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Lo stimolo francese per rilanciare il turismo industriale e le iniziative delle imprese italiane tra memoria e innovazione

C’è una straordinaria attualità, nella memoria delle fabbriche. Lo sanno bene le imprese italiane, alcune delle quali, quasi vent’anni fa, hanno fondato Museimpresa, su iniziative di Assolombarda e Confindustria, secondo l’idea forte che proprio le fabbriche sono luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e la cultura d’impresa, tra testimonianza e innovazione, è un asset fondamentale di competitività.

Nel tempo, lo riaffermano, con crescente convinzione, anche le imprese francesi che, nel 2018, hanno visto circa 15 milioni di persone visitare più di 2mila siti produttivi. Lo racconta “La Stampa” (2 gennaio), ricordando che il 94% di quelle imprese tanto apprezzate dal pubblico del “turismo industriale” siano piccole e medie e, nel 60% dei casi, fabbriche alimentari, con tanto di spaccio e centri di degustazione dei prodotti: il valore del conoscere “la cultura del fare”, ma anche il piacere del gusto, l’attenzione per il buon cibo di qualità. Non mancano, naturalmente, nell’elenco delle attrazioni, le grandi imprese, dalle centrali elettriche di Edf agli stabilimenti automobilistici Renault e Psa (Peugeot e Citroen) e all’industria aeronautica (Airbus). Né le fabbriche storiche, come la Manifacture Bohin, che per produrre i suoi aghi speciali e per ospitare il museo aziendale continua a occupare parte degli edifici ottocenteschi in cui partì l’attività industriale. Il numero dei francesi sensibili all’attenzione per la manifattura è in aumento: erano 12 milioni nel 2012, sono cresciuti del 25% adesso. Tanto che la “Routard” ha deciso di ristampare la sua “Guide” dedicata appunto al settore industriale.

Tanta attenzione rivela una nuova sensibilità economica e culturale di fondo: in tempi di crisi del “capitalismo d’assalto” e del neoliberismo guidato dai discutibili valori della finanza speculativa, il cambio di paradigma economico per uno sviluppo più sostenibile ed equilibrato non può non rifondarsi sull’economia reale, sulle attività produttive d’una manifattura capace di legare qualità, innovazione, responsabilità sociale. La fabbrica, appunto. Come luogo di produttività e inclusione.

L’attenzione francese per l’industria ha un solido sostegno in scelte di politica economica e industriale del governo, deciso a fare crescere quel basso 12,5% di incidenza dell’industria sul Pil, per cercare di avvicinarsi rapidamente al 20% indicato come obiettivo dalla Commissione Ue, sapendo che la Germania, prima manifattura europea, è già adesso oltre il 20 e che l’Italia ha sì una media di circa il 17%, ma con punte del 25% se si considerano i dati delle regioni più industrializzate, Lombardia, Emilia Romagna e Nord Est.

Il problema italiano, purtroppo, è che mentre le imprese fanno tutto quanto è loro possibile per investire, crescere, innovare, conquistare nuovi mercati e trasformarsi secondo i paradigmi sostenibili d’una competitiva green economy (lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola), i governi recenti (giallo-verde e giallo-rosso) si mostrano condizionati da un deleterio spirito anti-industriale, anti-impresa, anti-innovazione che caratterizza purtroppo il gruppo più numeroso in Parlamento, il Movimento 5Stelle. E così, strette tra politiche disattente quando non ostili all’industria e congiuntura economica negativa, le nostre imprese fanno fatica, rallentano gli investimenti, subiscono, indebolite, una aggressiva competizione internazionale. Ma non si può pensare a lavoro, riforme, benessere diffuso, nuove stagioni di investimenti per il welfare e l’ambiente senza dare proprio alle imprese un ruolo di primo piano. Sarebbe bene che il governo Conte, al di là dei discorsi d’occasione, se ne rendesse concretamente conto e si comportasse coerentemente, con solide scelte di politica industriale.

Le imprese, per quel che riguarda la loro responsabilità, si muovono. Lavorando. Innovano. Si aprono al pubblico, sapendo bene che anche la trasparenza dei processi produttivi rafforza il legame con il pubblico e aiuta il passaggio, indispensabile, dalla cultura dello shareholder value (l’attenzione per profitto e valore dalle imprese in Borsa, indispensabile ma non esclusiva) alla cultura dello stakeholder value, l’impegno per il rispetto degli interessi e dei valori di lavoratori, consumatori, fornitori, cittadini delle comunità su cui impatta l’attività d’impresa (ne abbiamo parlato più volte in questi blog). L’orizzonte è quello dell’“economia giusta”, circolare, civile (un’economia attenta alla civitas, come insegna Stefano Zamagni, economista di solida esperienza).

Fabbriche aperte, sostenibilità ambientale e sociale, ricostruzione di fiducia tra imprese e società civile, indicazione della manifattura come settore in cui, per le nuove generazioni, cercare prospettive di lavoro e di crescita. Vale dunque la pena ricordare il successo crescente di attenzione e partecipazione di una serie di iniziative di cui abbiamo scritto di recente: la “Settimana della Cultura d’impresa” organizzata da Museimpresa e Confindustria, il “Pmi Day”, promosso dalla Piccola Industria di Confindustria (1.300 fabbriche aperte per 46mila ragazzi italiani), e le manifestazioni di “OpenFactory”, voluta da ItalyPost e da “L’Economia” del Corriere della Sera: cinquanta stabilimenti aperti al pubblico, domenica 24 novembre, con più di 22mila partecipanti, dall’Emilia alla Lombardia, dal Veneto (come alla Carraro di Campodarsego, componentistica hi tech per trattori, un’eccellenza del made in Italy di maggior successo nel mondo) al Friuli, ma anche in altre aree dell’Italia centrale. E ancora “Fabbriche aperte” della Regione Piemonte, all’inizio di novembre, più di 8mila persone in 120 aziende (grande successo di quelle dell’agro-alimentare). E “Manifatture Aperte” del Comune di Milano, nell’ultimo week end di novembre, per valorizzare pure “il ritorno della manifattura in città”, tra “fab lab” e start up. Tutto un fermento di attenzione pubblica, popolare, per la nostra impresa e il suo ruolo di attore principale dello sviluppo. Tradizione industriale e innovazione da digital economy, sapienza artigiana e robot, cultura del saper fare. E un’idea di fondo: rilanciare l’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, contagiare i nostri ragazzi, fare vedere concretamente loro che “la fabbrica bella”, efficiente, sostenibile, sicura, inclusiva, è, appunto, un buon posto in cui fare vivere lavoro, dignità professionale, conoscenza e futuro.

Lo stimolo che arriva dal rilancio industriale del pubblico francese, proprio in questo quadro, non può che spingere anche il mondo dell’impresa italiana a fare, sul piano della cultura d’impresa, di più e meglio. Sperando che, finalmente, anche governo e forze politiche sappiano fare la loro parte, lungimirante e responsabile.

C’è una straordinaria attualità, nella memoria delle fabbriche. Lo sanno bene le imprese italiane, alcune delle quali, quasi vent’anni fa, hanno fondato Museimpresa, su iniziative di Assolombarda e Confindustria, secondo l’idea forte che proprio le fabbriche sono luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e la cultura d’impresa, tra testimonianza e innovazione, è un asset fondamentale di competitività.

Nel tempo, lo riaffermano, con crescente convinzione, anche le imprese francesi che, nel 2018, hanno visto circa 15 milioni di persone visitare più di 2mila siti produttivi. Lo racconta “La Stampa” (2 gennaio), ricordando che il 94% di quelle imprese tanto apprezzate dal pubblico del “turismo industriale” siano piccole e medie e, nel 60% dei casi, fabbriche alimentari, con tanto di spaccio e centri di degustazione dei prodotti: il valore del conoscere “la cultura del fare”, ma anche il piacere del gusto, l’attenzione per il buon cibo di qualità. Non mancano, naturalmente, nell’elenco delle attrazioni, le grandi imprese, dalle centrali elettriche di Edf agli stabilimenti automobilistici Renault e Psa (Peugeot e Citroen) e all’industria aeronautica (Airbus). Né le fabbriche storiche, come la Manifacture Bohin, che per produrre i suoi aghi speciali e per ospitare il museo aziendale continua a occupare parte degli edifici ottocenteschi in cui partì l’attività industriale. Il numero dei francesi sensibili all’attenzione per la manifattura è in aumento: erano 12 milioni nel 2012, sono cresciuti del 25% adesso. Tanto che la “Routard” ha deciso di ristampare la sua “Guide” dedicata appunto al settore industriale.

Tanta attenzione rivela una nuova sensibilità economica e culturale di fondo: in tempi di crisi del “capitalismo d’assalto” e del neoliberismo guidato dai discutibili valori della finanza speculativa, il cambio di paradigma economico per uno sviluppo più sostenibile ed equilibrato non può non rifondarsi sull’economia reale, sulle attività produttive d’una manifattura capace di legare qualità, innovazione, responsabilità sociale. La fabbrica, appunto. Come luogo di produttività e inclusione.

L’attenzione francese per l’industria ha un solido sostegno in scelte di politica economica e industriale del governo, deciso a fare crescere quel basso 12,5% di incidenza dell’industria sul Pil, per cercare di avvicinarsi rapidamente al 20% indicato come obiettivo dalla Commissione Ue, sapendo che la Germania, prima manifattura europea, è già adesso oltre il 20 e che l’Italia ha sì una media di circa il 17%, ma con punte del 25% se si considerano i dati delle regioni più industrializzate, Lombardia, Emilia Romagna e Nord Est.

Il problema italiano, purtroppo, è che mentre le imprese fanno tutto quanto è loro possibile per investire, crescere, innovare, conquistare nuovi mercati e trasformarsi secondo i paradigmi sostenibili d’una competitiva green economy (lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola), i governi recenti (giallo-verde e giallo-rosso) si mostrano condizionati da un deleterio spirito anti-industriale, anti-impresa, anti-innovazione che caratterizza purtroppo il gruppo più numeroso in Parlamento, il Movimento 5Stelle. E così, strette tra politiche disattente quando non ostili all’industria e congiuntura economica negativa, le nostre imprese fanno fatica, rallentano gli investimenti, subiscono, indebolite, una aggressiva competizione internazionale. Ma non si può pensare a lavoro, riforme, benessere diffuso, nuove stagioni di investimenti per il welfare e l’ambiente senza dare proprio alle imprese un ruolo di primo piano. Sarebbe bene che il governo Conte, al di là dei discorsi d’occasione, se ne rendesse concretamente conto e si comportasse coerentemente, con solide scelte di politica industriale.

Le imprese, per quel che riguarda la loro responsabilità, si muovono. Lavorando. Innovano. Si aprono al pubblico, sapendo bene che anche la trasparenza dei processi produttivi rafforza il legame con il pubblico e aiuta il passaggio, indispensabile, dalla cultura dello shareholder value (l’attenzione per profitto e valore dalle imprese in Borsa, indispensabile ma non esclusiva) alla cultura dello stakeholder value, l’impegno per il rispetto degli interessi e dei valori di lavoratori, consumatori, fornitori, cittadini delle comunità su cui impatta l’attività d’impresa (ne abbiamo parlato più volte in questi blog). L’orizzonte è quello dell’“economia giusta”, circolare, civile (un’economia attenta alla civitas, come insegna Stefano Zamagni, economista di solida esperienza).

Fabbriche aperte, sostenibilità ambientale e sociale, ricostruzione di fiducia tra imprese e società civile, indicazione della manifattura come settore in cui, per le nuove generazioni, cercare prospettive di lavoro e di crescita. Vale dunque la pena ricordare il successo crescente di attenzione e partecipazione di una serie di iniziative di cui abbiamo scritto di recente: la “Settimana della Cultura d’impresa” organizzata da Museimpresa e Confindustria, il “Pmi Day”, promosso dalla Piccola Industria di Confindustria (1.300 fabbriche aperte per 46mila ragazzi italiani), e le manifestazioni di “OpenFactory”, voluta da ItalyPost e da “L’Economia” del Corriere della Sera: cinquanta stabilimenti aperti al pubblico, domenica 24 novembre, con più di 22mila partecipanti, dall’Emilia alla Lombardia, dal Veneto (come alla Carraro di Campodarsego, componentistica hi tech per trattori, un’eccellenza del made in Italy di maggior successo nel mondo) al Friuli, ma anche in altre aree dell’Italia centrale. E ancora “Fabbriche aperte” della Regione Piemonte, all’inizio di novembre, più di 8mila persone in 120 aziende (grande successo di quelle dell’agro-alimentare). E “Manifatture Aperte” del Comune di Milano, nell’ultimo week end di novembre, per valorizzare pure “il ritorno della manifattura in città”, tra “fab lab” e start up. Tutto un fermento di attenzione pubblica, popolare, per la nostra impresa e il suo ruolo di attore principale dello sviluppo. Tradizione industriale e innovazione da digital economy, sapienza artigiana e robot, cultura del saper fare. E un’idea di fondo: rilanciare l’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, contagiare i nostri ragazzi, fare vedere concretamente loro che “la fabbrica bella”, efficiente, sostenibile, sicura, inclusiva, è, appunto, un buon posto in cui fare vivere lavoro, dignità professionale, conoscenza e futuro.

Lo stimolo che arriva dal rilancio industriale del pubblico francese, proprio in questo quadro, non può che spingere anche il mondo dell’impresa italiana a fare, sul piano della cultura d’impresa, di più e meglio. Sperando che, finalmente, anche governo e forze politiche sappiano fare la loro parte, lungimirante e responsabile.

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