizione ecologica. Perché il passaggio dall’attuale condizione della produzione – ancora piuttosto generalizzata – ad una più attenta ai risvolti ambientali della stessa, è certamente un percorso da compiere per tutte le aziende che, tuttavia, viene intrapreso in modi e forme diverse. Capirne gli impatti sociali oltre che economici (e con una particolare attenzione alle politiche di genere) è certamente cosa buona da fare. Ed è quanto si è prefissa Elisa Errico con il suo lavoro di dottorato di ricerca che ha preso forma compiuta nella tesi di dottorato “Le PMI alla prova della green economy: impatti sociali e inclusione di genere”.

La stessa Errico nelle prime pagine della ricerca spiega come l’intento del lavoro sia quello di esplorare “la transizione ecologica delle piccole e medie imprese (PMI) italiane, con un focus specifico sugli impatti distributivi, sociali e di genere generati da questi processi di cambiamento”.

Lo studio adotta quindi come riferimenti teorici la letteratura sui sistemi di innovazione territoriali, settoriali e sullo sviluppo locale, rapportandola a quella internazionale sulla governance delle transizioni  e sul rapporto tra queste, sistemi capitalistici e impatti sulle disuguaglianze. La ricerca ha quindi quattro obiettivi principali. Analizzare se, e per quali motivi, la transizione ecologica delle PMI rappresenti un processo di innovazione diverso rispetto a quello delle imprese più strutturate. Considerare come particolari fattori di contesto, che formano la governance della transizione ecologica, influenzino le capacità delle PMI di assorbire le cosiddette “eco-innovazioni”.  Valutare se e in che modo a differenti modelli di governance corrispondano impatti distributivi diversi. Elaborare, infine, suggerimenti per la ricerca futura e per le politiche utili ai decisori pubblici e agli operatori di settore per migliorare e rendere più inclusivi i processi di transizione. Errico, inoltre, unisce il ragionamento teorico con una parte di analisi sul campo con due casi, quello della bergamasca Rubber Valley e quello del distretto della gomma di Torino.

Il lavoro di ricerca di Elisa Errico aggiunge una tappa importante nel percorso di comprensione della diffusione della cosiddetta green economy in Italia.

Le PMI alla prova della green economy: impatti sociali e inclusione di genere

Elisa Errico

Tesi di dottorato in Sociologia, XXXVII ciclo, Scuola di Dottorato in Scienze Sociali ed Economiche

Sapienza Università di Roma, 2025

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