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Antonio Calabrò “L’officina dello sport” – Podcast

L’impresa tra ingegneria ed economia

Un saggio pubblicato da poco racconta le relazioni tra questi due aspetti di ogni organizzazione della produzione

 

Tecnica e organizzazione. Ingegneria ed economia. Due aspetti dell’impresa che – da sempre – si sono compenetrati, anche se, spesso, non sono riusciti a capirsi fino in fondo. Partenze e traguardi di uno stesso percorso, l’economia e l’ingegnera industriale hanno accompagnato tutta l’evoluzione dell’industria e continueranno a farlo. Capirne origini e sviluppi serve per comprendere non solo il presente ma anche il futuro.

A questo serve leggere, e con attenzione, il saggio di Riccardo Gallo – “Economia e Ingegneria industriale. Storia di una relazione su cui investire” – che ha il suo cuore a partire dal titolo: una storia, quella delle relazioni tra economia e ingegneria, sulla quale è necessario continuare ad avere fiducia.

Gallo (che fa parte dell’Osservatorio sulle imprese dell’Università Sapienza di Roma), riesce in uno spazio contenuto a sintetizzare, con efficacia, la storia delle relazioni tra questi due aspetti del fare impresa dalla nascita dell’industria ad oggi. Gallo quindi spiega come dopo la prima Rivoluzione industriale del Settecento, ingegneria industriale ed economia dell’industria dialogarono sul tema delle grandi imprese, sia private che statali, talvolta guidate da ingegneri. Nascono così le Business School e nuovi insegnamenti universitari. Nella seconda metà del Novecento, invece, si sviluppa la teoria dei sistemi accanto all’economia matematica o all’ingegneria gestionale. Alla fine di quel secolo, l’ingegneria tecnologica favorisce poi la nascita di numerosi distretti industriali in Italia, che vengono studiati dagli schemi di interpretazione della realtà dell’organizzazione industriale e dalla politica industriale.

Gallo dimostra quanto lo sviluppo industriale debba all’efficace connubio tra economia e ingegneria, e quanto, tra l’altro, sia complessa l’organizzazione dell’impresa tra tecnicalità e umanità del suo agire. Un saggio tutto da leggere quello di Gallo, un utile vademecum per interpretare meglio una relazione densa di contenuti che, tuttavia, deve essere ben compresa per essere correttamente sfruttata.

Economia e Ingegneria industriale. Storia di una relazione su cui investire

Riccardo Gallo

L’industria, Early access, 14/07/2024

Un saggio pubblicato da poco racconta le relazioni tra questi due aspetti di ogni organizzazione della produzione

 

Tecnica e organizzazione. Ingegneria ed economia. Due aspetti dell’impresa che – da sempre – si sono compenetrati, anche se, spesso, non sono riusciti a capirsi fino in fondo. Partenze e traguardi di uno stesso percorso, l’economia e l’ingegnera industriale hanno accompagnato tutta l’evoluzione dell’industria e continueranno a farlo. Capirne origini e sviluppi serve per comprendere non solo il presente ma anche il futuro.

A questo serve leggere, e con attenzione, il saggio di Riccardo Gallo – “Economia e Ingegneria industriale. Storia di una relazione su cui investire” – che ha il suo cuore a partire dal titolo: una storia, quella delle relazioni tra economia e ingegneria, sulla quale è necessario continuare ad avere fiducia.

Gallo (che fa parte dell’Osservatorio sulle imprese dell’Università Sapienza di Roma), riesce in uno spazio contenuto a sintetizzare, con efficacia, la storia delle relazioni tra questi due aspetti del fare impresa dalla nascita dell’industria ad oggi. Gallo quindi spiega come dopo la prima Rivoluzione industriale del Settecento, ingegneria industriale ed economia dell’industria dialogarono sul tema delle grandi imprese, sia private che statali, talvolta guidate da ingegneri. Nascono così le Business School e nuovi insegnamenti universitari. Nella seconda metà del Novecento, invece, si sviluppa la teoria dei sistemi accanto all’economia matematica o all’ingegneria gestionale. Alla fine di quel secolo, l’ingegneria tecnologica favorisce poi la nascita di numerosi distretti industriali in Italia, che vengono studiati dagli schemi di interpretazione della realtà dell’organizzazione industriale e dalla politica industriale.

Gallo dimostra quanto lo sviluppo industriale debba all’efficace connubio tra economia e ingegneria, e quanto, tra l’altro, sia complessa l’organizzazione dell’impresa tra tecnicalità e umanità del suo agire. Un saggio tutto da leggere quello di Gallo, un utile vademecum per interpretare meglio una relazione densa di contenuti che, tuttavia, deve essere ben compresa per essere correttamente sfruttata.

Economia e Ingegneria industriale. Storia di una relazione su cui investire

Riccardo Gallo

L’industria, Early access, 14/07/2024

Una guida di viaggio nel mondo digitale

Le nuove tecnologie affrontate in modo semplice e chiaro, per capire cosa sono e come si usano

Parlare di digitalizzazione in modo chiaro e anche con l’aiuto di disegni elementari (quasi per bambini). La semplicità per affrontare la complessità. Sono i traguardi – raggiunti – che Federica Spampinato si è posta con la sua ultima fatica letteraria: “Atlante della tecnologia invisibile. Un approccio unico e stimolante per orientarsi nel mondo interconnesso”.

Tecnologie invisibili, dunque, ma assolutamente presenti nel nostro mondo che occorre comprendere con chiarezza per non esserne sopraffatti. Il libro di Spampinato è un valido aiuto in questa direzione anche perché rappresenta molto più di una semplice guida all’alfabetizzazione digitale: è uno strumento di conoscenza che offre un nuovo codice illustrato per affrontare l’universo, appunto apparentemente “invisibile”, creato dal nostro utilizzo quotidiano, personale e professionale, delle tecnologie digitali.

Il libro è organizzato con un percorso tra testo e 40 carte illustrate che funzionano da mappa concettuale per orientarsi nel mondo virtuale oltre, spiega l’autrice, “le proprie convinzioni”.

I capitoli toccati dal cammino verso la comprensione delle tecnologie digitali sono 5 + 1. Si inizia con un inquadramento generale del tema per passare subito alle “prime regole” da apprendere per arrivare quindi ad approfondire il tema dei dati e quindi dell’ecologia degli ambienti digitali cioè delle relazioni tra le diverse componenti dell’organizzazione digitale e si finisce affrontando il vasto tema dell’intelligenza artificiale. “Sottrarsi” è il titolo dell’ultimo capitolo che contiene un messaggio: “Sottrarsi (…) è un invito a mantenerci ancorati all’ambiente naturale e a decidere in che misura, come e perché abitare la realtà simulata dell’ambiente virtuale”.

Il libro di Federica Spampinato si pone come ponte tra le generazioni, fornisce strumenti che possono aumentare la conoscenza, stimolare il pensiero critico e l’autonomia decisionale nell’abitare la virtualità. Ed è anche un valido manuale sul digitale a disposizione di chi, nelle imprese, si trova ad affrontare un cambiamento che spesso va troppo veloce.

Atlante della tecnologia invisibile. Un approccio unico e stimolante per orientarsi nel mondo interconnesso

Federica Spampinato

Guerini e Associati, 2024

Le nuove tecnologie affrontate in modo semplice e chiaro, per capire cosa sono e come si usano

Parlare di digitalizzazione in modo chiaro e anche con l’aiuto di disegni elementari (quasi per bambini). La semplicità per affrontare la complessità. Sono i traguardi – raggiunti – che Federica Spampinato si è posta con la sua ultima fatica letteraria: “Atlante della tecnologia invisibile. Un approccio unico e stimolante per orientarsi nel mondo interconnesso”.

Tecnologie invisibili, dunque, ma assolutamente presenti nel nostro mondo che occorre comprendere con chiarezza per non esserne sopraffatti. Il libro di Spampinato è un valido aiuto in questa direzione anche perché rappresenta molto più di una semplice guida all’alfabetizzazione digitale: è uno strumento di conoscenza che offre un nuovo codice illustrato per affrontare l’universo, appunto apparentemente “invisibile”, creato dal nostro utilizzo quotidiano, personale e professionale, delle tecnologie digitali.

Il libro è organizzato con un percorso tra testo e 40 carte illustrate che funzionano da mappa concettuale per orientarsi nel mondo virtuale oltre, spiega l’autrice, “le proprie convinzioni”.

I capitoli toccati dal cammino verso la comprensione delle tecnologie digitali sono 5 + 1. Si inizia con un inquadramento generale del tema per passare subito alle “prime regole” da apprendere per arrivare quindi ad approfondire il tema dei dati e quindi dell’ecologia degli ambienti digitali cioè delle relazioni tra le diverse componenti dell’organizzazione digitale e si finisce affrontando il vasto tema dell’intelligenza artificiale. “Sottrarsi” è il titolo dell’ultimo capitolo che contiene un messaggio: “Sottrarsi (…) è un invito a mantenerci ancorati all’ambiente naturale e a decidere in che misura, come e perché abitare la realtà simulata dell’ambiente virtuale”.

Il libro di Federica Spampinato si pone come ponte tra le generazioni, fornisce strumenti che possono aumentare la conoscenza, stimolare il pensiero critico e l’autonomia decisionale nell’abitare la virtualità. Ed è anche un valido manuale sul digitale a disposizione di chi, nelle imprese, si trova ad affrontare un cambiamento che spesso va troppo veloce.

Atlante della tecnologia invisibile. Un approccio unico e stimolante per orientarsi nel mondo interconnesso

Federica Spampinato

Guerini e Associati, 2024

Le scelte necessarie della Ue e gli eurobond per la sicurezza, le tecnologie e l’ambiente 

La stagione delle drammatiche crisi, per la Commissione Ue uscente: la pandemia da Covid19, l’aggressione della Russia in Ucraina, la guerra in Medio Oriente, la crisi energetica. E adesso una nuova stagione che si spera sia di rilancio, ripresa e investimenti, per la nuova Commissione. Resta un evidente elemento di continuità, la guida nelle mani della presidente Ursula von der Leyen. Ma c’è un orizzonte radicalmente modificato, di fronte a un bivio tra rilancio e declino. O l’Europa sarà capace di crescere come soggetto politico e industriale e definire dunque scelte di sviluppo sostenibile lungimiranti e ambiziose, per fare fronte alle sfide che vengono dai due principali protagonisti dello scenario geopolitico, gli Usa e la Cina e alle manovre di protagonismo di altri grandi attori internazionali, l’India e la Russia, i paesi arabi e tutti gli altri soggetti di un inquieto Global South oppure dovrà fare i conti con un inquietante degrado di ruolo, peso e, in fin dei conti, benessere. Diventando, insomma, un elegante, colto, sofisticato ma irrilevante Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo andranno a fare le loro vacanze (il monito è arrivato nelle scorse settimane dal “Financial Times”).

“L’Europa perde competitività e solo l’Italia tiene testa agli Stati Uniti e alla Cina”, documenta Marco Fortis su “IlSole24Ore” (27 giugno), analizzando l’andamento delle esportazioni tra il 2016 e il 2023.

Subito dopo le elezioni per il nuovo Parlamento Ue e il voto per la nuova Commissione (con il sostegno di popolari, socialisti, liberali e verdi) si è molto discusso di alleanze, accordi politici, consensi e dissensi (ha fatto scalpore il voto contrario alla von der Leyen da parte della leader di Fratelli d’Italia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni). Ma probabilmente adesso è necessario che, schieramenti politici a parte, Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa indichino rapidamente le scelte da fare sui temi cruciali della nuova stagione e trovino le risorse finanziarie da mettere in campo.

I temi degli impegni da prendere sono chiari. Una politica comune della sicurezza, che dia conto della posizione Ue sulla difesa (nell’ambito Nato, ma con un ruolo più impegnativo di Bruxelles e dei paesi Ue, per controbilanciare un eventuale alleggerimento dell’impegno Usa), sull’autonomia energetica, sulle tecnologie legate alla cybersecurity. Una politica industriale, che recuperi il crescente divario di competitività nei confronti di Usa e Cina, con una strategia europea per l’Artificial Intelligence e con un nuovo Green Deal che non metta in difficoltà le imprese dei paesi europei e contenga misure che ne mitighino l’impatto dei costi. Una politica fiscale e una politica sociale che evitino le distorsioni alla concorrenza per dumping tra singoli o paesi Ue e riformino il welfare. E una politica finanziaria che faccia dell’Europa un unico, efficiente mercato bancario aperto e competitivo, in grado di attrarre investimenti internazionali e dare opportunità all’allocazione del risparmio delle famiglie e delle imprese europee.

Scelte impegnative. Ma indispensabili. Che chiedono risorse ingenti, sia per la sicurezza sia per finanziare la doppia transizione, ambientale e digitale: almeno mille miliardi all’anno per il prossimo decennio. Da trovare rafforzando il bilancio Ue, con un’espansione al 2% del Pil, anche per la creazione di “beni pubblici europei”. E da chiedere ai mercati internazionali, seguendo l’ottima scelta già fatta per il Recovery Plan Next Generation Ue, la raccolta di fondi di mercato, come debito comune Ue, o per fronteggiare là conseguenze della pandemia.

In altri termini, arriva finalmente l’ora di una strategia già elaborata da una delle intelligenze europee più acute e dotate di sguardo da statista, Jacques Delors: gli eurobond.

Ma c’è anche un’essenziale riforma di governance da realizzare rapidamente, pur nella evidente consapevolezza delle difficoltà da superare: andare oltre la regola dell’unanimità delle decisioni (mettendo fine al potere di veto di singoli paesi che bloccano accordi su cui tutti gli altri sono favorevoli) e procedere dunque con maggioranze qualificate o intese, sui vari temi, tra paesi che sono pronti ad andare avanti. Le regole istituzionali sono complesse da definire, tenendo insieme i valori della governabilità con quelli dell’uguaglianza di peso delle rappresentanze. Ma sono temi da mettere certamente in cantiere, presto ed efficacemente.

Indicazioni essenziali, da questo punto di vista, sono contenute nel rapporto preparato dal gruppo di lavoro sul mercato unico guidato da Enrico Letta (“l’Europa è molto più di un mercato”, sostiene il presidente dell’Istituto intitolato a Delors) e in quello sulla concorrenza guidato da Mario Draghi, atteso per l’autunno. Nessun protezionismo, dannoso soprattutto per un’area economica con robuste vocazioni esportatrici, come l’Europa. E invece una scelta forte su mercati aperti e competitività, innovazione e qualità dello sviluppo.

Proprio su questi temi ci sono considerazioni interessanti in una “Lettera aperta alle Istituzioni Europee” inviata a metà luglio a Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel da sei autorevoli Centri Studi, il Centre for European Reform (Londra-Bruxelles-Berlino), la Fondazione Astrid (Roma), la Fondazione Res Publica (Milano), la Fundaciòn Alternativas (Madrid), Les Gracques e Terra Nova (entrambe di Parigi).

Le considerazioni di partenza parlano di “vulnerabilità strutturale” della Ue e dei suoi paesi, per dipendenza dell’economia dai mercati di altri paesi, per import (energia e materie prime strategiche) ed export e dunque per il condizionamento dall’andamento delle crisi geopolitiche. Di allontanamento dalle “frontiere tecnologiche” di Usa e Cina ma, guardando bene l’evoluzione delle varie “economie della conoscenza”, anche dell’India. Di una “avversa tendenza demografica di lungo periodo” e di una “deludente dinamica della produttività”. E di una “elevata e diffusa incidenza del debito pubblico che riduce lo spazio per le politiche espansive di bilancio in molti paesi”.

Sono vincoli stringenti, di cui non soffrono Usa e Cina. E il cui superamento richiede scelte politiche come quelle di cui abbiamo parlato.

C’è un passaggio politico impegnativo: “La Ue e i suoi Stati membri dovrebbero assumere una posizione netta per chiarire che non intendono avallare il negazionismo climatico, il mercantilismo di retroguardia, l’autarchia demografica o un ritiro dalle catene internazionali del valore che – per l’Europa – sarebbe scelta autolesionista”. Tutte strategie di corto respiro che “condannerebbero la Ue a ripiegarsi su se stessa e la condannerebbero a un’ulteriore frammentazione e irrilevanza”.

La conclusione del documento dei sei Centri Studi è molto chiara: “Sta nascendo un nuovo ordine mondiale. Se rimane una costruzione a metà, la Ue non avrà alcun ruolo nel plasmarlo. Gli Usa e la Cina sono aree economiche e politiche, la Ue non lo è ancora diventata. Un terzo grande attore globale renderebbe il sistema internazionale più stabile”.

La Ue, dunque, dovrebbe sforzarsi di “rilanciare il multilateralismo evitando quella pura logica di potere nelle relazioni internazionali destinata a peggiorare la situazione di tutti gli attori” E il Consiglio Europeo e il Parlamento devono “riconoscere questo punto cruciale e agire di conseguenza. Hanno l’opportunità di dare un segnale chiaro in questo senso e agire di conseguenza”. Rafforzare l’Europa, nonostante tutto. E giocare da protagonisti sui nuovi equilibri del mondo.

(foto Getty Images)

La stagione delle drammatiche crisi, per la Commissione Ue uscente: la pandemia da Covid19, l’aggressione della Russia in Ucraina, la guerra in Medio Oriente, la crisi energetica. E adesso una nuova stagione che si spera sia di rilancio, ripresa e investimenti, per la nuova Commissione. Resta un evidente elemento di continuità, la guida nelle mani della presidente Ursula von der Leyen. Ma c’è un orizzonte radicalmente modificato, di fronte a un bivio tra rilancio e declino. O l’Europa sarà capace di crescere come soggetto politico e industriale e definire dunque scelte di sviluppo sostenibile lungimiranti e ambiziose, per fare fronte alle sfide che vengono dai due principali protagonisti dello scenario geopolitico, gli Usa e la Cina e alle manovre di protagonismo di altri grandi attori internazionali, l’India e la Russia, i paesi arabi e tutti gli altri soggetti di un inquieto Global South oppure dovrà fare i conti con un inquietante degrado di ruolo, peso e, in fin dei conti, benessere. Diventando, insomma, un elegante, colto, sofisticato ma irrilevante Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo andranno a fare le loro vacanze (il monito è arrivato nelle scorse settimane dal “Financial Times”).

“L’Europa perde competitività e solo l’Italia tiene testa agli Stati Uniti e alla Cina”, documenta Marco Fortis su “IlSole24Ore” (27 giugno), analizzando l’andamento delle esportazioni tra il 2016 e il 2023.

Subito dopo le elezioni per il nuovo Parlamento Ue e il voto per la nuova Commissione (con il sostegno di popolari, socialisti, liberali e verdi) si è molto discusso di alleanze, accordi politici, consensi e dissensi (ha fatto scalpore il voto contrario alla von der Leyen da parte della leader di Fratelli d’Italia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni). Ma probabilmente adesso è necessario che, schieramenti politici a parte, Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa indichino rapidamente le scelte da fare sui temi cruciali della nuova stagione e trovino le risorse finanziarie da mettere in campo.

I temi degli impegni da prendere sono chiari. Una politica comune della sicurezza, che dia conto della posizione Ue sulla difesa (nell’ambito Nato, ma con un ruolo più impegnativo di Bruxelles e dei paesi Ue, per controbilanciare un eventuale alleggerimento dell’impegno Usa), sull’autonomia energetica, sulle tecnologie legate alla cybersecurity. Una politica industriale, che recuperi il crescente divario di competitività nei confronti di Usa e Cina, con una strategia europea per l’Artificial Intelligence e con un nuovo Green Deal che non metta in difficoltà le imprese dei paesi europei e contenga misure che ne mitighino l’impatto dei costi. Una politica fiscale e una politica sociale che evitino le distorsioni alla concorrenza per dumping tra singoli o paesi Ue e riformino il welfare. E una politica finanziaria che faccia dell’Europa un unico, efficiente mercato bancario aperto e competitivo, in grado di attrarre investimenti internazionali e dare opportunità all’allocazione del risparmio delle famiglie e delle imprese europee.

Scelte impegnative. Ma indispensabili. Che chiedono risorse ingenti, sia per la sicurezza sia per finanziare la doppia transizione, ambientale e digitale: almeno mille miliardi all’anno per il prossimo decennio. Da trovare rafforzando il bilancio Ue, con un’espansione al 2% del Pil, anche per la creazione di “beni pubblici europei”. E da chiedere ai mercati internazionali, seguendo l’ottima scelta già fatta per il Recovery Plan Next Generation Ue, la raccolta di fondi di mercato, come debito comune Ue, o per fronteggiare là conseguenze della pandemia.

In altri termini, arriva finalmente l’ora di una strategia già elaborata da una delle intelligenze europee più acute e dotate di sguardo da statista, Jacques Delors: gli eurobond.

Ma c’è anche un’essenziale riforma di governance da realizzare rapidamente, pur nella evidente consapevolezza delle difficoltà da superare: andare oltre la regola dell’unanimità delle decisioni (mettendo fine al potere di veto di singoli paesi che bloccano accordi su cui tutti gli altri sono favorevoli) e procedere dunque con maggioranze qualificate o intese, sui vari temi, tra paesi che sono pronti ad andare avanti. Le regole istituzionali sono complesse da definire, tenendo insieme i valori della governabilità con quelli dell’uguaglianza di peso delle rappresentanze. Ma sono temi da mettere certamente in cantiere, presto ed efficacemente.

Indicazioni essenziali, da questo punto di vista, sono contenute nel rapporto preparato dal gruppo di lavoro sul mercato unico guidato da Enrico Letta (“l’Europa è molto più di un mercato”, sostiene il presidente dell’Istituto intitolato a Delors) e in quello sulla concorrenza guidato da Mario Draghi, atteso per l’autunno. Nessun protezionismo, dannoso soprattutto per un’area economica con robuste vocazioni esportatrici, come l’Europa. E invece una scelta forte su mercati aperti e competitività, innovazione e qualità dello sviluppo.

Proprio su questi temi ci sono considerazioni interessanti in una “Lettera aperta alle Istituzioni Europee” inviata a metà luglio a Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel da sei autorevoli Centri Studi, il Centre for European Reform (Londra-Bruxelles-Berlino), la Fondazione Astrid (Roma), la Fondazione Res Publica (Milano), la Fundaciòn Alternativas (Madrid), Les Gracques e Terra Nova (entrambe di Parigi).

Le considerazioni di partenza parlano di “vulnerabilità strutturale” della Ue e dei suoi paesi, per dipendenza dell’economia dai mercati di altri paesi, per import (energia e materie prime strategiche) ed export e dunque per il condizionamento dall’andamento delle crisi geopolitiche. Di allontanamento dalle “frontiere tecnologiche” di Usa e Cina ma, guardando bene l’evoluzione delle varie “economie della conoscenza”, anche dell’India. Di una “avversa tendenza demografica di lungo periodo” e di una “deludente dinamica della produttività”. E di una “elevata e diffusa incidenza del debito pubblico che riduce lo spazio per le politiche espansive di bilancio in molti paesi”.

Sono vincoli stringenti, di cui non soffrono Usa e Cina. E il cui superamento richiede scelte politiche come quelle di cui abbiamo parlato.

C’è un passaggio politico impegnativo: “La Ue e i suoi Stati membri dovrebbero assumere una posizione netta per chiarire che non intendono avallare il negazionismo climatico, il mercantilismo di retroguardia, l’autarchia demografica o un ritiro dalle catene internazionali del valore che – per l’Europa – sarebbe scelta autolesionista”. Tutte strategie di corto respiro che “condannerebbero la Ue a ripiegarsi su se stessa e la condannerebbero a un’ulteriore frammentazione e irrilevanza”.

La conclusione del documento dei sei Centri Studi è molto chiara: “Sta nascendo un nuovo ordine mondiale. Se rimane una costruzione a metà, la Ue non avrà alcun ruolo nel plasmarlo. Gli Usa e la Cina sono aree economiche e politiche, la Ue non lo è ancora diventata. Un terzo grande attore globale renderebbe il sistema internazionale più stabile”.

La Ue, dunque, dovrebbe sforzarsi di “rilanciare il multilateralismo evitando quella pura logica di potere nelle relazioni internazionali destinata a peggiorare la situazione di tutti gli attori” E il Consiglio Europeo e il Parlamento devono “riconoscere questo punto cruciale e agire di conseguenza. Hanno l’opportunità di dare un segnale chiaro in questo senso e agire di conseguenza”. Rafforzare l’Europa, nonostante tutto. E giocare da protagonisti sui nuovi equilibri del mondo.

(foto Getty Images)

La grande trasformazione del lavoro e dell’impresa

Una ricerca appena pubblicata ragiona dal punto di vista pedagogico sulla necessità di cambiare modelli e stili di organizzazione e comando

Cambio di priorità. Mutamento dei paradigmi di riferimento. E nuove prospettive di vita e di lavoro. Il cambiamento vasto e vario che la società e l’economia stanno attraversando da tempo, passa anche da queste circostanze. Che si riflettono pure sulle modalità di lavoro e sulle scelte di chi lavora. Cambiamenti che, a ben vedere, si riflettono pure sui modelli di comando e di organizzazione. E’ attorno a questo nodo di problemi che ragiona Caterina Braga  (Università Cattolica del Sacro Cuore) con la sua ricerca “Leadership empatiche e comunità di pratica per un lavoro dignitoso e di qualità” pubblicata da poco.

L’analisi esposta nell’articolo prende spunto dalla serie di sconvolgimenti politico/sociali in atto e dalla pandemia da poco superata: accadimenti che, secondo Braga, hanno modificato il modo in cui le persone vivono e lavorano, accelerando le tendenze che già stavano emergendo in ambito lavorativo.
A perdere di Caterina Braga, quella che da molti è chiamata “the great resignation”, può essere definita invece “the great reflection”. Una grande riflessione sulla base della quale i lavoratori hanno rivalutato le proprie priorità, decidendo, in un numero rilevante di casi, di lasciare la propria occupazione per trovare un lavoro più “sano” e soddisfacente. Tutto questo per Braga rappresenta una sfida anche per la pedagogia chiamata a ripensare e riprogettare modelli organizzativi volti al pieno compimento umano e allo sviluppo integrale della persona. Un traguardo che si può raggiungere anche nel mondo del lavoro e dell’organizzazione della produzione. La ricerca condotta da Braga, quindi, avanza l’ipotesi che sia necessario un nuovo stile di leadership “supportiva”, che sappia abbracciare l’empatia e la compassione coniugandole all’azione e permetta di attivare comunità di pratica per sviluppare solidarietà organizzativa, condividendo scopi, saperi pratici, significati e linguaggi. Un modello a tutto tondo anche dell’impresa e della sua organizzazione che si inserisce  nell’ambito del cambiamento di una coltura del produrre più completa ma certamente a che più complessa, che vede il raggiungimento del profitto non come traguardo esclusivo ma come parte di un insieme di traguardi da conquistare insieme.

Leadership empatiche e comunità di pratica per un lavoro dignitoso e di qualità

Caterina Braga (Università Cattolica del Sacro Cuore)

MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni 14(1) 2024, 123-139

Una ricerca appena pubblicata ragiona dal punto di vista pedagogico sulla necessità di cambiare modelli e stili di organizzazione e comando

Cambio di priorità. Mutamento dei paradigmi di riferimento. E nuove prospettive di vita e di lavoro. Il cambiamento vasto e vario che la società e l’economia stanno attraversando da tempo, passa anche da queste circostanze. Che si riflettono pure sulle modalità di lavoro e sulle scelte di chi lavora. Cambiamenti che, a ben vedere, si riflettono pure sui modelli di comando e di organizzazione. E’ attorno a questo nodo di problemi che ragiona Caterina Braga  (Università Cattolica del Sacro Cuore) con la sua ricerca “Leadership empatiche e comunità di pratica per un lavoro dignitoso e di qualità” pubblicata da poco.

L’analisi esposta nell’articolo prende spunto dalla serie di sconvolgimenti politico/sociali in atto e dalla pandemia da poco superata: accadimenti che, secondo Braga, hanno modificato il modo in cui le persone vivono e lavorano, accelerando le tendenze che già stavano emergendo in ambito lavorativo.
A perdere di Caterina Braga, quella che da molti è chiamata “the great resignation”, può essere definita invece “the great reflection”. Una grande riflessione sulla base della quale i lavoratori hanno rivalutato le proprie priorità, decidendo, in un numero rilevante di casi, di lasciare la propria occupazione per trovare un lavoro più “sano” e soddisfacente. Tutto questo per Braga rappresenta una sfida anche per la pedagogia chiamata a ripensare e riprogettare modelli organizzativi volti al pieno compimento umano e allo sviluppo integrale della persona. Un traguardo che si può raggiungere anche nel mondo del lavoro e dell’organizzazione della produzione. La ricerca condotta da Braga, quindi, avanza l’ipotesi che sia necessario un nuovo stile di leadership “supportiva”, che sappia abbracciare l’empatia e la compassione coniugandole all’azione e permetta di attivare comunità di pratica per sviluppare solidarietà organizzativa, condividendo scopi, saperi pratici, significati e linguaggi. Un modello a tutto tondo anche dell’impresa e della sua organizzazione che si inserisce  nell’ambito del cambiamento di una coltura del produrre più completa ma certamente a che più complessa, che vede il raggiungimento del profitto non come traguardo esclusivo ma come parte di un insieme di traguardi da conquistare insieme.

Leadership empatiche e comunità di pratica per un lavoro dignitoso e di qualità

Caterina Braga (Università Cattolica del Sacro Cuore)

MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni 14(1) 2024, 123-139

Lavoro e ozio, tra cultura d’impresa e organizzazione sociale

Pubblicato un affresco storico e sociale su due concetti e modalità di vita che permangono da sempre nell’uomo

 

Lavorare e non oziare. Impegnarsi nella produzione per il benessere materiale prima di tutto, ma prima ancora solo per sopravvivere e poi per vivere dignitosamente. Ozio come attività per pochi eletti e poi per “sfaccendati”. Pressoché da sempre lavoro e ozio hanno rappresentato i due estremi di un atteggiamento mentale prima ancora che pratico. Ed è attorno al lavoro e all’ozio che si dipana una lunga serie di indagini e interventi contenuta nel libro “Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà” pubblicato da poco a cura di Giovanni Mari, Francesco Ammannati, Stefano Brogi, Tiziana Faitini, Arianna Fermani, Francesco Seghezzi e Annalisa Tonarelli.

Il libro è una raccolta di idee ed analisi che finisce per costituire un lungo viaggio nel passato e nel presente dei concetti di lavoro e di ozio: una sorta di affresco a più colori che rappresenta, di fatto, una porzione importante della vita dell’uomo in ogni tempo e luogo.

Il volume prende avvio da una sintesi generale dell’argomento che cerca di mettere insieme i concetti del lavoro (individuale e sociale) con il significato stesso del lavorare, dando così un senso a tutta l’opera. In un primo tomo, inizia quindi un viaggio lungo la storia: prima il lavoro servile e l’ozio intellettuale dell’età antica, poi lavoro e ozio nella Bibbia, poi il lavoro all’epoca delle arti meccaniche fino al Settecento dell’Enciclopedia, quindi il lavoro nell’età industriale e il delinearsi – solo allora – del concetto e della pratica del tempo libero. In un secondo tomo, l’indagine prosegue con la messa a fuoco del “lavoro fordista” e delle conseguenze della digitalizzazione con il ritorno, come nell’età antica, dell’ozio e della sua ricerca. Il “viaggio” tra questi due concetti, continua poi con un approfondimento dedicato all’Italia.

Il libro curato da Giovanni Mari e dai suoi collaboratori non è solo una importante raccolta di saggi di ricerca, ma davvero un viaggio da percorrere più volte tra due modi e approcci diversi di intendere la vita e la produzione.

 

 

Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà

Giovanni Mari, Francesco Ammannati, Stefano Brogi, Tiziana Faitini, Arianna Fermani, Francesco Seghezzi, Annalisa Tonarelli (a cura di)

Firenze University Press, 2024

Pubblicato un affresco storico e sociale su due concetti e modalità di vita che permangono da sempre nell’uomo

 

Lavorare e non oziare. Impegnarsi nella produzione per il benessere materiale prima di tutto, ma prima ancora solo per sopravvivere e poi per vivere dignitosamente. Ozio come attività per pochi eletti e poi per “sfaccendati”. Pressoché da sempre lavoro e ozio hanno rappresentato i due estremi di un atteggiamento mentale prima ancora che pratico. Ed è attorno al lavoro e all’ozio che si dipana una lunga serie di indagini e interventi contenuta nel libro “Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà” pubblicato da poco a cura di Giovanni Mari, Francesco Ammannati, Stefano Brogi, Tiziana Faitini, Arianna Fermani, Francesco Seghezzi e Annalisa Tonarelli.

Il libro è una raccolta di idee ed analisi che finisce per costituire un lungo viaggio nel passato e nel presente dei concetti di lavoro e di ozio: una sorta di affresco a più colori che rappresenta, di fatto, una porzione importante della vita dell’uomo in ogni tempo e luogo.

Il volume prende avvio da una sintesi generale dell’argomento che cerca di mettere insieme i concetti del lavoro (individuale e sociale) con il significato stesso del lavorare, dando così un senso a tutta l’opera. In un primo tomo, inizia quindi un viaggio lungo la storia: prima il lavoro servile e l’ozio intellettuale dell’età antica, poi lavoro e ozio nella Bibbia, poi il lavoro all’epoca delle arti meccaniche fino al Settecento dell’Enciclopedia, quindi il lavoro nell’età industriale e il delinearsi – solo allora – del concetto e della pratica del tempo libero. In un secondo tomo, l’indagine prosegue con la messa a fuoco del “lavoro fordista” e delle conseguenze della digitalizzazione con il ritorno, come nell’età antica, dell’ozio e della sua ricerca. Il “viaggio” tra questi due concetti, continua poi con un approfondimento dedicato all’Italia.

Il libro curato da Giovanni Mari e dai suoi collaboratori non è solo una importante raccolta di saggi di ricerca, ma davvero un viaggio da percorrere più volte tra due modi e approcci diversi di intendere la vita e la produzione.

 

 

Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà

Giovanni Mari, Francesco Ammannati, Stefano Brogi, Tiziana Faitini, Arianna Fermani, Francesco Seghezzi, Annalisa Tonarelli (a cura di)

Firenze University Press, 2024

Il posto delle donne ai vertici delle imprese e la spinta positiva delle rettrici nelle università

“Le donne stanno al loro posto”, proclama lo slogan d’una vistosa pagina di pubblicità, apparsa la scorsa settimana su alcuni quotidiani di grande diffusione. Un asterisco rinvia alla spiegazione di quale sia il posto di cui si parla: “Nei consigli di amministrazione”.

La pagina, curata da ValoreD (un’associazione che da tempo promuove un’impegnativa battaglia culturale ed economicacontro i divari di genere), aggiunge che “solo nel network di ‘InThe Boardroom di ValoreD’ sono più di 500 le manager e le professioniste di talento che possono sedere al posto che meritano. Oggi si è scelto di promuovere l’equità e la parità di genere, accelerando lo sviluppo economico sostenibilee una cultura di valorizzazione delle diversità”.

L’iniziativa di ValoreD va avanti da parecchi anni. Ha avuto una particolare visibilità ancora di recente, nei giorni in cui una delle maggiori imprese pubbliche, la Cassa Depositi e Prestiti, è stata bloccata nelle procedure di rinnovo dei vertici perché negli ambienti di governo non si trovava un accordo che tenesse nel giusto conto i nomi di donne da eleggere nel consiglio d’amministrazione (dopo momenti di tensione, l’accordo è finalmente arrivato). Ma, cronache contemporanee a parte, l’impegno continua perché “sulla parità di genere si sono fatti passi avanti ma la strada è ancora lunga” e “in Piazza Affari (nelle società quotate in Borsa, cioè) è donna solo un manager su 5”, anche perché “il ribilanciamento dei generi dev’essere accompagnato da un ricambio generazionale, che soprattutto nelle aziende europee è molto più lento che negli Usa e in Asia” (la Repubblica – Affari&Finanza, 22 luglio).

L’Italia, è vero, per il numero di donne nei board, è “tra i paesi più virtuosi in Europa” (IlSole24Ore, 21 luglio), grazie anche alla legge Golfo-Mosca del 2011 che impone una quota dei due quinti nei consigli d’amministrazione delle società quotate per “il genere meno rappresentato”, le donne, appunto: oggi sono il 43,1%.

Ma va fatto ancora di più per le cariche operative di vertice: solo il 4% degli amministratori delegati delle società quotate in Piazza Affari è donna (dati Deloitte per la ricerca “Women in boardroom 2024). Troppo poco.

Un’ulteriore spinta per superare il gender gap può venire dalle università. Grazie anche al crescente numero di donne alla guida degli atenei italiani. Adesso le rettrici sono il 19%. E donna è la presidentessa della Crui (la Conferenza dei rettori): Giovanna Iannantuoni, economista, dal 2019 rettrice dell’Università Bicocca di Milano.

Ecco un punto di grande rilevanza: la sollecitazione che viene proprio da Milano e da alcune altre università lombarde. Una sollecitazione crescente, proprio nel corso degli ultimi due anni. Sono donne, oltre la Iannantuoni, la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto, ingegnere elettronica, la rettrice dell’Università Statale Marina Brambilla, professoressa ordinaria di Lingua e linguistica tedesca, la rettrice della Cattolica Elena Beccalli, ordinaria di Economia degli intermediari finanziari e, fresche di nomina rettorale, Maria Pierro, giurista, all’Università dell’Insubria (Varese e Como) e Anna Gervasoni, economista, direttrice dell’Aifi (l’Associazione nazionale degli intermediari finanziari) alla Liuc, la Libera Università “Cattaneo” di Castellanza (nata nel 1991 su iniziativa dell’Unione Industriali di Varese).

La storia racconta un nesso molto stretto tra la vocazione industriale e, più in generale, d’impresa manifatturiera dei territori lombardi, a partire da Milano, l’intraprendenza del mondo dei servizi, a cominciare da quelli bancari e finanziari legati alla “economia reale” e i processi culturali connessi a una crescente diffusione della cosiddetta “economia della conoscenza”. Città produttive. E città colte. Città ad alto reddito. E città attrattive, per talenti provenienti da tale altre realtà geografiche italiane e, nel corso del tempo, anche internazionali. Città forti di una straordinaria competenza del “fare, e fare bene”. E dunque strutture urbane in grado di tenere insieme tutte le componenti di una vera e propria “cultura politecnica” che si esprime nelle sintesi originali tra conoscenze scientifiche/tecnologiche e saperi umanistici, tra spinte all’innovazione e consapevolezza dei valori della “bellezza” (la diffusione del design ne è testimonianza esemplare).

Milano metropoli è paradigma di tutto ciò. Forte com’è di una cultura trasformativa che da tempo va definita come “umanesimo industriale” che diventa “umanesimo digitale” e nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” da una parte e le tecnologie e le competenze della vita quotidiana dall’altra. E’ una connotazione forte, che fa da leva per un vero e proprio vantaggio competitivo sui mercati globali, sempre più esigenti e selettivi e quindi particolarmente attenti alle identità distintive. Ed è una caratteristica che può accompagnare le nostre imprese nel difficile percorso della cosiddetta twin transition, sia ambientale che digitale, con tutte le connessioni indispensabili a rendere accettabili, socialmente e politicamente, i percorsi della sostenibilità, ambientale e sociale, appunto.

Le università hanno, proprio in questa dimensione, un ruolo fondamentale. E la guida in mani femminili aggiunge una caratteristica in più, nel saper coniugare dimensioni diverse dell’intelligenza e della passione, nella interpretazione e gestione dei conflitti tra differenti saperi e attitudini, nel valorizzare le diversità come vantaggi competitivi e motori sociali positivi. Nel costruire, insomma, una nuova e migliore dimensione del “capitale sociale” più sensibile non solo alla produzione di valore economico, ma soprattutto al rispetto e al rilancio dei valori umani. Nel passaggio, in altri termini, dal primato del Pil (il Prodotto interno lordo, la costruzione di ricchezza) a quello del Bes (il benessere equo e sostenibile), l’indice elaborato dall’Istat secondo i valori legati al benessere (salute, istruzione, qualità della vita, sviluppo, dinamiche sociali positive) secondo l’Onu, ma ancora poco considerato nella misurazione dei fenomeni economici e dunque nella costruzione dei paradigmi sociali dominanti.

Sfide complesse, appunto. Che chiedono una particolare intelligenza del cuore, per essere affrontate, oltre che competenze tecniche di alto livello e conoscenze aperte, dinamiche, inclusive. Come ricorda bene Anna Gervasoni, la rettrice di più recente nomina, quando indica le tre grandi questioni che l’università dovrà affrontare: la denatalità, la diffusione dell’intelligenza artificiale e i cervelli in fuga (IlSole24Ore, 17 luglio). Questioni che incidono profondamente sulla struttura sociale e civile, sui processi di produzione e consumo, sui mercati del lavoro e sulle dinamiche della formazione. Sulle dinamiche del potere. E su quelle della conoscenza. C’è davvero molto da sapere. Da capire. Da fare.

(foto Getty Images)

“Le donne stanno al loro posto”, proclama lo slogan d’una vistosa pagina di pubblicità, apparsa la scorsa settimana su alcuni quotidiani di grande diffusione. Un asterisco rinvia alla spiegazione di quale sia il posto di cui si parla: “Nei consigli di amministrazione”.

La pagina, curata da ValoreD (un’associazione che da tempo promuove un’impegnativa battaglia culturale ed economicacontro i divari di genere), aggiunge che “solo nel network di ‘InThe Boardroom di ValoreD’ sono più di 500 le manager e le professioniste di talento che possono sedere al posto che meritano. Oggi si è scelto di promuovere l’equità e la parità di genere, accelerando lo sviluppo economico sostenibilee una cultura di valorizzazione delle diversità”.

L’iniziativa di ValoreD va avanti da parecchi anni. Ha avuto una particolare visibilità ancora di recente, nei giorni in cui una delle maggiori imprese pubbliche, la Cassa Depositi e Prestiti, è stata bloccata nelle procedure di rinnovo dei vertici perché negli ambienti di governo non si trovava un accordo che tenesse nel giusto conto i nomi di donne da eleggere nel consiglio d’amministrazione (dopo momenti di tensione, l’accordo è finalmente arrivato). Ma, cronache contemporanee a parte, l’impegno continua perché “sulla parità di genere si sono fatti passi avanti ma la strada è ancora lunga” e “in Piazza Affari (nelle società quotate in Borsa, cioè) è donna solo un manager su 5”, anche perché “il ribilanciamento dei generi dev’essere accompagnato da un ricambio generazionale, che soprattutto nelle aziende europee è molto più lento che negli Usa e in Asia” (la Repubblica – Affari&Finanza, 22 luglio).

L’Italia, è vero, per il numero di donne nei board, è “tra i paesi più virtuosi in Europa” (IlSole24Ore, 21 luglio), grazie anche alla legge Golfo-Mosca del 2011 che impone una quota dei due quinti nei consigli d’amministrazione delle società quotate per “il genere meno rappresentato”, le donne, appunto: oggi sono il 43,1%.

Ma va fatto ancora di più per le cariche operative di vertice: solo il 4% degli amministratori delegati delle società quotate in Piazza Affari è donna (dati Deloitte per la ricerca “Women in boardroom 2024). Troppo poco.

Un’ulteriore spinta per superare il gender gap può venire dalle università. Grazie anche al crescente numero di donne alla guida degli atenei italiani. Adesso le rettrici sono il 19%. E donna è la presidentessa della Crui (la Conferenza dei rettori): Giovanna Iannantuoni, economista, dal 2019 rettrice dell’Università Bicocca di Milano.

Ecco un punto di grande rilevanza: la sollecitazione che viene proprio da Milano e da alcune altre università lombarde. Una sollecitazione crescente, proprio nel corso degli ultimi due anni. Sono donne, oltre la Iannantuoni, la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto, ingegnere elettronica, la rettrice dell’Università Statale Marina Brambilla, professoressa ordinaria di Lingua e linguistica tedesca, la rettrice della Cattolica Elena Beccalli, ordinaria di Economia degli intermediari finanziari e, fresche di nomina rettorale, Maria Pierro, giurista, all’Università dell’Insubria (Varese e Como) e Anna Gervasoni, economista, direttrice dell’Aifi (l’Associazione nazionale degli intermediari finanziari) alla Liuc, la Libera Università “Cattaneo” di Castellanza (nata nel 1991 su iniziativa dell’Unione Industriali di Varese).

La storia racconta un nesso molto stretto tra la vocazione industriale e, più in generale, d’impresa manifatturiera dei territori lombardi, a partire da Milano, l’intraprendenza del mondo dei servizi, a cominciare da quelli bancari e finanziari legati alla “economia reale” e i processi culturali connessi a una crescente diffusione della cosiddetta “economia della conoscenza”. Città produttive. E città colte. Città ad alto reddito. E città attrattive, per talenti provenienti da tale altre realtà geografiche italiane e, nel corso del tempo, anche internazionali. Città forti di una straordinaria competenza del “fare, e fare bene”. E dunque strutture urbane in grado di tenere insieme tutte le componenti di una vera e propria “cultura politecnica” che si esprime nelle sintesi originali tra conoscenze scientifiche/tecnologiche e saperi umanistici, tra spinte all’innovazione e consapevolezza dei valori della “bellezza” (la diffusione del design ne è testimonianza esemplare).

Milano metropoli è paradigma di tutto ciò. Forte com’è di una cultura trasformativa che da tempo va definita come “umanesimo industriale” che diventa “umanesimo digitale” e nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” da una parte e le tecnologie e le competenze della vita quotidiana dall’altra. E’ una connotazione forte, che fa da leva per un vero e proprio vantaggio competitivo sui mercati globali, sempre più esigenti e selettivi e quindi particolarmente attenti alle identità distintive. Ed è una caratteristica che può accompagnare le nostre imprese nel difficile percorso della cosiddetta twin transition, sia ambientale che digitale, con tutte le connessioni indispensabili a rendere accettabili, socialmente e politicamente, i percorsi della sostenibilità, ambientale e sociale, appunto.

Le università hanno, proprio in questa dimensione, un ruolo fondamentale. E la guida in mani femminili aggiunge una caratteristica in più, nel saper coniugare dimensioni diverse dell’intelligenza e della passione, nella interpretazione e gestione dei conflitti tra differenti saperi e attitudini, nel valorizzare le diversità come vantaggi competitivi e motori sociali positivi. Nel costruire, insomma, una nuova e migliore dimensione del “capitale sociale” più sensibile non solo alla produzione di valore economico, ma soprattutto al rispetto e al rilancio dei valori umani. Nel passaggio, in altri termini, dal primato del Pil (il Prodotto interno lordo, la costruzione di ricchezza) a quello del Bes (il benessere equo e sostenibile), l’indice elaborato dall’Istat secondo i valori legati al benessere (salute, istruzione, qualità della vita, sviluppo, dinamiche sociali positive) secondo l’Onu, ma ancora poco considerato nella misurazione dei fenomeni economici e dunque nella costruzione dei paradigmi sociali dominanti.

Sfide complesse, appunto. Che chiedono una particolare intelligenza del cuore, per essere affrontate, oltre che competenze tecniche di alto livello e conoscenze aperte, dinamiche, inclusive. Come ricorda bene Anna Gervasoni, la rettrice di più recente nomina, quando indica le tre grandi questioni che l’università dovrà affrontare: la denatalità, la diffusione dell’intelligenza artificiale e i cervelli in fuga (IlSole24Ore, 17 luglio). Questioni che incidono profondamente sulla struttura sociale e civile, sui processi di produzione e consumo, sui mercati del lavoro e sulle dinamiche della formazione. Sulle dinamiche del potere. E su quelle della conoscenza. C’è davvero molto da sapere. Da capire. Da fare.

(foto Getty Images)

Bicocca degli Arcimboldi. La magia del numero 12

Una lente sul mondo: costumi e consumi nelle fotografie dell’Archivio Storico Pirelli

L’evoluzione dei generi e delle tecniche fotografiche ha comportato una profonda trasformazione della visione del mondo, mettendo in luce la stretta interrelazione tra espressioni artistiche e società. La fotografia ha infatti un rapporto del tutto particolare con la dimensione temporale, avendo lo scopo di dare forma alla memoria collettiva, fornire una comprensione della contemporaneità e stimolare una riflessione sugli indirizzi futuri.
L’Archivio Storico Pirelli non testimonia solamente gli oltre 150 anni dell’azienda, ma permette di ricostruire la storia dell’impresa e i suoi valori e, più in generale, i cambiamenti del gusto e del costume, dentro e fuori i confini nazionali.

A partire dal secondo Dopoguerra, lo stile di vita delle famiglie italiane si modifica. Grazie a una maggiore disponibilità economica, la popolazione accede a nuovi beni di consumo e nuovi svaghi, generando, e vivendo, importanti cambiamenti culturali. Si fa strada l’idea moderna del tempo libero, immortalato da Federico Patellani nel servizio fotografico del 1949 sui tubolari Pirelli: protagonisti delle gite in bicicletta fuori città sono ragazzi e ragazze, sdraiati davanti a uno specchio d’acqua dopo la fatica della pedalata, ma anche genitori con bambini tra la polvere delle strade di campagna o a riposo nei campi. Sono scene di vita quotidiana, come il matrimonio in Lambretta ripreso dall’agenzia Rotofoto di Fedele Toscani: una coppia di giovani sposi esce dalla Chiesa di San Martino in Villapizzone, con amici e parenti ad aspettarli su uno dei mezzi più amati dagli italiani negli anni Cinquanta equipaggiato con pneumatici Pirelli, il cui controllo è assicurato dal personale dell’azienda.
I prodotti della P lunga segnano poi l’epoca della motorizzazione di massa e del boom dello sviluppo autostradale. Insegne pubblicitarie accompagnano lo snodarsi dell’Autostrada del Sole, inaugurata nel 1964 e nelle cui aree di sosta i viaggiatori possono approfittare dei box Pirelli per il cambio delle gomme. La nuova classe media si sposta nella Penisola attraverso un numero crescente di automobili, come l’Autobianchi A122, al centro del fotoservizio realizzato nel 1969, tra picnic domenicali e giri in città.

I prodotti Pirelli dominano anche le vacanze estive. Rodolfo Facchini fotografa il Nautilus, gommone della consociata Azienda Seregno, che sfreccia tra le onde con giovani allegri e spensierati a bordo, mentre Aldo Ballo realizza degli still life dei materassini, delle mute e delle maschere subacquee. Pirelli è inoltre protagonista del mondo della moda: i servizi fotografici realizzati dall’Azienda Impermeabili mostrano l’evoluzione delle forme, dei materiali e dei pattern – dai classici modelli raglan di ampia foggia fino ai fascianti doppiopetto in tartan con collo a rever – seguendo non solo i trend del tempo, ma anche le trasformazioni del ruolo della donna. Così anche gli articoli della Pirelli Revere in lastex: corsetti, guaine e costumi da bagno disegnano non solo la silhouette delle modelle, ma anche la libertà femminile dell’epoca.
Testimonianze di vita quotidiana si trovano poi negli scatti che raccontano il welfare aziendale degli anni Cinquanta e Sessanta: dalle attività del doposcuola pensate per i figli dei “pirelliani” alle scene familiari all’interno del Villaggio Pirelli di Cinisello Balsamo, fino ai soggiorni in colonia durante le vacanze estive. Un’attenzione al benessere dei lavoratori e delle loro famiglie che ancora costituisce oggi uno dei capisaldi della cultura d’impresa del Gruppo.

Anche la Rivista Pirelli, sulle cui pagine si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese, rappresenta un’inesauribile fonte di riflessioni sulla trasformazione della società. I reportage di alcuni dei nomi più importanti della fotografia forniscono un approfondimento iconografico necessario alle numerose inchieste sui temi caldi dell’epoca, come “Televisione e cultura”, analisi sulla possibile missione didattica del nuovo medium. È Ugo Mulas, poeta visivo del quotidiano e narratore del mondo, a registrare gli effetti del piccolo schermo sul panorama di Milano, profondamente cambiato dal proliferare delle antenne sui tetti delle abitazioni. Mulas indaga anche la tematica del lavoro firmando due copertine della Rivista: nel 1961 campeggia la figura eroica di un operaio durante la costruzione del traforo del Monte Bianco, parte del fotoservizio dedicato a questa grande impresa – immagini in cui trionfa il profondo nero delle gallerie, a rendere perfettamente i “tre anni di notte” vissuti dai minatori – mentre il numero del maggio 1964 mostra i lavoratori specializzati sulle braccia del radiotelescopio di Medicina (Bologna), uno dei più grandi d’Europa. Un caleidoscopio di forme geometriche, tra paraboloidi, tralicci e cavi elettrici, naturalmente Pirelli. L’inchiesta “La scuola in Italia e in Europa” esplora le diverse problematiche e le possibili soluzioni sul tema dell’istruzione; sono diversi gli artisti che si occupano dell’argomento, tra cui Giuseppe Pino, che immortala le attività didattiche creative – il mosaico, la pittura e la falegnameria – pensate per rispondere ai bisogni educativi dei bambini con disabilità cognitive, e Mulas, che studia il rapporto tra scuola e industria fotografando l’Istituto Professionale Piero Pirelli, dedicato alla formazione dei figli dei dipendenti appena entrati in azienda, colti a lavoro nelle officine durante le esercitazioni pratiche e chini sui banchi delle aule per le lezioni teoriche. Sulle pagine della Rivista non mancano analisi critiche sulla situazione del turismo nazionale – con reportage d’autore di Fulvio Roiter, Pepi Merisio e Enzo Sellerio – e approfondimenti sull’andamento demografico crescente della popolazione italiana. Saul Bass, illustratore e grafico attivo tra pubblicità e cinema – sue le celebri locandine di “Anatomia di un omicidio” di Otto Preminger e di molti capolavori di Hitchcock, tra cui “Vertigo” (“La donna che visse due volte”, nella versione italiana) – realizza nel 1965 uno scatto di sua figlia tra le braccia della madre, che diventa copertina della Rivista Pirelli di quell’anno, e di nuovo nel numero di Natale del 1966, vincendo il premio per la miglior fotografia conferito dall’Art Directors Club di Los Angeles in occasione della XXII Mostra annuale di pubblicità e arte editoriale.

Ancora oggi Pirelli mantiene uno sguardo sulla società e sulle sue evoluzioni attraverso un dialogo costante con gli artisti più influenti a livello internazionale. Lo testimoniano il Calendario Pirelli, le mostre di Pirelli HangarBicocca, le attività e le pubblicazioni di Fondazione Pirelli, gli Annual Report del Gruppo e il magazine aziendale “World”, che dal 1994 raccoglie l’eredità della Rivista Pirelli.

L’evoluzione dei generi e delle tecniche fotografiche ha comportato una profonda trasformazione della visione del mondo, mettendo in luce la stretta interrelazione tra espressioni artistiche e società. La fotografia ha infatti un rapporto del tutto particolare con la dimensione temporale, avendo lo scopo di dare forma alla memoria collettiva, fornire una comprensione della contemporaneità e stimolare una riflessione sugli indirizzi futuri.
L’Archivio Storico Pirelli non testimonia solamente gli oltre 150 anni dell’azienda, ma permette di ricostruire la storia dell’impresa e i suoi valori e, più in generale, i cambiamenti del gusto e del costume, dentro e fuori i confini nazionali.

A partire dal secondo Dopoguerra, lo stile di vita delle famiglie italiane si modifica. Grazie a una maggiore disponibilità economica, la popolazione accede a nuovi beni di consumo e nuovi svaghi, generando, e vivendo, importanti cambiamenti culturali. Si fa strada l’idea moderna del tempo libero, immortalato da Federico Patellani nel servizio fotografico del 1949 sui tubolari Pirelli: protagonisti delle gite in bicicletta fuori città sono ragazzi e ragazze, sdraiati davanti a uno specchio d’acqua dopo la fatica della pedalata, ma anche genitori con bambini tra la polvere delle strade di campagna o a riposo nei campi. Sono scene di vita quotidiana, come il matrimonio in Lambretta ripreso dall’agenzia Rotofoto di Fedele Toscani: una coppia di giovani sposi esce dalla Chiesa di San Martino in Villapizzone, con amici e parenti ad aspettarli su uno dei mezzi più amati dagli italiani negli anni Cinquanta equipaggiato con pneumatici Pirelli, il cui controllo è assicurato dal personale dell’azienda.
I prodotti della P lunga segnano poi l’epoca della motorizzazione di massa e del boom dello sviluppo autostradale. Insegne pubblicitarie accompagnano lo snodarsi dell’Autostrada del Sole, inaugurata nel 1964 e nelle cui aree di sosta i viaggiatori possono approfittare dei box Pirelli per il cambio delle gomme. La nuova classe media si sposta nella Penisola attraverso un numero crescente di automobili, come l’Autobianchi A122, al centro del fotoservizio realizzato nel 1969, tra picnic domenicali e giri in città.

I prodotti Pirelli dominano anche le vacanze estive. Rodolfo Facchini fotografa il Nautilus, gommone della consociata Azienda Seregno, che sfreccia tra le onde con giovani allegri e spensierati a bordo, mentre Aldo Ballo realizza degli still life dei materassini, delle mute e delle maschere subacquee. Pirelli è inoltre protagonista del mondo della moda: i servizi fotografici realizzati dall’Azienda Impermeabili mostrano l’evoluzione delle forme, dei materiali e dei pattern – dai classici modelli raglan di ampia foggia fino ai fascianti doppiopetto in tartan con collo a rever – seguendo non solo i trend del tempo, ma anche le trasformazioni del ruolo della donna. Così anche gli articoli della Pirelli Revere in lastex: corsetti, guaine e costumi da bagno disegnano non solo la silhouette delle modelle, ma anche la libertà femminile dell’epoca.
Testimonianze di vita quotidiana si trovano poi negli scatti che raccontano il welfare aziendale degli anni Cinquanta e Sessanta: dalle attività del doposcuola pensate per i figli dei “pirelliani” alle scene familiari all’interno del Villaggio Pirelli di Cinisello Balsamo, fino ai soggiorni in colonia durante le vacanze estive. Un’attenzione al benessere dei lavoratori e delle loro famiglie che ancora costituisce oggi uno dei capisaldi della cultura d’impresa del Gruppo.

Anche la Rivista Pirelli, sulle cui pagine si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese, rappresenta un’inesauribile fonte di riflessioni sulla trasformazione della società. I reportage di alcuni dei nomi più importanti della fotografia forniscono un approfondimento iconografico necessario alle numerose inchieste sui temi caldi dell’epoca, come “Televisione e cultura”, analisi sulla possibile missione didattica del nuovo medium. È Ugo Mulas, poeta visivo del quotidiano e narratore del mondo, a registrare gli effetti del piccolo schermo sul panorama di Milano, profondamente cambiato dal proliferare delle antenne sui tetti delle abitazioni. Mulas indaga anche la tematica del lavoro firmando due copertine della Rivista: nel 1961 campeggia la figura eroica di un operaio durante la costruzione del traforo del Monte Bianco, parte del fotoservizio dedicato a questa grande impresa – immagini in cui trionfa il profondo nero delle gallerie, a rendere perfettamente i “tre anni di notte” vissuti dai minatori – mentre il numero del maggio 1964 mostra i lavoratori specializzati sulle braccia del radiotelescopio di Medicina (Bologna), uno dei più grandi d’Europa. Un caleidoscopio di forme geometriche, tra paraboloidi, tralicci e cavi elettrici, naturalmente Pirelli. L’inchiesta “La scuola in Italia e in Europa” esplora le diverse problematiche e le possibili soluzioni sul tema dell’istruzione; sono diversi gli artisti che si occupano dell’argomento, tra cui Giuseppe Pino, che immortala le attività didattiche creative – il mosaico, la pittura e la falegnameria – pensate per rispondere ai bisogni educativi dei bambini con disabilità cognitive, e Mulas, che studia il rapporto tra scuola e industria fotografando l’Istituto Professionale Piero Pirelli, dedicato alla formazione dei figli dei dipendenti appena entrati in azienda, colti a lavoro nelle officine durante le esercitazioni pratiche e chini sui banchi delle aule per le lezioni teoriche. Sulle pagine della Rivista non mancano analisi critiche sulla situazione del turismo nazionale – con reportage d’autore di Fulvio Roiter, Pepi Merisio e Enzo Sellerio – e approfondimenti sull’andamento demografico crescente della popolazione italiana. Saul Bass, illustratore e grafico attivo tra pubblicità e cinema – sue le celebri locandine di “Anatomia di un omicidio” di Otto Preminger e di molti capolavori di Hitchcock, tra cui “Vertigo” (“La donna che visse due volte”, nella versione italiana) – realizza nel 1965 uno scatto di sua figlia tra le braccia della madre, che diventa copertina della Rivista Pirelli di quell’anno, e di nuovo nel numero di Natale del 1966, vincendo il premio per la miglior fotografia conferito dall’Art Directors Club di Los Angeles in occasione della XXII Mostra annuale di pubblicità e arte editoriale.

Ancora oggi Pirelli mantiene uno sguardo sulla società e sulle sue evoluzioni attraverso un dialogo costante con gli artisti più influenti a livello internazionale. Lo testimoniano il Calendario Pirelli, le mostre di Pirelli HangarBicocca, le attività e le pubblicazioni di Fondazione Pirelli, gli Annual Report del Gruppo e il magazine aziendale “World”, che dal 1994 raccoglie l’eredità della Rivista Pirelli.

La preziosità del saper fare

Il ruolo e l’importanza dell’istruzione tecnica anche nell’era digitale

Impresa e manifattura. E cioè tecnica e capacità manuale. Saper fare, per davvero, “con le mani”. Il tema è importante, anche nell’era della digitalizzazione. Anzi, soprattutto nell’era digitale. E soprattutto in Italia, ancora oggi secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. In Italia, tuttavia, mancano le professioni tecniche di cui avrebbero bisogno le aziende industriali per continuare a crescere e a garantire il nostro benessere. Situazione nota da tempo e da tempo sempre più grave. E’ attorno ad essa che ragiona Valerio Ricciardelli (perito elettronico, laureato in ingegneria elettronica, Maestro del Lavoro, una lunga esperienza d’impresa) con il suo “Ricostruire l’istruzione tecnica”.

Il messaggio che Ricciardelli lancia a chi legge è semplice: serve con urgenza una nuova istruzione tecnica di eccellenza, che possa essere leva strategica di una crescita economica sostenibile e occupazionale non precaria, e strumento di modulazione e valorizzazione dell’emigrazione economica. L’autore affronta quindi l’argomento secondo un percorso che attraversa la filiera delle “tre E”: Economy, per comprendere gli impatti sull’economia, Employability per riflettere sull’occupabilità dei mestieri tecnici, Education, intendendo l’istruzione tecnica di cui c’è bisogno. Tappe di questo percorso sono la messa a fuoco del tema stesso dell’istruzione tecnica, l’analisi della situazione in Italia, l’individuazione dei punti di partenza per “rivisitare l’istruzione tecnica” basandosi su ciò che fanno gli altri, su quello che serve in tema di docenti e programmi e sulle relazioni con le imprese.

Nelle sue conclusioni, Ricciardelli elenca alcuni vocaboli-chiave per sintetizzare ciò che serve, parole che, più di altre, indicano il traguardo anche per l’istruzione tecnica: passione e vocazione, conoscenza ed esperienza, visione, capacità di esecuzione; e poi ancora interconnessione, capacità d’uso del surplus, condivisione, riconfigurazione. Utile il glossario posto in fondo al libro.

Ricostruire l’istruzione tecnica. Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare.

Valerio Ricciardelli

Guerini Next, 2024

Il ruolo e l’importanza dell’istruzione tecnica anche nell’era digitale

Impresa e manifattura. E cioè tecnica e capacità manuale. Saper fare, per davvero, “con le mani”. Il tema è importante, anche nell’era della digitalizzazione. Anzi, soprattutto nell’era digitale. E soprattutto in Italia, ancora oggi secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. In Italia, tuttavia, mancano le professioni tecniche di cui avrebbero bisogno le aziende industriali per continuare a crescere e a garantire il nostro benessere. Situazione nota da tempo e da tempo sempre più grave. E’ attorno ad essa che ragiona Valerio Ricciardelli (perito elettronico, laureato in ingegneria elettronica, Maestro del Lavoro, una lunga esperienza d’impresa) con il suo “Ricostruire l’istruzione tecnica”.

Il messaggio che Ricciardelli lancia a chi legge è semplice: serve con urgenza una nuova istruzione tecnica di eccellenza, che possa essere leva strategica di una crescita economica sostenibile e occupazionale non precaria, e strumento di modulazione e valorizzazione dell’emigrazione economica. L’autore affronta quindi l’argomento secondo un percorso che attraversa la filiera delle “tre E”: Economy, per comprendere gli impatti sull’economia, Employability per riflettere sull’occupabilità dei mestieri tecnici, Education, intendendo l’istruzione tecnica di cui c’è bisogno. Tappe di questo percorso sono la messa a fuoco del tema stesso dell’istruzione tecnica, l’analisi della situazione in Italia, l’individuazione dei punti di partenza per “rivisitare l’istruzione tecnica” basandosi su ciò che fanno gli altri, su quello che serve in tema di docenti e programmi e sulle relazioni con le imprese.

Nelle sue conclusioni, Ricciardelli elenca alcuni vocaboli-chiave per sintetizzare ciò che serve, parole che, più di altre, indicano il traguardo anche per l’istruzione tecnica: passione e vocazione, conoscenza ed esperienza, visione, capacità di esecuzione; e poi ancora interconnessione, capacità d’uso del surplus, condivisione, riconfigurazione. Utile il glossario posto in fondo al libro.

Ricostruire l’istruzione tecnica. Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare.

Valerio Ricciardelli

Guerini Next, 2024

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