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Italia e Ue: il “narcisismo” della cattiva politica e la responsabilità di fare scelte di buon governo

La “democrazia del narcisismo”, carica di gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, frasi aggressive su Twitter, polemiche aspre e segnali forti di leader in “ipertrofia dell’io” può consentire di governare decentemente un grande paese come l’Italia, in stagioni incerte di crisi e radicali trasformazioni? E, comunicazione a parte (per non usare l’inflazionato, fastidioso vocabolo “narrazione” o peggio ancora “narrativa”), quali sono le responsabilità d’una classe dirigente in un mondo carico di vecchi e nuovi conflitti, muri e rinnovate frontiere? Se ne discute a lungo, sui giornali e in libri di lucida saggistica politica e sociale, in seminario e incontri tra studiosi (i dibattiti avviati meritoriamente dall’Aspen Institute e soprattutto dal Censis, ancora guidato da un autorevole intellettuale come Giuseppe De Rita). E anche se le discussioni tra élites (critiche e spesso pure lucidamente autocritiche) sono motivo di dileggio sui social media affollati da anatemi, approssimative conoscenze e posizioni partigiane, il tema del governo e, soprattutto, della “cultura di governo”, resta aperto. E investe in pieno alcune questioni cardine della qualità politica e del futuro della democrazia liberale, oltre che delle speranze d’uno sviluppo economico più equilibrato e sostenibile.

C’è all’opera un governo i cui ministri parlano molto, scompaginando a suon di dichiarazioni le carte tradizionali della politica, in nome di radicali “cambiamenti”. Ma ci sono anche questioni essenziali di scelte da fare (le infrastrutture, l’innovazione, la buona industria manifatturiera competitiva e le crisi industriali da affrontare, dall’Ilva in poi). E il cosiddetto “partito del Pil” (copywright di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera del 22 giugno) chiede responsabilità e impegno reale di governo competente ed efficace: un partito immaginario, ma molto concreto, che vede all’opera grandi banche (Intesa San Paolo guidata da Carlo Messina) e associazioni d’impresa, a cominciare dall’Assolombarda presieduta da Carlo Bonomi e che, d’accordo con Assindustria Veneto Centro (Padova e Treviso) e Confindustria Emilia Centro (Bologna, Modena, Ferrara) fa da spina dorsale del “nuovo triangolo industriale” tra Milano, Nord Est e le “multinazionali tascabili” emiliane, cuore produttivo competitivo di respiro europeo, asse portante della migliore crescita economica (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). Un “partito del Pil” che chiede politica industriale, fisco ridotto per le imprese che innovano e creano ricchezza e occupazione (e non “flat tax”), regole per fare crescere il lavoro produttivo (e non generici redditi di cittadinanza). La sfida, dunque, è politica, da classi dirigenti responsabili. E non di propaganda.

La crisi c’è, insomma. Ma non se ne esce con le chiacchiere.

Per cercare di capire meglio cosa fare, al di là della contingenza, vale la pena proprio andare alle radici della crisi. E partire dunque dalle considerazioni di un politologo di grande spessore culturale, Giovanni Orsina e dal suo ultimo libro edito da Marsilio, “La democrazia del narcisismo”, appunto, una sorta di “breve storia dell’antipolitica”.

Il titolo riecheggia quello d’un vecchio libro essenziale, “La cultura del narcisismo”, scritto nel 1979, quasi quarant’anni fa, da Christopher Lasch, acutissimo storico e sociologo di cultura liberale, un’indagine allora originale su “l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”. Nel 1994, poco prima di morire, Lasch aveva scritto un altro libro utilissimo per capire la nostra controversa attualità, “La ribellione delle élite / Il tradimento della democrazia”. Quei libri erano stati letti da studiosi e politici (pochi, troppo pochi) in cerca di senso delle trasformazioni in corso. Ma mai purtroppo erano diventati base d’una larga discussione pubblica.

Adesso la lezione di Lasch riecheggia nelle pagine del saggio di Orsina, che va alle radici della crisi rileggendo Alexis de Tocqueville sulla critica della neonata democrazia in America e i rischi della “dittatura della maggioranza” e poi due grandi filosofi del Novecento come José Ortega y Gasset e Johan Huizinga. Analizza la contraddizioni insita nella democrazia tra ampliamento dei diritti individuali in cerca della felicità e regole e vincoli istituzionali e sociali. Usa le analisi di “Massa e potere” di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, per rileggere lo sconquasso di Tangentopoli e poi quelle di un altro Nobel, Eugenio Montale, sulla solitudine e l’incertezza della modernità. E spingendosi oltre la deriva libertaria del Sessantotto (una stagione molto politica, concentrata sui “diritti” e sui valori dell’individualismo, prevalenti, nella diffusione di massa, rispetto al collettivismo doveristico e militante dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare), arriva sino all’attualità di Berlusconi, Renzi, Trump, Brexit, Lega di Salvini e 5Stelle e guarda ai “duri cristalli di rancore”: un lungo processo di disagi e fratture che sta radicalmente cambiando istituzioni e valori della politica e della convivenza civile. Tanto insistente parlar male della politica, nell’ultimo quarto di secolo, da leader sia di destra che di sinistra, ha prodotto i frutti avvelenati di cui oggi siamo costretti a occuparci.

Ecco un tema chiave per chi discute di politiche del “governare”, sfide europee e critica delle élite, senza cedere alle tentazioni di quella che Ilvo Diamanti e Marc Lazard chiamano “Popolocrazia”, esaminando, in un recente libro edito da Laterza “la metamorfosi della nostra democrazia”. “La dinamica politica – spiegano – è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal ‘popolo autentico’, minando così la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare popolocrazia”. Un processo che ha radici lunghe nel tempo, è amplificato dai media digitali ma va oltre le normali questioni della comunicazione e investe in pieno le ragioni delle libertà e del sentirsi parte responsabile e attiva di una comunità.

C’è un altro punto di vista su cui riflettere: quello di Yascha Mounk, professore di Teoria politica ad Harvard, in “Popolo vs Democrazia” ovvero “dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, Feltrinelli. Le democrazie liberali sono messe in difficoltà dal crescere delle diseguaglianze economiche, dagli sconvolgimenti dei flussi migratori che incidono sulle percezioni di sicurezza di fronte al pluralismo culturale e dall’ampiezza dei nuovi mezzi di comunicazione che stimolano la partecipazione ma non la formazione di coscienze critiche documentate. L’effetto? “Mentre le istituzioni si riempiono di milionari e tecnocrati, i cittadini conservano i propri diritti civili e le proprie libertà economiche ma vengono esclusi dalla vita politica”. Nascono proteste, contro i tradizionali ceti politici. Crisi radicale, appunto. Cui però Mounk ritiene si possa porre rimedio, cercando di fare crescere “un patriottismo inclusivo” fondato sulla “consapevolezza dei cittadini di essere parte di un’unica comunità”, con diritti e doveri. Sfida politica difficile. Ma possibile.

L’indicazione di Mounk vale, naturalmente, anche per la condizione italiana.

Fuori dal gioco facile e demagogico che fa leva su preoccupazioni, paure e problemi reali (la sicurezza, le diseguaglianze, l’immigrazione, il lavoro, i divari tra generazioni e condizioni sociali, l’incertezza del futuro) e dalle risposte date finora dalle forze di maggioranza e da singoli ministri in forma di slogan a effetto e individuazione di “nemici”, è necessario sapere che è in gioco il ruolo dell’Italia nel corso della generale ridiscussione di regole e opportunità di nuovi equilibri politici ed economici nell’ambito della Ue (ne hanno scritto pochi giorni fa, il 23 giugno, con competenza tre autorevoli economisti italiani, Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales sul Corriere della Sera: “Come proteggere l’interesse italiano in Europa”, con quattro proposte molto concrete sulla riforma dell’Eurozona, dal debito agli investimenti, dal fondo sociale alla disciplina delle banche). E ci sono risposte da dare sull’industria, le infrastrutture, la produttività delle imprese, le trasformazioni legate alle nuove tecnologie, la precarietà del lavoro dei giovani, i rischi di blocco dell’economia in tempi di chiusure nazionalisti e protezionistiche, che danneggiano soprattutto un Paese come l’Italia con forte vocazione all’export (ne scrive con competenza Ferruccio De Bortoli su “L’Economia” del Corriere della Sera, il 25 giugno: “Una guerra commerciale di tutti contro tutti può costare all’Italia un calo del 3,5% dell’export nel 2019. E la ripresa di casa nostra deve (quasi) tutto al successo delle vendite all’estero. Da soli non andiamo lontano”). Il protezionismo all’italiana, demagogfico e impossibile (sono scelte di competenza della Ue) potrebbe comunque solo farci male.

Sono questioni concrete, che chiedono capacità di policy (i progetti, le strategie politiche, la visione del futuro dell’Italia) e scelte sulle politics (provvedimenti concreti, leggi, atti di riforma, procedure amministrative: governo efficiente, insomma).

Il “narcisismo”, di fronte a tali problemi, è dannoso. Serve invece la buona politica. Si spera di vederla presto finalmente all’opera.

La “democrazia del narcisismo”, carica di gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, frasi aggressive su Twitter, polemiche aspre e segnali forti di leader in “ipertrofia dell’io” può consentire di governare decentemente un grande paese come l’Italia, in stagioni incerte di crisi e radicali trasformazioni? E, comunicazione a parte (per non usare l’inflazionato, fastidioso vocabolo “narrazione” o peggio ancora “narrativa”), quali sono le responsabilità d’una classe dirigente in un mondo carico di vecchi e nuovi conflitti, muri e rinnovate frontiere? Se ne discute a lungo, sui giornali e in libri di lucida saggistica politica e sociale, in seminario e incontri tra studiosi (i dibattiti avviati meritoriamente dall’Aspen Institute e soprattutto dal Censis, ancora guidato da un autorevole intellettuale come Giuseppe De Rita). E anche se le discussioni tra élites (critiche e spesso pure lucidamente autocritiche) sono motivo di dileggio sui social media affollati da anatemi, approssimative conoscenze e posizioni partigiane, il tema del governo e, soprattutto, della “cultura di governo”, resta aperto. E investe in pieno alcune questioni cardine della qualità politica e del futuro della democrazia liberale, oltre che delle speranze d’uno sviluppo economico più equilibrato e sostenibile.

C’è all’opera un governo i cui ministri parlano molto, scompaginando a suon di dichiarazioni le carte tradizionali della politica, in nome di radicali “cambiamenti”. Ma ci sono anche questioni essenziali di scelte da fare (le infrastrutture, l’innovazione, la buona industria manifatturiera competitiva e le crisi industriali da affrontare, dall’Ilva in poi). E il cosiddetto “partito del Pil” (copywright di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera del 22 giugno) chiede responsabilità e impegno reale di governo competente ed efficace: un partito immaginario, ma molto concreto, che vede all’opera grandi banche (Intesa San Paolo guidata da Carlo Messina) e associazioni d’impresa, a cominciare dall’Assolombarda presieduta da Carlo Bonomi e che, d’accordo con Assindustria Veneto Centro (Padova e Treviso) e Confindustria Emilia Centro (Bologna, Modena, Ferrara) fa da spina dorsale del “nuovo triangolo industriale” tra Milano, Nord Est e le “multinazionali tascabili” emiliane, cuore produttivo competitivo di respiro europeo, asse portante della migliore crescita economica (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). Un “partito del Pil” che chiede politica industriale, fisco ridotto per le imprese che innovano e creano ricchezza e occupazione (e non “flat tax”), regole per fare crescere il lavoro produttivo (e non generici redditi di cittadinanza). La sfida, dunque, è politica, da classi dirigenti responsabili. E non di propaganda.

La crisi c’è, insomma. Ma non se ne esce con le chiacchiere.

Per cercare di capire meglio cosa fare, al di là della contingenza, vale la pena proprio andare alle radici della crisi. E partire dunque dalle considerazioni di un politologo di grande spessore culturale, Giovanni Orsina e dal suo ultimo libro edito da Marsilio, “La democrazia del narcisismo”, appunto, una sorta di “breve storia dell’antipolitica”.

Il titolo riecheggia quello d’un vecchio libro essenziale, “La cultura del narcisismo”, scritto nel 1979, quasi quarant’anni fa, da Christopher Lasch, acutissimo storico e sociologo di cultura liberale, un’indagine allora originale su “l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”. Nel 1994, poco prima di morire, Lasch aveva scritto un altro libro utilissimo per capire la nostra controversa attualità, “La ribellione delle élite / Il tradimento della democrazia”. Quei libri erano stati letti da studiosi e politici (pochi, troppo pochi) in cerca di senso delle trasformazioni in corso. Ma mai purtroppo erano diventati base d’una larga discussione pubblica.

Adesso la lezione di Lasch riecheggia nelle pagine del saggio di Orsina, che va alle radici della crisi rileggendo Alexis de Tocqueville sulla critica della neonata democrazia in America e i rischi della “dittatura della maggioranza” e poi due grandi filosofi del Novecento come José Ortega y Gasset e Johan Huizinga. Analizza la contraddizioni insita nella democrazia tra ampliamento dei diritti individuali in cerca della felicità e regole e vincoli istituzionali e sociali. Usa le analisi di “Massa e potere” di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, per rileggere lo sconquasso di Tangentopoli e poi quelle di un altro Nobel, Eugenio Montale, sulla solitudine e l’incertezza della modernità. E spingendosi oltre la deriva libertaria del Sessantotto (una stagione molto politica, concentrata sui “diritti” e sui valori dell’individualismo, prevalenti, nella diffusione di massa, rispetto al collettivismo doveristico e militante dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare), arriva sino all’attualità di Berlusconi, Renzi, Trump, Brexit, Lega di Salvini e 5Stelle e guarda ai “duri cristalli di rancore”: un lungo processo di disagi e fratture che sta radicalmente cambiando istituzioni e valori della politica e della convivenza civile. Tanto insistente parlar male della politica, nell’ultimo quarto di secolo, da leader sia di destra che di sinistra, ha prodotto i frutti avvelenati di cui oggi siamo costretti a occuparci.

Ecco un tema chiave per chi discute di politiche del “governare”, sfide europee e critica delle élite, senza cedere alle tentazioni di quella che Ilvo Diamanti e Marc Lazard chiamano “Popolocrazia”, esaminando, in un recente libro edito da Laterza “la metamorfosi della nostra democrazia”. “La dinamica politica – spiegano – è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal ‘popolo autentico’, minando così la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare popolocrazia”. Un processo che ha radici lunghe nel tempo, è amplificato dai media digitali ma va oltre le normali questioni della comunicazione e investe in pieno le ragioni delle libertà e del sentirsi parte responsabile e attiva di una comunità.

C’è un altro punto di vista su cui riflettere: quello di Yascha Mounk, professore di Teoria politica ad Harvard, in “Popolo vs Democrazia” ovvero “dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, Feltrinelli. Le democrazie liberali sono messe in difficoltà dal crescere delle diseguaglianze economiche, dagli sconvolgimenti dei flussi migratori che incidono sulle percezioni di sicurezza di fronte al pluralismo culturale e dall’ampiezza dei nuovi mezzi di comunicazione che stimolano la partecipazione ma non la formazione di coscienze critiche documentate. L’effetto? “Mentre le istituzioni si riempiono di milionari e tecnocrati, i cittadini conservano i propri diritti civili e le proprie libertà economiche ma vengono esclusi dalla vita politica”. Nascono proteste, contro i tradizionali ceti politici. Crisi radicale, appunto. Cui però Mounk ritiene si possa porre rimedio, cercando di fare crescere “un patriottismo inclusivo” fondato sulla “consapevolezza dei cittadini di essere parte di un’unica comunità”, con diritti e doveri. Sfida politica difficile. Ma possibile.

L’indicazione di Mounk vale, naturalmente, anche per la condizione italiana.

Fuori dal gioco facile e demagogico che fa leva su preoccupazioni, paure e problemi reali (la sicurezza, le diseguaglianze, l’immigrazione, il lavoro, i divari tra generazioni e condizioni sociali, l’incertezza del futuro) e dalle risposte date finora dalle forze di maggioranza e da singoli ministri in forma di slogan a effetto e individuazione di “nemici”, è necessario sapere che è in gioco il ruolo dell’Italia nel corso della generale ridiscussione di regole e opportunità di nuovi equilibri politici ed economici nell’ambito della Ue (ne hanno scritto pochi giorni fa, il 23 giugno, con competenza tre autorevoli economisti italiani, Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales sul Corriere della Sera: “Come proteggere l’interesse italiano in Europa”, con quattro proposte molto concrete sulla riforma dell’Eurozona, dal debito agli investimenti, dal fondo sociale alla disciplina delle banche). E ci sono risposte da dare sull’industria, le infrastrutture, la produttività delle imprese, le trasformazioni legate alle nuove tecnologie, la precarietà del lavoro dei giovani, i rischi di blocco dell’economia in tempi di chiusure nazionalisti e protezionistiche, che danneggiano soprattutto un Paese come l’Italia con forte vocazione all’export (ne scrive con competenza Ferruccio De Bortoli su “L’Economia” del Corriere della Sera, il 25 giugno: “Una guerra commerciale di tutti contro tutti può costare all’Italia un calo del 3,5% dell’export nel 2019. E la ripresa di casa nostra deve (quasi) tutto al successo delle vendite all’estero. Da soli non andiamo lontano”). Il protezionismo all’italiana, demagogfico e impossibile (sono scelte di competenza della Ue) potrebbe comunque solo farci male.

Sono questioni concrete, che chiedono capacità di policy (i progetti, le strategie politiche, la visione del futuro dell’Italia) e scelte sulle politics (provvedimenti concreti, leggi, atti di riforma, procedure amministrative: governo efficiente, insomma).

Il “narcisismo”, di fronte a tali problemi, è dannoso. Serve invece la buona politica. Si spera di vederla presto finalmente all’opera.

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