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I numeri chiari su export, spread e crescita delle imprese, evitando chiacchiere e scelte che gettano ombre sull’euro

Per ragionare sull’Italia, fuori da retorica e propaganda (purtroppo sempre più diffuse) vale la pena guardare bene qualche numero. Dalle cronache dei giorni scorsi ne prendiamo alcuni: 5, 47, 31 e 8 (ma anche, ben collegato, 0,91). Si potrebbe provare a giocarli al lotto, un bella quaterna. Oppure partire da lì per discutere sulla nostra situazione economica e sociale, con competenza e conoscenza (qualità, in politica, purtroppo sempre più rare).

Partiamo dal 5. Vuol dire 5 miliardi: il costo, per le casse statali, dell’aumento negli ultimi due mesi, delle spread, che determina un maggior livello di interessi per rifinanziare i titoli del nostro debito pubblico (salito, secondo i dati della Banca d’Italia, nel maggio scorso a 2.327 miliardi, 80 miliardi in più rispetto alla fine del 2017: una corsa che sembra inarrestabile). Quello spread incide anche sul costo del finanziamento delle nostre banche sui mercati internazionali e, di conseguenza, ricade sul costo del denaro per le imprese e per le famiglie. Quei 5 miliardi di maggior costo del debito pubblico, per pagarne gli interessi crescenti, sono risorse dello Stato, sottratte a riforme, investimenti pubblici, impegni per creare lavoro o migliorare sanità, pensioni, redditi. Sono, in parole povere, soldi in meno per tutti noi.

Da cosa dipende, quella crescita dello spread? Dalle insicurezze sull’Italia, valutate dai mercati internazionali, sulla qualità della politica, sugli annunci del governo, sulla affidabilità dei conti pubblici, sui costi delle riforme annunciate. Per dirla in altri termini: ogni sparata d’un governante contro l’euro, ogni rissa con l’Europa, ogni proclama contro i mercati aperti e gli scambi internazionali, ogni chiacchiera su sovranismi e protezionismi che rallentano l’economia incide sullo spread. Ne alza il livello, determinandone ricadute negative. La politica, allora, è prigioniera dei mercati? Se sei un Paese molto indebitato, non puoi non tenere conto di quel che di te pensano i creditori.

Qualcuno pensa: usciamo dall’euro, torniamo alla lira, come se fosse una soluzione. In ambienti di governo, si è parlato di “un piano B” per lasciare la moneta unica. Adesso, si parla di un “cigno nero”, un’inaspettata condizione di crisi che porterebbe altri paesi della Ue a spingerci fuori dall’euro. Responsabile, discutere di ipotesi negative e preparare strumenti per fronteggiare la crisi. Irresponsabile, chiacchierarne come se si fosse al bar o su una pagina da social media. Valga, per tutte le opinioni allarmate sulle politiche anti-euro diffuse in circoli politici di maggioranza, il giudizio di Jamie Dimon, banchiere di JP Morgan, una grande banca internazionale presente da più di un secolo nel nostro paese: “Noi siamo a fianco dell’Italia, una catastrofe lasciare l’euro” (“Il Sole24Ore, 10 luglio). Ne risentirebbero gravemente i risparmi degli italiani, i salari, il costo del debito pubblico e del denaro in generale, gli investimenti (alto, il costo di finanziamento nella debole neo-lira), la competitività di tutto il Paese. Lo hanno spiegato bene otto autorevoli economisti (Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli, Alfredo Macchiari, Mauro Maré, Stefano Micossi, Pietro Reichlin, Guido Tabellini e Vito Tanzi) in un recente appello al governo  perché si rassicurano i mercati, gli altri paesi Ue e tutti gli italiani sulla chiara determinazione di restare nei confini dell’euro (“Il Sole24Ore”, 10 luglio). Un appello che raccoglie adesioni, da Carlo Cottarelli a Michele Bagella, da Ernesto Auci ad Antonio Patuelli. Persone serie, competenti, responsabili.

Altri fronti, purtroppo, si aprono. Qualcuno pensa, con insistenza: chiudiamo le frontiere. Non solo ai migranti. Ma anche ai capitali stranieri. Al grano canadese. Ai prodotti cinesi. E così difendiamo le nostre piccole e medie imprese. Una sorta di piccola politica dei “Trump de’ noantri”. Un protezionismo alle vongole. Boh… chissà…

Torniamo ai numeri, per capire meglio. Al 47. Sono 47 miliardi (per l’esattezza, 47 miliardi e 448 milioni) il saldo tra export italiano nel mondo nel 2017 (448 miliardi, con un aumento del 7,4%) e importazioni (400 miliardi e 659 milioni, in crescita del 9%). Erano 41 miliardi 807 milioni nell’anno precedente. Quei 47 miliardi di avanzo della bilancia commerciale confermano una delle caratteristiche fondamentali della nostra economia: l’orientamento internazionale, l’attitudine crescente a conquistare posizioni di rilievo sui mercati internazionali. Posizioni, va aggiunto, proprio nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Quelle più ricche, innovative, di qualità. Ecco la parola: qualità. Finita per fortuna la stagione delle “svalutazioni competitive” con la fine della lira e l’ingresso nell’euro, le nostre imprese hanno imparato a competere non più sul basso prezzo ma sull’alta qualità. Hanno avuto e hanno ancora un gran successo. Hanno creato lavoro, distribuito reddito (tra salari, welfare aziendale e remunerazioni agli azionisti, per quelle quotate), migliorato la vita di migliaia di persone. Sarebbe veramente un grave errore se, tra crisi dell’euro e protezionismo, questo straordinario motore economico delle nostre imprese si inceppasse.

Il rischio c’è, attuale. Lo leggiamo, per esempio, nel terzo del numeri che abbiamo citato, 8.

È una percentuale, l’8%, che indica l’aumento delle esportazioni italiane verso il Canada, una delle principali economie globali. Un aumento favorito dall’applicazione provvisoria del Ceta, il Trattato di libero scambio tra il Canada e i paesi Ue: dazi quasi completamente abbattuti, protezione per i marchi d’origine dei prodotti. Adesso sappiamo che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, quel Trattato non intende affatto ratificarlo, invitando i parlamentari dei 5Stelle a votare contro in Parlamento, sperando, si immagina, che anche i parlamentari dell’altro partito di maggioranza, la Lega, seguano il suo orientamento. Perché? Raccogliendo le proteste della Coldiretti, che non ritiene sufficientemente tutelati prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, Di Maio sostiene che quel provvedimento danneggia le esportazioni italiane. Forse non lo ha letto, forse non ha fatto bene i conti.

Li hanno fatti bene, invece, un bravo economista come Giorgio Barba Navaretti su “Il Sole24Ore” (15 luglio) e un giornalista abitualmente ben documentato, Federico Fubini, sul “Corriere della Sera” (14 luglio) documentando i vantaggi per i produttori italiani di macchinari elettrici, auto e moto, moda, ceramiche, barche ma anche prosciutto, pasta e persino per gran parte dei formaggi Dop, dalla fontina all’Asiago. Sull’interscambio Italia-Canada pari a più di 50 miliardi di euro, tutti i formaggi valgono 50 milioni: lo 0,91%. Se quell’accordo non venisse ratificato, torneremmo i vecchi dazi. Perderemmo circa 400 milioni in più di fatturato, calcola sempre il “Corriere della Sera”. “Caccia al consenso più miope”, taglia corto “Il Sole24Ore”, criticando l’intesa tra Di Maio e Coldiretti, attenta solo ai produttori di Grana (che potrebbero essere meglio protetti rinegoziando alcune clausole dell’accordo). Senza contare che quel Ceta, che Di Maio definisce “trattato scellerato” è invece considerato “una grande opportunità del il made in Italy” proprio da Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio per la tutela del Grana Padano e dell’Associazione dei Consorzi per le indicazioni geografiche. La guerra del formaggio, insomma, cela forse uno scontro tra produttori. Beghe di provincia. Così importanti per un ministro da far saltare un trattato internazionale particolarmente importante per le imprese italiane?

Meglio tornare ai numeri. E leggerne un ultimo: 31,2. Sono miliardi. E rappresentano la produzione di medicinali delle imprese italiane. Un record. Che ci fa battere la potente Germania, patria di colossi farmaceutici e ci dà il primato di maggior paese produttori di farmaci in Europa, con forte propensione all’esportazione. Negli anni Settanta e Ottanta la farmaceutica italiana sembrava prossima all’estinzione, con la chiusura o la cessione all’estero di grandi marchi, Lepetit, Sclavo, Farmindustria Carlo Erba, etc.. Poi, insistendo su ricerca, innovazione, qualità, le nostre imprese hanno ripreso terreno. Altre ne sono nate o si sono molto sviluppate (Dompé, tanto per citarne una sola). Altre ancora si sono specializzate in nicchie di altissimo valore (antitumorali). Il risultato è un grande successo. Per le imprese. Per chi ci lavora. Per chi usa i loro prodotti migliorando la nostra salute, la nostra qualità delle vita. Sono imprese da considerare con attenzione. E da sostenere nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca, nell’espansione internazionale. Proprio quello che ci si aspetta da un buon governo. Che sappia far di conto e leggere bene i numeri veri.

Per ragionare sull’Italia, fuori da retorica e propaganda (purtroppo sempre più diffuse) vale la pena guardare bene qualche numero. Dalle cronache dei giorni scorsi ne prendiamo alcuni: 5, 47, 31 e 8 (ma anche, ben collegato, 0,91). Si potrebbe provare a giocarli al lotto, un bella quaterna. Oppure partire da lì per discutere sulla nostra situazione economica e sociale, con competenza e conoscenza (qualità, in politica, purtroppo sempre più rare).

Partiamo dal 5. Vuol dire 5 miliardi: il costo, per le casse statali, dell’aumento negli ultimi due mesi, delle spread, che determina un maggior livello di interessi per rifinanziare i titoli del nostro debito pubblico (salito, secondo i dati della Banca d’Italia, nel maggio scorso a 2.327 miliardi, 80 miliardi in più rispetto alla fine del 2017: una corsa che sembra inarrestabile). Quello spread incide anche sul costo del finanziamento delle nostre banche sui mercati internazionali e, di conseguenza, ricade sul costo del denaro per le imprese e per le famiglie. Quei 5 miliardi di maggior costo del debito pubblico, per pagarne gli interessi crescenti, sono risorse dello Stato, sottratte a riforme, investimenti pubblici, impegni per creare lavoro o migliorare sanità, pensioni, redditi. Sono, in parole povere, soldi in meno per tutti noi.

Da cosa dipende, quella crescita dello spread? Dalle insicurezze sull’Italia, valutate dai mercati internazionali, sulla qualità della politica, sugli annunci del governo, sulla affidabilità dei conti pubblici, sui costi delle riforme annunciate. Per dirla in altri termini: ogni sparata d’un governante contro l’euro, ogni rissa con l’Europa, ogni proclama contro i mercati aperti e gli scambi internazionali, ogni chiacchiera su sovranismi e protezionismi che rallentano l’economia incide sullo spread. Ne alza il livello, determinandone ricadute negative. La politica, allora, è prigioniera dei mercati? Se sei un Paese molto indebitato, non puoi non tenere conto di quel che di te pensano i creditori.

Qualcuno pensa: usciamo dall’euro, torniamo alla lira, come se fosse una soluzione. In ambienti di governo, si è parlato di “un piano B” per lasciare la moneta unica. Adesso, si parla di un “cigno nero”, un’inaspettata condizione di crisi che porterebbe altri paesi della Ue a spingerci fuori dall’euro. Responsabile, discutere di ipotesi negative e preparare strumenti per fronteggiare la crisi. Irresponsabile, chiacchierarne come se si fosse al bar o su una pagina da social media. Valga, per tutte le opinioni allarmate sulle politiche anti-euro diffuse in circoli politici di maggioranza, il giudizio di Jamie Dimon, banchiere di JP Morgan, una grande banca internazionale presente da più di un secolo nel nostro paese: “Noi siamo a fianco dell’Italia, una catastrofe lasciare l’euro” (“Il Sole24Ore, 10 luglio). Ne risentirebbero gravemente i risparmi degli italiani, i salari, il costo del debito pubblico e del denaro in generale, gli investimenti (alto, il costo di finanziamento nella debole neo-lira), la competitività di tutto il Paese. Lo hanno spiegato bene otto autorevoli economisti (Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli, Alfredo Macchiari, Mauro Maré, Stefano Micossi, Pietro Reichlin, Guido Tabellini e Vito Tanzi) in un recente appello al governo  perché si rassicurano i mercati, gli altri paesi Ue e tutti gli italiani sulla chiara determinazione di restare nei confini dell’euro (“Il Sole24Ore”, 10 luglio). Un appello che raccoglie adesioni, da Carlo Cottarelli a Michele Bagella, da Ernesto Auci ad Antonio Patuelli. Persone serie, competenti, responsabili.

Altri fronti, purtroppo, si aprono. Qualcuno pensa, con insistenza: chiudiamo le frontiere. Non solo ai migranti. Ma anche ai capitali stranieri. Al grano canadese. Ai prodotti cinesi. E così difendiamo le nostre piccole e medie imprese. Una sorta di piccola politica dei “Trump de’ noantri”. Un protezionismo alle vongole. Boh… chissà…

Torniamo ai numeri, per capire meglio. Al 47. Sono 47 miliardi (per l’esattezza, 47 miliardi e 448 milioni) il saldo tra export italiano nel mondo nel 2017 (448 miliardi, con un aumento del 7,4%) e importazioni (400 miliardi e 659 milioni, in crescita del 9%). Erano 41 miliardi 807 milioni nell’anno precedente. Quei 47 miliardi di avanzo della bilancia commerciale confermano una delle caratteristiche fondamentali della nostra economia: l’orientamento internazionale, l’attitudine crescente a conquistare posizioni di rilievo sui mercati internazionali. Posizioni, va aggiunto, proprio nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Quelle più ricche, innovative, di qualità. Ecco la parola: qualità. Finita per fortuna la stagione delle “svalutazioni competitive” con la fine della lira e l’ingresso nell’euro, le nostre imprese hanno imparato a competere non più sul basso prezzo ma sull’alta qualità. Hanno avuto e hanno ancora un gran successo. Hanno creato lavoro, distribuito reddito (tra salari, welfare aziendale e remunerazioni agli azionisti, per quelle quotate), migliorato la vita di migliaia di persone. Sarebbe veramente un grave errore se, tra crisi dell’euro e protezionismo, questo straordinario motore economico delle nostre imprese si inceppasse.

Il rischio c’è, attuale. Lo leggiamo, per esempio, nel terzo del numeri che abbiamo citato, 8.

È una percentuale, l’8%, che indica l’aumento delle esportazioni italiane verso il Canada, una delle principali economie globali. Un aumento favorito dall’applicazione provvisoria del Ceta, il Trattato di libero scambio tra il Canada e i paesi Ue: dazi quasi completamente abbattuti, protezione per i marchi d’origine dei prodotti. Adesso sappiamo che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, quel Trattato non intende affatto ratificarlo, invitando i parlamentari dei 5Stelle a votare contro in Parlamento, sperando, si immagina, che anche i parlamentari dell’altro partito di maggioranza, la Lega, seguano il suo orientamento. Perché? Raccogliendo le proteste della Coldiretti, che non ritiene sufficientemente tutelati prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, Di Maio sostiene che quel provvedimento danneggia le esportazioni italiane. Forse non lo ha letto, forse non ha fatto bene i conti.

Li hanno fatti bene, invece, un bravo economista come Giorgio Barba Navaretti su “Il Sole24Ore” (15 luglio) e un giornalista abitualmente ben documentato, Federico Fubini, sul “Corriere della Sera” (14 luglio) documentando i vantaggi per i produttori italiani di macchinari elettrici, auto e moto, moda, ceramiche, barche ma anche prosciutto, pasta e persino per gran parte dei formaggi Dop, dalla fontina all’Asiago. Sull’interscambio Italia-Canada pari a più di 50 miliardi di euro, tutti i formaggi valgono 50 milioni: lo 0,91%. Se quell’accordo non venisse ratificato, torneremmo i vecchi dazi. Perderemmo circa 400 milioni in più di fatturato, calcola sempre il “Corriere della Sera”. “Caccia al consenso più miope”, taglia corto “Il Sole24Ore”, criticando l’intesa tra Di Maio e Coldiretti, attenta solo ai produttori di Grana (che potrebbero essere meglio protetti rinegoziando alcune clausole dell’accordo). Senza contare che quel Ceta, che Di Maio definisce “trattato scellerato” è invece considerato “una grande opportunità del il made in Italy” proprio da Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio per la tutela del Grana Padano e dell’Associazione dei Consorzi per le indicazioni geografiche. La guerra del formaggio, insomma, cela forse uno scontro tra produttori. Beghe di provincia. Così importanti per un ministro da far saltare un trattato internazionale particolarmente importante per le imprese italiane?

Meglio tornare ai numeri. E leggerne un ultimo: 31,2. Sono miliardi. E rappresentano la produzione di medicinali delle imprese italiane. Un record. Che ci fa battere la potente Germania, patria di colossi farmaceutici e ci dà il primato di maggior paese produttori di farmaci in Europa, con forte propensione all’esportazione. Negli anni Settanta e Ottanta la farmaceutica italiana sembrava prossima all’estinzione, con la chiusura o la cessione all’estero di grandi marchi, Lepetit, Sclavo, Farmindustria Carlo Erba, etc.. Poi, insistendo su ricerca, innovazione, qualità, le nostre imprese hanno ripreso terreno. Altre ne sono nate o si sono molto sviluppate (Dompé, tanto per citarne una sola). Altre ancora si sono specializzate in nicchie di altissimo valore (antitumorali). Il risultato è un grande successo. Per le imprese. Per chi ci lavora. Per chi usa i loro prodotti migliorando la nostra salute, la nostra qualità delle vita. Sono imprese da considerare con attenzione. E da sostenere nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca, nell’espansione internazionale. Proprio quello che ci si aspetta da un buon governo. Che sappia far di conto e leggere bene i numeri veri.

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