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Italia-Germania, tutti d’accordo per rilanciare l’industria più innovativa

Su un punto, in particolare, Italia e Germania hanno una robusta posizione comune: sull’importanza della manifattura e sul suo rilancio come valore strategico per tutta l’Europa. Al vertice del 29 gennaio a Berlino, tra la Cancelliera Angela Merkel e il premier Matteo Renzi, accanto all’impegno comune per “salvare Schengen” e per contrastare con decisione “i populismi” che trovano purtroppo spazio crescente, accanto agli apprezzamenti tedeschi per le riforme italiane (e alle persistenti perplessità sulla pesantezza del nostro debito pubblico) e alle insistenze italiane sulla necessità di fare dell’Europa un motore non del rigore ma dello sviluppo, su un punto non ci sono state discussioni: il primato dell’industria.

Germania e Italia sono il primo e il secondo paese manifatturiero d’Europa. Insieme a Cina, Giappone e Corea, sono tra i primi cinque paesi al mondo ad avere un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (154, il nostro). E si muovono in una certa sintonia verso “Industry 4.0”, la manifattura fortemente innovativa e digitale. Già nel 2014 le Confindustrie dei due paesi avevano convenuto sulla necessità di un grande impegno comune per fare da motore dell’intera Europa per raggiungere, nel 2020, un’incidenza della manifattura sul Pil del 20% (adesso, nell’area Ue, è del 16%). E la scorsa settimana a Berlino Merkel e Renzi hanno deciso di puntare su innovazione, industria di qualità, processi digitali, ricerca e infrastrutture hi tech. Industry 4.0, appunto (all’Italia servono massicci investimenti sulla “banda larga” e siamo un po’ indietro rispetto ai tedeschi).

Una nuova convergenza, insomma. Un importante passo avanti verso una Ue segnata da innovazione, competitività d’avanguardia, lavoro qualificato, crescita.

In Germania, già adesso la manifattura vale il 22% del Pil. In Italia, poco meno del 17%. Se il nostro dato però si disaggrega per grandi aree territoriali, troviamo un Nord (dall’Emilia in su) in cui si è già superato il 20%. E nell’area economicamente tanto solida da poter fare da “locomotiva d’Italia”, nella “grande Milano”, dalla metropoli alla Brianza e a Lodi, siamo già al 29%: un primato europeo. Anche perché quelle manifatture trainano, sulla strada dell’innovazione e della competitività, un mondo molto sofisticato di servizi alle imprese e fanno da capofila di una supply chain (anche qui, industria innovativa e servizi hi tech) che impara a stare, con cultura di agguerrita concorrenzialità, sui mercati internazionali.

Sono valori importanti, economici, ma anche sociali (le neo-fabbriche si stanno rivelando formidabili veicoli anche di inclusione sociale e di mobilità sociale, stimolando e liberando nuove energie creative e imprenditoriali, un po’ com’era successo, naturalmente in condizioni e contesti diversi, nell’Italia del “boom economico” tra gli anni Cinquanta e Sessanta).

Temi chiave, dunque. Che animano in modo crescente anche il dibattito pubblico. Se ne è discusso di recente all’Aspen Institute Italia, prima a Milano e poi a Roma, a proposito di un libro curato da Giorgio Giovannetti sul “rinascimento manifatturiero”. E a Bologna, nel corso di un confronto organizzato da Unicredit e Nomisma, per la presentazione di un acuto libro di Franco Mosconi, “The New European industrial Policy”, edito da Routledge, Oxford: dati, indagini, acute analisi che confermano l’importanza di una “euro-manifattura” e di una “politica industriale” che stimoli innovazione, investimenti, ricerca, qualità, creando le condizioni per fare crescere gli investimenti.

Sono analoghe le strade su cui insiste Confindustria: fare ripartire gli investimenti e dare sostegno stabile per chi aggiorna gli apparati produttivi, favorire l’innovazione, rafforzare la digitalizzazione. Parecchie imprese italiane, infatti, sono in arretrato di investimenti, hanno macchinari vecchi, rischiano di vedere sempre più erosi i loro margini di competitività (lo rivela un rapporto presentato il 27 gennaio scorso alla Camera dei Deputati dall’Ucimu, l’organizzazione confindustriale dei produttori di macchine utensili, robot e automazione). E ci sono dunque ritardi da superare. Anche con il sostegno fiscale a chi sostituisce i vecchi impianti e insiste sull’innovazione di processo, sulla strada della “fabbrica digitale”. E con una mano di aiuto per il finanziamento delle start up innovative (nella nuova dimensione che lega prodotti a servizi). Politica industriale, appunto. Per evitare che i nostri primati manifatturieri si appannino e la sfida sulla competitività s’indebolisca.

In sintesi: puntare su robot, per migliorare l’industria. Sulla strada dell’accordo industriale Italia-Germania da cui siamo partiti. Un buon modo anche per rafforzare e rilanciare l’Europa.

Su un punto, in particolare, Italia e Germania hanno una robusta posizione comune: sull’importanza della manifattura e sul suo rilancio come valore strategico per tutta l’Europa. Al vertice del 29 gennaio a Berlino, tra la Cancelliera Angela Merkel e il premier Matteo Renzi, accanto all’impegno comune per “salvare Schengen” e per contrastare con decisione “i populismi” che trovano purtroppo spazio crescente, accanto agli apprezzamenti tedeschi per le riforme italiane (e alle persistenti perplessità sulla pesantezza del nostro debito pubblico) e alle insistenze italiane sulla necessità di fare dell’Europa un motore non del rigore ma dello sviluppo, su un punto non ci sono state discussioni: il primato dell’industria.

Germania e Italia sono il primo e il secondo paese manifatturiero d’Europa. Insieme a Cina, Giappone e Corea, sono tra i primi cinque paesi al mondo ad avere un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (154, il nostro). E si muovono in una certa sintonia verso “Industry 4.0”, la manifattura fortemente innovativa e digitale. Già nel 2014 le Confindustrie dei due paesi avevano convenuto sulla necessità di un grande impegno comune per fare da motore dell’intera Europa per raggiungere, nel 2020, un’incidenza della manifattura sul Pil del 20% (adesso, nell’area Ue, è del 16%). E la scorsa settimana a Berlino Merkel e Renzi hanno deciso di puntare su innovazione, industria di qualità, processi digitali, ricerca e infrastrutture hi tech. Industry 4.0, appunto (all’Italia servono massicci investimenti sulla “banda larga” e siamo un po’ indietro rispetto ai tedeschi).

Una nuova convergenza, insomma. Un importante passo avanti verso una Ue segnata da innovazione, competitività d’avanguardia, lavoro qualificato, crescita.

In Germania, già adesso la manifattura vale il 22% del Pil. In Italia, poco meno del 17%. Se il nostro dato però si disaggrega per grandi aree territoriali, troviamo un Nord (dall’Emilia in su) in cui si è già superato il 20%. E nell’area economicamente tanto solida da poter fare da “locomotiva d’Italia”, nella “grande Milano”, dalla metropoli alla Brianza e a Lodi, siamo già al 29%: un primato europeo. Anche perché quelle manifatture trainano, sulla strada dell’innovazione e della competitività, un mondo molto sofisticato di servizi alle imprese e fanno da capofila di una supply chain (anche qui, industria innovativa e servizi hi tech) che impara a stare, con cultura di agguerrita concorrenzialità, sui mercati internazionali.

Sono valori importanti, economici, ma anche sociali (le neo-fabbriche si stanno rivelando formidabili veicoli anche di inclusione sociale e di mobilità sociale, stimolando e liberando nuove energie creative e imprenditoriali, un po’ com’era successo, naturalmente in condizioni e contesti diversi, nell’Italia del “boom economico” tra gli anni Cinquanta e Sessanta).

Temi chiave, dunque. Che animano in modo crescente anche il dibattito pubblico. Se ne è discusso di recente all’Aspen Institute Italia, prima a Milano e poi a Roma, a proposito di un libro curato da Giorgio Giovannetti sul “rinascimento manifatturiero”. E a Bologna, nel corso di un confronto organizzato da Unicredit e Nomisma, per la presentazione di un acuto libro di Franco Mosconi, “The New European industrial Policy”, edito da Routledge, Oxford: dati, indagini, acute analisi che confermano l’importanza di una “euro-manifattura” e di una “politica industriale” che stimoli innovazione, investimenti, ricerca, qualità, creando le condizioni per fare crescere gli investimenti.

Sono analoghe le strade su cui insiste Confindustria: fare ripartire gli investimenti e dare sostegno stabile per chi aggiorna gli apparati produttivi, favorire l’innovazione, rafforzare la digitalizzazione. Parecchie imprese italiane, infatti, sono in arretrato di investimenti, hanno macchinari vecchi, rischiano di vedere sempre più erosi i loro margini di competitività (lo rivela un rapporto presentato il 27 gennaio scorso alla Camera dei Deputati dall’Ucimu, l’organizzazione confindustriale dei produttori di macchine utensili, robot e automazione). E ci sono dunque ritardi da superare. Anche con il sostegno fiscale a chi sostituisce i vecchi impianti e insiste sull’innovazione di processo, sulla strada della “fabbrica digitale”. E con una mano di aiuto per il finanziamento delle start up innovative (nella nuova dimensione che lega prodotti a servizi). Politica industriale, appunto. Per evitare che i nostri primati manifatturieri si appannino e la sfida sulla competitività s’indebolisca.

In sintesi: puntare su robot, per migliorare l’industria. Sulla strada dell’accordo industriale Italia-Germania da cui siamo partiti. Un buon modo anche per rafforzare e rilanciare l’Europa.

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