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Creatività più importante dell’ingegneria”: gli stimoli da Silicon Valley e la forza di cultura e industria in Italia

“La creatività è più importante delle materie ‘stem’, dell’ingegneria”. Parla Stephen Wozniak, un ingegnere. Anzi uno degli ingegneri di maggior successo nel mondo: il 1° aprile del 1976, con Steve Jobs, aveva fondato la Apple e ne aveva realizzato i primi computer. E ancora oggi, da azionista di peso, influisce sulle strategie della multinazionale di Cupertino. L’innovazione tecnologica è da mezzo secolo il suo mondo. Ma sa guardarne limiti e prospettive. E così, durante un convegno a Milano, dichiara:  “La cosa più importante per le start up e le società tecnologiche è l’ispirazione. Immaginare il futuro e ciò che le persone vogliono. L’ispirazione è più importante della conoscenza. Devi avere un’idea nella tua testa… Creare qualcosa che non esiste. E le materie ‘stem’ non sono creative” (Corriere della Sera, 4 luglio).

Stem” è un acronimo, con le iniziali di science, technology, engineering e mathematics: la formula dell’innovazione e dello sviluppo americano, cara alla stagione del presidente Obama e alle culture hi tech della Silicon Valley. In un mondo in rapido cambiamento, Wozniak suggerisce un passaggio in più: la cura della creatività, la forza del disegnare, progettare, scrivere. E ancora una volta si rivela in sintonia con l’amico e socio di tutta una vita, Jobs e con la sua suggestione sulla necessità di un “ingegnere rinascimentale” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa, il 27 giugno). Umanesimo e scienza.

Non solo “stem” ma “steam”, aveva detto tra anni fa l’Assolombarda, allora presieduta da Gianfelice Rocca. Sempre un acronimo, con un’aggiunta e un paio di modifiche. L’aggiunta è stata la “a” di “arts”, le conoscenze umanistiche, le capacità creative, da legare in modo originale alle conoscenze scientifiche. Le modifiche: la “e” che sta per environment, l’ambiente, le energie della “green economy” in cui proprio l’Italia vanta imprese eccellenti; e la “m” di manifacturing, l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo” (l’essenziale definizione di Carlo M. Cipolla sulla forza storica e attuale dell’industria italiana). “Steam” non è un gioco semantico. Ma una scelta strategica (ripresa nel nuovo corso di Assolombarda, con la presidenza di Carlo Bonomi) per lo sviluppo italiano in chiave europea. Scelta politica (e di politica industriale: il sostegno pubblico all’innovazione). E culturale: la sostenibilità. Ambientale e sociale.

Viviamo tempi difficili. Di radicali trasformazioni. Di metamorfosi. Non sempre positive.

I filosofi mettono in crisi la sostenibilità del paradigma del “progresso” che ha caratterizzato, come motore, tutto il pensiero della modernità, a cominciare dall’economia e dai suoi paradigmi della “crescita”: “Si tratta d’un passaggio di epoca, in Europa e in Occidente e non di una crisi congiunturale”, avverte Massimo Cacciari (“L’Espresso”, 9 luglio). E c’è chi, come Emanuele Severino, diffida della “tecnocrazia”: “Vado mostrando da tempo l’inevitabilità del processo che conduce al dominio della tecnica sulle forze che ancora intendono servirsi di essa. L’incremento tecnico-scientifico sostituirà l’uomo da cui tale incremento è ostacolato e promuoverà l’uomo che lo favorisce”.

La visione di Severino è cupa. Altre, meno pessimiste, parlano di sfida aperta. E vale comunque la pena rileggere le parole di Tim Cook, guida della Apple, ai laureandi dei Mit, il Massachusetts Institute of Technology, luogo cardine di ricerca e innovazione: “Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze” (già citato nel blog del 27 giugno). Valori, appunto.

La macchina dell’economia è tutta da ripensare. Per tenerla in piedi. E rimetterla in moto. Riconsiderare criticamente creazione del valore e metodi (Papa Francesco spinge molto in questa direzione, in compagnia peraltro di autorevoli esponenti della migliore letteratura economica). E riscriverne gli  strumenti di misurazione (il Pil, il prodotto interno lordo, da affiancare e fors’anche sostituire con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: l’Istat ci lavora da qualche anno in Italia ed è un buon paradigma, considerato a livello internazionale). Sviluppare insomma – vale la pena ripeterlo – una cultura della sostenibilità. Qualità della vita e migliori equilibri sociali, che crescano nel tempo (utile e speriamo efficace antidoto alle varie, intollerabili forme di populismo).

E l’Italia? Cresce poco e male, come si sa (con forti divari tra Nord e Sud e distorsioni tra le imprese private più dinamiche, innovative e internazionali e le pesantezze della “mano pubblica”). Ma ha comunque ricominciato a crescere. Meglio di niente, naturalmente. Bisogna fare molto di più.

Il Paese ha una leva di forza, la sua industria culturale: ha generato nel 2016 90 miliardi di euro di valore aggiunto (250 miliardi, considerando l’indotto). E’ cresciuta dell’1,8% (più del Pil, dunque). Dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6% di tutti gli occupati in Italia. Lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola, presentato il 28 giugno, mettendo insieme i datti di cinque macro-settori: le industrie creative (architettura, design e comunicazione), le industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, musica, stampa, software e videogiochi), il patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, monumenti e aree archeologiche), le performing arts e arti visive, le imprese “creative driven”, che utilizzano in modo strutturale professioni creative (la manifattura evoluta, l’artigianato creativo). Un mondo in movimento, in cambiamento. “La cultura è un asset di sviluppo su cui puntare”, commenta Ivan Lo Bello, presidente di UnionCamere. Ed Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Se l’Italia produce valore e lavoro concentrandosi su industria e bellezza, aiuta il futuro”. Ecco il punto: connettere capacità industriale e creatività, manifattura e cultura. E usare la forza dell’intelligenza creativa per costruire meccanismi di sviluppo che siano cardine dell’evoluzione dei bisogni, dei valori, del tempo che cambia. L’Italia, mediterranea ed europea, ha buone carte da giocare. “La cultura è trasversale, è fondamentale per l’economia. Un punto da cui fare ripartire un nuovo Rinascimento”, sintetizza Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria (Il Sole24Ore, 29 giugno).

Servono ingegneri rinascimentali, appunto. Si torna a Jobs, alla “cultura politecnica” e al governo filosofico della tecnologia.

“La creatività è più importante delle materie ‘stem’, dell’ingegneria”. Parla Stephen Wozniak, un ingegnere. Anzi uno degli ingegneri di maggior successo nel mondo: il 1° aprile del 1976, con Steve Jobs, aveva fondato la Apple e ne aveva realizzato i primi computer. E ancora oggi, da azionista di peso, influisce sulle strategie della multinazionale di Cupertino. L’innovazione tecnologica è da mezzo secolo il suo mondo. Ma sa guardarne limiti e prospettive. E così, durante un convegno a Milano, dichiara:  “La cosa più importante per le start up e le società tecnologiche è l’ispirazione. Immaginare il futuro e ciò che le persone vogliono. L’ispirazione è più importante della conoscenza. Devi avere un’idea nella tua testa… Creare qualcosa che non esiste. E le materie ‘stem’ non sono creative” (Corriere della Sera, 4 luglio).

Stem” è un acronimo, con le iniziali di science, technology, engineering e mathematics: la formula dell’innovazione e dello sviluppo americano, cara alla stagione del presidente Obama e alle culture hi tech della Silicon Valley. In un mondo in rapido cambiamento, Wozniak suggerisce un passaggio in più: la cura della creatività, la forza del disegnare, progettare, scrivere. E ancora una volta si rivela in sintonia con l’amico e socio di tutta una vita, Jobs e con la sua suggestione sulla necessità di un “ingegnere rinascimentale” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa, il 27 giugno). Umanesimo e scienza.

Non solo “stem” ma “steam”, aveva detto tra anni fa l’Assolombarda, allora presieduta da Gianfelice Rocca. Sempre un acronimo, con un’aggiunta e un paio di modifiche. L’aggiunta è stata la “a” di “arts”, le conoscenze umanistiche, le capacità creative, da legare in modo originale alle conoscenze scientifiche. Le modifiche: la “e” che sta per environment, l’ambiente, le energie della “green economy” in cui proprio l’Italia vanta imprese eccellenti; e la “m” di manifacturing, l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo” (l’essenziale definizione di Carlo M. Cipolla sulla forza storica e attuale dell’industria italiana). “Steam” non è un gioco semantico. Ma una scelta strategica (ripresa nel nuovo corso di Assolombarda, con la presidenza di Carlo Bonomi) per lo sviluppo italiano in chiave europea. Scelta politica (e di politica industriale: il sostegno pubblico all’innovazione). E culturale: la sostenibilità. Ambientale e sociale.

Viviamo tempi difficili. Di radicali trasformazioni. Di metamorfosi. Non sempre positive.

I filosofi mettono in crisi la sostenibilità del paradigma del “progresso” che ha caratterizzato, come motore, tutto il pensiero della modernità, a cominciare dall’economia e dai suoi paradigmi della “crescita”: “Si tratta d’un passaggio di epoca, in Europa e in Occidente e non di una crisi congiunturale”, avverte Massimo Cacciari (“L’Espresso”, 9 luglio). E c’è chi, come Emanuele Severino, diffida della “tecnocrazia”: “Vado mostrando da tempo l’inevitabilità del processo che conduce al dominio della tecnica sulle forze che ancora intendono servirsi di essa. L’incremento tecnico-scientifico sostituirà l’uomo da cui tale incremento è ostacolato e promuoverà l’uomo che lo favorisce”.

La visione di Severino è cupa. Altre, meno pessimiste, parlano di sfida aperta. E vale comunque la pena rileggere le parole di Tim Cook, guida della Apple, ai laureandi dei Mit, il Massachusetts Institute of Technology, luogo cardine di ricerca e innovazione: “Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze” (già citato nel blog del 27 giugno). Valori, appunto.

La macchina dell’economia è tutta da ripensare. Per tenerla in piedi. E rimetterla in moto. Riconsiderare criticamente creazione del valore e metodi (Papa Francesco spinge molto in questa direzione, in compagnia peraltro di autorevoli esponenti della migliore letteratura economica). E riscriverne gli  strumenti di misurazione (il Pil, il prodotto interno lordo, da affiancare e fors’anche sostituire con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: l’Istat ci lavora da qualche anno in Italia ed è un buon paradigma, considerato a livello internazionale). Sviluppare insomma – vale la pena ripeterlo – una cultura della sostenibilità. Qualità della vita e migliori equilibri sociali, che crescano nel tempo (utile e speriamo efficace antidoto alle varie, intollerabili forme di populismo).

E l’Italia? Cresce poco e male, come si sa (con forti divari tra Nord e Sud e distorsioni tra le imprese private più dinamiche, innovative e internazionali e le pesantezze della “mano pubblica”). Ma ha comunque ricominciato a crescere. Meglio di niente, naturalmente. Bisogna fare molto di più.

Il Paese ha una leva di forza, la sua industria culturale: ha generato nel 2016 90 miliardi di euro di valore aggiunto (250 miliardi, considerando l’indotto). E’ cresciuta dell’1,8% (più del Pil, dunque). Dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6% di tutti gli occupati in Italia. Lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola, presentato il 28 giugno, mettendo insieme i datti di cinque macro-settori: le industrie creative (architettura, design e comunicazione), le industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, musica, stampa, software e videogiochi), il patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, monumenti e aree archeologiche), le performing arts e arti visive, le imprese “creative driven”, che utilizzano in modo strutturale professioni creative (la manifattura evoluta, l’artigianato creativo). Un mondo in movimento, in cambiamento. “La cultura è un asset di sviluppo su cui puntare”, commenta Ivan Lo Bello, presidente di UnionCamere. Ed Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Se l’Italia produce valore e lavoro concentrandosi su industria e bellezza, aiuta il futuro”. Ecco il punto: connettere capacità industriale e creatività, manifattura e cultura. E usare la forza dell’intelligenza creativa per costruire meccanismi di sviluppo che siano cardine dell’evoluzione dei bisogni, dei valori, del tempo che cambia. L’Italia, mediterranea ed europea, ha buone carte da giocare. “La cultura è trasversale, è fondamentale per l’economia. Un punto da cui fare ripartire un nuovo Rinascimento”, sintetizza Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria (Il Sole24Ore, 29 giugno).

Servono ingegneri rinascimentali, appunto. Si torna a Jobs, alla “cultura politecnica” e al governo filosofico della tecnologia.

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