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Il falso dilemma tra salute e lavoro e le scelte per riaprire le fabbriche.
Il buon esempio dell’accordo tra Fca e sindacati: sicurezza e produzione

Va avanti, nei bollettini quotidiani della Protezione Civile, la conta dei nuovi malati, dei morti, ancora tanti, dei guariti. La Lombardia e soprattutto Milano sono nella condizione più drammatica. La condizione di scampato pericolo è purtroppo ancora lontana. Ma, per non sommare alle vittime della pandemia quelle della depressione economica, si comincia a parlare concretamente di “fase 2” e cioè di ritorno al lavoro, di cauta e graduale riapertura delle fabbriche, con tutte le garanzie che consentano innanzitutto di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Ci si muove in questa direzione un po’ in tutta Europa: “La Spagna riparte da fabbriche e cantieri”, distribuendo mascherine ai pendolari davanti agli ingressi della metropolitana di Madrid, annuncia lunedì pomeriggio l’Ansa. L’Austria riparte pure con le botteghe artigiane. Anche la Germania va verso la “fase 2”, considerando che molte industrie sono rimaste comunque aperte, rispettando severi protocolli di sicurezza e parecchi imprenditori tedeschi hanno chiesto, ai loro fornitori italiani di ricominciare a produrre: “Senza la vostra componentistica la nostra industria è bloccata”.

E in Italia? In alcuni settori dell’opinione pubblica, ma anche in ambienti di governo, tiene banco il dilemma salute o lavoro. E sono parecchie le polemiche contro “gli imprenditori” accusati di preferire il loro profitto a discapito della salute dei dipendenti. Si tratta, naturalmente, di un falso dilemma, o peggio ancora di una distorsione da propaganda, frutto di una subcultura anti-impresa, di un’ideologia anti-industriale e pauperistica, che torna a imperversare e trova, purtroppo, ascolto soprattutto in circoli del partito di maggioranza di governo, il Movimento5Stelle, tentato da chiacchiere sull’Iri2 e cioè di una ripresa di potere della mano pubblica sulla gestione diretta delle imprese, da statalismo da estensione del “golden power” su un larghissimo numero di imprese per bloccare gli investimenti internazionali (una cosa è proteggere le imprese europee strategiche da scalate ostili che approfittino della loro fragilità finanziaria, ben altra invece il nazionalismo protezionistico), da anti-europeismo, da voglia di controllare burocraticamente ogni euro di finanziamento alle imprese in difficoltà.

E’ un falso dilemma proprio perché trascura il fatto che le persone, il “capitale umano”, sono le risorse principali dell’impresa stessa. E le scelte su salute e sicurezza, da tempo, sono al centro di massicci investimenti di gran parte delle imprese italiane. Come sa bene anche un ministro 5Stelle come Stefano Patuanelli, responsabile del dicastero dello Sviluppo Economico: “Gli imprenditori non sono untori. E senza imprese questo Paese non può ripartire. Purtroppo si è alimentata una retorica spiacevole verso le categorie produttive. E’ facile dire ‘chiudiamo tutto’ e ripeterlo come un mantra, poi bisogna anche fare i conti con la realtà e capire che il sistema produttivo del Paese è intrecciato in filiere”, ha spiegato in un’intervista all’Huffington Post (12 aprile).

Un esempio positivo, che può ben fare da paradigma di riferimento, viene dall’accordo firmato il 9 aprile da Fca e sindacati (i metalmeccanici di Fiom Cgil, Fim Cisl e e Uilm Uil) per ritornare a produrre auto negli stabilimenti di Torino e Melfi: protocolli severi sulle mascherine, le rilevazioni di temperatura, le distanze sia durante i processi di lavoro che negli spazi comuni (mense, spogliatori, ingressi), la sanificazione costante degli ambienti, lo smart working ovunque sia possibile, i controlli di sicurezza. Un punto di riferimento standard per tutta la manifattura, concordano azienda e sindacati. Con la benedizione di Maurizio Landini, battagliero leader della Cgil: “Un utile esempio è l’accordo fatto con Fca, dove la discussione non è stata su quando ma su come riaprire”.

Un utile esempio anche per il governo Conte, fermo ancora ai discorsi delle buone intenzioni e all’assenza di scelte, che tutti sperano, adesso, arrivino presto.

Il governo ha comunque nominato, alla fine della scorsa settimana, una commissione di 18 esperti per capire bene cosa fare. Alla guida c’è Vittorio Colao, uno dei migliori manager italiani di rilievo internazionale. E, con lui, economisti e altri manager di spessore ed esperienza, come Alberto Giovannini, ex presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro e attuale leader dell’Asvis (l’Associazione per lo sviluppo sostenibile), Giovanni Gorno Tempini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti e Roberto Cingolani, responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo dopo aver portato al successo l’Iit, l’Istituto italiano di Tecnologia di Genova. Persone serie, autorevoli, competenti, sicuramente in grado di fare scelte che tengano insieme esigenze sanitarie ed economiche, la salute e la produzione, la sicurezza e il lavoro. Il dubbio, però, riguarda i poteri della commissione guidata da Colao: un super centro studi per dare indicazioni al governo o una struttura operativa, con poteri e mezzi? La seconda strada sarebbe naturalmente preferibile. I timori, che speriamo siano rapidamente smentiti, sono che si sia finora rimasti nei confini di una mossa comunicativa a effetto, di una brillante trovata di propaganda. C’è comunque una sicurezza: Colao e Giovannini, Gorno Tempini e Cingolani, dato il loro spessore professionale ed etico, mai accetterebbero di fare le pur autorevoli comparse.

Nel corso della settimana, comunque, le discussioni sulla riapertura delle fabbriche in Italia dovrebbero fare dei concreti passi avanti. Lo chiede Confindustria e, con molta nettezza, Assolombarda (le imprese di Milano, Lodi, Monza e Brianza). Insistono Confindustria Lombardia, Emilia e Veneto. E proprio Confindustria Veneto applaude, con il suo presidente Enrico Carraro, al progetto di apertura sperimentale avanzato dal presidente della Regione Luca Zaia, sensibile, con senso di responsabilità, a tutte le sintesi tra salute e lavoro. Federlegno Arredo chiede, con un manifesto, “Riapriamo il made in Italy”, Confindustria Moda insieme alla Camera della Moda e ad Altagamma (le imprese del settore industriale dei prodotti di lusso) scrive al presidente del Consiglio Conte: l’Italia rischia di perdere 50 miliardi di produzione ed export, un’azienda su due rischia di saltare se non riapriremo in tempi ragionevoli. E l’Ance, l’Associazione dei costruttori, ripete in dichiarazioni drammatiche: “Siamo allo stremo”. E’ una dimensione generale ben presente a Colao e ai suoi esperti, che stanno discutendo di misure da prendere, dai test diagnosici ad ampio raggio alle aperture differenziate, cominciando da moda, auto e metallurgia. Si può fare bene e fare presto, tenere insieme sicurezza e lavoro.

“Per ripartire serve una visione, alle imprese sono indispensabili certezze e velocità”, sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda (intervista al “Corriere della Sera”, 9 aprile), insistendo sulla necessità e sull’opportunità di “rilanciare il Paese eliminando una volta per tutte le zavorre che ci hanno frenato negli ultimi vent’anni”.

Anche la cultura anti-impresa e la deriva verso statalismo e assistenzialismo, preferiti a produttività e competitività, sono zavorre.

Va avanti, nei bollettini quotidiani della Protezione Civile, la conta dei nuovi malati, dei morti, ancora tanti, dei guariti. La Lombardia e soprattutto Milano sono nella condizione più drammatica. La condizione di scampato pericolo è purtroppo ancora lontana. Ma, per non sommare alle vittime della pandemia quelle della depressione economica, si comincia a parlare concretamente di “fase 2” e cioè di ritorno al lavoro, di cauta e graduale riapertura delle fabbriche, con tutte le garanzie che consentano innanzitutto di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Ci si muove in questa direzione un po’ in tutta Europa: “La Spagna riparte da fabbriche e cantieri”, distribuendo mascherine ai pendolari davanti agli ingressi della metropolitana di Madrid, annuncia lunedì pomeriggio l’Ansa. L’Austria riparte pure con le botteghe artigiane. Anche la Germania va verso la “fase 2”, considerando che molte industrie sono rimaste comunque aperte, rispettando severi protocolli di sicurezza e parecchi imprenditori tedeschi hanno chiesto, ai loro fornitori italiani di ricominciare a produrre: “Senza la vostra componentistica la nostra industria è bloccata”.

E in Italia? In alcuni settori dell’opinione pubblica, ma anche in ambienti di governo, tiene banco il dilemma salute o lavoro. E sono parecchie le polemiche contro “gli imprenditori” accusati di preferire il loro profitto a discapito della salute dei dipendenti. Si tratta, naturalmente, di un falso dilemma, o peggio ancora di una distorsione da propaganda, frutto di una subcultura anti-impresa, di un’ideologia anti-industriale e pauperistica, che torna a imperversare e trova, purtroppo, ascolto soprattutto in circoli del partito di maggioranza di governo, il Movimento5Stelle, tentato da chiacchiere sull’Iri2 e cioè di una ripresa di potere della mano pubblica sulla gestione diretta delle imprese, da statalismo da estensione del “golden power” su un larghissimo numero di imprese per bloccare gli investimenti internazionali (una cosa è proteggere le imprese europee strategiche da scalate ostili che approfittino della loro fragilità finanziaria, ben altra invece il nazionalismo protezionistico), da anti-europeismo, da voglia di controllare burocraticamente ogni euro di finanziamento alle imprese in difficoltà.

E’ un falso dilemma proprio perché trascura il fatto che le persone, il “capitale umano”, sono le risorse principali dell’impresa stessa. E le scelte su salute e sicurezza, da tempo, sono al centro di massicci investimenti di gran parte delle imprese italiane. Come sa bene anche un ministro 5Stelle come Stefano Patuanelli, responsabile del dicastero dello Sviluppo Economico: “Gli imprenditori non sono untori. E senza imprese questo Paese non può ripartire. Purtroppo si è alimentata una retorica spiacevole verso le categorie produttive. E’ facile dire ‘chiudiamo tutto’ e ripeterlo come un mantra, poi bisogna anche fare i conti con la realtà e capire che il sistema produttivo del Paese è intrecciato in filiere”, ha spiegato in un’intervista all’Huffington Post (12 aprile).

Un esempio positivo, che può ben fare da paradigma di riferimento, viene dall’accordo firmato il 9 aprile da Fca e sindacati (i metalmeccanici di Fiom Cgil, Fim Cisl e e Uilm Uil) per ritornare a produrre auto negli stabilimenti di Torino e Melfi: protocolli severi sulle mascherine, le rilevazioni di temperatura, le distanze sia durante i processi di lavoro che negli spazi comuni (mense, spogliatori, ingressi), la sanificazione costante degli ambienti, lo smart working ovunque sia possibile, i controlli di sicurezza. Un punto di riferimento standard per tutta la manifattura, concordano azienda e sindacati. Con la benedizione di Maurizio Landini, battagliero leader della Cgil: “Un utile esempio è l’accordo fatto con Fca, dove la discussione non è stata su quando ma su come riaprire”.

Un utile esempio anche per il governo Conte, fermo ancora ai discorsi delle buone intenzioni e all’assenza di scelte, che tutti sperano, adesso, arrivino presto.

Il governo ha comunque nominato, alla fine della scorsa settimana, una commissione di 18 esperti per capire bene cosa fare. Alla guida c’è Vittorio Colao, uno dei migliori manager italiani di rilievo internazionale. E, con lui, economisti e altri manager di spessore ed esperienza, come Alberto Giovannini, ex presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro e attuale leader dell’Asvis (l’Associazione per lo sviluppo sostenibile), Giovanni Gorno Tempini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti e Roberto Cingolani, responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo dopo aver portato al successo l’Iit, l’Istituto italiano di Tecnologia di Genova. Persone serie, autorevoli, competenti, sicuramente in grado di fare scelte che tengano insieme esigenze sanitarie ed economiche, la salute e la produzione, la sicurezza e il lavoro. Il dubbio, però, riguarda i poteri della commissione guidata da Colao: un super centro studi per dare indicazioni al governo o una struttura operativa, con poteri e mezzi? La seconda strada sarebbe naturalmente preferibile. I timori, che speriamo siano rapidamente smentiti, sono che si sia finora rimasti nei confini di una mossa comunicativa a effetto, di una brillante trovata di propaganda. C’è comunque una sicurezza: Colao e Giovannini, Gorno Tempini e Cingolani, dato il loro spessore professionale ed etico, mai accetterebbero di fare le pur autorevoli comparse.

Nel corso della settimana, comunque, le discussioni sulla riapertura delle fabbriche in Italia dovrebbero fare dei concreti passi avanti. Lo chiede Confindustria e, con molta nettezza, Assolombarda (le imprese di Milano, Lodi, Monza e Brianza). Insistono Confindustria Lombardia, Emilia e Veneto. E proprio Confindustria Veneto applaude, con il suo presidente Enrico Carraro, al progetto di apertura sperimentale avanzato dal presidente della Regione Luca Zaia, sensibile, con senso di responsabilità, a tutte le sintesi tra salute e lavoro. Federlegno Arredo chiede, con un manifesto, “Riapriamo il made in Italy”, Confindustria Moda insieme alla Camera della Moda e ad Altagamma (le imprese del settore industriale dei prodotti di lusso) scrive al presidente del Consiglio Conte: l’Italia rischia di perdere 50 miliardi di produzione ed export, un’azienda su due rischia di saltare se non riapriremo in tempi ragionevoli. E l’Ance, l’Associazione dei costruttori, ripete in dichiarazioni drammatiche: “Siamo allo stremo”. E’ una dimensione generale ben presente a Colao e ai suoi esperti, che stanno discutendo di misure da prendere, dai test diagnosici ad ampio raggio alle aperture differenziate, cominciando da moda, auto e metallurgia. Si può fare bene e fare presto, tenere insieme sicurezza e lavoro.

“Per ripartire serve una visione, alle imprese sono indispensabili certezze e velocità”, sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda (intervista al “Corriere della Sera”, 9 aprile), insistendo sulla necessità e sull’opportunità di “rilanciare il Paese eliminando una volta per tutte le zavorre che ci hanno frenato negli ultimi vent’anni”.

Anche la cultura anti-impresa e la deriva verso statalismo e assistenzialismo, preferiti a produttività e competitività, sono zavorre.

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