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La pandemia da virus svela la fragilità delle società complesse ma rilancia l’importanza di scienza, conoscenza e buona sanità

Il coronavirus passerà, come tutte le infezioni, le crisi, i drammi della vita e della storia. Passerà, prima o poi, con il suo carico di vittime e di dolore nel corpo e nell’anima. E’ indispensabile, però, che non passi la lezione che dovremmo aver cominciato a imparare. Se la crisi è pericolo ma anche opportunità, rischio e scelta, allora vale la pena fermarsi a riflettere sui valori e sui significati d’una vera e propria svolta nella nostra storia sociale. Lo sguardo, in queste righe, è soprattutto sull’Italia, ben sapendo, comunque, che siamo di fronte a un fenomeno globale.

La prima dimensione con cui fare i conti è la fragilità. Le società sempre più articolate e complesse in cui viviamo sono molto fragili. Esprimono, è vero, straordinarie possibilità di crescita, dati i progressi di scienza e tecnologia su tutti i fronti dell’innovazione. Ma sono estremamente sensibili a fratture, cambiamenti, effetti inattesi. Vivono di sofisticati legami digitali, sofisticati sistemi di relazione, veloci interconnessioni materiali e virtuali. Subiscono le radicali e controverse conseguenze dell’ampliamento dell’incidenza dell’Intelligenza Artificiale su tanti aspetti dell’economia, del lavoro e della stessa vita quotidiana. Manifestano una forte potenza di crescita. Ma si rivelano carenti sui meccanismi di gestione e di controllo.

Delle sinergie tra globalizzazione e strumenti delle tecnologie digitali sono state esaltate la forza, il successo, l’eccezionalità dei processi di cambiamento e il dirompente dinamismo economico. Ma se ne sono trascurale proprio le complessità, le contraddizioni, gli squilibri, le diseguaglianze che determinano. Le fragilità, appunto. Oggi la crisi globale da coronavirus presenta il conto.

Le nostre esistenze, gli equilibri economici, le abitudini sociali possono essere sconvolte da un “cigno nero”, un evento inatteso e dirompente, per usare il titolo d’un libro del 2007 di Nissim N. Taleb, studioso di epistemologia e finanza (il sottotitolo è “Come l’improbabile governa la nostra vita”). Sono fragili le nostre vite, di fronte alle nuove pandemie che dilagano, favorite proprio dalle interconnessioni geografiche e sociali. Sono fragili le relazioni sociali che riguardano anche i nuclei familiari. Sono fragili gli stessi sistemi di governo di tutti i processi di produzione e servizi, sotto attacco da attori oscuri del cyber crime. Sono fragili i meccanismi della comunicazione e dell’informazione, per effetto del dilagare delle fake news sui social media e dell’improvvisazione di pareri e giudizi inconsapevoli e incompetenti. E sono fragili i sistemi economici, per l’integrazione internazionale delle nuove catene del valore: le imprese italiane ne sono state protagoniste di successo, con conseguenze sinora positive, ma adesso con ricadute di pesante difficoltà, che mettono in ginocchio uno dei beni più preziosi, le nostre industrie, da salvaguardare e rimettere, con essenziali scelte politiche, in condizione di ricominciare a crescere.

Adesso, dopo anni segnati da una sorta di delirio d’onnipotenza per “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità (vale la pena rileggere Leopardi, per rafforzare la nostra coscienza critica), scopriamo, appunto, la nostra fragilità. Con sgomento, con dolore. Con paura. Ma è tutto sommato una scoperta positiva. La presa d’atto della fragilità è già un punto di forza e una leva per la possibile rinascita.

“Power is nothing without control” era uno slogan di successo della pubblicità Pirelli nei primi anni Novanta. Al di là del senso diretto di comunicazione, coglieva in anticipo lo spirito dei tempi lunghi che si andavano preparando, il passaggio dall’hard power al soft power (ben teorizzato, all’inizio del Duemila, da un politologo acuto come Joseph Nye). E insisteva non solo sulla potenza (velocità, tecnologie, successo, performance da primato) ma soprattutto sul controllo, l’equilibrio, la responsabilità. Oggi quello slogan riconferma la sua attualità, come sintesi generale di un mondo che, scoperta la propria fragilità, va in cerca di condizioni di sviluppo migliori, più equilibrate e sostenibili.

C’è un altro punto positivo, nella ruvida condizione di questi giorni, su cui rafforzare le nostre consapevolezze: l’emergere diffuso d’una fiducia nella scienza, nella conoscenza dei meccanismi sanitari e sociali, nella competenza dei medici e degli infermieri. Dopo anni incoscienti di “no vax”, di pregiudizi anti-scientifici, di elogio dell’“uno vale uno” e di arrogante esibizione dell’ignoranza e dell’incompetenza (sino a farne bandiera politica da movimento anti élite e strumento di carriere personali), adesso, di fronte alle questioni che investono in pieno la vita e la morte, si torna finalmente a dare ascolto alla parola di chi sa, ha studiato, ha competenza su cosa e come fare. I nemici della conoscenza finiscono nell’angolo.

Nel riaffidarsi alla scienza emergono alcune altre considerazioni. La scienza non è il luogo delle verità indiscusse e indiscutibili. Il processo scientifico va avanti per trials and errors, ricerca, sperimentazione, errore, ripresa. Le conoscenze che progrediscono mettono da canto conoscenze precedenti. La relatività è un principio fondante dei processi di scoperta, verso orizzonti incerti, da confermare, verificare e poi ancora una volta superare. Lo scienziato non è né un mago (di pensiero magico ne abbiamo avute fin troppe manifestazioni, anche in questi anni confusi) né un miracoloso taumaturgo. Dunque, riscoprire la scienza, ridarle valore e rimetterla al centro degli interessi privati e pubblici, con tutto il carico dei suoi dubbi e della sua strutturale condizione di mondo della ricerca, significa anche sapere fare scelte pubbliche responsabili.

Considerare la scienza un “bene comune”, infatti, richiede investimenti pubblici di grande respiro e di lungo periodo su formazione, ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, orientando in questa direzione parte consistente della spesa pubblica, nazionale ed europea e sollecitando, anche fiscalmente, gli investimenti privati. Proprio il contrario di quel che si è fatto finora.

Bene comune la ricerca. Come la scuola. E come la sanità. Beni essenziali d’una comunità coesa e responsabile.

Il sistema sanitario nazionale, di fronte a prove durissime, sta dando buona prova di sè, grazie anche al senso di responsabilità, alla cultura e all’abnegazione di medici e infermieri. E’ un patrimonio sociale che va salvaguardato e, in prospettiva, rafforzato. In Lombardia, in Veneto, in Emilia, è fondato anche su una stretta collaborazione tra il pubblico e il privato che svolge un ruolo pubblico, in una sintesi originale tra competizione e collaborazione, assistenza diffusa e sussidiarietà. E’ una strada da continuare a percorrere.

Se il coronavirus può essere il nostro “cigno nero” (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), dobbiamo prendere atto che, dalle nostre incertezze e dalle nostre fragilità, possiamo uscire. Anche ritrovando un forte spirito di comunità, di coesione, di solidarietà nazionale.

Gira molto, proprio in questi giorni, sul web, una frase esemplare: “Il primo nostro dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. E’ di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio nell’Italia del dopoguerra, pronta a uscire dalle macerie materiali e morali della guerra e del fascismo e ricominciare a vivere. Vale la pena farne tesoro.

Il coronavirus passerà, come tutte le infezioni, le crisi, i drammi della vita e della storia. Passerà, prima o poi, con il suo carico di vittime e di dolore nel corpo e nell’anima. E’ indispensabile, però, che non passi la lezione che dovremmo aver cominciato a imparare. Se la crisi è pericolo ma anche opportunità, rischio e scelta, allora vale la pena fermarsi a riflettere sui valori e sui significati d’una vera e propria svolta nella nostra storia sociale. Lo sguardo, in queste righe, è soprattutto sull’Italia, ben sapendo, comunque, che siamo di fronte a un fenomeno globale.

La prima dimensione con cui fare i conti è la fragilità. Le società sempre più articolate e complesse in cui viviamo sono molto fragili. Esprimono, è vero, straordinarie possibilità di crescita, dati i progressi di scienza e tecnologia su tutti i fronti dell’innovazione. Ma sono estremamente sensibili a fratture, cambiamenti, effetti inattesi. Vivono di sofisticati legami digitali, sofisticati sistemi di relazione, veloci interconnessioni materiali e virtuali. Subiscono le radicali e controverse conseguenze dell’ampliamento dell’incidenza dell’Intelligenza Artificiale su tanti aspetti dell’economia, del lavoro e della stessa vita quotidiana. Manifestano una forte potenza di crescita. Ma si rivelano carenti sui meccanismi di gestione e di controllo.

Delle sinergie tra globalizzazione e strumenti delle tecnologie digitali sono state esaltate la forza, il successo, l’eccezionalità dei processi di cambiamento e il dirompente dinamismo economico. Ma se ne sono trascurale proprio le complessità, le contraddizioni, gli squilibri, le diseguaglianze che determinano. Le fragilità, appunto. Oggi la crisi globale da coronavirus presenta il conto.

Le nostre esistenze, gli equilibri economici, le abitudini sociali possono essere sconvolte da un “cigno nero”, un evento inatteso e dirompente, per usare il titolo d’un libro del 2007 di Nissim N. Taleb, studioso di epistemologia e finanza (il sottotitolo è “Come l’improbabile governa la nostra vita”). Sono fragili le nostre vite, di fronte alle nuove pandemie che dilagano, favorite proprio dalle interconnessioni geografiche e sociali. Sono fragili le relazioni sociali che riguardano anche i nuclei familiari. Sono fragili gli stessi sistemi di governo di tutti i processi di produzione e servizi, sotto attacco da attori oscuri del cyber crime. Sono fragili i meccanismi della comunicazione e dell’informazione, per effetto del dilagare delle fake news sui social media e dell’improvvisazione di pareri e giudizi inconsapevoli e incompetenti. E sono fragili i sistemi economici, per l’integrazione internazionale delle nuove catene del valore: le imprese italiane ne sono state protagoniste di successo, con conseguenze sinora positive, ma adesso con ricadute di pesante difficoltà, che mettono in ginocchio uno dei beni più preziosi, le nostre industrie, da salvaguardare e rimettere, con essenziali scelte politiche, in condizione di ricominciare a crescere.

Adesso, dopo anni segnati da una sorta di delirio d’onnipotenza per “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità (vale la pena rileggere Leopardi, per rafforzare la nostra coscienza critica), scopriamo, appunto, la nostra fragilità. Con sgomento, con dolore. Con paura. Ma è tutto sommato una scoperta positiva. La presa d’atto della fragilità è già un punto di forza e una leva per la possibile rinascita.

“Power is nothing without control” era uno slogan di successo della pubblicità Pirelli nei primi anni Novanta. Al di là del senso diretto di comunicazione, coglieva in anticipo lo spirito dei tempi lunghi che si andavano preparando, il passaggio dall’hard power al soft power (ben teorizzato, all’inizio del Duemila, da un politologo acuto come Joseph Nye). E insisteva non solo sulla potenza (velocità, tecnologie, successo, performance da primato) ma soprattutto sul controllo, l’equilibrio, la responsabilità. Oggi quello slogan riconferma la sua attualità, come sintesi generale di un mondo che, scoperta la propria fragilità, va in cerca di condizioni di sviluppo migliori, più equilibrate e sostenibili.

C’è un altro punto positivo, nella ruvida condizione di questi giorni, su cui rafforzare le nostre consapevolezze: l’emergere diffuso d’una fiducia nella scienza, nella conoscenza dei meccanismi sanitari e sociali, nella competenza dei medici e degli infermieri. Dopo anni incoscienti di “no vax”, di pregiudizi anti-scientifici, di elogio dell’“uno vale uno” e di arrogante esibizione dell’ignoranza e dell’incompetenza (sino a farne bandiera politica da movimento anti élite e strumento di carriere personali), adesso, di fronte alle questioni che investono in pieno la vita e la morte, si torna finalmente a dare ascolto alla parola di chi sa, ha studiato, ha competenza su cosa e come fare. I nemici della conoscenza finiscono nell’angolo.

Nel riaffidarsi alla scienza emergono alcune altre considerazioni. La scienza non è il luogo delle verità indiscusse e indiscutibili. Il processo scientifico va avanti per trials and errors, ricerca, sperimentazione, errore, ripresa. Le conoscenze che progrediscono mettono da canto conoscenze precedenti. La relatività è un principio fondante dei processi di scoperta, verso orizzonti incerti, da confermare, verificare e poi ancora una volta superare. Lo scienziato non è né un mago (di pensiero magico ne abbiamo avute fin troppe manifestazioni, anche in questi anni confusi) né un miracoloso taumaturgo. Dunque, riscoprire la scienza, ridarle valore e rimetterla al centro degli interessi privati e pubblici, con tutto il carico dei suoi dubbi e della sua strutturale condizione di mondo della ricerca, significa anche sapere fare scelte pubbliche responsabili.

Considerare la scienza un “bene comune”, infatti, richiede investimenti pubblici di grande respiro e di lungo periodo su formazione, ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, orientando in questa direzione parte consistente della spesa pubblica, nazionale ed europea e sollecitando, anche fiscalmente, gli investimenti privati. Proprio il contrario di quel che si è fatto finora.

Bene comune la ricerca. Come la scuola. E come la sanità. Beni essenziali d’una comunità coesa e responsabile.

Il sistema sanitario nazionale, di fronte a prove durissime, sta dando buona prova di sè, grazie anche al senso di responsabilità, alla cultura e all’abnegazione di medici e infermieri. E’ un patrimonio sociale che va salvaguardato e, in prospettiva, rafforzato. In Lombardia, in Veneto, in Emilia, è fondato anche su una stretta collaborazione tra il pubblico e il privato che svolge un ruolo pubblico, in una sintesi originale tra competizione e collaborazione, assistenza diffusa e sussidiarietà. E’ una strada da continuare a percorrere.

Se il coronavirus può essere il nostro “cigno nero” (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), dobbiamo prendere atto che, dalle nostre incertezze e dalle nostre fragilità, possiamo uscire. Anche ritrovando un forte spirito di comunità, di coesione, di solidarietà nazionale.

Gira molto, proprio in questi giorni, sul web, una frase esemplare: “Il primo nostro dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. E’ di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio nell’Italia del dopoguerra, pronta a uscire dalle macerie materiali e morali della guerra e del fascismo e ricominciare a vivere. Vale la pena farne tesoro.

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