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Cresce l’occupazione ma restano le ombre per giovani e donne. E il declino demografico…

Lavoro, immigrazione, formazione, sviluppo. Ragioniamo con i numeri, chiari, essenziali. L’Istat, nei giorni scorsi, ha annunciato un aumento dei posti di lavoro, di 459mila unità a gennaio, rispetto all’anno precedente, portando così il totale degli occupati a 23,3 milioni: un record, almeno da quando ci sono le serie storiche mensili, dal 2004 cioè. L’andamento è positivo anche mese su mese: 35mila occupati in più nel gennaio ‘23 rispetto al dicembre ‘22. “Il mercato del lavoro continua a mostrare segnali positivi, in linea con un andamento economico in lenta ripresa”, commenta “Il Sole24Ore” (3 marzo). “Il migliore mercato del lavoro italiano degli ultimi trent’anni”, si entusiasma “Il Foglio” (3 marzo).

A guardare bene i dati, si possono cogliere altri elementi positivi. Dei 23,3 milioni di occupati, 15,3 milioni sono dipendenti a tempo indeterminato, con un aumento di 464mila unità rispetto al gennaio ‘22. Si va verso un miglioramento della stabilità del lavoro, insomma: i posti a tempo determinato sono sotto la soglia psicologica dei 3 milioni, 2,994 milioni, per l’esattezza.
Va bene anche per l’occupazione femminile: le donne sono 9,87 milioni, 264mila in più rispetto al gennaio ‘22. Restano forti, è vero, i divari evidenziati dal tasso di occupazione, salito in media al 60,8% ma con un 69,7% per gli uomini e un insoddisfacente 51,9% per le donne. E sono sempre marcate le differenze con gli altri paesi europei (77% in Germania, 68% in Francia, media Ue 70%). Eppure, nonostante tutto, le cose si muovono, anche se più lentamente del necessario.

La ripresa economica, particolarmente impetuosa nel ‘21 e nel ‘22 (quasi l’11% di crescita del Pil, nel biennio, con ritmi che non si vedevano dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta) e comunque ancora evidente in quest’inizio del ‘23 che ha, almeno per ora, messo da canto i timori di recessione, sta mostrando di avere basi robuste, nell’attività dell’industria manifatturiera e nell’aumento dell’export (a quota 625 miliardi, un record). Incide relativamente poco, invece, l’effetto da superbonus edilizio del 110% (appena lo 0,5% di crescita del Pil nel ‘21 e lo 0,9 nel ‘22, secondo le analisi dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Giampaolo Galli), ridimensionando così la propaganda dei sostenitori del governo Conte e dei 5Stelle, che quel bonus avevano fortemente voluto, con tutte le storture nella sua applicazione.
Guardando sempre ai dati Istat sull’occupazione, non va sottovalutata un’ombra. Che riguarda i giovani: il tasso di occupazione, sia tra gli under25 che nella classe d’età 25/34 anni, è calato dello 0,3% e sono aumentate disoccupazione e inattività. E il tasso di disoccupazione è salito al 22,9%, tra i peggiori a livello internazionale: in Germania è in calo al 5,7%, dopo di noi ci sono Spagna e Grecia.
Le cose potrebbero andare meglio? Certo, se le imprese trovassero le persone che volentieri assumerebbero ma anche non trovano. Ne migliorerebbero produttività e competitività e la crescita economica e sociale in generale.
Le indagini Unioncamere-Anpal testimoniano da tempo che quasi un’assunzione su due è di difficile reperimento, con punte del 60/70% per i profili tecnico-scientifici. Lo testimoniano anche le cronache economiche: “Imprese a caccia di lavoratori, ma il 41% resta introvabile” (“Il Sole24Ore”, 27 dicembre ‘22); “Artigiani in cerca di 43mila lavoratori a Milano, Monza e Brianza” (“Corriere della Sera”, 18 febbraio); “Lavoro, imprese a caccia di 4 milioni di occupati green” (“Il Sole24Ore”, 11 febbraio) e così via continuando per la moda e la meccatronica, la chimica e l’industria agroalimentare.
L’allarme arriva anche dalla Banca d’Italia: per attuare tempestivamente ed efficacemente il Pnrr servirebbero 375mila nuovi lavoratori, dagli operai alle figure tecniche più specializzate, anche nella Pubblica amministrazione. Peccato che non si trovino (“la Repubblica”, 7 febbraio).
Eccoci dunque al paradosso: abbiamo una macchina produttiva che continua a fare dell’Italia il secondo paese manifatturiero europeo, con presenze sempre maggiori nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati globali ma ci manca il capitale necessario per continuare a crescere: le persone. E centinaia di migliaia di nostri giovani se ne vanno all’estero, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita (ne abbiamo parlato più volte in questi blog).
Ci sono, da questo punto di vista, problemi irrisolti di formazione universitaria (sempre troppo pochi laureati nelle materie Stem: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Di condizioni sociali per fare aumentare radicalmente la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Di salari e stipendi. Di qualità del lavoro e soddisfazione di prospettive in un panorama di imprese troppo piccole e spesso managerialmente poco evolute.
Di certo, la doppia questione legata all’incrocio tra formazione e occupazione, ai rapporti tra scuola e impresa dovrebbe stare in cima all’elenco degli interessi e degli impegni del governo e della politica in generale. Come purtroppo ancora non avviene.

C’è, sullo sfondo, il grande tema della demografia. Siamo un paese che invecchia e in cui il calo demografico è sempre più accentuato. Fra trent’anni, il 35% degli italiani avranno da 65 anni in su, mentre oggi sono meno del 25%, con effetti di grande distorsione del bilancio pubblico, per l’incremento delle spese previdenziali, sanitarie e assistenziali. E si modificherà radicalmente anche il mercato del lavoro: oggi il rapporto tra persone in età lavorativa (15/64 anni) e non (0/15 anni e 65 anni e oltre) è di tre a due, mentre nel 2050 sarà di uno a uno. Tutto un altro mondo, un altro equilibrio sociale, un’altra struttura dei conti pubblici.
Le tendenze al cambiamento demografico, si sa, sono di lungo periodo. Ma le politiche legate agli stimoli per l’aumento della natalità vanno costruite subito, per avere effetti tra vent’anni.
Nel frattempo, per bilanciare il declino demografico italiano e modificare in positivo, con nuove risorse, il mercato del lavoro e dunque la produzione di ricchezza e il benessere collettivo, l’unica strada è impostare sapienti e lungimiranti politiche di immigrazione: “Le imprese al governo: l’Italia ha bisogno di 200mila migranti”, titola “la Repubblica” (6 marzo). Bisogna insomma considerare “gli immigrati come ricchezza” (Linda Laura Sabbadini “la Repubblica”, 3 marzo). Legare cioè le ragioni umanitarie e civili dell’accoglienza, peraltro tipiche della storia e della tradizione culturale italiana, mediterranea e inclusiva, con una ragionevole considerazione degli interessi futuri, in un sistema di opportunità e regole, formazione e valorizzazione dell’intraprendenza. Essere, insomma, un’Italia attrattiva e produttiva per ragazze e ragazzi che, venendo dal resto del mondo, proprio qui possano studiare, lavorare, progettare un migliore futuro. In un Paese, la Bell’Italia, appunto, che eviti il declino insito nell’essere “pessimista e mesta… impaurita e triste” (Berta Isla, “Il Foglio”, 5 marzo).

(foto: Getty Images)

Lavoro, immigrazione, formazione, sviluppo. Ragioniamo con i numeri, chiari, essenziali. L’Istat, nei giorni scorsi, ha annunciato un aumento dei posti di lavoro, di 459mila unità a gennaio, rispetto all’anno precedente, portando così il totale degli occupati a 23,3 milioni: un record, almeno da quando ci sono le serie storiche mensili, dal 2004 cioè. L’andamento è positivo anche mese su mese: 35mila occupati in più nel gennaio ‘23 rispetto al dicembre ‘22. “Il mercato del lavoro continua a mostrare segnali positivi, in linea con un andamento economico in lenta ripresa”, commenta “Il Sole24Ore” (3 marzo). “Il migliore mercato del lavoro italiano degli ultimi trent’anni”, si entusiasma “Il Foglio” (3 marzo).

A guardare bene i dati, si possono cogliere altri elementi positivi. Dei 23,3 milioni di occupati, 15,3 milioni sono dipendenti a tempo indeterminato, con un aumento di 464mila unità rispetto al gennaio ‘22. Si va verso un miglioramento della stabilità del lavoro, insomma: i posti a tempo determinato sono sotto la soglia psicologica dei 3 milioni, 2,994 milioni, per l’esattezza.
Va bene anche per l’occupazione femminile: le donne sono 9,87 milioni, 264mila in più rispetto al gennaio ‘22. Restano forti, è vero, i divari evidenziati dal tasso di occupazione, salito in media al 60,8% ma con un 69,7% per gli uomini e un insoddisfacente 51,9% per le donne. E sono sempre marcate le differenze con gli altri paesi europei (77% in Germania, 68% in Francia, media Ue 70%). Eppure, nonostante tutto, le cose si muovono, anche se più lentamente del necessario.

La ripresa economica, particolarmente impetuosa nel ‘21 e nel ‘22 (quasi l’11% di crescita del Pil, nel biennio, con ritmi che non si vedevano dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta) e comunque ancora evidente in quest’inizio del ‘23 che ha, almeno per ora, messo da canto i timori di recessione, sta mostrando di avere basi robuste, nell’attività dell’industria manifatturiera e nell’aumento dell’export (a quota 625 miliardi, un record). Incide relativamente poco, invece, l’effetto da superbonus edilizio del 110% (appena lo 0,5% di crescita del Pil nel ‘21 e lo 0,9 nel ‘22, secondo le analisi dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Giampaolo Galli), ridimensionando così la propaganda dei sostenitori del governo Conte e dei 5Stelle, che quel bonus avevano fortemente voluto, con tutte le storture nella sua applicazione.
Guardando sempre ai dati Istat sull’occupazione, non va sottovalutata un’ombra. Che riguarda i giovani: il tasso di occupazione, sia tra gli under25 che nella classe d’età 25/34 anni, è calato dello 0,3% e sono aumentate disoccupazione e inattività. E il tasso di disoccupazione è salito al 22,9%, tra i peggiori a livello internazionale: in Germania è in calo al 5,7%, dopo di noi ci sono Spagna e Grecia.
Le cose potrebbero andare meglio? Certo, se le imprese trovassero le persone che volentieri assumerebbero ma anche non trovano. Ne migliorerebbero produttività e competitività e la crescita economica e sociale in generale.
Le indagini Unioncamere-Anpal testimoniano da tempo che quasi un’assunzione su due è di difficile reperimento, con punte del 60/70% per i profili tecnico-scientifici. Lo testimoniano anche le cronache economiche: “Imprese a caccia di lavoratori, ma il 41% resta introvabile” (“Il Sole24Ore”, 27 dicembre ‘22); “Artigiani in cerca di 43mila lavoratori a Milano, Monza e Brianza” (“Corriere della Sera”, 18 febbraio); “Lavoro, imprese a caccia di 4 milioni di occupati green” (“Il Sole24Ore”, 11 febbraio) e così via continuando per la moda e la meccatronica, la chimica e l’industria agroalimentare.
L’allarme arriva anche dalla Banca d’Italia: per attuare tempestivamente ed efficacemente il Pnrr servirebbero 375mila nuovi lavoratori, dagli operai alle figure tecniche più specializzate, anche nella Pubblica amministrazione. Peccato che non si trovino (“la Repubblica”, 7 febbraio).
Eccoci dunque al paradosso: abbiamo una macchina produttiva che continua a fare dell’Italia il secondo paese manifatturiero europeo, con presenze sempre maggiori nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati globali ma ci manca il capitale necessario per continuare a crescere: le persone. E centinaia di migliaia di nostri giovani se ne vanno all’estero, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita (ne abbiamo parlato più volte in questi blog).
Ci sono, da questo punto di vista, problemi irrisolti di formazione universitaria (sempre troppo pochi laureati nelle materie Stem: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Di condizioni sociali per fare aumentare radicalmente la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Di salari e stipendi. Di qualità del lavoro e soddisfazione di prospettive in un panorama di imprese troppo piccole e spesso managerialmente poco evolute.
Di certo, la doppia questione legata all’incrocio tra formazione e occupazione, ai rapporti tra scuola e impresa dovrebbe stare in cima all’elenco degli interessi e degli impegni del governo e della politica in generale. Come purtroppo ancora non avviene.

C’è, sullo sfondo, il grande tema della demografia. Siamo un paese che invecchia e in cui il calo demografico è sempre più accentuato. Fra trent’anni, il 35% degli italiani avranno da 65 anni in su, mentre oggi sono meno del 25%, con effetti di grande distorsione del bilancio pubblico, per l’incremento delle spese previdenziali, sanitarie e assistenziali. E si modificherà radicalmente anche il mercato del lavoro: oggi il rapporto tra persone in età lavorativa (15/64 anni) e non (0/15 anni e 65 anni e oltre) è di tre a due, mentre nel 2050 sarà di uno a uno. Tutto un altro mondo, un altro equilibrio sociale, un’altra struttura dei conti pubblici.
Le tendenze al cambiamento demografico, si sa, sono di lungo periodo. Ma le politiche legate agli stimoli per l’aumento della natalità vanno costruite subito, per avere effetti tra vent’anni.
Nel frattempo, per bilanciare il declino demografico italiano e modificare in positivo, con nuove risorse, il mercato del lavoro e dunque la produzione di ricchezza e il benessere collettivo, l’unica strada è impostare sapienti e lungimiranti politiche di immigrazione: “Le imprese al governo: l’Italia ha bisogno di 200mila migranti”, titola “la Repubblica” (6 marzo). Bisogna insomma considerare “gli immigrati come ricchezza” (Linda Laura Sabbadini “la Repubblica”, 3 marzo). Legare cioè le ragioni umanitarie e civili dell’accoglienza, peraltro tipiche della storia e della tradizione culturale italiana, mediterranea e inclusiva, con una ragionevole considerazione degli interessi futuri, in un sistema di opportunità e regole, formazione e valorizzazione dell’intraprendenza. Essere, insomma, un’Italia attrattiva e produttiva per ragazze e ragazzi che, venendo dal resto del mondo, proprio qui possano studiare, lavorare, progettare un migliore futuro. In un Paese, la Bell’Italia, appunto, che eviti il declino insito nell’essere “pessimista e mesta… impaurita e triste” (Berta Isla, “Il Foglio”, 5 marzo).

(foto: Getty Images)

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