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Rileggere Keynes e progettare investimenti su salute, ambiente e ricerca scientifica

Rileggere Keynes, in questi giorni difficili di crisi, contagi da virus, fragilità, paura, radicali cambiamenti del nostro modo di vivere e lavorare, di dati allarmanti sulla recessione e di voci che parlano di “quaresima del capitalismo”. Rileggere Keynes, come un ritorno ai “classici” del Novecento (Max Weber, Thomas Mann, Hans Kelsen, Emmanuel Mounier e gli italiani Gramsci, Croce, Spinelli, Calamandrei, tanto per fare solo alcuni dei nomi essenziali) per andare alla radice delle buone idee politiche, economiche e morali che hanno guidato una delle più brillanti ed equilibrate stagioni di crescita economica e sociale, nel nostro Novecento occidentale. Rileggerlo non perché non ci siano autorevoli voci contemporanee che da tempo insistono sulla necessità di legare sviluppo economico e migliori equilibri sociali (Sen, Nussbaum, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Judt, etc.). Ma proprio per riproporre, andando alla radice del miglior pensiero economico, analisi e proposte ed elaborare risposte cariche di senso e prospettive rispetto a uno sconvolgimento profondo, inatteso, drammatico, gravido di conseguenze per l’economia e gli assetti sociali, anche dopo che l’emergenza sanitaria sarà finita.

Keynes, dunque: “Penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi sistema alternativo sinora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé stesso sia per molti versi estremamente criticabile: il nostro problema è quello di mettere in piedi un’organizzazione sociale che sia in sommo grado efficiente senza pregiudicare la nostra idea di uno stile di vita soddisfacente”.

Le parole sono contenute in un saggio del 1926, “La fine del Laissez Faire”, da poco ripubblicato nel volume dei Meridiani Mondadori dedicato al grande economista inglese e curato da Giorgio La Malfa (che ne firma la brillante introduzione, giustamente intitolata “Saggezza nuova per una nuova èra”). Lì, si indica con straordinaria chiarezza la strada che avrebbe portato al Welfare State, alla forte ondata di investimenti pubblici nell’economia europea (con i fondi Usa del Piano Marshall) per fare ripartire l’Europa (e dunque anche gli Usa creditori) dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, le strategie macro-economiche verso il Mercato Comune Europeo e i provvedimenti per migliorare salari, diritti dei lavoratori, sicurezza, consumi, qualità della vita e del lavoro. Un pensiero liberale e democratico. Una “economia mista”, una “economia sociale di mercato” nell’accezione tedesca, una costante ricerca di equilibrio tra intervento pubblico nell’economia, mercato, dinamismo dell’intraprendenza privata.

Tornare oggi a riflettere su Keynes significa, appunto, ragionare sulle varie forme possibili di quell’equilibrio tra pubblico e privato.

La pandemia da coronavirus, con la progressione drammatica del numero dei contagiati e dei morti, ha riportato alla ribalta il tema della salute come bene pubblico, come bene comune, come valore primario della persona, come diritto. E ha reso evidente come le logiche che la riguardino non possano essere legate solo alla relazione stretta tra spesa ed efficienza finanziaria, ma debbano guardare soprattutto a quella tra investimento pubblico e privato ed efficacia di lungo periodo. Una sanità di qualità, nella collaborazione di sussidiarietà tra strutture pubbliche e imprese private. Una visione keynesiana, appunto.

Il sistema sanitario italiano, in prevalenza pubblico, rafforzato da una stretta collaborazione, di ricerca e di cura, con quello privato, si sta dimostrando esemplare, proprio in questi giorni drammatici. Viene indicato come riferimento positivo da altri sistemi sanitari europei. Invidiato, dai più attenti osservatori degli Usa, atterriti da quello che potrebbe provocare una grande espansione dei contagi da virus in un mondo in cui la sanità è legata al sistema assicurativo e profondamente selettiva in base al reddito. Adesso sappiamo che su quella sanità bisogna investire di più. E soprattutto meglio. E che le cosiddette “scienze della vita” che guardano complessivamente alla salute delle persone, come premessa per una sanità efficace, hanno bisogno di tenere insieme prevenzione, cura, ricerca, formazione. L’industria farmaceutica italiana, uno straordinario successo economico sul mercato europeo (con posizioni da primato), si sta confermando un’eccellenza anche in questi momenti frenetici di ricerca del vaccino contro il coronavirus.

I ragionamenti sulla sanità si allargano al valore dei beni comuni, essenziali. L’istruzione. L’ambiente. La sicurezza. In un progresso di rivalutazione degli stakeholders value anche da parte dell’impresa, vissuta non solo come soggetto economico principale, ma anche come attore sociale responsabile.

Competitività e inclusione sociale, produttività e solidarietà camminano insieme (ne abbiamo scritto molte volte, in questo blog). E forse è utile, ancora una volta, ricordare le affermazioni di due dei principali protagonisti dell’industria italiana della seconda metà del Novecento, Adriano Olivetti e Leopoldo Pirelli. Ecco Olivetti, in una delle sue frasi più note, riproposta anche sui social nella ricorrenza dei sessant’anni dalla sua morte: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Responsabilità sociale e civile. Che risuona anche in un giudizio di Leopoldo Pirelli del 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera”.

Le indicazioni di Keynes, i valori degli imprenditori chiamano in ballo l’attore che deve garantire le sintonie tra mano pubblica e mercato: chi governa, il mondo della politica. Cui tocca dare indicazioni sulle scelte di fondo, sull’uso del bilancio pubblico, sulle leve fiscali. Quanto l’attuale ceto politico (non solo in Italia), sia all’altezza di questo compito, è dibattito aperto, con opinioni controverse. A Roma, a Bruxelles, negli uffici della Bce a Francoforte, disposta (nonostante una criticatissima gaffe della presidente Christine Lagarde sulla non responsabilità dell’istituto a frenare gli spread, con conseguente crollo delle borse) a fare tutti ciò che occorre per evitare choc finanziari e dare forza al sistema Ue e alle sue imprese.

Si sta entrando in una recessione che sarà quasi certamente lunga e pesante. E nelle stanze Ue filtra l’ipotesi di mettere a punto strumenti anticrisi, come gli “Eurobond” e fors’anche ridiscutere il “patto di stabilità”. Tutto un mondo in movimento. Con esiti incerti. E proprio nelle stagioni dell’incertezza e del passaggio, delle fratture e dei cambiamenti, viene in soccorso un’altra essenziale lezione d’un grande economista italiano, Federico Caffè: “Bisogna riscoprire l’economia degli affetti, non delle regole”, di ciò che tiene insieme le persone e determina lo sviluppo, la partecipazione, la condivisione. Oggi diremmo, lo sviluppo sostenibile. Caffè, maestro di Mario Draghi, era uno dei migliori interpreti di Keynes.

Rileggere Keynes, in questi giorni difficili di crisi, contagi da virus, fragilità, paura, radicali cambiamenti del nostro modo di vivere e lavorare, di dati allarmanti sulla recessione e di voci che parlano di “quaresima del capitalismo”. Rileggere Keynes, come un ritorno ai “classici” del Novecento (Max Weber, Thomas Mann, Hans Kelsen, Emmanuel Mounier e gli italiani Gramsci, Croce, Spinelli, Calamandrei, tanto per fare solo alcuni dei nomi essenziali) per andare alla radice delle buone idee politiche, economiche e morali che hanno guidato una delle più brillanti ed equilibrate stagioni di crescita economica e sociale, nel nostro Novecento occidentale. Rileggerlo non perché non ci siano autorevoli voci contemporanee che da tempo insistono sulla necessità di legare sviluppo economico e migliori equilibri sociali (Sen, Nussbaum, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Judt, etc.). Ma proprio per riproporre, andando alla radice del miglior pensiero economico, analisi e proposte ed elaborare risposte cariche di senso e prospettive rispetto a uno sconvolgimento profondo, inatteso, drammatico, gravido di conseguenze per l’economia e gli assetti sociali, anche dopo che l’emergenza sanitaria sarà finita.

Keynes, dunque: “Penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi sistema alternativo sinora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé stesso sia per molti versi estremamente criticabile: il nostro problema è quello di mettere in piedi un’organizzazione sociale che sia in sommo grado efficiente senza pregiudicare la nostra idea di uno stile di vita soddisfacente”.

Le parole sono contenute in un saggio del 1926, “La fine del Laissez Faire”, da poco ripubblicato nel volume dei Meridiani Mondadori dedicato al grande economista inglese e curato da Giorgio La Malfa (che ne firma la brillante introduzione, giustamente intitolata “Saggezza nuova per una nuova èra”). Lì, si indica con straordinaria chiarezza la strada che avrebbe portato al Welfare State, alla forte ondata di investimenti pubblici nell’economia europea (con i fondi Usa del Piano Marshall) per fare ripartire l’Europa (e dunque anche gli Usa creditori) dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, le strategie macro-economiche verso il Mercato Comune Europeo e i provvedimenti per migliorare salari, diritti dei lavoratori, sicurezza, consumi, qualità della vita e del lavoro. Un pensiero liberale e democratico. Una “economia mista”, una “economia sociale di mercato” nell’accezione tedesca, una costante ricerca di equilibrio tra intervento pubblico nell’economia, mercato, dinamismo dell’intraprendenza privata.

Tornare oggi a riflettere su Keynes significa, appunto, ragionare sulle varie forme possibili di quell’equilibrio tra pubblico e privato.

La pandemia da coronavirus, con la progressione drammatica del numero dei contagiati e dei morti, ha riportato alla ribalta il tema della salute come bene pubblico, come bene comune, come valore primario della persona, come diritto. E ha reso evidente come le logiche che la riguardino non possano essere legate solo alla relazione stretta tra spesa ed efficienza finanziaria, ma debbano guardare soprattutto a quella tra investimento pubblico e privato ed efficacia di lungo periodo. Una sanità di qualità, nella collaborazione di sussidiarietà tra strutture pubbliche e imprese private. Una visione keynesiana, appunto.

Il sistema sanitario italiano, in prevalenza pubblico, rafforzato da una stretta collaborazione, di ricerca e di cura, con quello privato, si sta dimostrando esemplare, proprio in questi giorni drammatici. Viene indicato come riferimento positivo da altri sistemi sanitari europei. Invidiato, dai più attenti osservatori degli Usa, atterriti da quello che potrebbe provocare una grande espansione dei contagi da virus in un mondo in cui la sanità è legata al sistema assicurativo e profondamente selettiva in base al reddito. Adesso sappiamo che su quella sanità bisogna investire di più. E soprattutto meglio. E che le cosiddette “scienze della vita” che guardano complessivamente alla salute delle persone, come premessa per una sanità efficace, hanno bisogno di tenere insieme prevenzione, cura, ricerca, formazione. L’industria farmaceutica italiana, uno straordinario successo economico sul mercato europeo (con posizioni da primato), si sta confermando un’eccellenza anche in questi momenti frenetici di ricerca del vaccino contro il coronavirus.

I ragionamenti sulla sanità si allargano al valore dei beni comuni, essenziali. L’istruzione. L’ambiente. La sicurezza. In un progresso di rivalutazione degli stakeholders value anche da parte dell’impresa, vissuta non solo come soggetto economico principale, ma anche come attore sociale responsabile.

Competitività e inclusione sociale, produttività e solidarietà camminano insieme (ne abbiamo scritto molte volte, in questo blog). E forse è utile, ancora una volta, ricordare le affermazioni di due dei principali protagonisti dell’industria italiana della seconda metà del Novecento, Adriano Olivetti e Leopoldo Pirelli. Ecco Olivetti, in una delle sue frasi più note, riproposta anche sui social nella ricorrenza dei sessant’anni dalla sua morte: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Responsabilità sociale e civile. Che risuona anche in un giudizio di Leopoldo Pirelli del 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera”.

Le indicazioni di Keynes, i valori degli imprenditori chiamano in ballo l’attore che deve garantire le sintonie tra mano pubblica e mercato: chi governa, il mondo della politica. Cui tocca dare indicazioni sulle scelte di fondo, sull’uso del bilancio pubblico, sulle leve fiscali. Quanto l’attuale ceto politico (non solo in Italia), sia all’altezza di questo compito, è dibattito aperto, con opinioni controverse. A Roma, a Bruxelles, negli uffici della Bce a Francoforte, disposta (nonostante una criticatissima gaffe della presidente Christine Lagarde sulla non responsabilità dell’istituto a frenare gli spread, con conseguente crollo delle borse) a fare tutti ciò che occorre per evitare choc finanziari e dare forza al sistema Ue e alle sue imprese.

Si sta entrando in una recessione che sarà quasi certamente lunga e pesante. E nelle stanze Ue filtra l’ipotesi di mettere a punto strumenti anticrisi, come gli “Eurobond” e fors’anche ridiscutere il “patto di stabilità”. Tutto un mondo in movimento. Con esiti incerti. E proprio nelle stagioni dell’incertezza e del passaggio, delle fratture e dei cambiamenti, viene in soccorso un’altra essenziale lezione d’un grande economista italiano, Federico Caffè: “Bisogna riscoprire l’economia degli affetti, non delle regole”, di ciò che tiene insieme le persone e determina lo sviluppo, la partecipazione, la condivisione. Oggi diremmo, lo sviluppo sostenibile. Caffè, maestro di Mario Draghi, era uno dei migliori interpreti di Keynes.

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