Disagio sociale e rancori aggravano la crisi della “cittadella liberale”: che risposte dare?
“Mercato, democrazia rappresentativa e globalizzazione sono sul banco degli imputati”. E “non sono le invasioni dei nuovi barbari a minacciare la cittadella liberale, sono le fondamenta della cittadella stessa a dare segni di cedimento”. Il giudizio è di Mattia Ferraresi, brillante giornalista, che da New York racconta gli Usa ai lettori de “Il Foglio”. E sta nelle pagine de “Il secolo greve”, un’analisi lucida, pubblicata da Marsilio, che va “alle origini del nuovo disordine globale”. Quel “greve” che contraddistingue i nostri faticosi e controversi Anni Duemila indica pesantezza, oppressione psicologica, dolore ma anche volgarità. E’ la cifra distintiva di tempi in cui il discorso pubblico s’è ridotto a schematici slogan partigiani e il linguaggio della politica, anche ad alti livelli istituzionali, non risponde più ai criteri della dialettica, della retorica, della costruzione del consenso ma serve solo ad aizzare i fans e insultare “i nemici”.
L’inchiesta di Ferraresi è dunque politica, sociale e culturale. Guarda all’attualità degli Stati Uniti, nella stagione della presidenza Trump, oramai arrivata a un anno di vita. Cerca le ragioni d’una insofferenza radicale per le culture del cosiddetto “ordine liberale” (appunto la democrazia rappresentativa, il mercato, le relazioni internazionali di colloquio e scambio, tutto quello che un grande scienziato liberale, Karl Popper, aveva sinteticamente chiamato “la società aperta”). E avverte: “Le recrudescenze dei nazionalismi, il mito dello strongman, la ruggente politica dell’identità sono scomposte conseguenze di un disagio: sottovalutarlo significa voltarsi dall’altra parte nella speranza che gli impresentabili populisti vengano sconfitti e la malattia scompaia da sé”.
Ecco una parola chiave. Disagio. Un tema sempre più attuale: “Left behind – How to help places hurt by globalisation”, aveva titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre 2017 per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva (ne avevamo parlato nel blog del 7 novembre scorso).
Un disagio economico (i ceti medi che non hanno avuto alcun reale vantaggio economico dalla globalizzazione e anzi hanno subìto le conseguenze negative delle radicali modifiche produttive, in termini di salari e posti di lavoro). E un disagio sociale e culturale, che investe gran parte delle nuove generazioni. Quelle, per esempio, dei trentenni e quarantenni, che è stata illusa dalle promesse d’un migliore futuro da effetti positivi di liberalizzazioni, flessibilità e globalizzazione e oggi invece vive nello sconforto dei sogni rimpiccioliti, immiseriti, infranti, del lavoro precario, delle immiserite prospettive di crescita. Le dà voce, tra gli altri, Raffaele Alberto Ventura in “Teoria della classe disagiata”, minimum fax. Documentando le crepe d’un minuscolo individualismo, le conseguenze della frattura del “patto generazionale”, i limiti d’una cultura “ridotta al mercato”. Un altro grave elemento di crisi politica e sociale, di sfiducia nella politica, nelle istituzioni (l’Europa, tra le altre), nelle possibilità di futuro. Facendo crescere “il rancore” (come documentato dall’ultimo Rapporto Censis) e i “risentimenti”: alimenti psicologici cinicamente sfruttati da chi, in politica, alimenta paura e vende rivolte, non responsabili riforme.
In stagioni di così radicali cambiamenti economici e sociali succede, appunto, che aumentino le diseguaglianze e le ingiustizie. Le due questioni sono ben diverse tra loro, come spiega Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015 (“IlSole24Ore”, 27 dicembre 2017): le prime fanno parte del ciclo economico e hanno anche aspetti positivi (stimolano competizione, mostrano gli effetti del premio al merito), purché non eccessive. Le seconde vengono giustamente percepite negativamente. Il problema politico con cui fare i conti, nel “secolo greve”, è la qualità della risposta.
Torna in mente l’antica lezione di Karl Marx: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi meriti” (una frase diventata poi riferimento per ogni legislazione liberale, riformista, socialdemocratica). Ma anche la sfida, ancora aperta di coniugare libertà e giustizia sociale (“Giustizia e libertà” è uno slogan che appartiene alla migliore cultura politica, quella dei liberali e democratici come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e poi Norberto Bobbio e gli originali “radicali” riuniti attorno alle pagine de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, da recuperare al discorso pubblico contemporaneo).
Temi forti, su cui approfondire le riflessioni, anche con filosofi attenti ai temi dell’etica pubblica e della responsabilità. Come Martha C. Nussbaum in “Rabbia e perdono – La generosità come giustizia”, Il Mulino. Nella società in cui crescono intolleranze e rancori e vengono messe in discussioni le ragioni stesse della convivenza civile, in nome di nazionalismi, razzismi e populismi antichi e nuovi, vale la pena andare alle radici dei sistemi di relazione, nelle piccole e grandi comunità. La Nussbaum insiste sull’analisi della “rabbia”, “velenosa e popolare”, legata “all’affermazione del rispetto personale, negli uomini alla virilità e nelle donne alla rivendicazione dell’eguaglianza”. Giuste partenze, spesso. Che però, distorte anche dalla pervasività dei nuovi media, alimentano circuiti viziosi di conflitti e contrapposizioni. Meglio, suggerisce la Nussbaum, rivedere le idee di perdono, punizione e giustizia, invocando “meno vendetta e più riconciliazione”: “L’ingiustizia dev’essere contrastata con un’azione coraggiosa ma soprattutto strategica. Costruire un mondo umanamente ‘abitabile’ richiede intelligenza, autocontrollo e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male”. E’ un forte impegno morale. Ma anche un lungimirante discorso sulla sopravvivenza della democrazia.
Accanto alla lungimiranza, c’è l’urgenza, per evitare che degrado e disagio si aggravino. E per non fare passare inutilmente altro tempo.
C’era chi aveva già visto chiaro, nelle tendenze di crisi, più di vent’anni fa. Ma non era stato ascoltato. Come Christopher Lasch, uno dei maggiori storici delle idee, autore nel 1994 di “La ribellione delle élite”, pubblicato allora in Italia da Feltrinelli: la perdita del contatto tra aristocrazie economiche ed intellettuali e “la gente normale”, il multiculturalismo snob, il liberalismo benestante di finanzieri, manager, artisti di successo e comunicatori, smart people sempre in viaggio, in movimento, pervasi da “una visione turistica del mondo”. Sono state le élite a “ribellarsi” alla masse, argomentava provocatoriamente Lasch, criticando con sguardo da uomo di sinistra una serie di vizi che già allora stavano minando le fondamenta solidali della stessa democrazia americana (alcuni di quegli atteggiamenti da “radical chic” erano stati messi in ridicolo, già nel 1970, dalle polemiche di Tom Wolfe, scrittore conservatore). Adesso il libro è di nuovo salito alla ribalta, riletto e rilanciato da uomini di destra, come Steve Bannon, a lungo sostenitore della presidenza Trump (ha strani percorsi, la storia…). E torna in libreria anche in Italia, pubblicato da Neri Pozza, con un nuovo titolo, “La rivolta delle élite” e un sottotitolo esplicito: “Il tradimento della democrazia”. Con un suggerimento ancora valido, per evitare nuove fratture tra poteri economici e culturali e middle class, alimentando così gravi populismi: costruire comunità fondate su valori condivisi, confronto aperto, inclusione sociale, eguaglianza delle opportunità, competenze responsabili, mutua collaborazione. Ridare, insomma, attualità alla buona democrazia e all’economia “civile”.
“Mercato, democrazia rappresentativa e globalizzazione sono sul banco degli imputati”. E “non sono le invasioni dei nuovi barbari a minacciare la cittadella liberale, sono le fondamenta della cittadella stessa a dare segni di cedimento”. Il giudizio è di Mattia Ferraresi, brillante giornalista, che da New York racconta gli Usa ai lettori de “Il Foglio”. E sta nelle pagine de “Il secolo greve”, un’analisi lucida, pubblicata da Marsilio, che va “alle origini del nuovo disordine globale”. Quel “greve” che contraddistingue i nostri faticosi e controversi Anni Duemila indica pesantezza, oppressione psicologica, dolore ma anche volgarità. E’ la cifra distintiva di tempi in cui il discorso pubblico s’è ridotto a schematici slogan partigiani e il linguaggio della politica, anche ad alti livelli istituzionali, non risponde più ai criteri della dialettica, della retorica, della costruzione del consenso ma serve solo ad aizzare i fans e insultare “i nemici”.
L’inchiesta di Ferraresi è dunque politica, sociale e culturale. Guarda all’attualità degli Stati Uniti, nella stagione della presidenza Trump, oramai arrivata a un anno di vita. Cerca le ragioni d’una insofferenza radicale per le culture del cosiddetto “ordine liberale” (appunto la democrazia rappresentativa, il mercato, le relazioni internazionali di colloquio e scambio, tutto quello che un grande scienziato liberale, Karl Popper, aveva sinteticamente chiamato “la società aperta”). E avverte: “Le recrudescenze dei nazionalismi, il mito dello strongman, la ruggente politica dell’identità sono scomposte conseguenze di un disagio: sottovalutarlo significa voltarsi dall’altra parte nella speranza che gli impresentabili populisti vengano sconfitti e la malattia scompaia da sé”.
Ecco una parola chiave. Disagio. Un tema sempre più attuale: “Left behind – How to help places hurt by globalisation”, aveva titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre 2017 per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva (ne avevamo parlato nel blog del 7 novembre scorso).
Un disagio economico (i ceti medi che non hanno avuto alcun reale vantaggio economico dalla globalizzazione e anzi hanno subìto le conseguenze negative delle radicali modifiche produttive, in termini di salari e posti di lavoro). E un disagio sociale e culturale, che investe gran parte delle nuove generazioni. Quelle, per esempio, dei trentenni e quarantenni, che è stata illusa dalle promesse d’un migliore futuro da effetti positivi di liberalizzazioni, flessibilità e globalizzazione e oggi invece vive nello sconforto dei sogni rimpiccioliti, immiseriti, infranti, del lavoro precario, delle immiserite prospettive di crescita. Le dà voce, tra gli altri, Raffaele Alberto Ventura in “Teoria della classe disagiata”, minimum fax. Documentando le crepe d’un minuscolo individualismo, le conseguenze della frattura del “patto generazionale”, i limiti d’una cultura “ridotta al mercato”. Un altro grave elemento di crisi politica e sociale, di sfiducia nella politica, nelle istituzioni (l’Europa, tra le altre), nelle possibilità di futuro. Facendo crescere “il rancore” (come documentato dall’ultimo Rapporto Censis) e i “risentimenti”: alimenti psicologici cinicamente sfruttati da chi, in politica, alimenta paura e vende rivolte, non responsabili riforme.
In stagioni di così radicali cambiamenti economici e sociali succede, appunto, che aumentino le diseguaglianze e le ingiustizie. Le due questioni sono ben diverse tra loro, come spiega Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015 (“IlSole24Ore”, 27 dicembre 2017): le prime fanno parte del ciclo economico e hanno anche aspetti positivi (stimolano competizione, mostrano gli effetti del premio al merito), purché non eccessive. Le seconde vengono giustamente percepite negativamente. Il problema politico con cui fare i conti, nel “secolo greve”, è la qualità della risposta.
Torna in mente l’antica lezione di Karl Marx: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi meriti” (una frase diventata poi riferimento per ogni legislazione liberale, riformista, socialdemocratica). Ma anche la sfida, ancora aperta di coniugare libertà e giustizia sociale (“Giustizia e libertà” è uno slogan che appartiene alla migliore cultura politica, quella dei liberali e democratici come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e poi Norberto Bobbio e gli originali “radicali” riuniti attorno alle pagine de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, da recuperare al discorso pubblico contemporaneo).
Temi forti, su cui approfondire le riflessioni, anche con filosofi attenti ai temi dell’etica pubblica e della responsabilità. Come Martha C. Nussbaum in “Rabbia e perdono – La generosità come giustizia”, Il Mulino. Nella società in cui crescono intolleranze e rancori e vengono messe in discussioni le ragioni stesse della convivenza civile, in nome di nazionalismi, razzismi e populismi antichi e nuovi, vale la pena andare alle radici dei sistemi di relazione, nelle piccole e grandi comunità. La Nussbaum insiste sull’analisi della “rabbia”, “velenosa e popolare”, legata “all’affermazione del rispetto personale, negli uomini alla virilità e nelle donne alla rivendicazione dell’eguaglianza”. Giuste partenze, spesso. Che però, distorte anche dalla pervasività dei nuovi media, alimentano circuiti viziosi di conflitti e contrapposizioni. Meglio, suggerisce la Nussbaum, rivedere le idee di perdono, punizione e giustizia, invocando “meno vendetta e più riconciliazione”: “L’ingiustizia dev’essere contrastata con un’azione coraggiosa ma soprattutto strategica. Costruire un mondo umanamente ‘abitabile’ richiede intelligenza, autocontrollo e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male”. E’ un forte impegno morale. Ma anche un lungimirante discorso sulla sopravvivenza della democrazia.
Accanto alla lungimiranza, c’è l’urgenza, per evitare che degrado e disagio si aggravino. E per non fare passare inutilmente altro tempo.
C’era chi aveva già visto chiaro, nelle tendenze di crisi, più di vent’anni fa. Ma non era stato ascoltato. Come Christopher Lasch, uno dei maggiori storici delle idee, autore nel 1994 di “La ribellione delle élite”, pubblicato allora in Italia da Feltrinelli: la perdita del contatto tra aristocrazie economiche ed intellettuali e “la gente normale”, il multiculturalismo snob, il liberalismo benestante di finanzieri, manager, artisti di successo e comunicatori, smart people sempre in viaggio, in movimento, pervasi da “una visione turistica del mondo”. Sono state le élite a “ribellarsi” alla masse, argomentava provocatoriamente Lasch, criticando con sguardo da uomo di sinistra una serie di vizi che già allora stavano minando le fondamenta solidali della stessa democrazia americana (alcuni di quegli atteggiamenti da “radical chic” erano stati messi in ridicolo, già nel 1970, dalle polemiche di Tom Wolfe, scrittore conservatore). Adesso il libro è di nuovo salito alla ribalta, riletto e rilanciato da uomini di destra, come Steve Bannon, a lungo sostenitore della presidenza Trump (ha strani percorsi, la storia…). E torna in libreria anche in Italia, pubblicato da Neri Pozza, con un nuovo titolo, “La rivolta delle élite” e un sottotitolo esplicito: “Il tradimento della democrazia”. Con un suggerimento ancora valido, per evitare nuove fratture tra poteri economici e culturali e middle class, alimentando così gravi populismi: costruire comunità fondate su valori condivisi, confronto aperto, inclusione sociale, eguaglianza delle opportunità, competenze responsabili, mutua collaborazione. Ridare, insomma, attualità alla buona democrazia e all’economia “civile”.