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Il “patto delle fabbriche” e i cambiamenti radicali che investono innanzitutto Confindustria e il mondo delle imprese

Rieccola, la parola antica dal significato nuovo: fabbrica. Era uscita, negli anni Novanta, dal discorso pubblico. E le nuove generazioni, sondate nel 2008 dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli per il libro “Orgoglio industriale” (Mondadori) e poi per un’indagine Assolombarda nel 2010, insistevano nel preferire ostinatamente “al lavoro in fabbrica un impiego anche precario in un call center” o “da commessa in una boutique di moda”. L’aria è cambiata. La buona manifattura competitiva (meccanica, meccatronica, chimica, farmaceutica, gomma, oltre che arredamento, abbigliamento e alimentare) tiene in piedi la parte migliore del Pil del Paese e consente all’Italia di continuare a essere la seconda potenza manifatturiera europea, dopo la Germania e tra i primi cinque paesi al mondo per surplus commerciale (di nuovo meccanica e meccatronica in primo piano). E così ha buon gioco il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia nel proporre “un patto della fabbrica”, parlando con governo e sindacati dal palco del convegno dei Giovani Imprenditori di Capri.

Scelta intelligente, il rilancio della fabbrica, sull’onda del recupero della centralità della manifattura e della cosiddetta “economia reale” dopo la Grande Crisi della sbornia delle speculazioni finanziarie e dell’”economia di carta”, un gigantesco acceleratore di squilibri e inaccettabili diseguaglianze. E ha ragione Boccia quando dice: “Siamo pronti a un patto sulla questione industriale tra gli attori della fabbrica”, un patto “per la crescita, per l’industria, per combattere le diseguaglianze”, nella consapevolezza che “dobbiamo essere attori del cambiamento a partire dalle nostre fabbriche”, chiave di volta per lo sviluppo del paese.

In quel “patto della fabbrica” c’è, riaggiornata, l’eco di antiche passioni della migliore politica italiana, dal “patto dei produttori” (caro al Pri italiano di Ugo La Malfa sostenitore incompreso della “politica dei redditi” e a una certa stagione del Pci di Enrico Berlinguer) al rilancio dell’industria contro le resistenze della burocrazia tutta “lacci e laccioli” e favori clientelari all’impresa pubblica contro cui s’era battuto Guido Carli, da Governatore della Banca d’Italia e poi da presidente di Confindustria nella seconda metà degli anni Settanta. Sino al “riformisno innovatore” del Rapporto di riforma di Confindustria preparato da Leopoldo Pirelli sempre in quei difficili anni Settanta: nuove relazioni industriali, orari di lavoro post tayloristi, concorrenza. Sempre innovazione, insomma. Erano politiche responsabili e lungimiranti. Ma lasciate ai margini. Con grave danno per l’economia italiana e le sue industrie.

Ma di che fabbriche si parla, oggi, quando s’insiste sul cambiamento (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog)? Innanzitutto di quelle 4600 imprese medie e medio-grandi del “quarto capitalismo”, le “multinazionali tascabili” già presenti nelle nicchie d’eccellenza dei mercati internazionali, di quelle imprese in buona parte di proprietà familiare ma fortemente managerializzate, moderne nella governance e nella cultura d’impresa (parecchie sono rappresentate dall’Aidaf, la dinamica Associazione delle imprese familiari brillantemente guidata da Elena Zambon, capo d’una delle migliori industrie farmaceutiche italiane). E poi delle reti e delle supply chain dei loro fornitori, che stimolano all’innovazione e al miglioramento della qualità (esempio d’eccellenza la Ima di Alberto Vacchi, ma anche il gruppo Coesia di Isabella Seragnoli e il “polo del packaging farmaceutico” guidato in provincia di Modena dal Marchesini Group, secondo le innovazioni 4.0: belle fabbriche nell’Emilia produttiva, ricca d’attori che fanno davvero e bene gli industriali, che hanno fatto crescere negli anni, nonostante tutte le difficoltà, le loro “fabbriche”), O, ancora, le “fabbriche” Pirelli, Lavazza e L’Oreal a Settimo Torinese, che proprio su una forte e diffusa cultura dell’innovazione e dell’accoglienza-integrazione (di cui la fabbrica è luogo esemplare dagli anni Cinquanta a oggi) può legittimamente candidarsi a “capitale italiana della cultura per il 2019”. E tutta la serie d’imprese d’eccellenza nella “grande Milano” che lega industria, conoscenza e formazione, in Lombardia e in un Veneto che, nonostante la crisi del “piccolo è bello” si rinnova e innova. Sino alle pur sparute punte di qualità nel Mezzogiorno, da Potenza (dove si discute appassionatamente di Industry4.0) a Bari, da certe aree della Campania ad alcuni buoni esempi in Sicilia.

Eccole, le fabbriche da rendere protagoniste del “patto”. Da valorizzare. Da indicare come esempio e traino per le altre decine di migliaia d’imprese conservatrici e in crisi. E attorno alle cui esperienze costruire una versione tutta italiana di Industry4.0, ben oltre i rigidi paradigmi tedeschi che pur tanto piacciono a Bruxelles e facendo leva sul connubio positivo tra il nostro “capitale umano” (intelligente, colto, flessibile, capace del “su misura” anche nella meccanica più sofisticata, molto più e meglio degli spigolosi e rigidi tedeschi) e le competenze diffuse sul territorio che sanno legare produzione e servizi, innovazione di processo e qualità dei prodotti.

La fabbrica bella: cultura, creatività, sostenibilità” è il tema della prossima Settimana della cultura d’impresa (organizzata da Confindustria e Museimpresa). E “fabbrica bella” vuol dire luminosa, trasparente, accogliente, sicura, con una bassa impronta ambientale (energia rinnovabile, scarso consumo di acqua, riciclaggio, culture da “circular economy”). Una fabbrica sostenibile, ambientalmente e socialmente. E ben progettata. Come la “spina” dei servizi Pirelli a Settimo disegnata da Renzo Piano e gli stabilimenti Zambon progettati da Enzo De Lucchi, la Maserati e la Dallara, il “borgo medioevale” denso di filosofia e arte di Brunello Cucinelli e le altre decine di aziende su cui hanno lavorato architetti e ingegneri di gran nome e buon gusto dell’innovazione.

Eccoli, i temi del “patto della fabbrica”. Che chiedono anche nuove relazioni industriali e nuovi contratti legati alla produttività e alla competitività. Ma anche una cultura diversa che investa direttamente lo stesso mondo delle imprese (sono ancora molte quelle familiste, chiuse, restie all’innovazione, ancorate ai margini risicati del mercato interno, ostili ai cambiamenti). E una profonda riforma della stessa Confindustria: meno uffici romani ministeriali, più peso dei territori dove “le fabbriche” sono motore di cambiamento, relazioni e welfare, meno Roma degli intrighi e più Bruxelles dove provare a dare una scossa all’Europa.

Se il futuro è davvero in fabbrica, quel futuro va ben costruito.

(foto di Carlo Furgeri Gilbert)

Rieccola, la parola antica dal significato nuovo: fabbrica. Era uscita, negli anni Novanta, dal discorso pubblico. E le nuove generazioni, sondate nel 2008 dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli per il libro “Orgoglio industriale” (Mondadori) e poi per un’indagine Assolombarda nel 2010, insistevano nel preferire ostinatamente “al lavoro in fabbrica un impiego anche precario in un call center” o “da commessa in una boutique di moda”. L’aria è cambiata. La buona manifattura competitiva (meccanica, meccatronica, chimica, farmaceutica, gomma, oltre che arredamento, abbigliamento e alimentare) tiene in piedi la parte migliore del Pil del Paese e consente all’Italia di continuare a essere la seconda potenza manifatturiera europea, dopo la Germania e tra i primi cinque paesi al mondo per surplus commerciale (di nuovo meccanica e meccatronica in primo piano). E così ha buon gioco il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia nel proporre “un patto della fabbrica”, parlando con governo e sindacati dal palco del convegno dei Giovani Imprenditori di Capri.

Scelta intelligente, il rilancio della fabbrica, sull’onda del recupero della centralità della manifattura e della cosiddetta “economia reale” dopo la Grande Crisi della sbornia delle speculazioni finanziarie e dell’”economia di carta”, un gigantesco acceleratore di squilibri e inaccettabili diseguaglianze. E ha ragione Boccia quando dice: “Siamo pronti a un patto sulla questione industriale tra gli attori della fabbrica”, un patto “per la crescita, per l’industria, per combattere le diseguaglianze”, nella consapevolezza che “dobbiamo essere attori del cambiamento a partire dalle nostre fabbriche”, chiave di volta per lo sviluppo del paese.

In quel “patto della fabbrica” c’è, riaggiornata, l’eco di antiche passioni della migliore politica italiana, dal “patto dei produttori” (caro al Pri italiano di Ugo La Malfa sostenitore incompreso della “politica dei redditi” e a una certa stagione del Pci di Enrico Berlinguer) al rilancio dell’industria contro le resistenze della burocrazia tutta “lacci e laccioli” e favori clientelari all’impresa pubblica contro cui s’era battuto Guido Carli, da Governatore della Banca d’Italia e poi da presidente di Confindustria nella seconda metà degli anni Settanta. Sino al “riformisno innovatore” del Rapporto di riforma di Confindustria preparato da Leopoldo Pirelli sempre in quei difficili anni Settanta: nuove relazioni industriali, orari di lavoro post tayloristi, concorrenza. Sempre innovazione, insomma. Erano politiche responsabili e lungimiranti. Ma lasciate ai margini. Con grave danno per l’economia italiana e le sue industrie.

Ma di che fabbriche si parla, oggi, quando s’insiste sul cambiamento (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog)? Innanzitutto di quelle 4600 imprese medie e medio-grandi del “quarto capitalismo”, le “multinazionali tascabili” già presenti nelle nicchie d’eccellenza dei mercati internazionali, di quelle imprese in buona parte di proprietà familiare ma fortemente managerializzate, moderne nella governance e nella cultura d’impresa (parecchie sono rappresentate dall’Aidaf, la dinamica Associazione delle imprese familiari brillantemente guidata da Elena Zambon, capo d’una delle migliori industrie farmaceutiche italiane). E poi delle reti e delle supply chain dei loro fornitori, che stimolano all’innovazione e al miglioramento della qualità (esempio d’eccellenza la Ima di Alberto Vacchi, ma anche il gruppo Coesia di Isabella Seragnoli e il “polo del packaging farmaceutico” guidato in provincia di Modena dal Marchesini Group, secondo le innovazioni 4.0: belle fabbriche nell’Emilia produttiva, ricca d’attori che fanno davvero e bene gli industriali, che hanno fatto crescere negli anni, nonostante tutte le difficoltà, le loro “fabbriche”), O, ancora, le “fabbriche” Pirelli, Lavazza e L’Oreal a Settimo Torinese, che proprio su una forte e diffusa cultura dell’innovazione e dell’accoglienza-integrazione (di cui la fabbrica è luogo esemplare dagli anni Cinquanta a oggi) può legittimamente candidarsi a “capitale italiana della cultura per il 2019”. E tutta la serie d’imprese d’eccellenza nella “grande Milano” che lega industria, conoscenza e formazione, in Lombardia e in un Veneto che, nonostante la crisi del “piccolo è bello” si rinnova e innova. Sino alle pur sparute punte di qualità nel Mezzogiorno, da Potenza (dove si discute appassionatamente di Industry4.0) a Bari, da certe aree della Campania ad alcuni buoni esempi in Sicilia.

Eccole, le fabbriche da rendere protagoniste del “patto”. Da valorizzare. Da indicare come esempio e traino per le altre decine di migliaia d’imprese conservatrici e in crisi. E attorno alle cui esperienze costruire una versione tutta italiana di Industry4.0, ben oltre i rigidi paradigmi tedeschi che pur tanto piacciono a Bruxelles e facendo leva sul connubio positivo tra il nostro “capitale umano” (intelligente, colto, flessibile, capace del “su misura” anche nella meccanica più sofisticata, molto più e meglio degli spigolosi e rigidi tedeschi) e le competenze diffuse sul territorio che sanno legare produzione e servizi, innovazione di processo e qualità dei prodotti.

La fabbrica bella: cultura, creatività, sostenibilità” è il tema della prossima Settimana della cultura d’impresa (organizzata da Confindustria e Museimpresa). E “fabbrica bella” vuol dire luminosa, trasparente, accogliente, sicura, con una bassa impronta ambientale (energia rinnovabile, scarso consumo di acqua, riciclaggio, culture da “circular economy”). Una fabbrica sostenibile, ambientalmente e socialmente. E ben progettata. Come la “spina” dei servizi Pirelli a Settimo disegnata da Renzo Piano e gli stabilimenti Zambon progettati da Enzo De Lucchi, la Maserati e la Dallara, il “borgo medioevale” denso di filosofia e arte di Brunello Cucinelli e le altre decine di aziende su cui hanno lavorato architetti e ingegneri di gran nome e buon gusto dell’innovazione.

Eccoli, i temi del “patto della fabbrica”. Che chiedono anche nuove relazioni industriali e nuovi contratti legati alla produttività e alla competitività. Ma anche una cultura diversa che investa direttamente lo stesso mondo delle imprese (sono ancora molte quelle familiste, chiuse, restie all’innovazione, ancorate ai margini risicati del mercato interno, ostili ai cambiamenti). E una profonda riforma della stessa Confindustria: meno uffici romani ministeriali, più peso dei territori dove “le fabbriche” sono motore di cambiamento, relazioni e welfare, meno Roma degli intrighi e più Bruxelles dove provare a dare una scossa all’Europa.

Se il futuro è davvero in fabbrica, quel futuro va ben costruito.

(foto di Carlo Furgeri Gilbert)

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