Il “paradosso dell’era digitale” e la crisi italiana della produttività: pochi investimenti e limiti formativi del capitale umano
“Il paradosso dell’era digitale”, dice l’Ocse. Quel fenomeno per cui siamo sempre più tecnologici. Ma anche meno produttivi. Viviamo coinvolti da continue innovazioni hi tech che investono sistemi di produzione e servizi sofisticati della new economy che stanno radicalmente cambiando i nostri modi di lavorare, vivere, consumare, comunicare. Eppure la produttività (e cioè, in sintesi, quanto produciamo per ogni ora lavorata) rallenta. E la crescita delle aree più industrializzate del mondo è sempre meno impetuosa. Recenti dati Ocse, appunto, dicono che fra il 1970 e la fine del Novecento la produttività aumentava tra l’1,5 e il 2,5% all’anno: innovazioni, nuove macchine, il boom dell’informatica. Poi, proprio in contemporanea con la diffusione dell’economia digitale, ecco una frenata della crescita. Adesso si prevede che proprio negli Usa, patria dell’innovazione hi tech, nel 2016 per la prima volta in trent’anni, la produttività sia destinata a diminuire, dopo aver rallentato, tra il 2004 e il 2014, fino all’1,12%. In Germania, la locomotiva industriale europea, dalla crescita della produttività dell’1,90% negli anni Ottanta si è passati allo 0,86% della media 2004-2014. Tendenza analoga anche in Corea: dal 7% al 3,58%, sempre nei periodi considerati.
Cosa sta succedendo? Due le possibili spiegazioni. O le nuove tecnologie non hanno ancora fatto sentire tutti i loro effetti (nell’industria, ma anche nel mondo della finanza, delle assicurazioni, dei servivi). O, dentro quel “paradosso digitale” di cui abbiamo parlato, stiamo cominciando a vivere una nuova stagione di bassa crescita (“una grande stagnazione”, azzardano pessimisti alcuni economisti). E’ una questione complessa, su cui si arrovellano uomini di governo dell’economia, studiosi, imprenditori e banchieri. Probabilmente, siamo alla fine di un lungo ciclo economico di sviluppo. E proprio adesso, nei Paesi Ocse, quelli tradizionalmente più forti e industrializzati, ci si deve cominciare ad abituare a produttività più ridotte e a crescite minori, con le tecnologie digitali innovative che giocano non sulla quantità ma sulla qualità dello sviluppo, sulla sostenibilità dell’economia, su migliori condizioni di vita. Un “cambio di paradigma”. Una “metamorfosi” che investe imprese e società. Il dibattito è aperto.
L’Italia, in questo quadro, racconta una storia particolare, negativa. Perché, pur in un quadro generale di rallentamento e di crisi, da noi va peggio che altrove. Guardando gli indici della produttività del lavoro dal 1990 a oggi (facendo base 100 del valore aggiunto per ora lavorata nel 2000), si scopre che l’Italia ha conosciuto una crescita sino appunto al 2000, per poi rimanere, in quindici anni, sempre a quota 100 (con una punta negativa di 98, nel 2009, nel cuore della Grande Crisi) mentre gli Usa sono saliti a quota 124, la Germania e la Spagna a 116, la Francia a 114. Paghiamo, è vero, le conseguenze negative dell’improduttività della pubblica amministrazione, le carenze delle giustizia e del fisco, la bassa qualità delle infrastrutture, i limiti degli investimenti publici in ricerca, formazione e innovazione (ne abbiamo già parlato in uno dei blog precedenti). Ma se andiamo a guardare l’andamento della produttività del lavoro per settori, scopriamo (elaborazioni Assolombarda su dati Ocse) che nella manifattura (un’eccellenza italiana), facendo sempre base 100 nel 2000, in Italia si cresce a 117, dunque molto di più della media nazionale, ma meno della Francia (149), della Spagna (134) e della Germania (133). E anche negli altri settori industriali, come l’Ict (Information and communication technology), al 131 dell’Italia corrisponde il 163 della Germania, il 152 della Francia e il 137 della Spagna. Pure nell’industria, insomma, la produttività dei concorrenti è migliore della nostra. Peggiore (e sotto la media nazionale) la produttività dei servizi professionali: 68, rispetto al 99 francese e all’82 tedesco. Con tutti gli effetti negativi sulla produttività dell’industria.
Perché va male? A parte le influenze negative di sistema cui abbiamo accennato, anche “per un mismatch delle competenze”, sostiene l’Assolombarda, per un “disallineamento” tra quello che i lavoratori sanno fare e quello di cui l’impresa ha bisogno (dunque una grave distorsione nell’impiego della risorsa-lavoro). Una condizione da ribaltare, “con adeguate politiche di education e di formazione continua” e “favorendo l’occupazione in aziende più produttive, uno spostamento che sarebbe facilitato da meccanismi di contrattazione aziendale” (vado là dove i salari sono legati alla produttività, crescono al crescere della produttività). E con effetti positivi su tutto il sistema Paese: “Secondo stime della Bce questa produttività ‘riallocata’ potrebbe valere circa il 30% in più della produttività in Italia”.
Ma c’è anche un altro fattore, che gioca negativamente sulla nostra produttività e su cui Assolombarda punta l’attenzione: la scarsa partecipazione femminile al lavoro. Il nostro “tasso di attività” è del 64,9%, contro il 77,7% della Germania, il 75,3% della Spagna, il 72,7% degli Usa e il 71,3% della Francia. Ma se guardiamo il tasso di attività femminile, il quadro diventa pesantissimo: il 55,2% appena, contro il 72,9% della Germania e il 67% di Francia e Usa. Meno donne che lavorano, minore produttività. Un’altra delle condizioni economiche e sociali da ribaltare.
In sintesi, usando la recente analisi del “Rapporto annuale sull’innovazione” del Cotec, nel giugno 2016: “Tra il 2000 e il 2011 si evidenzia per l’Italia un adeguamento negativo pari a -0,44% della produttività totale dei fattori, che ha quindi costituito il principale ostacolo alla crescita dell’economia italiana. Tra i principali paesi industrializzati gli unici a segnare tassi negativi di questo indicatore, comunque inferiore a quello italiano, sono Portogallo (-0,19%) e Spagna (-0,07%). Tutti positivi i valori per gli altri Paesi: Francia 0,38, Regno Unito 0,52, Giappone 0,76, Germania 0,77, Usa 1,27”. Un divario che resta e s’allarga, a nostro danno. Nel pianeta della produttività che rallenta, insomma, l’Italia soffre di più. In competitività, lavoro, ricchezza, quantità e qualità della crescita.
“Il paradosso dell’era digitale”, dice l’Ocse. Quel fenomeno per cui siamo sempre più tecnologici. Ma anche meno produttivi. Viviamo coinvolti da continue innovazioni hi tech che investono sistemi di produzione e servizi sofisticati della new economy che stanno radicalmente cambiando i nostri modi di lavorare, vivere, consumare, comunicare. Eppure la produttività (e cioè, in sintesi, quanto produciamo per ogni ora lavorata) rallenta. E la crescita delle aree più industrializzate del mondo è sempre meno impetuosa. Recenti dati Ocse, appunto, dicono che fra il 1970 e la fine del Novecento la produttività aumentava tra l’1,5 e il 2,5% all’anno: innovazioni, nuove macchine, il boom dell’informatica. Poi, proprio in contemporanea con la diffusione dell’economia digitale, ecco una frenata della crescita. Adesso si prevede che proprio negli Usa, patria dell’innovazione hi tech, nel 2016 per la prima volta in trent’anni, la produttività sia destinata a diminuire, dopo aver rallentato, tra il 2004 e il 2014, fino all’1,12%. In Germania, la locomotiva industriale europea, dalla crescita della produttività dell’1,90% negli anni Ottanta si è passati allo 0,86% della media 2004-2014. Tendenza analoga anche in Corea: dal 7% al 3,58%, sempre nei periodi considerati.
Cosa sta succedendo? Due le possibili spiegazioni. O le nuove tecnologie non hanno ancora fatto sentire tutti i loro effetti (nell’industria, ma anche nel mondo della finanza, delle assicurazioni, dei servivi). O, dentro quel “paradosso digitale” di cui abbiamo parlato, stiamo cominciando a vivere una nuova stagione di bassa crescita (“una grande stagnazione”, azzardano pessimisti alcuni economisti). E’ una questione complessa, su cui si arrovellano uomini di governo dell’economia, studiosi, imprenditori e banchieri. Probabilmente, siamo alla fine di un lungo ciclo economico di sviluppo. E proprio adesso, nei Paesi Ocse, quelli tradizionalmente più forti e industrializzati, ci si deve cominciare ad abituare a produttività più ridotte e a crescite minori, con le tecnologie digitali innovative che giocano non sulla quantità ma sulla qualità dello sviluppo, sulla sostenibilità dell’economia, su migliori condizioni di vita. Un “cambio di paradigma”. Una “metamorfosi” che investe imprese e società. Il dibattito è aperto.
L’Italia, in questo quadro, racconta una storia particolare, negativa. Perché, pur in un quadro generale di rallentamento e di crisi, da noi va peggio che altrove. Guardando gli indici della produttività del lavoro dal 1990 a oggi (facendo base 100 del valore aggiunto per ora lavorata nel 2000), si scopre che l’Italia ha conosciuto una crescita sino appunto al 2000, per poi rimanere, in quindici anni, sempre a quota 100 (con una punta negativa di 98, nel 2009, nel cuore della Grande Crisi) mentre gli Usa sono saliti a quota 124, la Germania e la Spagna a 116, la Francia a 114. Paghiamo, è vero, le conseguenze negative dell’improduttività della pubblica amministrazione, le carenze delle giustizia e del fisco, la bassa qualità delle infrastrutture, i limiti degli investimenti publici in ricerca, formazione e innovazione (ne abbiamo già parlato in uno dei blog precedenti). Ma se andiamo a guardare l’andamento della produttività del lavoro per settori, scopriamo (elaborazioni Assolombarda su dati Ocse) che nella manifattura (un’eccellenza italiana), facendo sempre base 100 nel 2000, in Italia si cresce a 117, dunque molto di più della media nazionale, ma meno della Francia (149), della Spagna (134) e della Germania (133). E anche negli altri settori industriali, come l’Ict (Information and communication technology), al 131 dell’Italia corrisponde il 163 della Germania, il 152 della Francia e il 137 della Spagna. Pure nell’industria, insomma, la produttività dei concorrenti è migliore della nostra. Peggiore (e sotto la media nazionale) la produttività dei servizi professionali: 68, rispetto al 99 francese e all’82 tedesco. Con tutti gli effetti negativi sulla produttività dell’industria.
Perché va male? A parte le influenze negative di sistema cui abbiamo accennato, anche “per un mismatch delle competenze”, sostiene l’Assolombarda, per un “disallineamento” tra quello che i lavoratori sanno fare e quello di cui l’impresa ha bisogno (dunque una grave distorsione nell’impiego della risorsa-lavoro). Una condizione da ribaltare, “con adeguate politiche di education e di formazione continua” e “favorendo l’occupazione in aziende più produttive, uno spostamento che sarebbe facilitato da meccanismi di contrattazione aziendale” (vado là dove i salari sono legati alla produttività, crescono al crescere della produttività). E con effetti positivi su tutto il sistema Paese: “Secondo stime della Bce questa produttività ‘riallocata’ potrebbe valere circa il 30% in più della produttività in Italia”.
Ma c’è anche un altro fattore, che gioca negativamente sulla nostra produttività e su cui Assolombarda punta l’attenzione: la scarsa partecipazione femminile al lavoro. Il nostro “tasso di attività” è del 64,9%, contro il 77,7% della Germania, il 75,3% della Spagna, il 72,7% degli Usa e il 71,3% della Francia. Ma se guardiamo il tasso di attività femminile, il quadro diventa pesantissimo: il 55,2% appena, contro il 72,9% della Germania e il 67% di Francia e Usa. Meno donne che lavorano, minore produttività. Un’altra delle condizioni economiche e sociali da ribaltare.
In sintesi, usando la recente analisi del “Rapporto annuale sull’innovazione” del Cotec, nel giugno 2016: “Tra il 2000 e il 2011 si evidenzia per l’Italia un adeguamento negativo pari a -0,44% della produttività totale dei fattori, che ha quindi costituito il principale ostacolo alla crescita dell’economia italiana. Tra i principali paesi industrializzati gli unici a segnare tassi negativi di questo indicatore, comunque inferiore a quello italiano, sono Portogallo (-0,19%) e Spagna (-0,07%). Tutti positivi i valori per gli altri Paesi: Francia 0,38, Regno Unito 0,52, Giappone 0,76, Germania 0,77, Usa 1,27”. Un divario che resta e s’allarga, a nostro danno. Nel pianeta della produttività che rallenta, insomma, l’Italia soffre di più. In competitività, lavoro, ricchezza, quantità e qualità della crescita.