L’importanza del congiuntivo e la lezione attuale di Tullio De Mauro e don Lorenzo Milani
E se investissi, comprassi, producessi, vendessi? Se andassi, votassi, dessi, volessi… E’ importante, il congiuntivo. Necessario. Per dare conto, compiutamente, di ipotesi, desideri, possibilità. Nell’epoca dell’economia della conoscenza, il linguaggio è cardine fondamentale non solo del “discorso pubblico” ma anche delle competenze più sofisticate della ricerca, della scienza, dell’economia. La sua articolazione è essenziale. Nell’età dell’incertezza e della “società liquida”, il congiuntivo è il modo verbale della complessità contemporanea. Altro che abolirlo, come vorrebbero alcuni. Va salvaguardato. Usato. Diffuso. Per la qualità del nostro parlare. E dunque del nostro fare.
Vediamo meglio. Partendo dalla questione ribadita di recente dal politologo Angelo Panebianco (“Sette – Corriere della Sera”, 23 dicembre), in un commento intitolato: “Un Paese diviso dal verbo”. Questa la tesi: “La scelta, anche accademica, che si possa rinunciare all’uso del congiuntivo, e dunque al suo insegnamento, invece che unire separa ulteriormente le classi sociali”. Le differenze di classe, infatti, “sono molto meno visibili d’un tempo”. Ma, al di là delle apparenze (abbigliamento, costumi, consumi), “saranno forse proprio le abitudini linguistiche a segnalare le differenze sociali. Se ascolto un giovane parlare non ci metto molto a capire se ha fatto scuole buone o mediocri e se il capitale culturale della sua famiglia sia ricco o povero”. E tra due persone abbastanza qualificate “assumerei quella che ha una competenza linguistica superiore”. Il congiuntivo può fare da discriminante. Anche sul mercato del lavoro. Sul destino delle nuove generazioni. La questione posta da don Milani, dunque, si ripropone (vale la pena rileggerlo, a mezzo secolo dalla sua morte, magari seguendo le pagine della sua biografia scritta di recente da Mario Lancisi: “Processo all’obbedienza”, Laterza).
La discussione pubblica sui rischi di declino del congiuntivo, come si sa, è ricorrente. Anche su Facebook abbondano i gruppi in difesa del suo uso. Ma se il congiuntivo va in crisi “non facciamone un dramma”, avverte un autorevole membro dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, nel suo nuovo libro, “Lezione di italiano” (Mondadori), aggiungendo che la lingua si evolve, “bisogna sì rispettarla” ma “evitando atteggiamenti aristocratici”.
Congiuntivo “aristocratico” addio, dunque? Forse. Ma con una lingua che diventerebbe comunque più povera, involgarita, privata da essenziali sfumature di senso e sostanza. E con un evidente svantaggio: per le componenti sociali più povere, fragili, poco colte.
Anche le tendenze attuali a rendere più “facile” la scuola, con studi meno impegnativi ed esami meno severi (abolizione delle prove scritte agli esami, per esempio) vanno in questa malaugurata direzione negativa. Commenta il filosofo Nuccio Ordine: “Indebolire l’istruzione pubblica significa penalizzare i figli delle famiglie più deboli (i ricchi possono iscriversi altrove). La conoscenza richiede tempo, lentezza, sacrificio. La fretta e il facile sono nemici dell’apprendimento” (Corriere della Sera, 20 dicembre). Come l’abolizione del congiuntivo, appunto. E’ necessario insistere se non sia il caso di difenderlo, invece. E usarlo di più. E meglio.
Linguaggio come responsabilità, dunque. Come potere. Come strumento della democrazia (vale, sempre più, la lezione d’un linguista come Tullio De Mauro, scomparso pochi giorni fa e dell’analisi di Antonio Gramsci sulla “politicità d’ogni questione linguistica”).
C’è un altro insegnamento, da tenere a mente. Condensato in questa frase: “Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”.
Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di “Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana“, libro fondamentale sul potere della parola e sulla qualità della scuola, scritto da don Lorenzo Milani (intellettuale amatissimo anche da De Mauro, che lo considerava un maestro) e dagli studenti di quel borgo perso sulle colline toscane. E quell’affermazione continua ad avere una straordinaria attualità. E’ vero, infatti, che il livello medio d’istruzione è molto cresciuto. Ed è altrettanto vero che è ancor più aumentata la necessità di conoscenze e competenze per fare fronte a tutte le domande poste da una controversa contemporaneità (per l’economia, la scienza, la ricerca, la qualità dell’ambiente e della vita). Senza però – ecco il problema – che si sia adeguatamente innalzato il livello culturale diffuso. E sia migliorato il linguaggio che ne è strumento e testimone.
Siamo di fronte a un aumento di competenze, anche in profondità. Ma non di conoscenze critiche e consapevoli. Questione di radicale importanza. Che investe la convivenza civile (cos’è mai un cittadino incapace di un “discorso pubblico”, cioè d’una partecipazione critica al dibattito politico e alle scelte sociali?), lo sviluppo economico, la formazione e la qualità delle élites, le fondamenta stesse della democrazia (l’insidia del populismo sta anche nel pessimo linguaggio, rozzo e approssimativo, dei suoi esponenti).
Stanno nella cultura, infatti, ancora oggi, i cardini del potere. Nella produzione e nel controllo della conoscenza. Dunque, nella ricchezza delle parole dette e scritte. Nella sofisticata padronanza della lingua (meglio: delle lingue). E delle sue forme e dei suoi modi. Congiuntivo naturalmente compreso.
E se investissi, comprassi, producessi, vendessi? Se andassi, votassi, dessi, volessi… E’ importante, il congiuntivo. Necessario. Per dare conto, compiutamente, di ipotesi, desideri, possibilità. Nell’epoca dell’economia della conoscenza, il linguaggio è cardine fondamentale non solo del “discorso pubblico” ma anche delle competenze più sofisticate della ricerca, della scienza, dell’economia. La sua articolazione è essenziale. Nell’età dell’incertezza e della “società liquida”, il congiuntivo è il modo verbale della complessità contemporanea. Altro che abolirlo, come vorrebbero alcuni. Va salvaguardato. Usato. Diffuso. Per la qualità del nostro parlare. E dunque del nostro fare.
Vediamo meglio. Partendo dalla questione ribadita di recente dal politologo Angelo Panebianco (“Sette – Corriere della Sera”, 23 dicembre), in un commento intitolato: “Un Paese diviso dal verbo”. Questa la tesi: “La scelta, anche accademica, che si possa rinunciare all’uso del congiuntivo, e dunque al suo insegnamento, invece che unire separa ulteriormente le classi sociali”. Le differenze di classe, infatti, “sono molto meno visibili d’un tempo”. Ma, al di là delle apparenze (abbigliamento, costumi, consumi), “saranno forse proprio le abitudini linguistiche a segnalare le differenze sociali. Se ascolto un giovane parlare non ci metto molto a capire se ha fatto scuole buone o mediocri e se il capitale culturale della sua famiglia sia ricco o povero”. E tra due persone abbastanza qualificate “assumerei quella che ha una competenza linguistica superiore”. Il congiuntivo può fare da discriminante. Anche sul mercato del lavoro. Sul destino delle nuove generazioni. La questione posta da don Milani, dunque, si ripropone (vale la pena rileggerlo, a mezzo secolo dalla sua morte, magari seguendo le pagine della sua biografia scritta di recente da Mario Lancisi: “Processo all’obbedienza”, Laterza).
La discussione pubblica sui rischi di declino del congiuntivo, come si sa, è ricorrente. Anche su Facebook abbondano i gruppi in difesa del suo uso. Ma se il congiuntivo va in crisi “non facciamone un dramma”, avverte un autorevole membro dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, nel suo nuovo libro, “Lezione di italiano” (Mondadori), aggiungendo che la lingua si evolve, “bisogna sì rispettarla” ma “evitando atteggiamenti aristocratici”.
Congiuntivo “aristocratico” addio, dunque? Forse. Ma con una lingua che diventerebbe comunque più povera, involgarita, privata da essenziali sfumature di senso e sostanza. E con un evidente svantaggio: per le componenti sociali più povere, fragili, poco colte.
Anche le tendenze attuali a rendere più “facile” la scuola, con studi meno impegnativi ed esami meno severi (abolizione delle prove scritte agli esami, per esempio) vanno in questa malaugurata direzione negativa. Commenta il filosofo Nuccio Ordine: “Indebolire l’istruzione pubblica significa penalizzare i figli delle famiglie più deboli (i ricchi possono iscriversi altrove). La conoscenza richiede tempo, lentezza, sacrificio. La fretta e il facile sono nemici dell’apprendimento” (Corriere della Sera, 20 dicembre). Come l’abolizione del congiuntivo, appunto. E’ necessario insistere se non sia il caso di difenderlo, invece. E usarlo di più. E meglio.
Linguaggio come responsabilità, dunque. Come potere. Come strumento della democrazia (vale, sempre più, la lezione d’un linguista come Tullio De Mauro, scomparso pochi giorni fa e dell’analisi di Antonio Gramsci sulla “politicità d’ogni questione linguistica”).
C’è un altro insegnamento, da tenere a mente. Condensato in questa frase: “Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”.
Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di “Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana“, libro fondamentale sul potere della parola e sulla qualità della scuola, scritto da don Lorenzo Milani (intellettuale amatissimo anche da De Mauro, che lo considerava un maestro) e dagli studenti di quel borgo perso sulle colline toscane. E quell’affermazione continua ad avere una straordinaria attualità. E’ vero, infatti, che il livello medio d’istruzione è molto cresciuto. Ed è altrettanto vero che è ancor più aumentata la necessità di conoscenze e competenze per fare fronte a tutte le domande poste da una controversa contemporaneità (per l’economia, la scienza, la ricerca, la qualità dell’ambiente e della vita). Senza però – ecco il problema – che si sia adeguatamente innalzato il livello culturale diffuso. E sia migliorato il linguaggio che ne è strumento e testimone.
Siamo di fronte a un aumento di competenze, anche in profondità. Ma non di conoscenze critiche e consapevoli. Questione di radicale importanza. Che investe la convivenza civile (cos’è mai un cittadino incapace di un “discorso pubblico”, cioè d’una partecipazione critica al dibattito politico e alle scelte sociali?), lo sviluppo economico, la formazione e la qualità delle élites, le fondamenta stesse della democrazia (l’insidia del populismo sta anche nel pessimo linguaggio, rozzo e approssimativo, dei suoi esponenti).
Stanno nella cultura, infatti, ancora oggi, i cardini del potere. Nella produzione e nel controllo della conoscenza. Dunque, nella ricchezza delle parole dette e scritte. Nella sofisticata padronanza della lingua (meglio: delle lingue). E delle sue forme e dei suoi modi. Congiuntivo naturalmente compreso.