Meno mail, più dialoghi: condividere negli uffici creatività, animo flâneur e innovazione
Lavoro e produttività. Ma anche e soprattutto lavoro come dignità, responsabilità, partecipazione a una comunità. “Meno mail e più dialogo personale”, suggerisce Brunello Cucinelli, l’imprenditore umbro che dell’abbigliamento “made in Italy” del lusso ha fatto un business di successo internazionale e della filosofia un cardine della cultura d’impresa. “Difendo l’interazione tra persone in un ufficio, in un luogo di lavoro comune. E’ nel confronto e nel dialogo che nascono meglio le idee”, sostiene Carlo Ratti, architetto e ingegnere, direttore del Senseable City Lab del Mit (Massachusset Institute of Technology) di Boston, luogo chiave per studiare come le nuove tecnologie stiano cambiando le città (Corriere Innovazione, 2 dicembre). Per ripensare il lavoro, insomma, serve una sorta di nuovo “umanesimo industriale”, per usare un’espressione cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. O anche un nuovo “umanesimo digitale”, legando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali al rilancio delle relazioni tra le persone: il contesto di una cultura d’impresa in cui “comunità” si mette in stretto rapporto con “competitività”, sottolineando la radice comune: il “cum”, il muoversi insieme. Con un “dià” (attraverso) “logos” (discorso), un confronto dialettico tra persone diverse.
Partiamo da Cucinelli: “Abbiamo tolto le mail o meglio le abbiamo ridotte veramente all’osso, per riprendere a utilizzare le telefonate o gli incontri diretti. In una telefonata hai tutto, senti come sta in tuo interlocutore, si crea una maggiore interconnessione tra le persone. Quando mandi un messaggio, invece, perdi la percezione globale delle cose, usi uno strumento freddo, per capire davvero e trovare un punto di condivisione finisci per perdere più tempo” (Linkiesta, 2 dicembre). E’ una riflessione importante, che probabilmente abbiamo fatto in tanti. Senza contare che proprio il linguaggio delle mail è per sua natura asseverativo e non discorsivo, assume cadenze di neo-burocrazia hi tech, genera equivoci, annega una comunicazione importante in un flusso sovrabbondante di para-informazioni e spesso crea paraventi (“ti avevo mandato una mail, non l’hai letta?”…”ma eri anche tu in copia nella mail…”). Meglio guardarsi negli occhi, finché si può. Parlarsi direttamente. Cercare sinceramente un confronto. Qualità ed efficacia del lavoro comune non potranno che migliorare.
La seconda osservazione viene da Ratti: “Negli anni Novanta c’era chi prevedeva, accanto a nuove forme di città, la scomparsa degli uffici come luoghi necessari del lavoro. Si prevedeva la fine delle distanze. Nicholas Negroponte pensava che la tecnologia avrebbe ridotto la necessità di incontrarsi. Certo, oggi si può anche andare a lavorare sulla cima dell’Everest. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è: perché andare a lavorare sulla cima d’una montagna?”. Negroponte, guru dell’information technology e autorevole professore proprio al Mit di Boston (un collega di Ratti, dunque) aveva naturalmente ragione. Ma solo in parte. Perché le nuove tecnologie digitali finiscono per essere davvero produttive e per stimolare la creatività solo se usate come facilitatrici di relazioni tra le persone. Non un assoluto. Ma uno strumento. Per fare risparmiare tempo, certo. Per migliorare l’accesso al dialogo abbattendo distanze. Ma senza pretendere che possano sostituire altrettanto efficacemente il confronto diretto (magari attraverso Skype o FaceTime).
Dalle osservazioni di Ratti si può prendere spunto anche per una riflessione sullo “smart working”. Pratica di crescente diffusione, pure in Italia. Stimolata da provvedimenti dell’ex governo Renzi. Discussa con intese interessanti tra imprese e sindacati. Vissuta con favore da lavoratori per cercare di conciliare meglio tempi di lavoro e tempi di vita. E vista come un miglioramento del senso di responsabilità e di una nuova cultura del lavoro: si valutano i risultati, non il rispetto dell’orario della presenza formale in ufficio. Tutto vero. Con un “ma”: creatività, innovazione, produttività nascono anche dal confronto diretto, dal dialogo, dall’abitudine a scambiarsi opinioni, tutte attività in cui la compresenza, nello stesso posto di lavoro, è necessaria. E il senso di identità e di appartenenza cresce meglio appunto in condizioni di condivisione, intellettuale e fisica. Lo smart working, insomma, va considerato nel contesto di una riconsiderazione generale degli stili e delle culture del lavoro, della forma dei luoghi e dei layout produttivi. Un’innovazione dagli aspetti controversi. Da governare bene, con intelligenza. Soprattutto in stagioni di prevalenza dell’”economia della conoscenza”, della crescente diffusione dei processi “digital” e delle culture da “sharing economy”, da cui nascono nuove interrelazioni, nuovi pensieri.
La terza riflessione parte dal senso profondo della parola “intelligenza”, dall’etimologia che la fa derivare dal “legare insieme”. Connettere cose, concetti, sensazioni che non erano collegate. Partecipazione e comunità, ancora una volta. E pensieri mai pensati prima. E’ la relazione tra creatività e “distrazione” (Marco Belpoliti, “la Repubblica”, 10 dicembre). Lo stimolo viene da Steve Jobs: la creatività è il risultato di un collegamento inusuale, il vedere qualcosa che nessuno aveva visto. Per riuscirci, non serve un pensiero seriale, produttivo, finalizzato. Ma il pensiero vagante. La “distrazione”, appunto. Il muoversi dell’intelligenza con la curiosità e gli occhi acuti dei flâneur, di chi attraversa luoghi della città non secondo percorsi prestabiliti, ma girovagando lungo strade nuove, ignote, da scoprire con l’intelligenza del cuore e il gusto per le emozioni (riecco, il “legare insieme”). Come hanno insegnato un grande poeta, Charles Baudelaire e uno degli intellettuali più inquieti e innovativi del Novecento, Walter Benjamin.
Riempire i luoghi del lavoro di dialoghi veri e stimoli per la creatività, pensieri extravaganti e curiosità flâneur? E’ una buona dimensione di cultura d’impresa. Davvero innovativa.
Lavoro e produttività. Ma anche e soprattutto lavoro come dignità, responsabilità, partecipazione a una comunità. “Meno mail e più dialogo personale”, suggerisce Brunello Cucinelli, l’imprenditore umbro che dell’abbigliamento “made in Italy” del lusso ha fatto un business di successo internazionale e della filosofia un cardine della cultura d’impresa. “Difendo l’interazione tra persone in un ufficio, in un luogo di lavoro comune. E’ nel confronto e nel dialogo che nascono meglio le idee”, sostiene Carlo Ratti, architetto e ingegnere, direttore del Senseable City Lab del Mit (Massachusset Institute of Technology) di Boston, luogo chiave per studiare come le nuove tecnologie stiano cambiando le città (Corriere Innovazione, 2 dicembre). Per ripensare il lavoro, insomma, serve una sorta di nuovo “umanesimo industriale”, per usare un’espressione cara alle elaborazioni della Fondazione Pirelli. O anche un nuovo “umanesimo digitale”, legando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali al rilancio delle relazioni tra le persone: il contesto di una cultura d’impresa in cui “comunità” si mette in stretto rapporto con “competitività”, sottolineando la radice comune: il “cum”, il muoversi insieme. Con un “dià” (attraverso) “logos” (discorso), un confronto dialettico tra persone diverse.
Partiamo da Cucinelli: “Abbiamo tolto le mail o meglio le abbiamo ridotte veramente all’osso, per riprendere a utilizzare le telefonate o gli incontri diretti. In una telefonata hai tutto, senti come sta in tuo interlocutore, si crea una maggiore interconnessione tra le persone. Quando mandi un messaggio, invece, perdi la percezione globale delle cose, usi uno strumento freddo, per capire davvero e trovare un punto di condivisione finisci per perdere più tempo” (Linkiesta, 2 dicembre). E’ una riflessione importante, che probabilmente abbiamo fatto in tanti. Senza contare che proprio il linguaggio delle mail è per sua natura asseverativo e non discorsivo, assume cadenze di neo-burocrazia hi tech, genera equivoci, annega una comunicazione importante in un flusso sovrabbondante di para-informazioni e spesso crea paraventi (“ti avevo mandato una mail, non l’hai letta?”…”ma eri anche tu in copia nella mail…”). Meglio guardarsi negli occhi, finché si può. Parlarsi direttamente. Cercare sinceramente un confronto. Qualità ed efficacia del lavoro comune non potranno che migliorare.
La seconda osservazione viene da Ratti: “Negli anni Novanta c’era chi prevedeva, accanto a nuove forme di città, la scomparsa degli uffici come luoghi necessari del lavoro. Si prevedeva la fine delle distanze. Nicholas Negroponte pensava che la tecnologia avrebbe ridotto la necessità di incontrarsi. Certo, oggi si può anche andare a lavorare sulla cima dell’Everest. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è: perché andare a lavorare sulla cima d’una montagna?”. Negroponte, guru dell’information technology e autorevole professore proprio al Mit di Boston (un collega di Ratti, dunque) aveva naturalmente ragione. Ma solo in parte. Perché le nuove tecnologie digitali finiscono per essere davvero produttive e per stimolare la creatività solo se usate come facilitatrici di relazioni tra le persone. Non un assoluto. Ma uno strumento. Per fare risparmiare tempo, certo. Per migliorare l’accesso al dialogo abbattendo distanze. Ma senza pretendere che possano sostituire altrettanto efficacemente il confronto diretto (magari attraverso Skype o FaceTime).
Dalle osservazioni di Ratti si può prendere spunto anche per una riflessione sullo “smart working”. Pratica di crescente diffusione, pure in Italia. Stimolata da provvedimenti dell’ex governo Renzi. Discussa con intese interessanti tra imprese e sindacati. Vissuta con favore da lavoratori per cercare di conciliare meglio tempi di lavoro e tempi di vita. E vista come un miglioramento del senso di responsabilità e di una nuova cultura del lavoro: si valutano i risultati, non il rispetto dell’orario della presenza formale in ufficio. Tutto vero. Con un “ma”: creatività, innovazione, produttività nascono anche dal confronto diretto, dal dialogo, dall’abitudine a scambiarsi opinioni, tutte attività in cui la compresenza, nello stesso posto di lavoro, è necessaria. E il senso di identità e di appartenenza cresce meglio appunto in condizioni di condivisione, intellettuale e fisica. Lo smart working, insomma, va considerato nel contesto di una riconsiderazione generale degli stili e delle culture del lavoro, della forma dei luoghi e dei layout produttivi. Un’innovazione dagli aspetti controversi. Da governare bene, con intelligenza. Soprattutto in stagioni di prevalenza dell’”economia della conoscenza”, della crescente diffusione dei processi “digital” e delle culture da “sharing economy”, da cui nascono nuove interrelazioni, nuovi pensieri.
La terza riflessione parte dal senso profondo della parola “intelligenza”, dall’etimologia che la fa derivare dal “legare insieme”. Connettere cose, concetti, sensazioni che non erano collegate. Partecipazione e comunità, ancora una volta. E pensieri mai pensati prima. E’ la relazione tra creatività e “distrazione” (Marco Belpoliti, “la Repubblica”, 10 dicembre). Lo stimolo viene da Steve Jobs: la creatività è il risultato di un collegamento inusuale, il vedere qualcosa che nessuno aveva visto. Per riuscirci, non serve un pensiero seriale, produttivo, finalizzato. Ma il pensiero vagante. La “distrazione”, appunto. Il muoversi dell’intelligenza con la curiosità e gli occhi acuti dei flâneur, di chi attraversa luoghi della città non secondo percorsi prestabiliti, ma girovagando lungo strade nuove, ignote, da scoprire con l’intelligenza del cuore e il gusto per le emozioni (riecco, il “legare insieme”). Come hanno insegnato un grande poeta, Charles Baudelaire e uno degli intellettuali più inquieti e innovativi del Novecento, Walter Benjamin.
Riempire i luoghi del lavoro di dialoghi veri e stimoli per la creatività, pensieri extravaganti e curiosità flâneur? E’ una buona dimensione di cultura d’impresa. Davvero innovativa.