La crisi di fiducia nel capitalismo e il “paradiso della brugola”
Per cercare di fare fronte alla “crisi di fiducia nel capitalismo” vale la pena puntare sul “paradiso della brugola”. Si potrebbe sintetizzare così, tra i risultati d’una ricerca della Harvard University e un luogo reso famoso da un film di successo di Aldo, Giovanni e Giacomo (“Tre uomini e una gamba”) una riflessione su alcuni incontri recenti che hanno avuto come oggetto i temi dello sviluppo, dell’industria e dei nuovi equilibri d’una economia in cerca di sostenibilità.
Partiamo dalla crisi di fiducia. L’Institute of Politics di Harvard ha analizzato le opinioni di un ampio campione di giovani americani tra i 19 e i 25 anni e ha accertato che la maggioranza, il 51%, ha un’opinione negativa del capitalismo. Solo il 42% ne dà un giudizio positivo. E’ un dato sorprendente, che da qualche settimana fa discutere i media americani e la cui eco è arrivata anche in Italia (ne ha parlato Mauro Magatti sul Corriere della Sera del 14 maggio). Perché dà corpo, con la forza di una ricerca scientifica demoscopica, alle questioni e alle preoccupazioni che da tempo animano il discorso pubblico nei paesi economici più avanzati: la crescente intollerabilità degli squilibri dei corsi economici, le insufficienze delle tradizionali culture economiche di mercato, il rafforzarsi di orientamenti molto critici verso la finanza e l’impresa tradizionali. La sfiducia dei giovani Usa è severa. E si sviluppa proprio lì, nel paese cuore del capitalismo, della Borsa, dei mercati finanziari, dei “leoni di Wall Street” e dei rampanti e aggressivi banchieri d’affari. E’ una tendenza forte. Che trova spazio nella letteratura economica, ma anche in molti ambienti sociali e politici (come mostrano anche i consensi per il candidato democratico più radicale nella corsa alla Casa Bianca, Bernie Sanders): meno spazio alle speculazioni finanziarie, più attenzione per l’ambiente, le persone, la giustizia sociale.
Se ne discute naturalmente anche in Italia. E le questioni della qualità dello sviluppo economico, della sostenibilità ambientale e sociale, delle responsabilità dell’impresa trovano attenzione crescente. “Who owns the company?” ovvero “il ruolo del consigliere indipendente nell’impresa a stakeholders multipli”, in processi di governance dell’impresa più responsabili, è stato il tema d’un incontro della NedCommunity (l’associazione degli amministratori non esecutivi e indipendenti) alla Bocconi, con l’eco forte della lezione di Adriano Olivetti sulla cultura e l’etica d’impresa (i valori e non solo la “creazione di valore” per gli azionisti e la crescita, pur essenziale, dei profitti). “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra” è stato al centro delle riflessioni d’un convegno promosso dalla Fondazione Aem, con la partecipazione di storici, economici e responsabili di fondazioni d’impresa (con l’occhio attento alla sostenibilità sociale delle attività imprenditoriali). E di industria, mercati, innovazione e nuovi equilibri economici ha discusso l’Aspen Seminar for Leaders, pochi giorni fa, a Venezia, con un’attenzione particolare, nel dibattito di conclusione, per “l’Italia creativa “ e “la bella fabbrica”. Bella perché ben progettata, luminosa, accogliente, sicura, attenta al risparmio dell’energia comunque rinnovabile, produttiva. E dunque anche competitiva, in grado di reggere la concorrenza internazionale più esigente.
I casi esemplari: il Polo Industriale Pirelli a Settimo Torinese (la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”) con “la spina” dei laboratori di ricerca e dei servizi progettata da Renzo Piano, gli stabilimenti farmaceutici Zambon di Vicenza e di Bresso (la “fabbrica tra gli ulivi”) disegnati da Michele De Lucchi, lo “smart lab” ABB di Dalmine e gli ambienti di lavoro di Sesto San Giovanni, lo stabilimento Maserati di Grugliasco e i sistemi produttivi progettati dalla Siemens, la fabbrica Dallara di Varano de’ Melegari, sulle colline di Parma. Tutti ottimi paradigmi di “bella impresa” in cui la qualità delle architetture industriali si lega bene alle innovazioni hi tech e medium tech di prodotto e di processo. Un’eccellenza italiana del “sapere, saper fare e far sapere”, per usare l’efficace sintesi di Andrea Pontremoli, che della Dallara (auto da corsa) è amministratore delegato. Risuonano anche qui l’eco delle riflessioni e delle attività di Adriano Olivetti, i temi dell’”umanesimo industriale”, le prospettive della “civiltà delle macchine”.
Fabbrica bella, produttiva, sostenibile, è dunque l’indicazione che se ne ricava. Una realtà da fare conoscere meglio alla stessa opinione pubblica italiana, rafforzando pure i legami tra le fabbriche e le scuole. Ma anche una serie di indicazione di prospettiva. Non si possono produrre “cose belle” e “alto di gamma” se non in “ambienti belli”. E la qualità dei prodotti e dei luoghi di produzione possono essere una leva efficace per diffondere la buona cultura d’impresa e cercare di controbattere, così, proprio alla crisi di fiducia che investe l’impresa, l’economia di mercato, “il capitalismo”.
E’ un paese di buoni imprenditori, l’Italia. Con primati produttivi, di qualità, in settori cardine dello sviluppo, come la meccanica. “Il paradiso della brugola”, s’è detto con una battuta al dibattito dell’Aspen, ricordando l’ironia di Aldo Giovanni e Giacomo e pensando seriamente alle straordinarie capacità, le migliori al mondo, di produrre per esempio, viti speciali, la brugola, appunto (officina meccanica fondata da Egidio Brugola nel 1926, nel cuore della Brianza, impresa ancora in mano alla famiglia).
“Ecco, sai come avevo pensato di chiamare il mio nuovo reparto della Dallara? Proprio ‘Il paradiso della brugola’”, racconta Pontremoli, tracciando scenari d’industria innovativa e sostenibile, di “fabbrica bella”. Il capitalismo salvato dalla brugola, no?
Per cercare di fare fronte alla “crisi di fiducia nel capitalismo” vale la pena puntare sul “paradiso della brugola”. Si potrebbe sintetizzare così, tra i risultati d’una ricerca della Harvard University e un luogo reso famoso da un film di successo di Aldo, Giovanni e Giacomo (“Tre uomini e una gamba”) una riflessione su alcuni incontri recenti che hanno avuto come oggetto i temi dello sviluppo, dell’industria e dei nuovi equilibri d’una economia in cerca di sostenibilità.
Partiamo dalla crisi di fiducia. L’Institute of Politics di Harvard ha analizzato le opinioni di un ampio campione di giovani americani tra i 19 e i 25 anni e ha accertato che la maggioranza, il 51%, ha un’opinione negativa del capitalismo. Solo il 42% ne dà un giudizio positivo. E’ un dato sorprendente, che da qualche settimana fa discutere i media americani e la cui eco è arrivata anche in Italia (ne ha parlato Mauro Magatti sul Corriere della Sera del 14 maggio). Perché dà corpo, con la forza di una ricerca scientifica demoscopica, alle questioni e alle preoccupazioni che da tempo animano il discorso pubblico nei paesi economici più avanzati: la crescente intollerabilità degli squilibri dei corsi economici, le insufficienze delle tradizionali culture economiche di mercato, il rafforzarsi di orientamenti molto critici verso la finanza e l’impresa tradizionali. La sfiducia dei giovani Usa è severa. E si sviluppa proprio lì, nel paese cuore del capitalismo, della Borsa, dei mercati finanziari, dei “leoni di Wall Street” e dei rampanti e aggressivi banchieri d’affari. E’ una tendenza forte. Che trova spazio nella letteratura economica, ma anche in molti ambienti sociali e politici (come mostrano anche i consensi per il candidato democratico più radicale nella corsa alla Casa Bianca, Bernie Sanders): meno spazio alle speculazioni finanziarie, più attenzione per l’ambiente, le persone, la giustizia sociale.
Se ne discute naturalmente anche in Italia. E le questioni della qualità dello sviluppo economico, della sostenibilità ambientale e sociale, delle responsabilità dell’impresa trovano attenzione crescente. “Who owns the company?” ovvero “il ruolo del consigliere indipendente nell’impresa a stakeholders multipli”, in processi di governance dell’impresa più responsabili, è stato il tema d’un incontro della NedCommunity (l’associazione degli amministratori non esecutivi e indipendenti) alla Bocconi, con l’eco forte della lezione di Adriano Olivetti sulla cultura e l’etica d’impresa (i valori e non solo la “creazione di valore” per gli azionisti e la crescita, pur essenziale, dei profitti). “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra” è stato al centro delle riflessioni d’un convegno promosso dalla Fondazione Aem, con la partecipazione di storici, economici e responsabili di fondazioni d’impresa (con l’occhio attento alla sostenibilità sociale delle attività imprenditoriali). E di industria, mercati, innovazione e nuovi equilibri economici ha discusso l’Aspen Seminar for Leaders, pochi giorni fa, a Venezia, con un’attenzione particolare, nel dibattito di conclusione, per “l’Italia creativa “ e “la bella fabbrica”. Bella perché ben progettata, luminosa, accogliente, sicura, attenta al risparmio dell’energia comunque rinnovabile, produttiva. E dunque anche competitiva, in grado di reggere la concorrenza internazionale più esigente.
I casi esemplari: il Polo Industriale Pirelli a Settimo Torinese (la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”) con “la spina” dei laboratori di ricerca e dei servizi progettata da Renzo Piano, gli stabilimenti farmaceutici Zambon di Vicenza e di Bresso (la “fabbrica tra gli ulivi”) disegnati da Michele De Lucchi, lo “smart lab” ABB di Dalmine e gli ambienti di lavoro di Sesto San Giovanni, lo stabilimento Maserati di Grugliasco e i sistemi produttivi progettati dalla Siemens, la fabbrica Dallara di Varano de’ Melegari, sulle colline di Parma. Tutti ottimi paradigmi di “bella impresa” in cui la qualità delle architetture industriali si lega bene alle innovazioni hi tech e medium tech di prodotto e di processo. Un’eccellenza italiana del “sapere, saper fare e far sapere”, per usare l’efficace sintesi di Andrea Pontremoli, che della Dallara (auto da corsa) è amministratore delegato. Risuonano anche qui l’eco delle riflessioni e delle attività di Adriano Olivetti, i temi dell’”umanesimo industriale”, le prospettive della “civiltà delle macchine”.
Fabbrica bella, produttiva, sostenibile, è dunque l’indicazione che se ne ricava. Una realtà da fare conoscere meglio alla stessa opinione pubblica italiana, rafforzando pure i legami tra le fabbriche e le scuole. Ma anche una serie di indicazione di prospettiva. Non si possono produrre “cose belle” e “alto di gamma” se non in “ambienti belli”. E la qualità dei prodotti e dei luoghi di produzione possono essere una leva efficace per diffondere la buona cultura d’impresa e cercare di controbattere, così, proprio alla crisi di fiducia che investe l’impresa, l’economia di mercato, “il capitalismo”.
E’ un paese di buoni imprenditori, l’Italia. Con primati produttivi, di qualità, in settori cardine dello sviluppo, come la meccanica. “Il paradiso della brugola”, s’è detto con una battuta al dibattito dell’Aspen, ricordando l’ironia di Aldo Giovanni e Giacomo e pensando seriamente alle straordinarie capacità, le migliori al mondo, di produrre per esempio, viti speciali, la brugola, appunto (officina meccanica fondata da Egidio Brugola nel 1926, nel cuore della Brianza, impresa ancora in mano alla famiglia).
“Ecco, sai come avevo pensato di chiamare il mio nuovo reparto della Dallara? Proprio ‘Il paradiso della brugola’”, racconta Pontremoli, tracciando scenari d’industria innovativa e sostenibile, di “fabbrica bella”. Il capitalismo salvato dalla brugola, no?