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Fare impresa è fare cultura: i dibattiti su valori e crisi tra i convegni di Confindustria e i “Dialoghi di Trani”

In tempi di radicali cambiamenti sociali, politici ed economici, è indispensabile scrivere nuove mappe, ricostruire una geografia delle relazioni e delle speranze, “ridisegnare le forme del mondo e dell’umano”, per dirla con le parole di Aldo Schiavone, storico, davanti a una platea affollata di ragazzi ai “Dialoghi di Trani”, domenica scorsa. Indagare sulla “crisi”, nella doppia accezione del pericolo e dell’opportunità. Provare, con la passione e la fatica indispensabili ai mestieri intellettuali, a dare a parole dense come “individuo”, “democrazia”, “lavoro”, “uguaglianza”, “diversità” significati adatti a raccontare fratture, trasformazioni, metamorfosi.

“La grande età del lavoro, il lavoro libero come merce in cambio di salario, come strumento di libertà e dignità è alle nostre spalle, la rivoluzione tecnologica l’ha distrutta”, insiste Schiavone. E ancora: “Viviamo in un’epoca che ha sempre più tecnologia e sempre meno lavoro, almeno di quel lavoro con un minimo significato di costruttore di legami sociali”.
L’analisi, così netta, può non essere del tutto condivisibile. Ma pone questioni profonde e reali che investono anche il mondo delle imprese, i loro sistemi di valori, la loro cultura. Perché proprio le imprese sono nel cuore della trasformazione tecnologica, la promuovono e la subiscono, ne vivono limiti e possibilità e ne devono sperimentare forme e strumenti di governo per ridefinire la propria competitività sui mercati locali e globali, ma anche per ricostruire la loro legittimazione sociale, la loro accettabilità come soggetti positivi, protagonisti di un migliore futuro.

Resta, per le imprese e le loro organizzazioni più aperte e sensibili, la centralità del lavoro. Si tratta, semmai, di scriverne una nuova mappa (sulle indicazioni, per esempio, delle analisi e delle previsioni d’un economista come Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, con il suo libro “La nuova geografia del lavoro”, Mondadori). E di saper coniugare gli strumenti digital da “Industria 4.0” e le opportunità offerte dalle innovazioni ad alta tecnologia (a cominciare dal 5G) con una originale cultura del lavoro, della conoscenza e dell’organizzazione, fondata su competenze, capacità, ricerca continua, nuove relazioni tra diritti e doveri nel segno della responsabilità, non solo degli imprenditori, dei lavoratori e dei manager, ma dell’intero universo degli stakeholders (“responsabilità” è stata appunto la parola d’ordine trasversale a tutti i “Dialoghi di Trani”).
Cambieranno, infatti, le caratteristiche di molti lavori, parecchi spariranno (le mansioni più seriali e a basso contenuto professionale) e altri ne nasceranno (di molti non sappiamo oggi neanche nome e ruolo). Ma quel cambiamento va pensato e progettato: l’intelligenza dell’uomo, tutto sommato, costruisce e governa l’intelligenza artificiale, senza cadere nella trappola della “tecnofobia”, come ammonisce un sindacalista colto e intelligente, Marco Bentivogli, in “Contrordine compagni”, Rizzoli) ma provando semmai a rispondere, proprio sul piano della cultura d’impresa, alle questioni poste da un lucido filosofo, Remo Bodei, in “Dominio e sottomissione – Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, Il Mulino.
Le politiche di formazione e di sostegno sociale devono accompagnare questo difficile processo: è una responsabilità delle politiche pubbliche (anche su scala europea) su cui le imprese stesse vanno chiamate a collaborare.
L’orizzonte, insomma, è quello di una “impresa riformista” capace di coniugare produttività, redditività e sostenibilità ambientale e sociale, capacità competitiva e valorizzazione delle persone, valori da “economia circolare e civile”, con la rapidità indispensabile per cogliere il senso e la direzione dei cambiamenti. In sintesi: serve una nuova e migliore “civiltà del lavoro”, una riscrittura di quella “civiltà delle macchine” che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta di impetuoso sviluppo economico e sociale in Italia e in Europa (per usare, qui, come paradigma, l’efficace testata d’una delle più sapide riviste aziendali degli anni Cinquanta, redatta per la Finmeccanica dell’Iri da Leonardo Sinisgalli, un ingegnere-poeta già responsabile, con Arturo Tofanelli e Vittorio Sereni, della “Rivista Pirelli”, esempio ancora oggi ricco di stimoli da “umanesimo industriale”).

Il nome di Sinisgalli è risuonato, sempre negli scorsi giorni, anche nel corso di un altro appuntamento dedicato alle imprese e alla loro cultura: il convegno di Confindustria a Matera intitolato “Cultura, comunità, impresa: i valori dell’Europa”. Sinisgalli era lucano, di Montemurro (dove è molto attiva una Fondazione intitolata al suo nome) e aveva avuto successo, come manager, prima all’Olivetti di Ivrea e poi alla Pirelli, alla Finmeccanica e all’Eni di Mattei. Umanesimo e scienza, poesia e meccanica, persone e macchine. Un intenso lavoro letterario e industriale, costruendo sintesi originali, da vera e propria “cultura politecnica”.

Eccola, la chiave per parlare di cultura d’impresa: la cultura serve alle imprese, come strumento di innovazione, ma le imprese stesse sono dinamiche produttrici di cultura scientifica e tecnologica, di cultura del lavoro, della bellezza, della qualità. Una sintesi tra scienza e umanesimo, appunto quell’“umanesimo industriale” di cui abbiamo appena detto. Una straordinaria cultura dello sviluppo, fondata anche sui valori dell’inclusione e della sostenibilità ambientale e sociale, come cardini stessi della propria competitività.
La fabbrica, l’industria, i laboratori di ricerca e sviluppo sono luoghi di cultura (lo ha raccontato benissimo un grande maestro di letteratura e di vita, Primo Levi, chimico e uomo d’industria, in due libri essenziali: “La chiave a stella” e “Il sistema periodico”, entrambi pubblicati da Einaudi). Le relazioni collaborative tra le persone, impegnate nell’innovazione, costruiscono un ricco tessuto culturale. L’impegno a stimolare e seguire i cambiamenti di consumi e costumi è una strategia culturale. La decodifica delle complessità per tenere attivi i processi produttivi e di mercato ha bisogno di robusti strumenti culturali e produce nuova cultura. E proprio l’impresa contemporanea, attiva e aperta, ci suggerisce la necessità di passare dal binomio “impresa e cultura” alla sintesi “impresa è cultura”. Una realtà già presente, in molte imprese. E tocca innanzitutto alle imprese rendersene conto, costruendo un nuovo e migliore racconto di sé.

In tempi di radicali cambiamenti sociali, politici ed economici, è indispensabile scrivere nuove mappe, ricostruire una geografia delle relazioni e delle speranze, “ridisegnare le forme del mondo e dell’umano”, per dirla con le parole di Aldo Schiavone, storico, davanti a una platea affollata di ragazzi ai “Dialoghi di Trani”, domenica scorsa. Indagare sulla “crisi”, nella doppia accezione del pericolo e dell’opportunità. Provare, con la passione e la fatica indispensabili ai mestieri intellettuali, a dare a parole dense come “individuo”, “democrazia”, “lavoro”, “uguaglianza”, “diversità” significati adatti a raccontare fratture, trasformazioni, metamorfosi.

“La grande età del lavoro, il lavoro libero come merce in cambio di salario, come strumento di libertà e dignità è alle nostre spalle, la rivoluzione tecnologica l’ha distrutta”, insiste Schiavone. E ancora: “Viviamo in un’epoca che ha sempre più tecnologia e sempre meno lavoro, almeno di quel lavoro con un minimo significato di costruttore di legami sociali”.
L’analisi, così netta, può non essere del tutto condivisibile. Ma pone questioni profonde e reali che investono anche il mondo delle imprese, i loro sistemi di valori, la loro cultura. Perché proprio le imprese sono nel cuore della trasformazione tecnologica, la promuovono e la subiscono, ne vivono limiti e possibilità e ne devono sperimentare forme e strumenti di governo per ridefinire la propria competitività sui mercati locali e globali, ma anche per ricostruire la loro legittimazione sociale, la loro accettabilità come soggetti positivi, protagonisti di un migliore futuro.

Resta, per le imprese e le loro organizzazioni più aperte e sensibili, la centralità del lavoro. Si tratta, semmai, di scriverne una nuova mappa (sulle indicazioni, per esempio, delle analisi e delle previsioni d’un economista come Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, con il suo libro “La nuova geografia del lavoro”, Mondadori). E di saper coniugare gli strumenti digital da “Industria 4.0” e le opportunità offerte dalle innovazioni ad alta tecnologia (a cominciare dal 5G) con una originale cultura del lavoro, della conoscenza e dell’organizzazione, fondata su competenze, capacità, ricerca continua, nuove relazioni tra diritti e doveri nel segno della responsabilità, non solo degli imprenditori, dei lavoratori e dei manager, ma dell’intero universo degli stakeholders (“responsabilità” è stata appunto la parola d’ordine trasversale a tutti i “Dialoghi di Trani”).
Cambieranno, infatti, le caratteristiche di molti lavori, parecchi spariranno (le mansioni più seriali e a basso contenuto professionale) e altri ne nasceranno (di molti non sappiamo oggi neanche nome e ruolo). Ma quel cambiamento va pensato e progettato: l’intelligenza dell’uomo, tutto sommato, costruisce e governa l’intelligenza artificiale, senza cadere nella trappola della “tecnofobia”, come ammonisce un sindacalista colto e intelligente, Marco Bentivogli, in “Contrordine compagni”, Rizzoli) ma provando semmai a rispondere, proprio sul piano della cultura d’impresa, alle questioni poste da un lucido filosofo, Remo Bodei, in “Dominio e sottomissione – Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, Il Mulino.
Le politiche di formazione e di sostegno sociale devono accompagnare questo difficile processo: è una responsabilità delle politiche pubbliche (anche su scala europea) su cui le imprese stesse vanno chiamate a collaborare.
L’orizzonte, insomma, è quello di una “impresa riformista” capace di coniugare produttività, redditività e sostenibilità ambientale e sociale, capacità competitiva e valorizzazione delle persone, valori da “economia circolare e civile”, con la rapidità indispensabile per cogliere il senso e la direzione dei cambiamenti. In sintesi: serve una nuova e migliore “civiltà del lavoro”, una riscrittura di quella “civiltà delle macchine” che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta di impetuoso sviluppo economico e sociale in Italia e in Europa (per usare, qui, come paradigma, l’efficace testata d’una delle più sapide riviste aziendali degli anni Cinquanta, redatta per la Finmeccanica dell’Iri da Leonardo Sinisgalli, un ingegnere-poeta già responsabile, con Arturo Tofanelli e Vittorio Sereni, della “Rivista Pirelli”, esempio ancora oggi ricco di stimoli da “umanesimo industriale”).

Il nome di Sinisgalli è risuonato, sempre negli scorsi giorni, anche nel corso di un altro appuntamento dedicato alle imprese e alla loro cultura: il convegno di Confindustria a Matera intitolato “Cultura, comunità, impresa: i valori dell’Europa”. Sinisgalli era lucano, di Montemurro (dove è molto attiva una Fondazione intitolata al suo nome) e aveva avuto successo, come manager, prima all’Olivetti di Ivrea e poi alla Pirelli, alla Finmeccanica e all’Eni di Mattei. Umanesimo e scienza, poesia e meccanica, persone e macchine. Un intenso lavoro letterario e industriale, costruendo sintesi originali, da vera e propria “cultura politecnica”.

Eccola, la chiave per parlare di cultura d’impresa: la cultura serve alle imprese, come strumento di innovazione, ma le imprese stesse sono dinamiche produttrici di cultura scientifica e tecnologica, di cultura del lavoro, della bellezza, della qualità. Una sintesi tra scienza e umanesimo, appunto quell’“umanesimo industriale” di cui abbiamo appena detto. Una straordinaria cultura dello sviluppo, fondata anche sui valori dell’inclusione e della sostenibilità ambientale e sociale, come cardini stessi della propria competitività.
La fabbrica, l’industria, i laboratori di ricerca e sviluppo sono luoghi di cultura (lo ha raccontato benissimo un grande maestro di letteratura e di vita, Primo Levi, chimico e uomo d’industria, in due libri essenziali: “La chiave a stella” e “Il sistema periodico”, entrambi pubblicati da Einaudi). Le relazioni collaborative tra le persone, impegnate nell’innovazione, costruiscono un ricco tessuto culturale. L’impegno a stimolare e seguire i cambiamenti di consumi e costumi è una strategia culturale. La decodifica delle complessità per tenere attivi i processi produttivi e di mercato ha bisogno di robusti strumenti culturali e produce nuova cultura. E proprio l’impresa contemporanea, attiva e aperta, ci suggerisce la necessità di passare dal binomio “impresa e cultura” alla sintesi “impresa è cultura”. Una realtà già presente, in molte imprese. E tocca innanzitutto alle imprese rendersene conto, costruendo un nuovo e migliore racconto di sé.

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