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I finanziamenti per fare sopravvivere le imprese:
il fattore tempo è fondamentale per evitare il crollo

Le imprese italiane, soprattutto quelle piccole, sono strette in una morsa da cui, nonostante le continue promesse del governo, non riescono a uscire. Nei mesi della pandemia non lavorano, non consegnano, non fatturano, non incassano. Fabbriche ferme, laboratori artigiani chiusi, servizi bloccati, dai ristoranti ai bar, dagli alberghi ai centri sportivi a tante altre attività commerciali. Chiusi i teatri e i cinema. Chiuse gran parte delle librerie. Per tutti, c’è una diffusa, crescente paura: non avere più il fiato per ricominciare, quando il lockdown finalmente sarà attenuato o finirà. Servono soldi, liquidità immediata, per continuare a vivere. Se non un helicopter money, una distribuzione immediata di denaro per tutti, come se cadesse da un elicottero, come se piovesse dal cielo, almeno una rapida rete di finanziamento per non fare crollare il dinamismo dell’economia. Non si tratta solo di distribuire sussidi a chi, nell’emergenza, chiede un reddito per andare pur faticosamente avanti. Ma di consentire tempestivamente agli attori economici di continuare a fare il loro mestiere, produrre, creare ricchezza e lavoro.

Il presidente del Consiglio Conte lo sa bene. Tanto che il 6 aprile aveva definito “poderoso” l’intervento finanziario per gli operatori economici piccoli e medi: 400 miliardi, metà per il mercato interno e l’altra metà per sostenere l’export. “Una potenza di fuoco”, aveva aggiunto, facendosi coinvolgere anche lui dal linguaggio guerresco di questi tempi difficili. Due giorni dopo, ecco il Decreto Liquidità. E l’avvio dell’iter, che coinvolge la Sace (la società pubblica che sostiene il credito all’export), il ministero dell’Economia, il Fondo centrale di garanzia, le banche.

L’annuncio del presidente del Consiglio ha dato speranze a migliaia di imprenditori: un soccorso per l’emergenza, con prestiti rapidi, a bassissimo tasso di interesse, garantiti dallo Stato. Ma, a tre settimane dall’annuncio “poderoso”, la maggior parte degli operatori economici non ha visto un euro.

“Un’occasione che sta finendo nella palude della burocrazia”, ha denunciato ieri Ferruccio de Bortoli su “L’Economia del Corriere della Sera”. Eccezion fatta per poche banche, per molti istituti è tutto ancora bloccato: “Il 70%” del sistema è fermo”, denunciano i sindacati dei bancari. Non sono chiari i passaggi tra gli enti coinvolti per il finanziamento, non sono allineati i sistemi informatici, restano in piedi molti vincoli di documentazione. 19 documenti per un prestito da 25mila euro, aveva calcolato, sempre sul “Corriere della Sera”, Dario Di Vico. E i dirigenti di banca, in mancanza di una manleva che li sollevi dalle responsabilità giudiziarie per le istruttorie frettolose e non in linea con le lunghe procedure tradizionali volute dalla Bce, non firmano le pratiche dei finanziamenti.

Ecco il paradosso: i soldi ci sono, ma non arrivano ai destinatari. E i destinatari sanno che ogni giorno che passa, la loro impresa va sempre più vicina alla chiusura. Anche altro non arriva, nonostante gli impegni: i 600 euro per i lavoratori autonomi, i soldi della cassa integrazione per i lavoratori dipendenti delle imprese chiuse. Mentre tutto il Paese resiste al virus e fa di tutto per evitare il contagio, un’altra minaccia si fa via via più terribile: il crollo economico. Sembra una beffa. Perché i soldi, sulla carta, ci sono: la Bce ha messo in gioco finanziamenti enormi (almeno 750 miliardi di euro), il Patto di Stabilità Ue è stato sospeso e l’Italia può indebitarsi senza i tradizionali vincoli per sostenere la ripresa, sullo sfondo si intravvedono fondi per un Recovery Plan europeo da 1500 miliardi, per la fase della ripartenza.

Soldi all’orizzonte. Ma non in tasca.

Ecco il punto: di fronte alla conseguenze della pandemia del coronavirus, moltissimi sono gli annunci politici, monumentali e complessi i documenti con le istruzioni del governo, senza effetti le promesse. Ieri sera, nel corso di un incontro a Milano, il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, presidente designato di Confindustria, e il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli hanno ripetuto al premier Conte l’urgenza assoluta degli interventi e suggerito strumenti concreti per fare arrivare subito i soldi alle imprese. Ne hanno avuto in risposta solo generiche rassicurazioni. Il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, in un’intervista a “Il Sole24Ore”, ha annunciato 15 miliardi per le piccole imprese, anche con contributi a fondo perduto e ingresso dello Stato nel capitale delle imprese, per un periodo di tempo limitato a sei anni. Un altro annuncio di buona volontà. Gli effetti concreti? Non c’è molto tempo, per stare a guardare

“Senza inserire liquidità nelle piccole aziende il sistema si blocca”, ricorda con grande preoccupazione Carlo Robiglio, presidente della Piccola Impresa di Confindustria: “Servono 15 miliardi di euro entro questa settimana”.

Adesso si spera che, dopo tre settimane di inutili attese, finalmente qualcosa molto concretamente si si muova.

L’inchiesta de “L’Economia del Corriere della Sera” documenta come Germania, Spagna e Svizzera abbiano fatto di più, meglio e più velocemente dell’Italia, aiutando concretamente e rapidamente le loro imprese a sopravvivere e mettendole in una più forte posizione competitiva.

La sensazione è che nelle stanze del governo e dei partiti si abbia una carente conoscenza dei meccanismi dell’economia e non si percepisca l’urgenza non di scelte generali, ma di concretezza di provvedimenti. E il tempo è un fattore chiave. Le imprese non meritano che passi inutilmente, fino al disastro. Non solo delle imprese stesse. Ma di gran parte dell’economia italiana.

Le imprese italiane, soprattutto quelle piccole, sono strette in una morsa da cui, nonostante le continue promesse del governo, non riescono a uscire. Nei mesi della pandemia non lavorano, non consegnano, non fatturano, non incassano. Fabbriche ferme, laboratori artigiani chiusi, servizi bloccati, dai ristoranti ai bar, dagli alberghi ai centri sportivi a tante altre attività commerciali. Chiusi i teatri e i cinema. Chiuse gran parte delle librerie. Per tutti, c’è una diffusa, crescente paura: non avere più il fiato per ricominciare, quando il lockdown finalmente sarà attenuato o finirà. Servono soldi, liquidità immediata, per continuare a vivere. Se non un helicopter money, una distribuzione immediata di denaro per tutti, come se cadesse da un elicottero, come se piovesse dal cielo, almeno una rapida rete di finanziamento per non fare crollare il dinamismo dell’economia. Non si tratta solo di distribuire sussidi a chi, nell’emergenza, chiede un reddito per andare pur faticosamente avanti. Ma di consentire tempestivamente agli attori economici di continuare a fare il loro mestiere, produrre, creare ricchezza e lavoro.

Il presidente del Consiglio Conte lo sa bene. Tanto che il 6 aprile aveva definito “poderoso” l’intervento finanziario per gli operatori economici piccoli e medi: 400 miliardi, metà per il mercato interno e l’altra metà per sostenere l’export. “Una potenza di fuoco”, aveva aggiunto, facendosi coinvolgere anche lui dal linguaggio guerresco di questi tempi difficili. Due giorni dopo, ecco il Decreto Liquidità. E l’avvio dell’iter, che coinvolge la Sace (la società pubblica che sostiene il credito all’export), il ministero dell’Economia, il Fondo centrale di garanzia, le banche.

L’annuncio del presidente del Consiglio ha dato speranze a migliaia di imprenditori: un soccorso per l’emergenza, con prestiti rapidi, a bassissimo tasso di interesse, garantiti dallo Stato. Ma, a tre settimane dall’annuncio “poderoso”, la maggior parte degli operatori economici non ha visto un euro.

“Un’occasione che sta finendo nella palude della burocrazia”, ha denunciato ieri Ferruccio de Bortoli su “L’Economia del Corriere della Sera”. Eccezion fatta per poche banche, per molti istituti è tutto ancora bloccato: “Il 70%” del sistema è fermo”, denunciano i sindacati dei bancari. Non sono chiari i passaggi tra gli enti coinvolti per il finanziamento, non sono allineati i sistemi informatici, restano in piedi molti vincoli di documentazione. 19 documenti per un prestito da 25mila euro, aveva calcolato, sempre sul “Corriere della Sera”, Dario Di Vico. E i dirigenti di banca, in mancanza di una manleva che li sollevi dalle responsabilità giudiziarie per le istruttorie frettolose e non in linea con le lunghe procedure tradizionali volute dalla Bce, non firmano le pratiche dei finanziamenti.

Ecco il paradosso: i soldi ci sono, ma non arrivano ai destinatari. E i destinatari sanno che ogni giorno che passa, la loro impresa va sempre più vicina alla chiusura. Anche altro non arriva, nonostante gli impegni: i 600 euro per i lavoratori autonomi, i soldi della cassa integrazione per i lavoratori dipendenti delle imprese chiuse. Mentre tutto il Paese resiste al virus e fa di tutto per evitare il contagio, un’altra minaccia si fa via via più terribile: il crollo economico. Sembra una beffa. Perché i soldi, sulla carta, ci sono: la Bce ha messo in gioco finanziamenti enormi (almeno 750 miliardi di euro), il Patto di Stabilità Ue è stato sospeso e l’Italia può indebitarsi senza i tradizionali vincoli per sostenere la ripresa, sullo sfondo si intravvedono fondi per un Recovery Plan europeo da 1500 miliardi, per la fase della ripartenza.

Soldi all’orizzonte. Ma non in tasca.

Ecco il punto: di fronte alla conseguenze della pandemia del coronavirus, moltissimi sono gli annunci politici, monumentali e complessi i documenti con le istruzioni del governo, senza effetti le promesse. Ieri sera, nel corso di un incontro a Milano, il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, presidente designato di Confindustria, e il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli hanno ripetuto al premier Conte l’urgenza assoluta degli interventi e suggerito strumenti concreti per fare arrivare subito i soldi alle imprese. Ne hanno avuto in risposta solo generiche rassicurazioni. Il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, in un’intervista a “Il Sole24Ore”, ha annunciato 15 miliardi per le piccole imprese, anche con contributi a fondo perduto e ingresso dello Stato nel capitale delle imprese, per un periodo di tempo limitato a sei anni. Un altro annuncio di buona volontà. Gli effetti concreti? Non c’è molto tempo, per stare a guardare

“Senza inserire liquidità nelle piccole aziende il sistema si blocca”, ricorda con grande preoccupazione Carlo Robiglio, presidente della Piccola Impresa di Confindustria: “Servono 15 miliardi di euro entro questa settimana”.

Adesso si spera che, dopo tre settimane di inutili attese, finalmente qualcosa molto concretamente si si muova.

L’inchiesta de “L’Economia del Corriere della Sera” documenta come Germania, Spagna e Svizzera abbiano fatto di più, meglio e più velocemente dell’Italia, aiutando concretamente e rapidamente le loro imprese a sopravvivere e mettendole in una più forte posizione competitiva.

La sensazione è che nelle stanze del governo e dei partiti si abbia una carente conoscenza dei meccanismi dell’economia e non si percepisca l’urgenza non di scelte generali, ma di concretezza di provvedimenti. E il tempo è un fattore chiave. Le imprese non meritano che passi inutilmente, fino al disastro. Non solo delle imprese stesse. Ma di gran parte dell’economia italiana.

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