Il rilancio della Ue e la forza dell’euro restano riferimenti positivi per l’industria italiana
È positivo, il cammino dell’Europa, dal punto di vista dell’industria italiana. E anche la stagione più recente, quella dell’euro, ha stimolato la parte migliore delle nostre imprese a rafforzare la competitività: “Senza il doping della svalutazione della lira una selezione dura e l’obbligo di competere sulla qualità”, documenta Paolo Bricco su Il Sole24Ore (25 marzo). Adesso che la Ue, festeggiati i sessant’anni dal Trattato di Roma, con una Dichiarazione congiunta di tutti e 27 gli Stati membri (la firma solenne in Campidoglio, sabato scorso), prova a continuare a camminare sulla difficile strada del rilancio e si riconosce come “una comunità di pace, libertà, democrazia, fondata sui diritti umani e lo Stato di diritto” e come “una grande potenza economica che può vantare livelli senza pari di protezione sociale e di welfare”, le imprese italiane sanno di potere continuare a crescere guardando alla Ue come un “mercato interno” molto duro, è vero, ma comunque “aperto” e ai mercati globali, con la forza degli impegni politici della stessa Ue e dei suoi membri contro i protezionismi. Il documento finale, infatti, parla di “sistema multilaterale, commercio libero ed equo e politica climatica globale positiva”.
Interpretando bene la retorica delle dichiarazioni e la cautela del linguaggio diplomatico, proprio questo passaggio dice al mondo economico che le politiche europee non obbediranno ai diktat della Casa Bianca di Donald Trump su “America first”, i muri, la crisi dei trattati (a cominciare dalla denuncia del Nafta, il trattato di libero scambio nord americano: moltissime imprese italiane ed europee hanno importanti impianti produttivi in Messico, guardando appunto al mercato Usa) E faranno di tutto perché nei prossimi G20 si ritorni a parlare di “lotta al protezionismo” e di “sostenibilità ambientale e sociale”, proprio le “bestie nere” del presidente Trump.
C’è un altro passaggio importante, nella Dichiarazione di Roma: “Una moneta unica stabile e ancora più forte”. A distanza di tanti anni dalla sua nascita, 1 gennaio 1999 e nonostante la valanga di critiche (molte ideologiche, del peggior populismo, anche all’interno dei paesi europei) e i reali punti di crisi, l’euro resta valido punto di riferimento. E il lavoro fatto dalla Bce ben guidata da Mario Draghi continua a essere un patrimonio prezioso e un valido strumento di sviluppo equilibrato, non un vincolo da abbattere per improbabili e disastrosi ritorni alle monete nazionali.
L’industria italiana, nella seconda metà del Novecento, è cresciuta proprio in chiave europea. Il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta è stato fondato sulla dinamicità di imprese manifatturiere orientate all’export, negli orizzonti aperti del Mec, il Mercato unico europeo. Ha retto agli shock petroliferi del ’73 e del ’78 e alle tensioni sociali degli “anni di piombo” imparando a innovare, facendo nascere nuove culture e organizzazioni d’impresa (i “distretti”) e comunque continuando a guardare ai mercati esteri. S’è ammalata di “svalutazione competitiva” negli anni Ottanta e primi Novanta (il circuito perverso che recuperava la perdita di competitività con la fragilità della valuta, facendo leva sui prezzi tenuti bassi). E s’è ripresa quando, rotto finalmente il giocattolo svalutazione-inflazione, le intese europee (i vincoli del Sistema monetario, il Trattato di Maastricht del 1992 e poi la nascita dell’euro) hanno costretto le imprese a competere non più sul prezzo ma sulla qualità. L’alta qualità di una manifattura d’eccellenza come quella italiana, innervata nei territori e aperta al mondo, forte d’una cultura politecnica del “saper fare, e fare bene”.
“L’euro ha modellato l’industria”, scrive Il Sole24Ore, dimostrando, sulla base di elaborazioni di Oxford Economics, che non saremmo cresciuti affatto di più se avessimo avuto la lira o comunque un euro debole. L’Italia ha perso posti di lavoro nei settori “low skilled”, a bassa qualità ma ha trovato terreno in quelli “high skilled” e “medium skilled”, facendo evolvere la meccanica in meccatronica, la chimica di base in produzioni ad alta qualità, la farmaceutica in sistema produttivo a livello delle migliori prestazioni delle “life sciences” internazionali, l’arredo grazie al design e l’alimentare verso distintive caratteristica positive della “dieta mediterranea” in un ambito e salutare “life style”. Competitività attuale, che regge concorrenze severe e può guardare con preoccupazione ma senza disperazione al futuro.
Questo processo positivo è stato selettivo. Solo il 20% delle nostre imprese ne sono protagoniste. Ma un altro 30% è sulla buona strada dell’innovazione. Manifattura d’eccellenza e di qualità. Che può continuare ad avere spazio nelle principali catene del valore internazionali, giocando da protagonista nelle sfide del “digital”, di “industry 4.0”, di manifattura innervata di servizi innovativi.
L’Italia resta il secondo paese manifatturiero di quest’Europa in cerca di rilancio, subito dopo una Germania che prima o poi dovrà aprirsi e fare seriamente da locomotiva industriale dell’Europa. L’euro e l’intelligenza del nostro capitale umano e del capitale sociale ne sono leva. La competizione è appunto sull’alta qualità. E le fantasie di “ritorno alla lira” o di “doppia moneta” sono buone solo alla propaganda in discorsi densi di retorica, non di fatti e numeri.
La Ue della Dichiarazione di Roma, nonostante le crisi e le cadute, resta attualità e orizzonte. Anche per l’industria italiana.
È positivo, il cammino dell’Europa, dal punto di vista dell’industria italiana. E anche la stagione più recente, quella dell’euro, ha stimolato la parte migliore delle nostre imprese a rafforzare la competitività: “Senza il doping della svalutazione della lira una selezione dura e l’obbligo di competere sulla qualità”, documenta Paolo Bricco su Il Sole24Ore (25 marzo). Adesso che la Ue, festeggiati i sessant’anni dal Trattato di Roma, con una Dichiarazione congiunta di tutti e 27 gli Stati membri (la firma solenne in Campidoglio, sabato scorso), prova a continuare a camminare sulla difficile strada del rilancio e si riconosce come “una comunità di pace, libertà, democrazia, fondata sui diritti umani e lo Stato di diritto” e come “una grande potenza economica che può vantare livelli senza pari di protezione sociale e di welfare”, le imprese italiane sanno di potere continuare a crescere guardando alla Ue come un “mercato interno” molto duro, è vero, ma comunque “aperto” e ai mercati globali, con la forza degli impegni politici della stessa Ue e dei suoi membri contro i protezionismi. Il documento finale, infatti, parla di “sistema multilaterale, commercio libero ed equo e politica climatica globale positiva”.
Interpretando bene la retorica delle dichiarazioni e la cautela del linguaggio diplomatico, proprio questo passaggio dice al mondo economico che le politiche europee non obbediranno ai diktat della Casa Bianca di Donald Trump su “America first”, i muri, la crisi dei trattati (a cominciare dalla denuncia del Nafta, il trattato di libero scambio nord americano: moltissime imprese italiane ed europee hanno importanti impianti produttivi in Messico, guardando appunto al mercato Usa) E faranno di tutto perché nei prossimi G20 si ritorni a parlare di “lotta al protezionismo” e di “sostenibilità ambientale e sociale”, proprio le “bestie nere” del presidente Trump.
C’è un altro passaggio importante, nella Dichiarazione di Roma: “Una moneta unica stabile e ancora più forte”. A distanza di tanti anni dalla sua nascita, 1 gennaio 1999 e nonostante la valanga di critiche (molte ideologiche, del peggior populismo, anche all’interno dei paesi europei) e i reali punti di crisi, l’euro resta valido punto di riferimento. E il lavoro fatto dalla Bce ben guidata da Mario Draghi continua a essere un patrimonio prezioso e un valido strumento di sviluppo equilibrato, non un vincolo da abbattere per improbabili e disastrosi ritorni alle monete nazionali.
L’industria italiana, nella seconda metà del Novecento, è cresciuta proprio in chiave europea. Il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta è stato fondato sulla dinamicità di imprese manifatturiere orientate all’export, negli orizzonti aperti del Mec, il Mercato unico europeo. Ha retto agli shock petroliferi del ’73 e del ’78 e alle tensioni sociali degli “anni di piombo” imparando a innovare, facendo nascere nuove culture e organizzazioni d’impresa (i “distretti”) e comunque continuando a guardare ai mercati esteri. S’è ammalata di “svalutazione competitiva” negli anni Ottanta e primi Novanta (il circuito perverso che recuperava la perdita di competitività con la fragilità della valuta, facendo leva sui prezzi tenuti bassi). E s’è ripresa quando, rotto finalmente il giocattolo svalutazione-inflazione, le intese europee (i vincoli del Sistema monetario, il Trattato di Maastricht del 1992 e poi la nascita dell’euro) hanno costretto le imprese a competere non più sul prezzo ma sulla qualità. L’alta qualità di una manifattura d’eccellenza come quella italiana, innervata nei territori e aperta al mondo, forte d’una cultura politecnica del “saper fare, e fare bene”.
“L’euro ha modellato l’industria”, scrive Il Sole24Ore, dimostrando, sulla base di elaborazioni di Oxford Economics, che non saremmo cresciuti affatto di più se avessimo avuto la lira o comunque un euro debole. L’Italia ha perso posti di lavoro nei settori “low skilled”, a bassa qualità ma ha trovato terreno in quelli “high skilled” e “medium skilled”, facendo evolvere la meccanica in meccatronica, la chimica di base in produzioni ad alta qualità, la farmaceutica in sistema produttivo a livello delle migliori prestazioni delle “life sciences” internazionali, l’arredo grazie al design e l’alimentare verso distintive caratteristica positive della “dieta mediterranea” in un ambito e salutare “life style”. Competitività attuale, che regge concorrenze severe e può guardare con preoccupazione ma senza disperazione al futuro.
Questo processo positivo è stato selettivo. Solo il 20% delle nostre imprese ne sono protagoniste. Ma un altro 30% è sulla buona strada dell’innovazione. Manifattura d’eccellenza e di qualità. Che può continuare ad avere spazio nelle principali catene del valore internazionali, giocando da protagonista nelle sfide del “digital”, di “industry 4.0”, di manifattura innervata di servizi innovativi.
L’Italia resta il secondo paese manifatturiero di quest’Europa in cerca di rilancio, subito dopo una Germania che prima o poi dovrà aprirsi e fare seriamente da locomotiva industriale dell’Europa. L’euro e l’intelligenza del nostro capitale umano e del capitale sociale ne sono leva. La competizione è appunto sull’alta qualità. E le fantasie di “ritorno alla lira” o di “doppia moneta” sono buone solo alla propaganda in discorsi densi di retorica, non di fatti e numeri.
La Ue della Dichiarazione di Roma, nonostante le crisi e le cadute, resta attualità e orizzonte. Anche per l’industria italiana.