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Capitalismo?

Significato, pregi, difetti, limiti e possibilità di una delle parole più usate e abusate del nostro oggi

Capitalismo. Parola detestata dai più, ma anche vocabolo per molti pressoché sconosciuto nei suoi veri significati. Termine complesso certamente, eppure usato con grande facilità (o faciloneria). Parola capitalismo -, che va compresa davvero. Anche perché nel capitalismo ancora oggi, che lo si voglia o no, è immerso il nostro sistema economico e sociale. Leggere “Capitalismo” di Alberto Mingardi appena pubblicato, serve proprio per farsi un’idea chiara del significato di questa parola che sintetizza un particolare approccio alle cose, al lavoro e alla produzione, alla vita.

Mingardi conduce chi legge lungo un percorso non sempre facile partendo dall’analisi stessa della parola (“Uno strano ismo” e il titolo del primo capitolo), per passare subito dopo a ripercorrerne le origini con la rivoluzione industriale, lo sviluppo della sua complessità tra produzione di fabbrica e commercio, il ruolo dello Stato. Il lettore arriva quindi ai nostri tempi in cui il capitalismo per continuare ad esistere si deve rinnovare facendo i conti con la globalizzazione ma anche con le pandemie e i muri  che per certi versi hanno ributtato indietro il mondo.

L’autore, in ogni passaggio, ricerca chiarezza e obiettività. E così deve essere, non solo per un’oggettiva correttezza, ma anche perché proprio questo termine da sempre ha scatenato contrapposizioni anche violente, comunque nette e forti. Connotato spesso negativamente, il capitalismo ha quindi bisogno di chiarezza e imparzialità per essere davvero compreso e quindi accettato oppure respinto. Ed è questo ciò che cerca di fare Mingardi. Per questo, lungo il testo (circa 150 pagine da leggere con attenzione), si alternano pregi e difetti del capitalismo, la possibilità di crescita e di vivere più a lungo con la constatazione che le disuguaglianze proliferano: i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.  Ad oltre cento anni dalla sua “nascita” il capitalismo va certamente rinnovato, rivisto, rivisitato ma non pare siano state trovate valide alternative.

Scrive Mingardi nelle ultime righe: “Torniamo alla nostra definizione di capitalismo: il capitalismo è un sistema nel quale le decisioni sono prese in modo decentrato. A un ragazzo nato negli anni Duemila si potrebbe anche dirlo in un’altra maniera. Il capitalismo è il contrario del lockdown. La scelta per il nostro futuro, per quanto tappezzata di buone intenzioni, è fra l’uno e l’altro. O, per dirla in altri termini, un mondo nel quale ci sia libertà di scegliere e di farsi scegliere, e un mondo nel quale qualcun altro, per quanto animato dalle migliori intenzioni, pretenda di scegliere per noi”.

Capitalismo

Alberto Mingardi

il Mulino, 2023

Significato, pregi, difetti, limiti e possibilità di una delle parole più usate e abusate del nostro oggi

Capitalismo. Parola detestata dai più, ma anche vocabolo per molti pressoché sconosciuto nei suoi veri significati. Termine complesso certamente, eppure usato con grande facilità (o faciloneria). Parola capitalismo -, che va compresa davvero. Anche perché nel capitalismo ancora oggi, che lo si voglia o no, è immerso il nostro sistema economico e sociale. Leggere “Capitalismo” di Alberto Mingardi appena pubblicato, serve proprio per farsi un’idea chiara del significato di questa parola che sintetizza un particolare approccio alle cose, al lavoro e alla produzione, alla vita.

Mingardi conduce chi legge lungo un percorso non sempre facile partendo dall’analisi stessa della parola (“Uno strano ismo” e il titolo del primo capitolo), per passare subito dopo a ripercorrerne le origini con la rivoluzione industriale, lo sviluppo della sua complessità tra produzione di fabbrica e commercio, il ruolo dello Stato. Il lettore arriva quindi ai nostri tempi in cui il capitalismo per continuare ad esistere si deve rinnovare facendo i conti con la globalizzazione ma anche con le pandemie e i muri  che per certi versi hanno ributtato indietro il mondo.

L’autore, in ogni passaggio, ricerca chiarezza e obiettività. E così deve essere, non solo per un’oggettiva correttezza, ma anche perché proprio questo termine da sempre ha scatenato contrapposizioni anche violente, comunque nette e forti. Connotato spesso negativamente, il capitalismo ha quindi bisogno di chiarezza e imparzialità per essere davvero compreso e quindi accettato oppure respinto. Ed è questo ciò che cerca di fare Mingardi. Per questo, lungo il testo (circa 150 pagine da leggere con attenzione), si alternano pregi e difetti del capitalismo, la possibilità di crescita e di vivere più a lungo con la constatazione che le disuguaglianze proliferano: i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.  Ad oltre cento anni dalla sua “nascita” il capitalismo va certamente rinnovato, rivisto, rivisitato ma non pare siano state trovate valide alternative.

Scrive Mingardi nelle ultime righe: “Torniamo alla nostra definizione di capitalismo: il capitalismo è un sistema nel quale le decisioni sono prese in modo decentrato. A un ragazzo nato negli anni Duemila si potrebbe anche dirlo in un’altra maniera. Il capitalismo è il contrario del lockdown. La scelta per il nostro futuro, per quanto tappezzata di buone intenzioni, è fra l’uno e l’altro. O, per dirla in altri termini, un mondo nel quale ci sia libertà di scegliere e di farsi scegliere, e un mondo nel quale qualcun altro, per quanto animato dalle migliori intenzioni, pretenda di scegliere per noi”.

Capitalismo

Alberto Mingardi

il Mulino, 2023

Agilità d’impresa

Un metodo diverso per gestire le organizzazioni della produzione alle prese con l’innovazione

 

Gestire l’impresa stando al passo con l’innovazione, soprattutto digitale. Sfida per chi, imprenditore e manager, deve da un lato far quadrare i bilanci e, dall’altro, far crescere un’azienda alle prese con la complessità mutevole del momento.  Servono, per questi obiettivi, anche nuove metodologie di lavoro. Che non è così semplice individuare e mettere in pratica.

E’ attorno a questi temi – proponendo una soluzione – che ragiona Neil Perkin con il suo “Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale”, libro appena pubblicato in italiano a cura di Marco Calzolari.

Proprio “l’era digitale” è ciò che spinge a cambiare, secondo l’autore che ha ideato il metodo di lavoro agile come risposta al blocco in cui si trovano molte imprese a confronto con la digitalizzazione dei processi e dei metodi di produzione. Secondo Perkin, infatti, molte aziende si ritrovano in questa condizione perché fermate da metodologie di lavoro sorpassate, processi decisionali poco orizzontali e che inibiscono l’innovazione: un cultura aziendale, in altri termini, che premia il conformismo e l’efficienza immediata anziché l’intraprendenza e la volontà di imparare.

Da tutto questo, appunto, la proposta della Agile Transformation che viene indicata come una strada per creare imprese che sappiano continuamente rimodellarsi sulla base delle esigenze dei clienti e delle loro risposte, che lavorino in gruppi “orizzontali e flessibili”, sostenuti dalla tecnologia e che sappiano utilizzare le proprie risorse in modo continuamente adattabile al futuro.

Dopo una lunga introduzione di Calzolari, il libro conduce chi legge partendo dalla necessità di avere un “nuovo sistema operativo” per le imprese, passando poi per la definizione e l’approfondimento delle caratteristiche della “impresa agile” per arrivare quindi ad una serie di punti cruciali: la corretta innovazione, la necessità di cambiare la gestione del cambiamento, un nuovo approccio agli obiettivi d’impresa e alla sua organizzazione.

Il libro di Perkin è da leggere con attenzione e certamente contiene indicazioni da, almeno, provare ad applicare. Scrive Calzolari nelle sue premesse: “Il vero potenziale del «movimento agile» -risiede – nella condivisione di esperienze autentiche di persone con necessità simili, e nell’applicazione di un’apparente «saggezza pratica» basata su metodologie che –  esaltano – la qualità che ogni professionista”.

Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale

Neil Perkin

Guerini Next, 2023

Un metodo diverso per gestire le organizzazioni della produzione alle prese con l’innovazione

 

Gestire l’impresa stando al passo con l’innovazione, soprattutto digitale. Sfida per chi, imprenditore e manager, deve da un lato far quadrare i bilanci e, dall’altro, far crescere un’azienda alle prese con la complessità mutevole del momento.  Servono, per questi obiettivi, anche nuove metodologie di lavoro. Che non è così semplice individuare e mettere in pratica.

E’ attorno a questi temi – proponendo una soluzione – che ragiona Neil Perkin con il suo “Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale”, libro appena pubblicato in italiano a cura di Marco Calzolari.

Proprio “l’era digitale” è ciò che spinge a cambiare, secondo l’autore che ha ideato il metodo di lavoro agile come risposta al blocco in cui si trovano molte imprese a confronto con la digitalizzazione dei processi e dei metodi di produzione. Secondo Perkin, infatti, molte aziende si ritrovano in questa condizione perché fermate da metodologie di lavoro sorpassate, processi decisionali poco orizzontali e che inibiscono l’innovazione: un cultura aziendale, in altri termini, che premia il conformismo e l’efficienza immediata anziché l’intraprendenza e la volontà di imparare.

Da tutto questo, appunto, la proposta della Agile Transformation che viene indicata come una strada per creare imprese che sappiano continuamente rimodellarsi sulla base delle esigenze dei clienti e delle loro risposte, che lavorino in gruppi “orizzontali e flessibili”, sostenuti dalla tecnologia e che sappiano utilizzare le proprie risorse in modo continuamente adattabile al futuro.

Dopo una lunga introduzione di Calzolari, il libro conduce chi legge partendo dalla necessità di avere un “nuovo sistema operativo” per le imprese, passando poi per la definizione e l’approfondimento delle caratteristiche della “impresa agile” per arrivare quindi ad una serie di punti cruciali: la corretta innovazione, la necessità di cambiare la gestione del cambiamento, un nuovo approccio agli obiettivi d’impresa e alla sua organizzazione.

Il libro di Perkin è da leggere con attenzione e certamente contiene indicazioni da, almeno, provare ad applicare. Scrive Calzolari nelle sue premesse: “Il vero potenziale del «movimento agile» -risiede – nella condivisione di esperienze autentiche di persone con necessità simili, e nell’applicazione di un’apparente «saggezza pratica» basata su metodologie che –  esaltano – la qualità che ogni professionista”.

Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale

Neil Perkin

Guerini Next, 2023

Terzo settore, quanto come e perché

Sintetizzata in un efficace saggio la vicenda di un’attività complessa e variegata

 

Terzo settore. Insieme ampio e variegato di attività. Che merita di essere attentamente compreso. E nel quale anche le imprese, a vario titolo, entrano in gioco. Comparto, quello del Terzo settore, che ha anche fare anche con le attività di responsabilità sociale d’impresa. Anche per il Terzo settore, così, è necessario capirne la storia, le origini e l’evoluzione. Serve quindi leggere “Ascesa, declino e ritorno. Alle radici del Terzo settore in Italia” di Alberto Ianes recentemente apparso su Impresa Sociale.

L’intervento di Ianes è una buona sintesi dello sviluppo e della storia di questa particolare modalità di intervento nell’ambito dell’economia e del Terzo settore. L’articolo inizia con un inquadramento della natura e delle caratteristiche generali del Terzo settore per poi passare a ripercorrerne la storia iniziando dalla seconda metà dell’Ottocento con le forma di carità e mutualismo (e con particolare attenzione alle società di mutuo soccorso). Ianes passa quindi ad esaminare la situazione tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo  per arrivare al ventennio fascista. Di “cambio di indirizzo” scrive poi Ianes a proposito dei mutamenti avvenuti in Europa e in Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale con il passaggio, in particolare, dal welfare state alla welfare society. Ianes descrive poi la fase degli anni Cinquanta e Sessanta come quella del “Terzo settore di irregolari” facendo riferimento alle varie realizzazione frutto dell’impegno di singole persone e microcomunità per arrivare successivamente a delineare il Terzo settore ispirato da industriali come Adriano Olivetti.

Il saggio di Alberto Ianes ha il grande merito di sintetizzare un tema complesso e ancora oggi poco conosciuto, ma soprattutto in continuo mutamento.

Ascesa, declino e ritorno. Alle radici del Terzo settore in Italia

Alberto Ianes

Impresa Sociale, 2, 2023

Sintetizzata in un efficace saggio la vicenda di un’attività complessa e variegata

 

Terzo settore. Insieme ampio e variegato di attività. Che merita di essere attentamente compreso. E nel quale anche le imprese, a vario titolo, entrano in gioco. Comparto, quello del Terzo settore, che ha anche fare anche con le attività di responsabilità sociale d’impresa. Anche per il Terzo settore, così, è necessario capirne la storia, le origini e l’evoluzione. Serve quindi leggere “Ascesa, declino e ritorno. Alle radici del Terzo settore in Italia” di Alberto Ianes recentemente apparso su Impresa Sociale.

L’intervento di Ianes è una buona sintesi dello sviluppo e della storia di questa particolare modalità di intervento nell’ambito dell’economia e del Terzo settore. L’articolo inizia con un inquadramento della natura e delle caratteristiche generali del Terzo settore per poi passare a ripercorrerne la storia iniziando dalla seconda metà dell’Ottocento con le forma di carità e mutualismo (e con particolare attenzione alle società di mutuo soccorso). Ianes passa quindi ad esaminare la situazione tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo  per arrivare al ventennio fascista. Di “cambio di indirizzo” scrive poi Ianes a proposito dei mutamenti avvenuti in Europa e in Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale con il passaggio, in particolare, dal welfare state alla welfare society. Ianes descrive poi la fase degli anni Cinquanta e Sessanta come quella del “Terzo settore di irregolari” facendo riferimento alle varie realizzazione frutto dell’impegno di singole persone e microcomunità per arrivare successivamente a delineare il Terzo settore ispirato da industriali come Adriano Olivetti.

Il saggio di Alberto Ianes ha il grande merito di sintetizzare un tema complesso e ancora oggi poco conosciuto, ma soprattutto in continuo mutamento.

Ascesa, declino e ritorno. Alle radici del Terzo settore in Italia

Alberto Ianes

Impresa Sociale, 2, 2023

Tornano d’attualità le scuole di politica: una cassetta degli attrezzi per democrazia, sicurezza e sviluppo

“Urne vuote ma aule piene: boom delle scuole di politica”, si legge sui giornali. E anche: “I partiti tornano all’antico e riaprono le scuole di politica” (“Il Sole24Ore”, 5 e 7 luglio). Una buona notizia, in tempi di populismo crescente e discredito diffuso per chi fa politica e si impegna nelle istituzioni pubbliche. Un sostegno, per chi crede nel valore dell’impegno. Cosa sta succedendo?
Per cercare di capire meglio, proviamo a fare un passo indietro nella nostra storia.
Pane e politica. La mia generazione li ha mangiati insieme, fin da quando eravamo ragazzini, all’inizio degli anni Sessanta. Erano, per noi, di grande stimolo le stagioni di una straordinaria trasformazione dell’Italia, dalla ricostruzione dopo la sciagurata guerra mondiale al consolidarsi del boom economico, tra rafforzamento delle libertà democratica e robusti miglioramenti sociali e culturali. Ed era ancora viva e presente nel discorso pubblico la lezione dei “padri della Costituenti”, De Gasperi, Togliatti, Nenni e La Malfa, il giovane Aldo Moro e l’anziano maestro di latino Concetto Marchesi, Piero Calamandrei e Costantino Mortati, gli uomini e le donne che scrivendo regole condivise, in buon italiano semplice e chiaro, costruivano le premesse e gli indirizzi di una nuova stagione dei diritti e dei doveri.

Pane e politica, appunto. Politique d’abord, la politica innanzitutto, teorizzava Pietro Nenni, leader socialista. “Il primato della politica”, insistevano un po’ tutti, nella consapevolezza che nella giovane e ancora fragile democrazia italiana, nata dalla Resistenza antifascista e sostenuta da una larghissima adesione popolare, fossero innanzitutto politiche le scelte da fare, per costruire sviluppo economico, benessere, partecipazione. Scelte di politica riformatrice.
Nel cuore degli anni Sessanta uno straordinario educatore, don Lorenzo Milani, avrebbe insegnato che di fronte a un problema, “uscirne insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia”. “I care”, era la sintesi del suo pensiero etico e, appunto, politico: mi assumo la responsabilità, mi prendo cura.
Per anni, l’orizzonte dei giovani migliori, i più brillanti e preparati, era “fare politica”. Ognuno, nei partiti in cui ci si ritrovava a proprio agio. E quei partiti avevano scuole, corsi di formazione, percorsi di apprendimento. Fare politica come impegno. Fare politica come un ottimo modo di lavorare.

“Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista, alla prossima generazione” era la frase attribuita ad Alcide De Gasperi, leader democristiano dal dopoguerra al 1953, una citazione dell’insegnamento di James Freeman Clarke, politico Usa. Era un buon viatico, per chi guardava lungo. Scettico e caustico, Indro Montanelli avrebbe notato, sulle pagine del “Corriere della Sera”: “De Gasperi e Andreotti andavano a messa insieme e tutti credevano che facessero la stessa cosa, ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”. Fulminante la risposta ironica di Andreotti: “Perché il prete votava e Dio no”. Grazie a quest’attitudine, una pratica assidua e paziente, Andreotti avrebbe occupato la scena politica del Paese per mezzo secolo, dal ‘46 all’inizio degli anni Novanta.
Nel tempo, quell’idea del “primato della politica” avrebbe perso smalto e spessore, per la diffusa incapacità degli uomini di partito e di governo, ognuno a suo modo, di cogliere e guidare, con riforme opportune, le radicali trasformazioni politiche e sociali, di cercare di sciogliere conflitti e contraddizioni di una impetuosa modernità. Sino al discredito della politica e ai successi devastanti dell’anti-politica.

Adesso si prova a risalire la china? Il proliferare delle “scuole di politica”, nonostante il crescente astensionismo elettorale e la sfiducia diffusa anche tra le nuove generazioni, è un segnale interessante da cogliere.
“Da Torino a Milano, da Roma a Palermo i corsi di politica si trovano per tutta la penisola”, documentano Riccardo Ferrazza e Andrea Gagliardi su “Il Sole24Ore”. Se ne occupano, tanto per fare solo alcuni nomi, la Casa della Cultura milanese, la Fondazione Magna Carta fondata dall’ex senatore Gaetano Quagliariello, “Vivere nella Comunità” promossa da Pellegrino Capaldo, ex banchiere e attivo professore universitario e la Comunità di Connessioni diretta dal padre gesuita Francesco Occhetta. E anche parecchie università si impegnano in corsi e seminari: la Luiss a Roma e la Statale a Milano, la Federico II a Napoli e l’ateneo di Padova, oltre che la Spes (Scuola di Politiche Economiche e Sociali) intitolata all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Commenta Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government: “In una democrazia il politico deve rappresentare i cittadini. Il che vuol dire che deve essere capace di immedesimarsi nei cittadini, di non essere percepito come distante da loro e che, quando i cittadini si stancano o cambiano opinione, devono cambiare anche i politici”. Una cultura della complessità. Ma anche una capacità di avere visione e inclinazione a interpretare e cercare i governare i cambiamenti.
Il politico, infatti, insiste Orsina, “deve anche governare. E questo richiede capacità professionali che non si improvvisano e non si costruiscono nello spazio di un mattino: di leadership, di organizzazione, di comprensione e gestione dei dossier politici”. La democrazia combatte da sempre “con la contraddizione tra rappresentanza e competenza”. Ed è necessaria una cassetta degli attrezzi che sia fatta di saperi umanistici, conoscenze tecniche e amministrative, etica pubblica e inclinazione a saper progettare e costruire futuro. Per le “nuove generazioni” di cui parlava De Gasperi come orizzonte di senso d’un politico-statista e su cui ci richiama, proprio oggi, anche l’Europa con i nuovi impegni del Recovery Fund e degli altri strumenti per la sicurezza, l’energia, l’ambiente.
Tutte questioni politiche, appunto.
Servono buoni maestri, insomma. E capacità di ascolto, stimolo alla partecipazione, inclinazioni al progetto di nuovi e migliori equilibri democratici, politici e sociali. Senza cedere ancora al qualunquismo, alla propaganda, alla retorica sovranista dei “muri”, alla ricerca di consenso attraverso l’alimentazione di sfiducia e paura.

Anche le forze politiche, naturalmente, hanno organizzato corsi di formazione, dalla Lega a Fratelli d’Italia, dal Pd ad Azione e ai Cinque Stelle. Anni fa, nel 2008, Silvio Berlusconi aveva progettato una “Università Liberale” a Villa Gernetto, vicino ad Arcore, ma l’iniziativa non era mai decollata sul serio e adesso, dopo la morte del Cavaliere, il suo futuro sembra incerto.
Resta fermo un punto: serve non solo alle forze politiche ma a tutto il Paese impegnarsi per una formazione di qualità delle sue classi dirigenti.
Il futuro della democrazia, infatti, è strettamente legato alla capacità di tenere insieme partecipazione e cultura, impegno personale e di gruppo e valorizzazione delle conoscenze. E all’impegno a costruire competenze aggiornate per affrontare tutte le sfide della modernità (la neo-globalizzazione, la sostenibilità ambientale e sociale, le risposte alle diseguaglianze, i temi della sicurezza nell’equilibrio multipolare, l’efficienza e la trasparenza delle istituzioni pubbliche e l’autonomia dei corpi sociali, etc.).
E’ dunque indispensabile poter fare affidamento sulla buona politica. Rileggere alla luce dei tempi nuovi l’antico e orgoglioso slogan del socialista Pietro Nenni, politique d’abord. E ricominciare a mangiare, con senso di responsabilità, pane e politica.

(immagine Getty Images)

“Urne vuote ma aule piene: boom delle scuole di politica”, si legge sui giornali. E anche: “I partiti tornano all’antico e riaprono le scuole di politica” (“Il Sole24Ore”, 5 e 7 luglio). Una buona notizia, in tempi di populismo crescente e discredito diffuso per chi fa politica e si impegna nelle istituzioni pubbliche. Un sostegno, per chi crede nel valore dell’impegno. Cosa sta succedendo?
Per cercare di capire meglio, proviamo a fare un passo indietro nella nostra storia.
Pane e politica. La mia generazione li ha mangiati insieme, fin da quando eravamo ragazzini, all’inizio degli anni Sessanta. Erano, per noi, di grande stimolo le stagioni di una straordinaria trasformazione dell’Italia, dalla ricostruzione dopo la sciagurata guerra mondiale al consolidarsi del boom economico, tra rafforzamento delle libertà democratica e robusti miglioramenti sociali e culturali. Ed era ancora viva e presente nel discorso pubblico la lezione dei “padri della Costituenti”, De Gasperi, Togliatti, Nenni e La Malfa, il giovane Aldo Moro e l’anziano maestro di latino Concetto Marchesi, Piero Calamandrei e Costantino Mortati, gli uomini e le donne che scrivendo regole condivise, in buon italiano semplice e chiaro, costruivano le premesse e gli indirizzi di una nuova stagione dei diritti e dei doveri.

Pane e politica, appunto. Politique d’abord, la politica innanzitutto, teorizzava Pietro Nenni, leader socialista. “Il primato della politica”, insistevano un po’ tutti, nella consapevolezza che nella giovane e ancora fragile democrazia italiana, nata dalla Resistenza antifascista e sostenuta da una larghissima adesione popolare, fossero innanzitutto politiche le scelte da fare, per costruire sviluppo economico, benessere, partecipazione. Scelte di politica riformatrice.
Nel cuore degli anni Sessanta uno straordinario educatore, don Lorenzo Milani, avrebbe insegnato che di fronte a un problema, “uscirne insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia”. “I care”, era la sintesi del suo pensiero etico e, appunto, politico: mi assumo la responsabilità, mi prendo cura.
Per anni, l’orizzonte dei giovani migliori, i più brillanti e preparati, era “fare politica”. Ognuno, nei partiti in cui ci si ritrovava a proprio agio. E quei partiti avevano scuole, corsi di formazione, percorsi di apprendimento. Fare politica come impegno. Fare politica come un ottimo modo di lavorare.

“Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista, alla prossima generazione” era la frase attribuita ad Alcide De Gasperi, leader democristiano dal dopoguerra al 1953, una citazione dell’insegnamento di James Freeman Clarke, politico Usa. Era un buon viatico, per chi guardava lungo. Scettico e caustico, Indro Montanelli avrebbe notato, sulle pagine del “Corriere della Sera”: “De Gasperi e Andreotti andavano a messa insieme e tutti credevano che facessero la stessa cosa, ma non era così. In chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”. Fulminante la risposta ironica di Andreotti: “Perché il prete votava e Dio no”. Grazie a quest’attitudine, una pratica assidua e paziente, Andreotti avrebbe occupato la scena politica del Paese per mezzo secolo, dal ‘46 all’inizio degli anni Novanta.
Nel tempo, quell’idea del “primato della politica” avrebbe perso smalto e spessore, per la diffusa incapacità degli uomini di partito e di governo, ognuno a suo modo, di cogliere e guidare, con riforme opportune, le radicali trasformazioni politiche e sociali, di cercare di sciogliere conflitti e contraddizioni di una impetuosa modernità. Sino al discredito della politica e ai successi devastanti dell’anti-politica.

Adesso si prova a risalire la china? Il proliferare delle “scuole di politica”, nonostante il crescente astensionismo elettorale e la sfiducia diffusa anche tra le nuove generazioni, è un segnale interessante da cogliere.
“Da Torino a Milano, da Roma a Palermo i corsi di politica si trovano per tutta la penisola”, documentano Riccardo Ferrazza e Andrea Gagliardi su “Il Sole24Ore”. Se ne occupano, tanto per fare solo alcuni nomi, la Casa della Cultura milanese, la Fondazione Magna Carta fondata dall’ex senatore Gaetano Quagliariello, “Vivere nella Comunità” promossa da Pellegrino Capaldo, ex banchiere e attivo professore universitario e la Comunità di Connessioni diretta dal padre gesuita Francesco Occhetta. E anche parecchie università si impegnano in corsi e seminari: la Luiss a Roma e la Statale a Milano, la Federico II a Napoli e l’ateneo di Padova, oltre che la Spes (Scuola di Politiche Economiche e Sociali) intitolata all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Commenta Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government: “In una democrazia il politico deve rappresentare i cittadini. Il che vuol dire che deve essere capace di immedesimarsi nei cittadini, di non essere percepito come distante da loro e che, quando i cittadini si stancano o cambiano opinione, devono cambiare anche i politici”. Una cultura della complessità. Ma anche una capacità di avere visione e inclinazione a interpretare e cercare i governare i cambiamenti.
Il politico, infatti, insiste Orsina, “deve anche governare. E questo richiede capacità professionali che non si improvvisano e non si costruiscono nello spazio di un mattino: di leadership, di organizzazione, di comprensione e gestione dei dossier politici”. La democrazia combatte da sempre “con la contraddizione tra rappresentanza e competenza”. Ed è necessaria una cassetta degli attrezzi che sia fatta di saperi umanistici, conoscenze tecniche e amministrative, etica pubblica e inclinazione a saper progettare e costruire futuro. Per le “nuove generazioni” di cui parlava De Gasperi come orizzonte di senso d’un politico-statista e su cui ci richiama, proprio oggi, anche l’Europa con i nuovi impegni del Recovery Fund e degli altri strumenti per la sicurezza, l’energia, l’ambiente.
Tutte questioni politiche, appunto.
Servono buoni maestri, insomma. E capacità di ascolto, stimolo alla partecipazione, inclinazioni al progetto di nuovi e migliori equilibri democratici, politici e sociali. Senza cedere ancora al qualunquismo, alla propaganda, alla retorica sovranista dei “muri”, alla ricerca di consenso attraverso l’alimentazione di sfiducia e paura.

Anche le forze politiche, naturalmente, hanno organizzato corsi di formazione, dalla Lega a Fratelli d’Italia, dal Pd ad Azione e ai Cinque Stelle. Anni fa, nel 2008, Silvio Berlusconi aveva progettato una “Università Liberale” a Villa Gernetto, vicino ad Arcore, ma l’iniziativa non era mai decollata sul serio e adesso, dopo la morte del Cavaliere, il suo futuro sembra incerto.
Resta fermo un punto: serve non solo alle forze politiche ma a tutto il Paese impegnarsi per una formazione di qualità delle sue classi dirigenti.
Il futuro della democrazia, infatti, è strettamente legato alla capacità di tenere insieme partecipazione e cultura, impegno personale e di gruppo e valorizzazione delle conoscenze. E all’impegno a costruire competenze aggiornate per affrontare tutte le sfide della modernità (la neo-globalizzazione, la sostenibilità ambientale e sociale, le risposte alle diseguaglianze, i temi della sicurezza nell’equilibrio multipolare, l’efficienza e la trasparenza delle istituzioni pubbliche e l’autonomia dei corpi sociali, etc.).
E’ dunque indispensabile poter fare affidamento sulla buona politica. Rileggere alla luce dei tempi nuovi l’antico e orgoglioso slogan del socialista Pietro Nenni, politique d’abord. E ricominciare a mangiare, con senso di responsabilità, pane e politica.

(immagine Getty Images)

Le ricerche di Oxford e Aspen Institute: studiare Humanities migliora la conoscenza e le opportunità di un buon lavoro

Studiare Humanities – filosofia e storia, letteratura e arte, teatro e musica – permette di avere gli strumenti critici per capire le grandi trasformazioni in corso nel mondo e migliora i percorsi professionali nell’arco di tutta la vita di lavoro. Lo sostiene una recente ricerca dell’Università di Oxford,The value of the Humanities”, condotta analizzando i profili e i percorsi di carriera di oltre 9mila laureati del prestigioso ateneo britannico in materie umanistiche, tra i 20 e i 54 anni, entrati sul mercato del lavoro tra i 2000 e il 2019, approfondendo i risultati con più di cento interviste in profondità e poi ridiscutendo e aggiornando i risultati dopo la fine della pandemia da Covid19.
Il report sostiene che proprio la pandemia ha accelerato le tendenze all’automazione, alla digitalizzazione e a modelli flessibili di lavoro e aggiunge che la “resilienza” dei laureati in materie umanistiche li rende particolarmente adatti a muoversi nel nuovo ambiente. Anche i recenti sviluppi dell’Intelligenza artificiale chiedono capacità di conoscenze critiche e progettuali, pensieri originali, adattabilità ai contrasti segnati da cambiamenti così radicali.

Commenta Dan Grimley, Head of Humanities all’Università di Oxford: “La nostra ricerca conferma quello che già sanno bene molti dei nostri studiosi: le attitudini e le esperienze fatte con le conoscenze umanistiche possono trasformare la vita professionale, ma anche l’esperienza umana nel suo complesso”.
Le nuove generazioni, è vero, sono particolarmente attratte dagli studi scientifici e dalle specializzazioni tecnologiche, nella convinzione che migliorino le loro opportunità lavorative (lo confermano, anche in Italia, i risultati del XXV Rapporto di Almalaurea, sulle opportunità professionali, mettendo in primo piano le lauree in ingegneria, le più richieste dalle aziende e dunque le meglio retribuite, “Il Sole24Ore, 13 giugno).
Ma proprio gli intervistati dalla ricerca di Oxford spiegano che le scienze umane offrono, in contesti così profondamente cambiati, strumenti sofisticati per muoversi con maggiore capacità di comprensione e di governo dei fenomeni grazie a “pensiero critico e strategico, abilità a sintetizzare informazioni complesse, empatia, attitudine creativa alla soluzione dei problemi”, con l’effetto positivo di dare un “contributo più ampio” al miglioramento della condizione sociale, alla definizione delle risposte ai problemi etici legati all’Intelligenza artificiale, alla “valorizzazione dei beni comuni”. Tutti elementi fondamentali proprio in quel “cambio di paradigma” necessario allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale e a migliori equilibri economici.

I temi indicati dalla ricerca di Orxford rafforzano le riflessioni, avviate da tempo dalla migliore letteratura economica, sulla necessità di superare le contrapposizioni tra “le due culture”, umanistica e scientifica, per andare in direzione di una “cultura politecnica” che sappia costruire nuove sintesi di conoscenza e incidere positivamente sulla qualità dello sviluppo (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog).
Una “cultura politecnica” che eviti la frammentazione della conoscenza. E insista sull’importanza di una dimensione multidisciplinare della formazione. Una formazione, vale la pena aggiungere, non legata soltanto al ciclo iniziale di studi, ma impostata lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Un’attitudine a “imparare a imparare”. E una tendenza a ibridare saperi e competenze, proprio per fare fronte alla radicalità e alla rapidità dei cambiamenti scientifici, tecnologici, ambientali ma anche geopolitici ed economici.

Sono proprio queste le dimensioni formative più indicate, in questa stagioni di transizioni e metamorfosi. E sollecitano corsi integrati, multidisciplinari, appunto, da ingegneri-filosofi e scienziati sensibili alle dimensioni etiche e sociali delle conseguenze del loro lavoro. Da fare valere anche nella formazione dei programmi di studio negli Its e nelle università. E da premiare nel lavoro d’impresa. nell’orizzonte di un nuovo “umanesimo industriale” e “digitale”. Tutte dimensioni in cui le migliori imprese italiane si ritrovano a proprio agio, facendone anzi una caratteristica particolare della propria competitività sui più esigenti mercati internazionali.
Sono temi approfonditi anche nel recente Rapporto 2023 dell’Osservatorio permanente “Nuovi lavori e nuova formazione” dell’Aspen Institute Italia.

Sostiene infatti il rapporto Aspen che “a livello trasversale a tutti i settori e paesi sorge la necessità di un approccio non lineare in termini di formazione e lavoro, visto che i lavori del futuro si baseranno sempre meno su competenze predefinite e sempre più sulla capacità di adattarsi a un mondo complesso, dinamico e che muta rapidamente. Al contrario della dilagante tendenza all’ipersemplificazione, è evidente la richiesta, nel mondo del lavoro, di nuove e complesse competenze, oltre che di spirito critico e flessibilità, elementi che sono naturalmente sostenuti dalla cultura”.
In questo senso, a fronte della progressiva “digitalizzazione” della vita personale e professionale degli individui, è necessario che la formazione si ponga come obiettivo lo sviluppo di un’attitudine “scientifica” verso il mondo reale. Così come “sarà opportuno avviare sperimentazioni per applicare lo sviluppo del pensiero critico e del ragionamento logico all’interazione diretta con gli strumenti di Generative Artificial Intelligence”.
Insiste l’Asp: “Nasce la necessità di governare e guidare la diffusione della GenAI, fenomeno che si sta rivelando sempre più game changing, a tutti i livelli e per tutti i paesi, non solo quelli particolarmente avanzati dal punto di vista informatico. Occorre studiare a fondo le limitazioni intrinseche della GenAI (bias, overconfidence, errori e così via), con l’obiettivo di gestire con attenzione le varie applicazioni, non solo in ambito educativo”.
La conclusione è chiara, analoga a quella della ricerca di Oxford: “Questo contesto ad alta evoluzione porterà a una maggiore domanda di competenze nelle scienze sociali e umanistiche, che fino a ora hanno giocato un ruolo relativamente limitato nel campo delle competenze di base”.

(Foto Getty Images)

Studiare Humanities – filosofia e storia, letteratura e arte, teatro e musica – permette di avere gli strumenti critici per capire le grandi trasformazioni in corso nel mondo e migliora i percorsi professionali nell’arco di tutta la vita di lavoro. Lo sostiene una recente ricerca dell’Università di Oxford,The value of the Humanities”, condotta analizzando i profili e i percorsi di carriera di oltre 9mila laureati del prestigioso ateneo britannico in materie umanistiche, tra i 20 e i 54 anni, entrati sul mercato del lavoro tra i 2000 e il 2019, approfondendo i risultati con più di cento interviste in profondità e poi ridiscutendo e aggiornando i risultati dopo la fine della pandemia da Covid19.
Il report sostiene che proprio la pandemia ha accelerato le tendenze all’automazione, alla digitalizzazione e a modelli flessibili di lavoro e aggiunge che la “resilienza” dei laureati in materie umanistiche li rende particolarmente adatti a muoversi nel nuovo ambiente. Anche i recenti sviluppi dell’Intelligenza artificiale chiedono capacità di conoscenze critiche e progettuali, pensieri originali, adattabilità ai contrasti segnati da cambiamenti così radicali.

Commenta Dan Grimley, Head of Humanities all’Università di Oxford: “La nostra ricerca conferma quello che già sanno bene molti dei nostri studiosi: le attitudini e le esperienze fatte con le conoscenze umanistiche possono trasformare la vita professionale, ma anche l’esperienza umana nel suo complesso”.
Le nuove generazioni, è vero, sono particolarmente attratte dagli studi scientifici e dalle specializzazioni tecnologiche, nella convinzione che migliorino le loro opportunità lavorative (lo confermano, anche in Italia, i risultati del XXV Rapporto di Almalaurea, sulle opportunità professionali, mettendo in primo piano le lauree in ingegneria, le più richieste dalle aziende e dunque le meglio retribuite, “Il Sole24Ore, 13 giugno).
Ma proprio gli intervistati dalla ricerca di Oxford spiegano che le scienze umane offrono, in contesti così profondamente cambiati, strumenti sofisticati per muoversi con maggiore capacità di comprensione e di governo dei fenomeni grazie a “pensiero critico e strategico, abilità a sintetizzare informazioni complesse, empatia, attitudine creativa alla soluzione dei problemi”, con l’effetto positivo di dare un “contributo più ampio” al miglioramento della condizione sociale, alla definizione delle risposte ai problemi etici legati all’Intelligenza artificiale, alla “valorizzazione dei beni comuni”. Tutti elementi fondamentali proprio in quel “cambio di paradigma” necessario allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale e a migliori equilibri economici.

I temi indicati dalla ricerca di Orxford rafforzano le riflessioni, avviate da tempo dalla migliore letteratura economica, sulla necessità di superare le contrapposizioni tra “le due culture”, umanistica e scientifica, per andare in direzione di una “cultura politecnica” che sappia costruire nuove sintesi di conoscenza e incidere positivamente sulla qualità dello sviluppo (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog).
Una “cultura politecnica” che eviti la frammentazione della conoscenza. E insista sull’importanza di una dimensione multidisciplinare della formazione. Una formazione, vale la pena aggiungere, non legata soltanto al ciclo iniziale di studi, ma impostata lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Un’attitudine a “imparare a imparare”. E una tendenza a ibridare saperi e competenze, proprio per fare fronte alla radicalità e alla rapidità dei cambiamenti scientifici, tecnologici, ambientali ma anche geopolitici ed economici.

Sono proprio queste le dimensioni formative più indicate, in questa stagioni di transizioni e metamorfosi. E sollecitano corsi integrati, multidisciplinari, appunto, da ingegneri-filosofi e scienziati sensibili alle dimensioni etiche e sociali delle conseguenze del loro lavoro. Da fare valere anche nella formazione dei programmi di studio negli Its e nelle università. E da premiare nel lavoro d’impresa. nell’orizzonte di un nuovo “umanesimo industriale” e “digitale”. Tutte dimensioni in cui le migliori imprese italiane si ritrovano a proprio agio, facendone anzi una caratteristica particolare della propria competitività sui più esigenti mercati internazionali.
Sono temi approfonditi anche nel recente Rapporto 2023 dell’Osservatorio permanente “Nuovi lavori e nuova formazione” dell’Aspen Institute Italia.

Sostiene infatti il rapporto Aspen che “a livello trasversale a tutti i settori e paesi sorge la necessità di un approccio non lineare in termini di formazione e lavoro, visto che i lavori del futuro si baseranno sempre meno su competenze predefinite e sempre più sulla capacità di adattarsi a un mondo complesso, dinamico e che muta rapidamente. Al contrario della dilagante tendenza all’ipersemplificazione, è evidente la richiesta, nel mondo del lavoro, di nuove e complesse competenze, oltre che di spirito critico e flessibilità, elementi che sono naturalmente sostenuti dalla cultura”.
In questo senso, a fronte della progressiva “digitalizzazione” della vita personale e professionale degli individui, è necessario che la formazione si ponga come obiettivo lo sviluppo di un’attitudine “scientifica” verso il mondo reale. Così come “sarà opportuno avviare sperimentazioni per applicare lo sviluppo del pensiero critico e del ragionamento logico all’interazione diretta con gli strumenti di Generative Artificial Intelligence”.
Insiste l’Asp: “Nasce la necessità di governare e guidare la diffusione della GenAI, fenomeno che si sta rivelando sempre più game changing, a tutti i livelli e per tutti i paesi, non solo quelli particolarmente avanzati dal punto di vista informatico. Occorre studiare a fondo le limitazioni intrinseche della GenAI (bias, overconfidence, errori e così via), con l’obiettivo di gestire con attenzione le varie applicazioni, non solo in ambito educativo”.
La conclusione è chiara, analoga a quella della ricerca di Oxford: “Questo contesto ad alta evoluzione porterà a una maggiore domanda di competenze nelle scienze sociali e umanistiche, che fino a ora hanno giocato un ruolo relativamente limitato nel campo delle competenze di base”.

(Foto Getty Images)

Welfare d’impresa, non da oggi

Un saggio appena pubblicato fornisce gli elementi conoscitivi utili per comprendere storia ed evoluzione del “benessere in azienda”

 

Il welfare aziendale non è nato oggi. E nemmeno è una novità quel comportamento d’impresa che va sotto il nome di responsabilità sociale. Constatazioni non banali, queste, che tuttavia devono essere rammentate in un periodo in cui di impresa attenta ai suoi effetti sociali oltre che economici si fa sempre di più un gran dire, sottolineandone, tra l’altro, la sua “novità”.  L’impresa come attore sociale oltre che semplicemente economico, è qualcosa che di fatto è sempre esistito. Anche in termini positivi. Così come la buona cultura del produrre ha sempre lasciato un’impronta. Tornare alla storia del welfare d’impresa è quindi cosa buona da fare. Soprattutto sulla scorta di studi come quello di Valerio Varini (Università Bicocca).

“Eccitare il lavoro. Il welfare aziendale, una trama di lungo periodo” è una buona guida storica sul welfare aziendale.

Varini inizia dal concetto di welfare, inquadrandolo nelle sue caratteristiche di fondo per poi passare a sintetizzarne i grandi periodi evolutivi. L’intervento affronta così il periodo del paternalismo d’impresa, quindi il periodo del welfare visto come funzione aziendale (tra le due guerre) e quindi quello, successivo al secondo conflitto, del welfare come tema negoziale. In ogni passaggio, l’autore pone l’uno accanto all’altro il ragionamento teorico con quello storico. Molti sono gli esempi d’imprese che, nel tempo, hanno dato prova di quel welfare aziendale che, oggi, appare essere spesso “una scoperta”; di ognuno ne vengono analizzate caratteristiche ed evoluzioni.

Scrive a Varini nelle sue conclusioni come il “welfare aziendale nel suo perdurare ne svela proprio l’essenza ultima, l’essere la sapienza scaturita dal lavoro il fondamento dell’impresa, la quale va riconosciuta nel provvedere a soddisfare i plurimi bisogni bisogno del lavoratore”. Quella di Varini è una efficace sintesi della storia del welfare aziendale, da leggere e conservare.

Eccitare il lavoro. Il welfare aziendale, una trama di lungo periodo

Valerio Varini

Impresa Sociale, 2/ 2023

Un saggio appena pubblicato fornisce gli elementi conoscitivi utili per comprendere storia ed evoluzione del “benessere in azienda”

 

Il welfare aziendale non è nato oggi. E nemmeno è una novità quel comportamento d’impresa che va sotto il nome di responsabilità sociale. Constatazioni non banali, queste, che tuttavia devono essere rammentate in un periodo in cui di impresa attenta ai suoi effetti sociali oltre che economici si fa sempre di più un gran dire, sottolineandone, tra l’altro, la sua “novità”.  L’impresa come attore sociale oltre che semplicemente economico, è qualcosa che di fatto è sempre esistito. Anche in termini positivi. Così come la buona cultura del produrre ha sempre lasciato un’impronta. Tornare alla storia del welfare d’impresa è quindi cosa buona da fare. Soprattutto sulla scorta di studi come quello di Valerio Varini (Università Bicocca).

“Eccitare il lavoro. Il welfare aziendale, una trama di lungo periodo” è una buona guida storica sul welfare aziendale.

Varini inizia dal concetto di welfare, inquadrandolo nelle sue caratteristiche di fondo per poi passare a sintetizzarne i grandi periodi evolutivi. L’intervento affronta così il periodo del paternalismo d’impresa, quindi il periodo del welfare visto come funzione aziendale (tra le due guerre) e quindi quello, successivo al secondo conflitto, del welfare come tema negoziale. In ogni passaggio, l’autore pone l’uno accanto all’altro il ragionamento teorico con quello storico. Molti sono gli esempi d’imprese che, nel tempo, hanno dato prova di quel welfare aziendale che, oggi, appare essere spesso “una scoperta”; di ognuno ne vengono analizzate caratteristiche ed evoluzioni.

Scrive a Varini nelle sue conclusioni come il “welfare aziendale nel suo perdurare ne svela proprio l’essenza ultima, l’essere la sapienza scaturita dal lavoro il fondamento dell’impresa, la quale va riconosciuta nel provvedere a soddisfare i plurimi bisogni bisogno del lavoratore”. Quella di Varini è una efficace sintesi della storia del welfare aziendale, da leggere e conservare.

Eccitare il lavoro. Il welfare aziendale, una trama di lungo periodo

Valerio Varini

Impresa Sociale, 2/ 2023

Attenzione e pazienza di successo

La sintesi del fare impresa condensata in un libro di Riccardo Illy

 

Pazienza e cura delle persone. Attenzione ai particolari, perseveranza. In tempi veloci e liquidi (anche un po’ schizofrenici) come quelli che stiamo vivendo, le caratteristiche che distinguono la buona impresa dalle altre appaiono sempre di più essere queste. Che non significa non badare ai conti e al profitto, ma badarvi in modo diverso, più ampio e completo. Ideali che caratterizzano, in particolare, molte realtà produttive italiane che Riccardo Illy (industriale e uomo attento al mondo) ha descritto insieme al suo modo di affrontare il fare industria in “L’arte dei prodotti eccellenti. Incantare i clienti con l’esperienza di un marchio di qualità aumentata”.

La proposta di Illy parte proprio dal senso della qualità così comune a molte aziende italiane. Oggi, quando molte aziende mirano al raggiungimento di obiettivi di guadagno in tempi rapidi e perdono di vista il senso della pazienza e della cura, i marchi italiani – è l’opinione di Illy -, spiccano per la loro capacità di creare prodotti di qualità superiore, in grado di resistere sia alla concorrenza del mercato che all’usura del tempo.

I motivi di questa situazione vanno ricercati nel particolare modo di fare impresa che gli italiani hanno. E che, appunto, Illy cerca di raccontare (anche per la sua azienda) partendo dalla non accettazione dei compromessi di mercato quando si tratta di difendere qualità ed eccellenza di quello che si fa. Un approccio che si basa anche sull’attenzione alle tecniche tradizionali, alla storia del prodotto e del marchio. Ma un’attenzione che è capace di adottare l’innovazione quando questa si dimostra vincente. E poi un impegno, quello di “fare bene l’impresa” così che questa “faccia bene” non solo a produttori e consumatori, ma a tutta la filiera dei lavoratori, alla comunità e al pianeta.

Illy spiega tutto questo coinvolgendo anche altre aziende a conduzione familiare – come Riva 1912, Domori, Pintaudi, Mastrojanni, Bisazza, Zegna, Agrimontana, Damman Frères e molti altre – e raccontando di fatto cosa significa fare bene impresa seppur in un mondo complesso e contraddittorio come quello di oggi. Chi legge è così condotto lungo un cammino fatto di 11 tappe ognuna caratterizzata da un concetto che può improntare positivamente l’impresa. Scrive Illy nelle ultime righe: “Si tratta di essere padroni del nostro tempo, far meno cose ma farle meglio. Si tratta di coltivare il senso della famiglia con i dipendenti e con i clienti. E si tratta di portare l’idea di bellezza tutta italiana in ciò che si fa”.

L’arte dei prodotti eccellenti. Incantare i clienti con l’esperienza di un marchio di qualità aumentata

Riccardo Illy

La nave di Teseo, 2022

La sintesi del fare impresa condensata in un libro di Riccardo Illy

 

Pazienza e cura delle persone. Attenzione ai particolari, perseveranza. In tempi veloci e liquidi (anche un po’ schizofrenici) come quelli che stiamo vivendo, le caratteristiche che distinguono la buona impresa dalle altre appaiono sempre di più essere queste. Che non significa non badare ai conti e al profitto, ma badarvi in modo diverso, più ampio e completo. Ideali che caratterizzano, in particolare, molte realtà produttive italiane che Riccardo Illy (industriale e uomo attento al mondo) ha descritto insieme al suo modo di affrontare il fare industria in “L’arte dei prodotti eccellenti. Incantare i clienti con l’esperienza di un marchio di qualità aumentata”.

La proposta di Illy parte proprio dal senso della qualità così comune a molte aziende italiane. Oggi, quando molte aziende mirano al raggiungimento di obiettivi di guadagno in tempi rapidi e perdono di vista il senso della pazienza e della cura, i marchi italiani – è l’opinione di Illy -, spiccano per la loro capacità di creare prodotti di qualità superiore, in grado di resistere sia alla concorrenza del mercato che all’usura del tempo.

I motivi di questa situazione vanno ricercati nel particolare modo di fare impresa che gli italiani hanno. E che, appunto, Illy cerca di raccontare (anche per la sua azienda) partendo dalla non accettazione dei compromessi di mercato quando si tratta di difendere qualità ed eccellenza di quello che si fa. Un approccio che si basa anche sull’attenzione alle tecniche tradizionali, alla storia del prodotto e del marchio. Ma un’attenzione che è capace di adottare l’innovazione quando questa si dimostra vincente. E poi un impegno, quello di “fare bene l’impresa” così che questa “faccia bene” non solo a produttori e consumatori, ma a tutta la filiera dei lavoratori, alla comunità e al pianeta.

Illy spiega tutto questo coinvolgendo anche altre aziende a conduzione familiare – come Riva 1912, Domori, Pintaudi, Mastrojanni, Bisazza, Zegna, Agrimontana, Damman Frères e molti altre – e raccontando di fatto cosa significa fare bene impresa seppur in un mondo complesso e contraddittorio come quello di oggi. Chi legge è così condotto lungo un cammino fatto di 11 tappe ognuna caratterizzata da un concetto che può improntare positivamente l’impresa. Scrive Illy nelle ultime righe: “Si tratta di essere padroni del nostro tempo, far meno cose ma farle meglio. Si tratta di coltivare il senso della famiglia con i dipendenti e con i clienti. E si tratta di portare l’idea di bellezza tutta italiana in ciò che si fa”.

L’arte dei prodotti eccellenti. Incantare i clienti con l’esperienza di un marchio di qualità aumentata

Riccardo Illy

La nave di Teseo, 2022

“Una vera e onesta collaborazione tra membri di uno stesso organismo civile”: Franco Russoli e la Rivista Pirelli

Con queste parole Franco Russoli descrive sul n. 1 del 1969 della Rivista Pirelli la collaborazione instaurata con il bimestrale e con il suo direttore, Arrigo Castellani, da poco scomparso. Un contributo avviato nel 1962 con la rubrica dal titolo “Pretesti e appunti”, firmata dallo storico e critico dell’arte su ogni numero della rivista fino al 1970. Continua Russoli nelle pagine che la rivista dedica al compianto direttore, tratteggiando il carattere dell’operazione: “non l’argomento arte al servizio della stampa aziendale e dei suoi interessi pubblicitari nè sfruttamento di una struttura per oziose divagazioni artistiche”, ma una cooperazione libera, appunto, tra due intellettuali convinti dell’importanza dell’arte per lo sviluppo sociale e civile.

Franco Russoli nasce il 9 luglio 1923 a Firenze. Dopo la laurea in storia dell’arte e le prime esperienze lavorative in Toscana, dal 1950 è a Milano, dove inizia a collaborare con Fernanda Wittgens, Soprintendente ai monumenti e alle Gallerie della Lombardia, nonché prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera, in un momento di straordinario fermento della cultura milanese. Scrive Paolo Martelli in un ricordo di Russoli sul sito della Pinacoteca di Brera che “si poteva assimilare la coppia Wittgens-Russoli per l’arte a quella di Grassi-Strehler per il teatro. Si trattava di recuperare 25 anni di isolamento dell’Italia”. A loro si devono la riapertura, nel 1951, del Museo Poldi Pezzoli pesantemente bombardato, e la grande mostra a Palazzo Reale su Pablo Picasso, la più importante mai organizzata in Europa sull’artista, curata dallo stesso Russoli. In questi anni di ricostruzione e rinascita della cultura a Milano, prende il via anche l’esperienza della Rivista Pirelli, terreno di incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, voluta dal poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli. Le strade di Russoli e della rivista si incrociano qualche anno più tardi. Nel 1957, quando Russoli succede alla Wittgens alla direzione di Brera, incarico che mantiene fino alla morte, Arrigo Castellani assume il ruolo di direttore responsabile del bimestrale edito dalla Pirelli. Il nuovo direttore, con la sua “fiducia nella funzione sociale della libera impresa cosciente dei suoi compiti illuministici” ha un preciso programma di promozione dell’arte sulle pagine del magazine. Per realizzarlo si avvale della collaborazione di Russoli, conosciuto durante una serata d’asta. È il 1962 e Castellani decide di affidare allo storico e critico dell’arte una rubrica fissa sulle pagine della rivista: “una specie di taccuino o di appunti sui temi di sua scelta in assoluta libertà”, scrive a Vittorio Sereni, allora capo Ufficio Stampa della Pirelli, in una lettera conservata nell’archivio del poeta. Nasce così “Pretesti e appunti”: brevi testi in forma di elzeviro su vari temi dell’arte, divagazioni che, nelle intenzioni dello stesso Russoli, dovevano essere il “pretesto e lo spunto per porre in evidenza e per introdurre il discorso su problemi di portata civile”. In questi anni di riflessione sulla funzione civile dell’arte e sul ruolo dell’istituzione museale come luogo di formazione culturale e integrazione sociale, la rubrica per la Rivista è uno dei tanti mezzi con cui Russoli si impegna per la divulgazione della cultura artistica. “Uno strumento” – continua Russoli a proposito della sua rubrica – “per risvegliare […] la nozione di un dovere e di un diritto al ‘servizio’ culturale, nelle sue forme più concrete e impegnate. […] Il passaggio dagli scritti sull’arte contemporanea internazionale, sui maggiori protagonisti, sulle Biennali e Mostre, ai richiami sulla necessità di fare in Italia musei vivi di arte moderna, doveva avvenire naturalmente”.

Il contributo di Russoli non si ferma alla rubrica. A lui si deve certamente una collaborazione più generale con Arrigo Castellani e Vittorio Sereni nel portare l’arte sulla Rivista Pirelli. Con la straordinaria esperienza dei “pittori in fabbrica” innanzitutto, ma anche con la pubblicazione di opere inedite di artisti, spesso accompagnate dal testo di uno scrittore. Scrive Russoli nel già citato ricordo di Castellani del 1969: “ho avuto occasione di assistere a molti incontri tra Arrigo e gli artisti: Giacometti, Guttuso, Ajmone, Carmassi, Fontana, Sambonet, Cascella, Sassu, Biasion, Treccani, Murabito, Cazzaniga, Manzi, Chighine, Sutherland, Cagli e altri ancora […] molti di loro hanno collaborato alla sua rivista”. Per il pittore Arturo Carmassi, Russoli aveva curato il catalogo della prima personale nel 1954 e la prima monografia nel 1960: dopo il fotoservizio del 1962 di Ugo Mulas sulla Biennale di Venezia dove Carmassi espone le sue sculture, nel numero 5-6 del 1966 il pittore pubblica una serie di tavole introdotte da Russoli.  Nel 1968 anche il fotoservizio di Mulas su Lucio Fontana è accompagnato da un testo di Russoli. Da segnalare anche, sempre nel 1966, il testo di denuncia “In trecento contro i draghi” in favore della campagna “Italia da salvare” promossa da Italia nostra per la salvaguardia del patrimonio artistico e paesaggistico italiano. La rubrica di Russoli termina nel 1970 poco prima della chiusura del periodico nel 1972. Negli anni Settanta continua l’impegno di Russoli per la divulgazione artistica attraverso prodotti editoriali, articoli, trasmissioni televisive, così come prosegue il suo impegno per il sogno di una “grande Brera” e per la salvaguardia del patrimonio artistico italiano, con la partecipazione alla fondazione del FAI, nel 1975, insieme a Giulia Maria Mozzoni Crespi, Renato Bazzoni, Alberto Predieri.

Un’eredità importante da ricordare – e celebrare – nel centenario della sua nascita.

Con queste parole Franco Russoli descrive sul n. 1 del 1969 della Rivista Pirelli la collaborazione instaurata con il bimestrale e con il suo direttore, Arrigo Castellani, da poco scomparso. Un contributo avviato nel 1962 con la rubrica dal titolo “Pretesti e appunti”, firmata dallo storico e critico dell’arte su ogni numero della rivista fino al 1970. Continua Russoli nelle pagine che la rivista dedica al compianto direttore, tratteggiando il carattere dell’operazione: “non l’argomento arte al servizio della stampa aziendale e dei suoi interessi pubblicitari nè sfruttamento di una struttura per oziose divagazioni artistiche”, ma una cooperazione libera, appunto, tra due intellettuali convinti dell’importanza dell’arte per lo sviluppo sociale e civile.

Franco Russoli nasce il 9 luglio 1923 a Firenze. Dopo la laurea in storia dell’arte e le prime esperienze lavorative in Toscana, dal 1950 è a Milano, dove inizia a collaborare con Fernanda Wittgens, Soprintendente ai monumenti e alle Gallerie della Lombardia, nonché prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera, in un momento di straordinario fermento della cultura milanese. Scrive Paolo Martelli in un ricordo di Russoli sul sito della Pinacoteca di Brera che “si poteva assimilare la coppia Wittgens-Russoli per l’arte a quella di Grassi-Strehler per il teatro. Si trattava di recuperare 25 anni di isolamento dell’Italia”. A loro si devono la riapertura, nel 1951, del Museo Poldi Pezzoli pesantemente bombardato, e la grande mostra a Palazzo Reale su Pablo Picasso, la più importante mai organizzata in Europa sull’artista, curata dallo stesso Russoli. In questi anni di ricostruzione e rinascita della cultura a Milano, prende il via anche l’esperienza della Rivista Pirelli, terreno di incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, voluta dal poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli. Le strade di Russoli e della rivista si incrociano qualche anno più tardi. Nel 1957, quando Russoli succede alla Wittgens alla direzione di Brera, incarico che mantiene fino alla morte, Arrigo Castellani assume il ruolo di direttore responsabile del bimestrale edito dalla Pirelli. Il nuovo direttore, con la sua “fiducia nella funzione sociale della libera impresa cosciente dei suoi compiti illuministici” ha un preciso programma di promozione dell’arte sulle pagine del magazine. Per realizzarlo si avvale della collaborazione di Russoli, conosciuto durante una serata d’asta. È il 1962 e Castellani decide di affidare allo storico e critico dell’arte una rubrica fissa sulle pagine della rivista: “una specie di taccuino o di appunti sui temi di sua scelta in assoluta libertà”, scrive a Vittorio Sereni, allora capo Ufficio Stampa della Pirelli, in una lettera conservata nell’archivio del poeta. Nasce così “Pretesti e appunti”: brevi testi in forma di elzeviro su vari temi dell’arte, divagazioni che, nelle intenzioni dello stesso Russoli, dovevano essere il “pretesto e lo spunto per porre in evidenza e per introdurre il discorso su problemi di portata civile”. In questi anni di riflessione sulla funzione civile dell’arte e sul ruolo dell’istituzione museale come luogo di formazione culturale e integrazione sociale, la rubrica per la Rivista è uno dei tanti mezzi con cui Russoli si impegna per la divulgazione della cultura artistica. “Uno strumento” – continua Russoli a proposito della sua rubrica – “per risvegliare […] la nozione di un dovere e di un diritto al ‘servizio’ culturale, nelle sue forme più concrete e impegnate. […] Il passaggio dagli scritti sull’arte contemporanea internazionale, sui maggiori protagonisti, sulle Biennali e Mostre, ai richiami sulla necessità di fare in Italia musei vivi di arte moderna, doveva avvenire naturalmente”.

Il contributo di Russoli non si ferma alla rubrica. A lui si deve certamente una collaborazione più generale con Arrigo Castellani e Vittorio Sereni nel portare l’arte sulla Rivista Pirelli. Con la straordinaria esperienza dei “pittori in fabbrica” innanzitutto, ma anche con la pubblicazione di opere inedite di artisti, spesso accompagnate dal testo di uno scrittore. Scrive Russoli nel già citato ricordo di Castellani del 1969: “ho avuto occasione di assistere a molti incontri tra Arrigo e gli artisti: Giacometti, Guttuso, Ajmone, Carmassi, Fontana, Sambonet, Cascella, Sassu, Biasion, Treccani, Murabito, Cazzaniga, Manzi, Chighine, Sutherland, Cagli e altri ancora […] molti di loro hanno collaborato alla sua rivista”. Per il pittore Arturo Carmassi, Russoli aveva curato il catalogo della prima personale nel 1954 e la prima monografia nel 1960: dopo il fotoservizio del 1962 di Ugo Mulas sulla Biennale di Venezia dove Carmassi espone le sue sculture, nel numero 5-6 del 1966 il pittore pubblica una serie di tavole introdotte da Russoli.  Nel 1968 anche il fotoservizio di Mulas su Lucio Fontana è accompagnato da un testo di Russoli. Da segnalare anche, sempre nel 1966, il testo di denuncia “In trecento contro i draghi” in favore della campagna “Italia da salvare” promossa da Italia nostra per la salvaguardia del patrimonio artistico e paesaggistico italiano. La rubrica di Russoli termina nel 1970 poco prima della chiusura del periodico nel 1972. Negli anni Settanta continua l’impegno di Russoli per la divulgazione artistica attraverso prodotti editoriali, articoli, trasmissioni televisive, così come prosegue il suo impegno per il sogno di una “grande Brera” e per la salvaguardia del patrimonio artistico italiano, con la partecipazione alla fondazione del FAI, nel 1975, insieme a Giulia Maria Mozzoni Crespi, Renato Bazzoni, Alberto Predieri.

Un’eredità importante da ricordare – e celebrare – nel centenario della sua nascita.

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“Pirelli Wunderbar!”

Quella di Pirelli in Germania è una storia fatta di viaggi, analisi di mercato, investimenti. Oggi, il polo tedesco di Pirelli ha sede a Breuberg, nel sud dell’Assia, in quello che era lo stabilimento rilevato nel 1963 a seguito dell’acquisizione della Veith, azienda che dal 1903 produceva pneumatici per biciclette e per veicoli. Ma la storia della presenza della Pirelli in Germania risale alla seconda metà del XIX secolo. E numerose testimonianze di quanto fatto dall’azienda e dai suoi uomini si ritrovano anche nel nostro Archivio Storico. Un percorso a tappe successive che, a ben vedere, inizia addirittura negli anni immediatamente precedenti la decisione di dare vita nel 1872 all’azienda da parte di Giovanni Battista Pirelli. Proprio lui, infatti, nel 1870 tocca anche i lander tedeschi nel suo “viaggio d’istruzione all’estero”.
Viaggi e analisi proseguono negli anni successivi. Basti pensare, per esempio, alla lettera che Alberto Pirelli scrive al fratello Piero il 24 novembre 1915 con una dettagliata relazione sull’approvvigionamento di gomma e derivati in Germania e Austria e sulla situazione dei divieti di esportazione dei prodotti Pirelli. Si tratta di un’attenta analisi non solo dei regolamenti commerciali, ma anche della concorrenza internazionale che la Pirelli deve affrontare sul mercato tedesco. Pochi anni dopo, nell’aprile 1921, passato il primo conflitto mondiale, la Pirelli invia in Germania Luigi Emanueli, storico ingegnere dell’azienda, inventore nel 1917 del cavo a olio fluido e successivamente – negli anni Cinquanta – del celebre pneumatico Cinturato™. Emanueli torna con un bagaglio impressionante di informazioni: relazioni su decine e decine di aziende visitate e interpellate, quotazioni delle materie prime, brevetti, disegni e rilievi tecnici, note di dettaglio riferite a numerose aziende dello stesso settore oppure a settori simili. Informazioni preziose, che fanno da base per ulteriori approfondimenti condotti negli anni successivi, sia dal punto di vista di mercato sia da quello tecnico.

Il nostro Archivio conserva anche testimonianze dei progressi di cui la Pirelli è protagonista in Germania anno dopo anno, a partire dall’inizio delle produzioni a Breuberg: si tratta di passi in avanti dal punto di vista produttivo e commerciale. L’house organ aziendale Fatti e Notizie dà ampio spazio alle notizie provenienti dalla Germania: il 1988, ad esempio, è l’anno della nascita di un nuovo impianto di pneumatici per autocarro; nel 2005 il record di produzione raggiunto dalla fabbrica fa intitolare l’articolo dell’house organ italiano “Pirelli Wunderbar!”. Nel 2013 lo stabilimento di Breuberg festeggia i suoi primi 50 anni. Un compleanno importante che vede la fabbrica della P Lunga impegnata sia sul fronte dei pneumatici per auto sia per quelli per motociclette; con un ruolo speciale ricoperto dal marchio Metzeler, storica azienda tedesca acquisita nel 1986 da Pirelli, specializzata proprio nella produzione per il mercato delle due ruote.

Ma la presenza di Pirelli in Germania trova spazio anche nella comunicazione pubblicitaria. Nell’Archivio sono conservate numerose pubblicità dedicate al Cinturato™., che anche in questo Paese si impone “per la sicurezza degli automobilisti”. È il caso della campagna di comunicazione del 1968 realizzata dal grafico Pino Tovaglia dove compare anche la bandiera della Germania. E il concetto di sicurezza declinato in tedesco viene riproposto negli anni Ottanta con Die Beine Ihres Autos, una campagna costituita da brevi filmati che si dispiega su più annate e più soggetti (anche con una versione a stampa), dove i protagonisti si spostano in equilibrio su un pneumatico, come fossero, appunto, “sulle gambe delle loro auto”.

Negli anni lo stabilimento di Breuberg è diventato una fabbrica high-tech dedicata alla produzione di pneumatici di alta gamma, attenta all’efficienza della produzione così come ai suoi risvolti ambientali. Le gomme fabbricate a Breuberg sono state montate nel corso degli anni sulle vetture di case auto del calibro di Audi, BMW, Ferrari, Lamborghini, Maserati, Mercedes, Porsche, Volkswagen, Volvo e sulle moto dei marchi BMW, Ducati e Honda. Davvero è sempre più Pirelli Wunderbar!

Quella di Pirelli in Germania è una storia fatta di viaggi, analisi di mercato, investimenti. Oggi, il polo tedesco di Pirelli ha sede a Breuberg, nel sud dell’Assia, in quello che era lo stabilimento rilevato nel 1963 a seguito dell’acquisizione della Veith, azienda che dal 1903 produceva pneumatici per biciclette e per veicoli. Ma la storia della presenza della Pirelli in Germania risale alla seconda metà del XIX secolo. E numerose testimonianze di quanto fatto dall’azienda e dai suoi uomini si ritrovano anche nel nostro Archivio Storico. Un percorso a tappe successive che, a ben vedere, inizia addirittura negli anni immediatamente precedenti la decisione di dare vita nel 1872 all’azienda da parte di Giovanni Battista Pirelli. Proprio lui, infatti, nel 1870 tocca anche i lander tedeschi nel suo “viaggio d’istruzione all’estero”.
Viaggi e analisi proseguono negli anni successivi. Basti pensare, per esempio, alla lettera che Alberto Pirelli scrive al fratello Piero il 24 novembre 1915 con una dettagliata relazione sull’approvvigionamento di gomma e derivati in Germania e Austria e sulla situazione dei divieti di esportazione dei prodotti Pirelli. Si tratta di un’attenta analisi non solo dei regolamenti commerciali, ma anche della concorrenza internazionale che la Pirelli deve affrontare sul mercato tedesco. Pochi anni dopo, nell’aprile 1921, passato il primo conflitto mondiale, la Pirelli invia in Germania Luigi Emanueli, storico ingegnere dell’azienda, inventore nel 1917 del cavo a olio fluido e successivamente – negli anni Cinquanta – del celebre pneumatico Cinturato™. Emanueli torna con un bagaglio impressionante di informazioni: relazioni su decine e decine di aziende visitate e interpellate, quotazioni delle materie prime, brevetti, disegni e rilievi tecnici, note di dettaglio riferite a numerose aziende dello stesso settore oppure a settori simili. Informazioni preziose, che fanno da base per ulteriori approfondimenti condotti negli anni successivi, sia dal punto di vista di mercato sia da quello tecnico.

Il nostro Archivio conserva anche testimonianze dei progressi di cui la Pirelli è protagonista in Germania anno dopo anno, a partire dall’inizio delle produzioni a Breuberg: si tratta di passi in avanti dal punto di vista produttivo e commerciale. L’house organ aziendale Fatti e Notizie dà ampio spazio alle notizie provenienti dalla Germania: il 1988, ad esempio, è l’anno della nascita di un nuovo impianto di pneumatici per autocarro; nel 2005 il record di produzione raggiunto dalla fabbrica fa intitolare l’articolo dell’house organ italiano “Pirelli Wunderbar!”. Nel 2013 lo stabilimento di Breuberg festeggia i suoi primi 50 anni. Un compleanno importante che vede la fabbrica della P Lunga impegnata sia sul fronte dei pneumatici per auto sia per quelli per motociclette; con un ruolo speciale ricoperto dal marchio Metzeler, storica azienda tedesca acquisita nel 1986 da Pirelli, specializzata proprio nella produzione per il mercato delle due ruote.

Ma la presenza di Pirelli in Germania trova spazio anche nella comunicazione pubblicitaria. Nell’Archivio sono conservate numerose pubblicità dedicate al Cinturato™., che anche in questo Paese si impone “per la sicurezza degli automobilisti”. È il caso della campagna di comunicazione del 1968 realizzata dal grafico Pino Tovaglia dove compare anche la bandiera della Germania. E il concetto di sicurezza declinato in tedesco viene riproposto negli anni Ottanta con Die Beine Ihres Autos, una campagna costituita da brevi filmati che si dispiega su più annate e più soggetti (anche con una versione a stampa), dove i protagonisti si spostano in equilibrio su un pneumatico, come fossero, appunto, “sulle gambe delle loro auto”.

Negli anni lo stabilimento di Breuberg è diventato una fabbrica high-tech dedicata alla produzione di pneumatici di alta gamma, attenta all’efficienza della produzione così come ai suoi risvolti ambientali. Le gomme fabbricate a Breuberg sono state montate nel corso degli anni sulle vetture di case auto del calibro di Audi, BMW, Ferrari, Lamborghini, Maserati, Mercedes, Porsche, Volkswagen, Volvo e sulle moto dei marchi BMW, Ducati e Honda. Davvero è sempre più Pirelli Wunderbar!

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Imprese e tribù

Condensato in un libro di marketing un modo originale di guardare ai mercati e alle strategie per entrarvi

Mercati come teatri in cui comunità diverse si confrontano (e si scontrano). Mercati come ambiti in cui le imprese devono imparare ad agire con accortezza, cercando di conquistare una dopo l’altra proprio quelle comunità che li popolano. E comunità che, a guardarle da vicino, assomigliano sorprendentemente (ma non troppo) a tante tribù impegnate a ritagliarsi porzioni di “territorio”.

E’ da queste premesse che prende le mosse “Mindset tribale. Strategie di marketing per conquistare il mercato, una tribù alla volta”, ultima fatica letteraria di Matteo Rinaldi appena pubblicata. Un libro di marketing che, a tratti, pare essere un lungo e avventuroso racconto tra gestione d’impresa, strategie di mercato e scienze sociali.

Rinaldi parte da una considerazione di fondo: sempre, e oggi con grande evidenza, gli uomini hanno il bisogno di unirsi in community e altre forme di aggregazione. Sentimento, quindi, oltre che oggettività. Qualcosa che, a ben vedere, è alla base di tutte le culture (anche di quella d’impresa). E qualcosa che, secondo Rinaldi, deve essere tenuto in considerazione anche dalle imprese e dai brand che rappresentano.  

Completo nell’analisi di una grande quantità di “tribù” di mercato italiane, il volume si propone come un manuale d’istruzioni pratico, diviso in semplici passi per aziende e startup. Le sezioni “dalla teoria alla pratica” chiudono i capitoli con casi studio (come Esselunga e Red Bull). Nelle stesse pagine, poi, chi legge trova testimonianze importanti come quelle di manager di Danone, DUDE, Alce Nero, EssilorLuxottica, Nespresso. Tutto si dipana lungo un cammino in cui prima vengono descritte le attuali “tribù italiane”, poi viene spiegato come crearne di nuove e successivamente dove trovare quelle già esistenti; il libro poi prosegue con l’approfondire i legami tra la situazione descritta e gli strumenti di marketing per arrivare così ad una serie di casi studio importanti per capire meglio. Fitto di schemi e strumenti grafici, il libro si conclude con una indicazioni di principio fondate di fatto tutte su un’idea: la necessità di passare dal concetto astratto di “consumatore” a quello più che concreto di “persona”.

Libro bello da leggere quello di Matteo Rinaldi, e, soprattutto, importante da leggere.

Mindset tribale. Strategie di marketing per conquistare il mercato, una tribù alla volta

Matteo Rinaldi

Franco Angeli, 2023

Condensato in un libro di marketing un modo originale di guardare ai mercati e alle strategie per entrarvi

Mercati come teatri in cui comunità diverse si confrontano (e si scontrano). Mercati come ambiti in cui le imprese devono imparare ad agire con accortezza, cercando di conquistare una dopo l’altra proprio quelle comunità che li popolano. E comunità che, a guardarle da vicino, assomigliano sorprendentemente (ma non troppo) a tante tribù impegnate a ritagliarsi porzioni di “territorio”.

E’ da queste premesse che prende le mosse “Mindset tribale. Strategie di marketing per conquistare il mercato, una tribù alla volta”, ultima fatica letteraria di Matteo Rinaldi appena pubblicata. Un libro di marketing che, a tratti, pare essere un lungo e avventuroso racconto tra gestione d’impresa, strategie di mercato e scienze sociali.

Rinaldi parte da una considerazione di fondo: sempre, e oggi con grande evidenza, gli uomini hanno il bisogno di unirsi in community e altre forme di aggregazione. Sentimento, quindi, oltre che oggettività. Qualcosa che, a ben vedere, è alla base di tutte le culture (anche di quella d’impresa). E qualcosa che, secondo Rinaldi, deve essere tenuto in considerazione anche dalle imprese e dai brand che rappresentano.  

Completo nell’analisi di una grande quantità di “tribù” di mercato italiane, il volume si propone come un manuale d’istruzioni pratico, diviso in semplici passi per aziende e startup. Le sezioni “dalla teoria alla pratica” chiudono i capitoli con casi studio (come Esselunga e Red Bull). Nelle stesse pagine, poi, chi legge trova testimonianze importanti come quelle di manager di Danone, DUDE, Alce Nero, EssilorLuxottica, Nespresso. Tutto si dipana lungo un cammino in cui prima vengono descritte le attuali “tribù italiane”, poi viene spiegato come crearne di nuove e successivamente dove trovare quelle già esistenti; il libro poi prosegue con l’approfondire i legami tra la situazione descritta e gli strumenti di marketing per arrivare così ad una serie di casi studio importanti per capire meglio. Fitto di schemi e strumenti grafici, il libro si conclude con una indicazioni di principio fondate di fatto tutte su un’idea: la necessità di passare dal concetto astratto di “consumatore” a quello più che concreto di “persona”.

Libro bello da leggere quello di Matteo Rinaldi, e, soprattutto, importante da leggere.

Mindset tribale. Strategie di marketing per conquistare il mercato, una tribù alla volta

Matteo Rinaldi

Franco Angeli, 2023

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