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Metropoli Milano, come progettare e governare tra competizione hi tech, lavoro e solidarietà

Milano, un futuro da progettare e decidere. Da provare a scrivere. E discutere. Milano come paradigma d’una tendenza internazionale alla prevalenza delle metropoli e delle megalopoli come luoghi centrali dell’innovazione e dello sviluppo economico. Con tutto il carico delle opportunità e dei problemi, tra smart economy, lavoro in crisi, vecchi e nuovi diritti, competizione accesa e inclusione sociale. Antinomie, conflitti, nuove sfide. Ci sono buoni libri che aiutano a capire meglio. Un buon esempio: “Milano e il secolo delle città”, scritto da Giuseppe Sala, pubblicato da La nave di Teseo e presentato ieri sera, con gran pubblico, al Piccolo Teatro, in un colloquio con Ferruccio De Bortoli. Un libro da sindaco. E da persona che sa bene come le metropoli abbiano uno straordinario bisogno di pensiero, di visione, di dibattito sincero. E di governo. In un confronto dialettico tra pubblica amministrazione e soggetti sociali, dall’Assolombarda alle altre imprese dei servizi e ai sindacati, dai centri della cultura, della scienza e dell’università alla Chiesa ambrosiana.

La Milano di cui si parla è una città aperta, consapevole da sempre che “milanese è chi lavora a Milano”, come nella cultura della responsabilità e dell’accoglienza che risale ai tempi di Ambrogio vescovo. Ed è una città innovativa e operosa, attenta a mercati e imprese (le porte di Milano hanno sempre avuto una funzione economica: caselli del dazio, luoghi d’ingresso e uscita delle merci). Ma anche responsabile socialmente. Milano modello? Senza arroganza antipatica, Milano come locomotiva d’un incrocio d’attività economiche, tra manifattura, servizi, finanza, economia della conoscenza, rilancio delle radici industriali e stimolo alle start up. Un processo che coinvolge una “megalopoli padana” da venti milioni d’abitanti, da Torino alla via Emilia da Motor Valley, Food Valley e Packaging Valley con industrie, centri di ricerca e università, dalle valli ai piedi delle Alpi alle distese imprenditoriali del Nord Est dopo Brescia e Verona. Una megalopoli tra le più forti d’Europa. L’orizzonte è il 2030, strategie e scelte politiche di lungo periodo. Analogo a quello del dibattito in corso su spazi e funzioni della metropoli negli incontri dell’Advisory Board di Assolombarda, con la partecipazione dei maggiori imprenditori e manager delle grandi imprese italiane e internazionali.

“Milano sta facendo la sua parte. Deve continuare a farla per sé, mentre il resto d’Italia si accontenta delle ricadute di indotto (che si sono) e di immagine o questo impegno può rientrare in un disegno politico del Paese?”, si chiede Sala. La risposta è ovvia. Ma la sua attuazione è tutt’altro che scontata. Se ne riparlerà dopo le elezioni del 4 marzo.

Certo, Milano andrà avanti. Più debole e fragile, comunque, se non starà dentro un disegno di governo generale (e di investimenti pubblici nazionali su infrastrutture, formazione, riforme per l’innovazione, il lavoro, la qualità di funzionamento della pubblica amministrazione).

Sala racconta una Milano efficiente, quella dell’Expo e degli investimenti internazionali che arrivano sempre più consistenti. E solidale, con gli impegni per le periferie. Attraente (crescono le presenze turistiche, tra tempo libero, cultura e affari), l’unica città italiana innovativa nell’elenco stilato dal World Economic Forum. E capace di reggere le sfide internazionali, come quella per la sede dell’Ema (Milano ha presentato a Bruxelles un progetto di qualità e tempestivo, con un luogo, il Grattacielo Pirelli, già pronto per ospitare gli uffici dell’Agenzia del Farmaco; Amsterdam, premiata dall’estrazione a sorte, invece no, sino alla pessima figura internazionale dei lavori incompiuti e dei rinvii: un capovolgimento dei luoghi comuni, noi efficienti, gli arroganti olandesi pasticcioni e inadempienti).

Milano dunque paradigma. Con tutte le difficoltà e le contraddizioni che nessuno nasconde. Come risulta, peraltro, dai racconti del “Viaggio in Italia” pubblicati in un numero speciale della rivista “Il Mulino” (di Milano scrive Gabriele Pasqui, urbanista del Politecnico, ma in tanti si confrontano nel bene e nel male con Milano, per descrivere “un Paese plurale, difficile e bellissimo”). E dai saggi pubblicati in “Brand Milano”, un “Atlante della nuova narrativa identitaria” a cura di Stefano Rolando, promosso dal Comitato Scientifico degli Atenei milanesi e pubblicato da Mimesis. Brand non come marchio e comunicazione, ma come “evoluzione di un grande patrimonio simbolico urbano”, come identità profonda e futuribile, come motore di racconto dello sviluppo.

Si torna così al tema cardine del ruolo delle grandi città. La letteratura politica, economica e sociologica è sempre più ampia e densa di analisi interessanti e di suggerimenti. Si può fare riferimento all’essenziale saggio mandato in libreria pochi anni fa, nel 2013, da Benjamin R. Barber, politologo americano di grande influenza, “If Mayors ruled the World”, Yale University Press, con un un sottotitolo esplicito, “Dysfuncional Nations, Rising Cities”. E arrivare a tempi recenti con “The New Urban Crisis” di Richard Florida, edito da Basic Books: il teorico dell’ascesa della “nuova classe creativa” (un successo editoriale internazionale del 2003) nota adesso che “our cities are increasing inequality, deepening segregation, and failing the middle class” e si chiede come reagire, come cercare cioè di attenuare le diseguaglianze, come provare a fare crescere metropoli più inclusive, migliorando infrastrutture, servizi, accoglienze e cercando di governare le tendenze del mercato immobiliare, le crescenti disparità dei prezzi delle case tra le aree privilegiate dei “creativi” e quelle, impoverite, dei ceti “al servizio” dei creativi stessi. Con un’idea di fondo: la creatività è fondamentale (con tutti i corollari delle libertà, del dinamismo individuale, dei premi al mercato selettivo e al merito), ma nessuno può pensare di fare a meno di scelte politiche, urbanistiche, di riequilibrio sociale. Scelte che investono i “Mayors” cari a Barber, ma anche gli Stati nazionali e, per quel che ci riguarda, gli organismi politici della Ue. Come e con che miscela tra metropoli ed Europa? Il dibattito è aperto.

Sono utili, in questo, le analisi e le indicazioni di Parag Khanna, ex consigliere di Obama e analista del Centre on Asia and Globalization di Singapore in “La rinascita delle Città-Stato”, appena pubblicato in Italia da Fazi: “Il futuro è già qui: entro trent’anni la politica mondiale sarà dominata da macro-città, megalopoli influenti e così connesse tra loro da non diversi più piegare al concetto di confine. Città-Stato efficienti sul modello di quelle antiche, dunque non necessariamente indipendenti ma con un’autonomia tale da potersi impegnare in relazioni globali di cui beneficerà tutto il territorio circostante”. Singapore e Dubai, Amburgo e Istanbul, New York e Londra, Barcellona e Milano ne sono esempi. Già, proprio la Barcellona motore economico della Spagna, che non sogna la secessione da Madrid ma una più dinamica autonomia catalana nel quadro dell’Europa e del Mediterraneo.

Città-Stato è una forma di governo, che ricorda le potenti città rinascimentali italiane, Genova e Venezia, Firenze e appunto Milano, ma anche le ricche città anseatiche forti di finanza, commerci, porti e cantieri navali, poi finite in crisi nei secoli del trionfo degli Stati nazionali, tra Seicento e avvio del Novecento. Ma, storia a parte, Città-Stato è una dimensione economica e sociale con cui fare in modo nuovo i conti, in stagioni di economie globali, interconnessioni spinte ma anche riscoperta dei valori del genius loci come strumento competitivo, dei territori come distintività ed esclusività di prodotti, esperienze, servizi. Lo spiegano bene Carlo Ratti e Matthew Claudel in “La città di domani”, Einaudi: “Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”.

Viviamo tempi di crisi. E di metamorfosi. Difficile, immersi nella quotidianità spesso contraddittoria dei flussi economici e sociali, individuare le tendenze e i segni forti del cambiamento. Ma è proprio questa la sfida culturale e politica da cogliere: dare un ordine dinamico ai fatti, elaborare prospettive, cercare di definire un “senso” delle scelte politiche ed economiche. Sfida da classe dirigente in senso ampio, da vera e propria ruling class, che decide e applica le regole. Sfida di responsabilità civile.

Nella storia, da Ambrogio vescovo all’Illuminismo, dal Risorgimento di Cattaneo agli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico animato anche da lungimiranti imprenditori e intellettuali visionari (spesso in stretta collaborazione), proprio questo Milano ha fatto, pur non essendo capitale: lasciare segni forti di progresso, coniugare interesse economici e valori sociali, competitività e solidarietà. E fornire paradigmi interessanti sia all’Italia che all’Europa. Sono temi di oggi.

Milano, un futuro da progettare e decidere. Da provare a scrivere. E discutere. Milano come paradigma d’una tendenza internazionale alla prevalenza delle metropoli e delle megalopoli come luoghi centrali dell’innovazione e dello sviluppo economico. Con tutto il carico delle opportunità e dei problemi, tra smart economy, lavoro in crisi, vecchi e nuovi diritti, competizione accesa e inclusione sociale. Antinomie, conflitti, nuove sfide. Ci sono buoni libri che aiutano a capire meglio. Un buon esempio: “Milano e il secolo delle città”, scritto da Giuseppe Sala, pubblicato da La nave di Teseo e presentato ieri sera, con gran pubblico, al Piccolo Teatro, in un colloquio con Ferruccio De Bortoli. Un libro da sindaco. E da persona che sa bene come le metropoli abbiano uno straordinario bisogno di pensiero, di visione, di dibattito sincero. E di governo. In un confronto dialettico tra pubblica amministrazione e soggetti sociali, dall’Assolombarda alle altre imprese dei servizi e ai sindacati, dai centri della cultura, della scienza e dell’università alla Chiesa ambrosiana.

La Milano di cui si parla è una città aperta, consapevole da sempre che “milanese è chi lavora a Milano”, come nella cultura della responsabilità e dell’accoglienza che risale ai tempi di Ambrogio vescovo. Ed è una città innovativa e operosa, attenta a mercati e imprese (le porte di Milano hanno sempre avuto una funzione economica: caselli del dazio, luoghi d’ingresso e uscita delle merci). Ma anche responsabile socialmente. Milano modello? Senza arroganza antipatica, Milano come locomotiva d’un incrocio d’attività economiche, tra manifattura, servizi, finanza, economia della conoscenza, rilancio delle radici industriali e stimolo alle start up. Un processo che coinvolge una “megalopoli padana” da venti milioni d’abitanti, da Torino alla via Emilia da Motor Valley, Food Valley e Packaging Valley con industrie, centri di ricerca e università, dalle valli ai piedi delle Alpi alle distese imprenditoriali del Nord Est dopo Brescia e Verona. Una megalopoli tra le più forti d’Europa. L’orizzonte è il 2030, strategie e scelte politiche di lungo periodo. Analogo a quello del dibattito in corso su spazi e funzioni della metropoli negli incontri dell’Advisory Board di Assolombarda, con la partecipazione dei maggiori imprenditori e manager delle grandi imprese italiane e internazionali.

“Milano sta facendo la sua parte. Deve continuare a farla per sé, mentre il resto d’Italia si accontenta delle ricadute di indotto (che si sono) e di immagine o questo impegno può rientrare in un disegno politico del Paese?”, si chiede Sala. La risposta è ovvia. Ma la sua attuazione è tutt’altro che scontata. Se ne riparlerà dopo le elezioni del 4 marzo.

Certo, Milano andrà avanti. Più debole e fragile, comunque, se non starà dentro un disegno di governo generale (e di investimenti pubblici nazionali su infrastrutture, formazione, riforme per l’innovazione, il lavoro, la qualità di funzionamento della pubblica amministrazione).

Sala racconta una Milano efficiente, quella dell’Expo e degli investimenti internazionali che arrivano sempre più consistenti. E solidale, con gli impegni per le periferie. Attraente (crescono le presenze turistiche, tra tempo libero, cultura e affari), l’unica città italiana innovativa nell’elenco stilato dal World Economic Forum. E capace di reggere le sfide internazionali, come quella per la sede dell’Ema (Milano ha presentato a Bruxelles un progetto di qualità e tempestivo, con un luogo, il Grattacielo Pirelli, già pronto per ospitare gli uffici dell’Agenzia del Farmaco; Amsterdam, premiata dall’estrazione a sorte, invece no, sino alla pessima figura internazionale dei lavori incompiuti e dei rinvii: un capovolgimento dei luoghi comuni, noi efficienti, gli arroganti olandesi pasticcioni e inadempienti).

Milano dunque paradigma. Con tutte le difficoltà e le contraddizioni che nessuno nasconde. Come risulta, peraltro, dai racconti del “Viaggio in Italia” pubblicati in un numero speciale della rivista “Il Mulino” (di Milano scrive Gabriele Pasqui, urbanista del Politecnico, ma in tanti si confrontano nel bene e nel male con Milano, per descrivere “un Paese plurale, difficile e bellissimo”). E dai saggi pubblicati in “Brand Milano”, un “Atlante della nuova narrativa identitaria” a cura di Stefano Rolando, promosso dal Comitato Scientifico degli Atenei milanesi e pubblicato da Mimesis. Brand non come marchio e comunicazione, ma come “evoluzione di un grande patrimonio simbolico urbano”, come identità profonda e futuribile, come motore di racconto dello sviluppo.

Si torna così al tema cardine del ruolo delle grandi città. La letteratura politica, economica e sociologica è sempre più ampia e densa di analisi interessanti e di suggerimenti. Si può fare riferimento all’essenziale saggio mandato in libreria pochi anni fa, nel 2013, da Benjamin R. Barber, politologo americano di grande influenza, “If Mayors ruled the World”, Yale University Press, con un un sottotitolo esplicito, “Dysfuncional Nations, Rising Cities”. E arrivare a tempi recenti con “The New Urban Crisis” di Richard Florida, edito da Basic Books: il teorico dell’ascesa della “nuova classe creativa” (un successo editoriale internazionale del 2003) nota adesso che “our cities are increasing inequality, deepening segregation, and failing the middle class” e si chiede come reagire, come cercare cioè di attenuare le diseguaglianze, come provare a fare crescere metropoli più inclusive, migliorando infrastrutture, servizi, accoglienze e cercando di governare le tendenze del mercato immobiliare, le crescenti disparità dei prezzi delle case tra le aree privilegiate dei “creativi” e quelle, impoverite, dei ceti “al servizio” dei creativi stessi. Con un’idea di fondo: la creatività è fondamentale (con tutti i corollari delle libertà, del dinamismo individuale, dei premi al mercato selettivo e al merito), ma nessuno può pensare di fare a meno di scelte politiche, urbanistiche, di riequilibrio sociale. Scelte che investono i “Mayors” cari a Barber, ma anche gli Stati nazionali e, per quel che ci riguarda, gli organismi politici della Ue. Come e con che miscela tra metropoli ed Europa? Il dibattito è aperto.

Sono utili, in questo, le analisi e le indicazioni di Parag Khanna, ex consigliere di Obama e analista del Centre on Asia and Globalization di Singapore in “La rinascita delle Città-Stato”, appena pubblicato in Italia da Fazi: “Il futuro è già qui: entro trent’anni la politica mondiale sarà dominata da macro-città, megalopoli influenti e così connesse tra loro da non diversi più piegare al concetto di confine. Città-Stato efficienti sul modello di quelle antiche, dunque non necessariamente indipendenti ma con un’autonomia tale da potersi impegnare in relazioni globali di cui beneficerà tutto il territorio circostante”. Singapore e Dubai, Amburgo e Istanbul, New York e Londra, Barcellona e Milano ne sono esempi. Già, proprio la Barcellona motore economico della Spagna, che non sogna la secessione da Madrid ma una più dinamica autonomia catalana nel quadro dell’Europa e del Mediterraneo.

Città-Stato è una forma di governo, che ricorda le potenti città rinascimentali italiane, Genova e Venezia, Firenze e appunto Milano, ma anche le ricche città anseatiche forti di finanza, commerci, porti e cantieri navali, poi finite in crisi nei secoli del trionfo degli Stati nazionali, tra Seicento e avvio del Novecento. Ma, storia a parte, Città-Stato è una dimensione economica e sociale con cui fare in modo nuovo i conti, in stagioni di economie globali, interconnessioni spinte ma anche riscoperta dei valori del genius loci come strumento competitivo, dei territori come distintività ed esclusività di prodotti, esperienze, servizi. Lo spiegano bene Carlo Ratti e Matthew Claudel in “La città di domani”, Einaudi: “Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”.

Viviamo tempi di crisi. E di metamorfosi. Difficile, immersi nella quotidianità spesso contraddittoria dei flussi economici e sociali, individuare le tendenze e i segni forti del cambiamento. Ma è proprio questa la sfida culturale e politica da cogliere: dare un ordine dinamico ai fatti, elaborare prospettive, cercare di definire un “senso” delle scelte politiche ed economiche. Sfida da classe dirigente in senso ampio, da vera e propria ruling class, che decide e applica le regole. Sfida di responsabilità civile.

Nella storia, da Ambrogio vescovo all’Illuminismo, dal Risorgimento di Cattaneo agli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico animato anche da lungimiranti imprenditori e intellettuali visionari (spesso in stretta collaborazione), proprio questo Milano ha fatto, pur non essendo capitale: lasciare segni forti di progresso, coniugare interesse economici e valori sociali, competitività e solidarietà. E fornire paradigmi interessanti sia all’Italia che all’Europa. Sono temi di oggi.

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