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L’industria italiana hi-tech non trova decine di migliaia di tecnici. E il governo pensa solo a reddito di cittadinanza e salario minimo

469mila tecnici. Un numero imponente. Arrotondando appena, potremmo dire mezzo milione di persone. Sono quelle cui l’impresa italiana è pronta a offrire un posto di lavoro da oggi al 2022, tra tecnici, diplomati negli Its (gli istituti tecnici superiori) e laureati nelle discipline stem (e cioè science, technology, engineering e mathematics) ma che non trova o comunque trova con moltissima difficoltà, almeno in un terzo dei casi. Ecco il punto: le nostre industrie più dinamiche, investendo in ricerca, innovazione, trasformazioni digital, produzioni e servizi hi tech da “Industria 4.0”, stanno facendo di tutto per tenere testa alle nuove dimensioni della competitività internazionale, ma si scontrano con i limiti di un mercato del lavoro inadeguato alle sfide dello sviluppo.

Altri dati, da settori diversi dell’industria, parlano con preoccupazione del lavoro che si offre, ma senza risposte, proprio in un’Italia palude a crescita zero (+0,1% del Pil nel 2019, ha confermato nei giorni scorsi la Banca d’Italia) e con livelli di disoccupazione record nell’area della Ue, soprattutto tra i giovani. “Fincantieri cerca 6mila addetti, tecnici, carpentieri e saldatori, ma non sappiamo dove trovarli”, denuncia l’amministratore delegato del gruppo Giuseppe Bono (Corriere della Sera e Il Sole24Ore, 11 luglio), cosciente delle prospettive di sviluppo, con commesse per oltre 10 anni, grazie anche all’acquisizione della francese Stx.

Pure dal mondo dell’industria dell’abbigliamento e del lusso si fa sapere che da oggi al 2023 sono previste 48mila assunzioni, di tecnici con retribuzioni nette da 1.700 a 3.000 euro, ma per un terzo di quelle posizioni non ci sono specialisti.
“Sviluppatori, analisti, progettisti per impianti di telecomunicazioni, l’hi tech cerca 45mila specialisti”, titola Il Sole24Ore (12 luglio), raccogliendo le indicazioni delle imprese Ict, il mondo digitale, essenziale per la crescita delle imprese manifatturiere e di servizi, secondo i paradigmi competitivi di “Industria 4.0”. E i numeri sono ancora più elevati se si guarda al settore dell’automazione, all’industria meccanica e meccatronica: “La robotica cerca 96mila addetti ma non ne trova uno su tre”, titola sempre Il Sole24Ore (13 luglio). Non ce ne sono già pronti sul mercato, non ce ne saranno nei prossimi anni, se solo 17mila iscritti agli istituti tecnici (nel settore tecnologia) hanno scelto di studiare le materie legate alla meccatronica.

Le imprese migliori vanno in una direzione, la scuola in tutt’altra. E qui si ripropongono tutte le questioni legate agli Its (gli Istituti tecnici superiori) snobbati sia dalle famiglie che dalle istituzioni pubbliche di governo della scuola (poco più di 10mila iscritti appena, contro gli 800mila che alimentano la formidabile macchina produttiva tedesca, la prima manifattura d’Europa, davanti a un’Italia che fa sempre più fatica a tenere il passo della seconda posizione, incalzata dalla Francia che rilancia gli investimenti di politica industriale e sta di conseguenza orientando tutti i processi di formazione). C’è una chiara correlazione tra la digitalizzazione e la crescita economica, documenta, per l’Europa, l’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano (Corriere della Sera, 14 luglio), con un grafico che lega la crescita del Pil procapite annuale ai dati del Digital Economy and social Index: l’Italia è nella parte bassa della linea, appena prima di Bulgaria, Romania, Grecia e Polonia, mentre in testa ci sono Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, seguite da Regno Unito, Belgio, Germania. Anche la Spagna sta meglio di noi.

Torniamo così al tema della formazione e degli investimenti pubblici. La scuola guarda all’industria, alla produttività, alle professioni tecniche? No. Le scelte in materia d’istruzione del governo giallo-verde confermano questa deriva negativa. Un esempio: l’alternanza scuola-lavoro è stata fortemente ridimensionata e nella definizione dei nuovi assetti manca completamente la parola “lavoro”, come se fosse una dimensione negativa, un errore, una dizione di cui vergognarsi.
D’altronde, non è affatto una novità che i partiti che tengono in piedi il governo (Cinque Stelle e Lega) facciano scelte ostili all’impresa, alla cultura scientifica, alle infrastrutture produttive, alla competitività. La spesa pubblica è orientata all’assistenzialismo (reddito di cittadinanza, “quota 100” per le pensioni), si insiste sul “salario minimo” (incuranti dei danni che l’aumento del costo del lavoro farà alle imprese), si parla sempre più confusamente di flat tax ma non di strategie fiscali a sostegno dell’innovazione (come avevano fatto, con ottimi effetti sulla crescita e la competitività, i precedenti governi sia di centro-destra che di centro-sinistra), si distorcono gli investimenti pubblici per rafforzare la presa del potere politico sulle imprese in difficoltà (il caso Alitalia, tornata in mani pubbliche, ne è solo l’ultima conferma).
La sintesi: governo incompetente in economia, disattento alla produttività, incurante delle scelte necessarie per favorire il rafforzamento della nostra industria nel contesto Ue. Tutto questo crea un’ulteriore distorsione: la fuga dall’Italia di molti dei nostri giovani più competenti, preparati, intraprendenti (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog). E’ vero, fioriscono iniziative per trattenere i nostri “giovani cervelli” o riportare in Italia parte di quelli che se ne sono andati, come per esempio “Talents in motion”, promossa ai primi di luglio a Milano da una dinamica head hunter, Patrizia Fontana, con il supporto di Pwc (Price Waterhouse Cooper, multinazionale della consulenza) e il sostegno di parecchie imprese private in cerca di persone di qualità da assumere. Ma l’esodo comunque continua: l’estero offre maggiori e migliori opportunità di affermazione professionale. E, in assenza di chiare scelte di governo di politica economica, industriale e fiscale a favore delle imprese e della competitività, il quadro non potrà che peggiorare.

469mila tecnici. Un numero imponente. Arrotondando appena, potremmo dire mezzo milione di persone. Sono quelle cui l’impresa italiana è pronta a offrire un posto di lavoro da oggi al 2022, tra tecnici, diplomati negli Its (gli istituti tecnici superiori) e laureati nelle discipline stem (e cioè science, technology, engineering e mathematics) ma che non trova o comunque trova con moltissima difficoltà, almeno in un terzo dei casi. Ecco il punto: le nostre industrie più dinamiche, investendo in ricerca, innovazione, trasformazioni digital, produzioni e servizi hi tech da “Industria 4.0”, stanno facendo di tutto per tenere testa alle nuove dimensioni della competitività internazionale, ma si scontrano con i limiti di un mercato del lavoro inadeguato alle sfide dello sviluppo.

Altri dati, da settori diversi dell’industria, parlano con preoccupazione del lavoro che si offre, ma senza risposte, proprio in un’Italia palude a crescita zero (+0,1% del Pil nel 2019, ha confermato nei giorni scorsi la Banca d’Italia) e con livelli di disoccupazione record nell’area della Ue, soprattutto tra i giovani. “Fincantieri cerca 6mila addetti, tecnici, carpentieri e saldatori, ma non sappiamo dove trovarli”, denuncia l’amministratore delegato del gruppo Giuseppe Bono (Corriere della Sera e Il Sole24Ore, 11 luglio), cosciente delle prospettive di sviluppo, con commesse per oltre 10 anni, grazie anche all’acquisizione della francese Stx.

Pure dal mondo dell’industria dell’abbigliamento e del lusso si fa sapere che da oggi al 2023 sono previste 48mila assunzioni, di tecnici con retribuzioni nette da 1.700 a 3.000 euro, ma per un terzo di quelle posizioni non ci sono specialisti.
“Sviluppatori, analisti, progettisti per impianti di telecomunicazioni, l’hi tech cerca 45mila specialisti”, titola Il Sole24Ore (12 luglio), raccogliendo le indicazioni delle imprese Ict, il mondo digitale, essenziale per la crescita delle imprese manifatturiere e di servizi, secondo i paradigmi competitivi di “Industria 4.0”. E i numeri sono ancora più elevati se si guarda al settore dell’automazione, all’industria meccanica e meccatronica: “La robotica cerca 96mila addetti ma non ne trova uno su tre”, titola sempre Il Sole24Ore (13 luglio). Non ce ne sono già pronti sul mercato, non ce ne saranno nei prossimi anni, se solo 17mila iscritti agli istituti tecnici (nel settore tecnologia) hanno scelto di studiare le materie legate alla meccatronica.

Le imprese migliori vanno in una direzione, la scuola in tutt’altra. E qui si ripropongono tutte le questioni legate agli Its (gli Istituti tecnici superiori) snobbati sia dalle famiglie che dalle istituzioni pubbliche di governo della scuola (poco più di 10mila iscritti appena, contro gli 800mila che alimentano la formidabile macchina produttiva tedesca, la prima manifattura d’Europa, davanti a un’Italia che fa sempre più fatica a tenere il passo della seconda posizione, incalzata dalla Francia che rilancia gli investimenti di politica industriale e sta di conseguenza orientando tutti i processi di formazione). C’è una chiara correlazione tra la digitalizzazione e la crescita economica, documenta, per l’Europa, l’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano (Corriere della Sera, 14 luglio), con un grafico che lega la crescita del Pil procapite annuale ai dati del Digital Economy and social Index: l’Italia è nella parte bassa della linea, appena prima di Bulgaria, Romania, Grecia e Polonia, mentre in testa ci sono Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, seguite da Regno Unito, Belgio, Germania. Anche la Spagna sta meglio di noi.

Torniamo così al tema della formazione e degli investimenti pubblici. La scuola guarda all’industria, alla produttività, alle professioni tecniche? No. Le scelte in materia d’istruzione del governo giallo-verde confermano questa deriva negativa. Un esempio: l’alternanza scuola-lavoro è stata fortemente ridimensionata e nella definizione dei nuovi assetti manca completamente la parola “lavoro”, come se fosse una dimensione negativa, un errore, una dizione di cui vergognarsi.
D’altronde, non è affatto una novità che i partiti che tengono in piedi il governo (Cinque Stelle e Lega) facciano scelte ostili all’impresa, alla cultura scientifica, alle infrastrutture produttive, alla competitività. La spesa pubblica è orientata all’assistenzialismo (reddito di cittadinanza, “quota 100” per le pensioni), si insiste sul “salario minimo” (incuranti dei danni che l’aumento del costo del lavoro farà alle imprese), si parla sempre più confusamente di flat tax ma non di strategie fiscali a sostegno dell’innovazione (come avevano fatto, con ottimi effetti sulla crescita e la competitività, i precedenti governi sia di centro-destra che di centro-sinistra), si distorcono gli investimenti pubblici per rafforzare la presa del potere politico sulle imprese in difficoltà (il caso Alitalia, tornata in mani pubbliche, ne è solo l’ultima conferma).
La sintesi: governo incompetente in economia, disattento alla produttività, incurante delle scelte necessarie per favorire il rafforzamento della nostra industria nel contesto Ue. Tutto questo crea un’ulteriore distorsione: la fuga dall’Italia di molti dei nostri giovani più competenti, preparati, intraprendenti (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog). E’ vero, fioriscono iniziative per trattenere i nostri “giovani cervelli” o riportare in Italia parte di quelli che se ne sono andati, come per esempio “Talents in motion”, promossa ai primi di luglio a Milano da una dinamica head hunter, Patrizia Fontana, con il supporto di Pwc (Price Waterhouse Cooper, multinazionale della consulenza) e il sostegno di parecchie imprese private in cerca di persone di qualità da assumere. Ma l’esodo comunque continua: l’estero offre maggiori e migliori opportunità di affermazione professionale. E, in assenza di chiare scelte di governo di politica economica, industriale e fiscale a favore delle imprese e della competitività, il quadro non potrà che peggiorare.

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