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Le piazze hi tech di Milano e gli investimenti esteri: un esempio contro la retorica da “decrescita felice”

Una piazza, a Milano. Antica, nel ricordo dei milanesi più anziani, la Piazzetta Liberty con i suoi palazzi eleganti e i bar d’una volta. Ipercontemporanea, adesso, con la grande fontana in un prisma di vetro che si apre su una scalinata che porta al nuovo grande centro dell’Apple. Una sintesi straordinaria tra la tradizione europea e l’immagine che richiama New York. Milano si rinnova continuamente, città rotonda, accogliente, inclusiva. E i protagonisti sono la buona amministrazione pubblica che qualifica i luoghi e stimola le imprese, le multinazionali in rete con l’industria lombarda, i cittadini con un forte senso dell’innovazione. “Il mondo Apple nel negozio da archistar. Milano capitale della ‘app economy’”, si entusiasma Il Sole24Ore (25 luglio) insistendo sul progetto dello studio di Norman Foster e ricordando che tutta la filiera dell’economia delle app digitali dà lavoro a 25mila persone. E il sindaco Beppe Sala: “Da Apple alle periferie, così innoviamo Milano”, notando che la Siemens ha appena aperto il suo head quartier ai margini del Quartiere Adriano, periferia degradata e ricordando le tante altre novità urbanistiche da Porta Nuova a CityLife, dalla Bicocca allo Human Technopole e aspettando adesso l’inaugurazione del nuovo centro Starbucks in piazza Cordusio, uno dei maggiori investimenti del gruppo in Europa.

Ci sono più di 4.200 imprese estere, a Milano, con 208 miliardi di euro di fatturato, un terzo del totale italiano e lavoro per 431mila persone. E Assolombarda calcola che proprio grazie a queste presenze si possono fare confronti positivi tra Milano e le altre metropoli più dinamiche, da Chicago a Barcellona, da Monaco a Francoforte alle grandi Londra e Parigi.

Ecco il punto: Milano continua a crescere attirando capitali e intelligenze un po’ da tutto il mondo, nelle sue università, nelle imprese manifatturiere e dei servizi, nella straordinaria filiera delle life sciences (oramai un’eccellenza internazionale), nel settore immobiliare. E può fare da riferimento per tutto il resto del Paese e da locomotiva per la sua crescita, con respiro europeo. Non può chiudersi, dunque. Anzi, deve continuare a insistere sulla tradizione di città aperta. Come sanno bene tutti i suoi attori sociali, che guardano con fastidio le politiche attuali di protezionismo, sovranismo, scelte polemiche con la Ue (da riformare, certo, ma non da cercare irresponsabilmente di mettere di crisi e abbattere). Europa è parola cardine, del patrimonio culturale e ideale delle imprese. Su cui tenere ferma la barra del timone verso lo sviluppo.

Si pone qui, dunque, la questione essenziale della crescita o della decrescita. Equilibrata e sostenibile, la prima, secondo le condivisibili raccomandazioni di Papa Francesco e di buona parte della migliore letteratura economica e in linea con le scelte di competitività delle imprese più innovative e più attente alle questioni etiche e sociali dello sviluppo. Mai felice, invece, la seconda (con buona pace dei seguaci nostrani di Serge Latouche) e carica, semmai, di vincoli che portano verso un impoverimento complessivo. Una decrescita che – vale la pena aggiungere – si lega con l’ideologia dei “no” (alla Tav, ai metanodotti, alla Pedemontana e al Terzo Valico che dovrebbe finalmente collegare il porto di Genova alle regioni padane più produttive e all’Europa, alle opere pubbliche, alle infrastrutture, alla modernizzazione del nostro Paese), ha il sapore del provincialismo egoistico che la pubblicistica anglosassone da tempo chiama “nimby” (not in my backyard, non nel retro del mio cortile, cioè) e, ostile alle culture del mercato e dell’impresa, sembra sempre più inclinare verso la passione per il posto pubblico (sondaggio Swg-Corriere della Sera, 18 luglio).

Il problema è che la ricchezza, per poterla redistribuire, va prima prodotta, proprio grazie all’impegno di imprese e lavoratori. Ed è da quella stessa ricchezza che, attraverso le tasse, derivano le risorse per pagare anche gli stipendi dei lavoratori pubblici. Nozioni ovvie, naturalmente. Ma che val la pena ripetere, in tempi di crescente ignoranza economica e scientifica, di illusioni che esista un ideologico “paese dei balocchi”.

Le imprese, creatrici di ricchezza, lavoro, benessere e anche welfare (lo documentano anche molti dei recenti contratti di lavoro, di categoria e integrativi aziendali, di cui abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) tornano così in primo piano. E hanno ragione quando in Veneto (terra di piccoli e medi imprenditori, non di grandi gruppi multinazionali) protestano in massa contro i nuovi vincoli sul lavoro del decreto cosiddetto “dignità”, raccogliendo l’ascolto attento del governatore della Regione Luca Zaia, leghista, inquieto per un elettorato che ha sempre considerato la Lega vicina al mondo produttivo e adesso assiste sgomento alle derive anti-industrialiste del M5S in ruoli chiave di governo.

La proteste del Veneto non è naturalmente un caso regionale isolato. In Lombardia c’è l’allarme sul clima anti-imprese del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi e del presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti (metalmeccanico di Brescia, terra di piccole e medie imprese dinamiche e aperte al mondo). In Piemonte, emergono le preoccupazioni di Dario Gallina, presidente degli industriali di Torino: “I primi provvedimenti del governo sono all’insegna degli impulsi anti-industriali”.

Si fa sentire, insomma, la parte essenziale di quello che da qualche tempo viene definito “il partito del Pil” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera): Confindustrie, banche, commercianti, istituzioni finanziarie e, istituzioni di rappresentanza a parte, tutto il variegato e complesso mondo delle imprese che in questi anni difficili hanno saputo reagire alla Grande Crisi e hanno investito, innovato, conquistato spazio per l’export e gli investimenti all’estero, affrontato con un certo successo anche le difficilissime sfide della trasformazione digitale dell’economia, la svolta di Industry4.0 (ben sostenuto anche da intelligenti sostegni fiscali dei governi prima di centro destra e poi di centro sinistra). È un mondo denso di intelligenza, creatività, spirito d’intraprendenza ma anche solidi umori civili di comunità e di inclusione. Che ha tutto il diritto di essere ascoltato e tenuto in attenta considerazione. Un mondo che merita sia riconosciuta, apprezzata e sostenuta la sua “dignità”

Una piazza, a Milano. Antica, nel ricordo dei milanesi più anziani, la Piazzetta Liberty con i suoi palazzi eleganti e i bar d’una volta. Ipercontemporanea, adesso, con la grande fontana in un prisma di vetro che si apre su una scalinata che porta al nuovo grande centro dell’Apple. Una sintesi straordinaria tra la tradizione europea e l’immagine che richiama New York. Milano si rinnova continuamente, città rotonda, accogliente, inclusiva. E i protagonisti sono la buona amministrazione pubblica che qualifica i luoghi e stimola le imprese, le multinazionali in rete con l’industria lombarda, i cittadini con un forte senso dell’innovazione. “Il mondo Apple nel negozio da archistar. Milano capitale della ‘app economy’”, si entusiasma Il Sole24Ore (25 luglio) insistendo sul progetto dello studio di Norman Foster e ricordando che tutta la filiera dell’economia delle app digitali dà lavoro a 25mila persone. E il sindaco Beppe Sala: “Da Apple alle periferie, così innoviamo Milano”, notando che la Siemens ha appena aperto il suo head quartier ai margini del Quartiere Adriano, periferia degradata e ricordando le tante altre novità urbanistiche da Porta Nuova a CityLife, dalla Bicocca allo Human Technopole e aspettando adesso l’inaugurazione del nuovo centro Starbucks in piazza Cordusio, uno dei maggiori investimenti del gruppo in Europa.

Ci sono più di 4.200 imprese estere, a Milano, con 208 miliardi di euro di fatturato, un terzo del totale italiano e lavoro per 431mila persone. E Assolombarda calcola che proprio grazie a queste presenze si possono fare confronti positivi tra Milano e le altre metropoli più dinamiche, da Chicago a Barcellona, da Monaco a Francoforte alle grandi Londra e Parigi.

Ecco il punto: Milano continua a crescere attirando capitali e intelligenze un po’ da tutto il mondo, nelle sue università, nelle imprese manifatturiere e dei servizi, nella straordinaria filiera delle life sciences (oramai un’eccellenza internazionale), nel settore immobiliare. E può fare da riferimento per tutto il resto del Paese e da locomotiva per la sua crescita, con respiro europeo. Non può chiudersi, dunque. Anzi, deve continuare a insistere sulla tradizione di città aperta. Come sanno bene tutti i suoi attori sociali, che guardano con fastidio le politiche attuali di protezionismo, sovranismo, scelte polemiche con la Ue (da riformare, certo, ma non da cercare irresponsabilmente di mettere di crisi e abbattere). Europa è parola cardine, del patrimonio culturale e ideale delle imprese. Su cui tenere ferma la barra del timone verso lo sviluppo.

Si pone qui, dunque, la questione essenziale della crescita o della decrescita. Equilibrata e sostenibile, la prima, secondo le condivisibili raccomandazioni di Papa Francesco e di buona parte della migliore letteratura economica e in linea con le scelte di competitività delle imprese più innovative e più attente alle questioni etiche e sociali dello sviluppo. Mai felice, invece, la seconda (con buona pace dei seguaci nostrani di Serge Latouche) e carica, semmai, di vincoli che portano verso un impoverimento complessivo. Una decrescita che – vale la pena aggiungere – si lega con l’ideologia dei “no” (alla Tav, ai metanodotti, alla Pedemontana e al Terzo Valico che dovrebbe finalmente collegare il porto di Genova alle regioni padane più produttive e all’Europa, alle opere pubbliche, alle infrastrutture, alla modernizzazione del nostro Paese), ha il sapore del provincialismo egoistico che la pubblicistica anglosassone da tempo chiama “nimby” (not in my backyard, non nel retro del mio cortile, cioè) e, ostile alle culture del mercato e dell’impresa, sembra sempre più inclinare verso la passione per il posto pubblico (sondaggio Swg-Corriere della Sera, 18 luglio).

Il problema è che la ricchezza, per poterla redistribuire, va prima prodotta, proprio grazie all’impegno di imprese e lavoratori. Ed è da quella stessa ricchezza che, attraverso le tasse, derivano le risorse per pagare anche gli stipendi dei lavoratori pubblici. Nozioni ovvie, naturalmente. Ma che val la pena ripetere, in tempi di crescente ignoranza economica e scientifica, di illusioni che esista un ideologico “paese dei balocchi”.

Le imprese, creatrici di ricchezza, lavoro, benessere e anche welfare (lo documentano anche molti dei recenti contratti di lavoro, di categoria e integrativi aziendali, di cui abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) tornano così in primo piano. E hanno ragione quando in Veneto (terra di piccoli e medi imprenditori, non di grandi gruppi multinazionali) protestano in massa contro i nuovi vincoli sul lavoro del decreto cosiddetto “dignità”, raccogliendo l’ascolto attento del governatore della Regione Luca Zaia, leghista, inquieto per un elettorato che ha sempre considerato la Lega vicina al mondo produttivo e adesso assiste sgomento alle derive anti-industrialiste del M5S in ruoli chiave di governo.

La proteste del Veneto non è naturalmente un caso regionale isolato. In Lombardia c’è l’allarme sul clima anti-imprese del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi e del presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti (metalmeccanico di Brescia, terra di piccole e medie imprese dinamiche e aperte al mondo). In Piemonte, emergono le preoccupazioni di Dario Gallina, presidente degli industriali di Torino: “I primi provvedimenti del governo sono all’insegna degli impulsi anti-industriali”.

Si fa sentire, insomma, la parte essenziale di quello che da qualche tempo viene definito “il partito del Pil” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera): Confindustrie, banche, commercianti, istituzioni finanziarie e, istituzioni di rappresentanza a parte, tutto il variegato e complesso mondo delle imprese che in questi anni difficili hanno saputo reagire alla Grande Crisi e hanno investito, innovato, conquistato spazio per l’export e gli investimenti all’estero, affrontato con un certo successo anche le difficilissime sfide della trasformazione digitale dell’economia, la svolta di Industry4.0 (ben sostenuto anche da intelligenti sostegni fiscali dei governi prima di centro destra e poi di centro sinistra). È un mondo denso di intelligenza, creatività, spirito d’intraprendenza ma anche solidi umori civili di comunità e di inclusione. Che ha tutto il diritto di essere ascoltato e tenuto in attenta considerazione. Un mondo che merita sia riconosciuta, apprezzata e sostenuta la sua “dignità”

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