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“Longlife learning”, i suggerimenti di “The Economist e l’importanza di saper usare bene le parole

Lifelong learning”, titola in copertina “The Economist”. L’immagine è una sequenza di figure che rappresentano le varie età, dal bambino che legge un libro al ragazzo con l’iPad, dall’operaio alle prese con disegni hi tech al giovane che viaggia con una guida di carta stampata, dal tecnico davanti al computer all’anziano che ha in mano qualcosa che potrebbe essere un libro ma anche un tablet per la lettura digitale. Si legge e si studia, comunque. “Lifelong learning”, imparare qualcosa di nuovo durante tutta la vita. Il sottotitolo è chiarissimo. “How to survive in the age of automation”. Dentro, a parte l’editoriale (studiare e imparare è indispensabile ma non è affatto detto che riduca la diseguaglianze…), undici pagine d’inchiesta. Tutta da leggere, con attenzione (“lifelong learning”, d’altronde, è anche seguire la buona informazione, no?).

Leggere, studiare, imparare. Una sfida di lavoro e di ruolo personale e sociale. Una sfida del linguaggio (ne abbiamo già parlato nel blog della scorsa settimana, a proposito dell’uso del congiuntivo e della differenza di peso e potere “tra chi usa 100 parole e chi 1000”). Adesso vale la pena insistere, proprio sul senso delle parole ben conosciute e ben impiegate. Padroneggiandone pure l’evoluzione.

L’attenzione di partenza è sull’economia. Sulla comprensione e la consapevolezza dei fenomeni. Prendiamo per esempio la “Grande Crisi” esplosa una decina di anni fa e le cui conseguenze ancora avvertiamo? Alle sue radici c’è anche un cattivo uso delle parole. Un “cedimento del linguaggio”. Lo spiega Arjun Appadurai, professore d’antropologia alla New York University, in un libro appena pubblicato dall’editore Cortina e intitolato “Scommettere sulle parole – Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata” (l’ha recensito Massimo Giannini su “la Repubblica”, il 2 gennaio). Quel cedimento gira tutt’attorno alla parola “derivato”. Un certificato assicurativo legato all’agricoltura e alle incertezze meteorologiche, in origine (un buon prodotto, insomma, una polizza di sicurezza per i contadini) che però diventa nell’epoca dell’avidità finanziaria tutt’altro: una vorticosa girandola di carta, piazzata a quasi sempre ignari risparmiatori, convinti da speculatori rapaci, a comprare “promesse” di lauti guadagni. “Junk bonds”, titoli spazzatura, come qualcuno, in un momento raro di sincerità a Wall Street, aveva chiamato certi prodotti finanziari d’oscura natura e, alla lunga, sicuro insuccesso.

In questo mondo in cui la carta produce solo altra carta, i mercati piazzano fogli che solo troppo alla lontana rinviano a un bene reale da cui prendono vita, la finanza “derivata” si separa dall’economia reale e tradisce se stessa, la sua funzione essenziale di finanziamento dell’impresa e dello sviluppo economico. Diventa finzione e inganno.

Anche il mercato si separa da se stesso, passando da luogo degli scambi a “catena di sant’Antonio”. E milioni di famiglie, che hanno creduto alla promessa di ricchezza dei derivati (come tante altre volte nella storia qualcuno aveva ceduto alle illusioni della pietra filosofale che trasformava tutto in oro, della speculazione sui bulbi dei tulipani e della miriade di esperimenti finanziari tossici…) si sono ritrovate per strada. Senza casa. Senza lavoro. E’ la Grande Crisi. Persone rovinate “dalla natura carismatica dei derivati” e dall’inganno “di un mercato trasformato in un assoluto ontologico”. “Una truffa semantica”, nota Appadurai. Giochi di parole e grafici economici che non si distinguono “dagli schemi degli astrologi, dei parapsicologi e dei lettori di tarocchi”. Ecco, dunque, il “cedimento del linguaggio”. Con una finanza avida caratterizzata non “da intelligenza ma da sofisticata stupidità” (la definizione è di John Kenneth Galbraith) e che trova ascolto a causa della scarsa attenzione diffusa (ignoranza dell’economia, basso livello d’informazione) di chi si fa ammaliare e soprattutto per responsabilità d’una politica che per troppo tempo ha rinunciato a disciplinare con efficacia, semplicità e chiarezza i mercati e a controllare ciò che viene ammannito a pur incauti risparmiatori-investitori.

Appadurai insiste molto, sul valore delle parole. E scrive della necessità di realizzare “una trasformazione radicale dell’architettura del nostro pensiero sociale” e dunque “ripensare dalle fondamenta il vocabolario di cui ci serviamo per parlare del consorzio sociale”. Ricostruire quel linguaggio che aveva ceduto. Ridare alle parole valore e senso.

Viviamo di parole, infatti. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette.

Varrebbe la pena che anche i finanzieri e gli economisti, mettendo da parte nel “discorso pubblico” terminologie tecniche astruse (dietro cui, come documenta anche Appadurai, spesso si nasconde l’inganno…) tornassero al valore delle parole. Rileggendo gli scrittori e i poeti, per esempio. Dando retta a Paco Ignacio Taibo II: “Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella sua suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la letteratura è la più efficace arma di distruzione di neuroni avariati”. E ricordando Paul Eluard: “Ci sono parole che fanno vivere/ E sono parole innocenti/ La parola calore/ la parola fiducia/ Giustizia amore e la parola libertà/ La parola figlio e la parola gentilezza/ Certi nomi di fiori certi nomi di frutti/ La parola coraggio la parola scoprire/ E la parola fratello e la parola compagno/ E certi nomi di luoghi e paesi/ E certi nomi di donne e di amici…”.

Eccole alcune parole chiave, anche in economia: giustizia, libertà… Fiducia. E gentilezza. “La gentilezza nelle nostre parole per ricominciare”, nota Dacia Maraini, sensibilissima scrittrice, citando (Corriere della Sera, 3 gennaio) il discorso di fine d’anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E chiede un migliore vocabolario. “Riscopriamo creanza, urbanità, cortesia, affidabilità, comprensione, tolleranza”. E’ troppo chiedere a un banchiere, a un finanziere, a imprenditore e a un manager, di tenere in gran conto le parole cardine della convivenza civile, oltre che i tecnicismi del gergo “mercatista” anglosassone?

Perché “le parole sono importanti”, “bisogna lottare contro le parole sbagliate” e “trovare le parole giuste”, ammoniva Nanni Moretti in “Palombella rossa”. Denunciando che “chi parla male pensa male e vive male”. La truffa del linguaggio finanziario e la Grande Crisi ne sono conferma. Per venirne fuori con dignità, è indispensabile continuare a leggere, studiare, imparare. Durante tutta la vita. Rieccoci, al “Lifelong learning”.

Lifelong learning”, titola in copertina “The Economist”. L’immagine è una sequenza di figure che rappresentano le varie età, dal bambino che legge un libro al ragazzo con l’iPad, dall’operaio alle prese con disegni hi tech al giovane che viaggia con una guida di carta stampata, dal tecnico davanti al computer all’anziano che ha in mano qualcosa che potrebbe essere un libro ma anche un tablet per la lettura digitale. Si legge e si studia, comunque. “Lifelong learning”, imparare qualcosa di nuovo durante tutta la vita. Il sottotitolo è chiarissimo. “How to survive in the age of automation”. Dentro, a parte l’editoriale (studiare e imparare è indispensabile ma non è affatto detto che riduca la diseguaglianze…), undici pagine d’inchiesta. Tutta da leggere, con attenzione (“lifelong learning”, d’altronde, è anche seguire la buona informazione, no?).

Leggere, studiare, imparare. Una sfida di lavoro e di ruolo personale e sociale. Una sfida del linguaggio (ne abbiamo già parlato nel blog della scorsa settimana, a proposito dell’uso del congiuntivo e della differenza di peso e potere “tra chi usa 100 parole e chi 1000”). Adesso vale la pena insistere, proprio sul senso delle parole ben conosciute e ben impiegate. Padroneggiandone pure l’evoluzione.

L’attenzione di partenza è sull’economia. Sulla comprensione e la consapevolezza dei fenomeni. Prendiamo per esempio la “Grande Crisi” esplosa una decina di anni fa e le cui conseguenze ancora avvertiamo? Alle sue radici c’è anche un cattivo uso delle parole. Un “cedimento del linguaggio”. Lo spiega Arjun Appadurai, professore d’antropologia alla New York University, in un libro appena pubblicato dall’editore Cortina e intitolato “Scommettere sulle parole – Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata” (l’ha recensito Massimo Giannini su “la Repubblica”, il 2 gennaio). Quel cedimento gira tutt’attorno alla parola “derivato”. Un certificato assicurativo legato all’agricoltura e alle incertezze meteorologiche, in origine (un buon prodotto, insomma, una polizza di sicurezza per i contadini) che però diventa nell’epoca dell’avidità finanziaria tutt’altro: una vorticosa girandola di carta, piazzata a quasi sempre ignari risparmiatori, convinti da speculatori rapaci, a comprare “promesse” di lauti guadagni. “Junk bonds”, titoli spazzatura, come qualcuno, in un momento raro di sincerità a Wall Street, aveva chiamato certi prodotti finanziari d’oscura natura e, alla lunga, sicuro insuccesso.

In questo mondo in cui la carta produce solo altra carta, i mercati piazzano fogli che solo troppo alla lontana rinviano a un bene reale da cui prendono vita, la finanza “derivata” si separa dall’economia reale e tradisce se stessa, la sua funzione essenziale di finanziamento dell’impresa e dello sviluppo economico. Diventa finzione e inganno.

Anche il mercato si separa da se stesso, passando da luogo degli scambi a “catena di sant’Antonio”. E milioni di famiglie, che hanno creduto alla promessa di ricchezza dei derivati (come tante altre volte nella storia qualcuno aveva ceduto alle illusioni della pietra filosofale che trasformava tutto in oro, della speculazione sui bulbi dei tulipani e della miriade di esperimenti finanziari tossici…) si sono ritrovate per strada. Senza casa. Senza lavoro. E’ la Grande Crisi. Persone rovinate “dalla natura carismatica dei derivati” e dall’inganno “di un mercato trasformato in un assoluto ontologico”. “Una truffa semantica”, nota Appadurai. Giochi di parole e grafici economici che non si distinguono “dagli schemi degli astrologi, dei parapsicologi e dei lettori di tarocchi”. Ecco, dunque, il “cedimento del linguaggio”. Con una finanza avida caratterizzata non “da intelligenza ma da sofisticata stupidità” (la definizione è di John Kenneth Galbraith) e che trova ascolto a causa della scarsa attenzione diffusa (ignoranza dell’economia, basso livello d’informazione) di chi si fa ammaliare e soprattutto per responsabilità d’una politica che per troppo tempo ha rinunciato a disciplinare con efficacia, semplicità e chiarezza i mercati e a controllare ciò che viene ammannito a pur incauti risparmiatori-investitori.

Appadurai insiste molto, sul valore delle parole. E scrive della necessità di realizzare “una trasformazione radicale dell’architettura del nostro pensiero sociale” e dunque “ripensare dalle fondamenta il vocabolario di cui ci serviamo per parlare del consorzio sociale”. Ricostruire quel linguaggio che aveva ceduto. Ridare alle parole valore e senso.

Viviamo di parole, infatti. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette.

Varrebbe la pena che anche i finanzieri e gli economisti, mettendo da parte nel “discorso pubblico” terminologie tecniche astruse (dietro cui, come documenta anche Appadurai, spesso si nasconde l’inganno…) tornassero al valore delle parole. Rileggendo gli scrittori e i poeti, per esempio. Dando retta a Paco Ignacio Taibo II: “Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella sua suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la letteratura è la più efficace arma di distruzione di neuroni avariati”. E ricordando Paul Eluard: “Ci sono parole che fanno vivere/ E sono parole innocenti/ La parola calore/ la parola fiducia/ Giustizia amore e la parola libertà/ La parola figlio e la parola gentilezza/ Certi nomi di fiori certi nomi di frutti/ La parola coraggio la parola scoprire/ E la parola fratello e la parola compagno/ E certi nomi di luoghi e paesi/ E certi nomi di donne e di amici…”.

Eccole alcune parole chiave, anche in economia: giustizia, libertà… Fiducia. E gentilezza. “La gentilezza nelle nostre parole per ricominciare”, nota Dacia Maraini, sensibilissima scrittrice, citando (Corriere della Sera, 3 gennaio) il discorso di fine d’anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E chiede un migliore vocabolario. “Riscopriamo creanza, urbanità, cortesia, affidabilità, comprensione, tolleranza”. E’ troppo chiedere a un banchiere, a un finanziere, a imprenditore e a un manager, di tenere in gran conto le parole cardine della convivenza civile, oltre che i tecnicismi del gergo “mercatista” anglosassone?

Perché “le parole sono importanti”, “bisogna lottare contro le parole sbagliate” e “trovare le parole giuste”, ammoniva Nanni Moretti in “Palombella rossa”. Denunciando che “chi parla male pensa male e vive male”. La truffa del linguaggio finanziario e la Grande Crisi ne sono conferma. Per venirne fuori con dignità, è indispensabile continuare a leggere, studiare, imparare. Durante tutta la vita. Rieccoci, al “Lifelong learning”.

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