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Per le imprese è necessaria un’Europa più integrata ed efficiente con grandi investimenti per infrastrutture hi tech, ricerca e lavoro

Le imprese italiane vivono in Europa, crescono sui suoi mercati aperti e competitivi. E tra gli imprenditori, in maggioranza, resta evidente la convinzione che senza Europa non ci sia sviluppo. Lo dicono le rilevazioni d’una società di comunicazione economica, Community Group, pubblicate di recente da “Il Sole24Ore” (10 maggio), secondo cui il 56,6% degli imprenditori sono convintamente europeisti, una quota maggiore di quella della popolazione in generale, il 50,4%. Dopo i disastri della Brexit, insomma, le ombre d’una eventuale Italexit non convincono affatto gli ambienti dell’industria e del lavoro. Anche se non mancano le preoccupazioni e le critiche su come l’Europa ha finora funzionato, almeno nella percezione diffusa del mondo economico.

Quel 56,6% di favorevoli alla Ue non è una percentuale entusiasmante, naturalmente. Sia a paragone con un’analoga rilevazione di tre anni fa (gli imprenditori pro Ue erano il 69%, i cittadini in generale il 67%), sia a confronto con le opinioni dei principali paesi europei.

Più colpita dalle conseguenze della Grande Crisi, più fragile economicamente e socialmente, più lenta a crescere per quel che riguarda il Pil, la produttività, l’occupazione, l’Italia si rivela ancora una volta come l’anello debole d’una Ue in difficoltà. Bloccato da tempo dall’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di portare a termine con coraggio essenziali riforme di modernizzazione e migliore equità sociale, il Paese, in ampi settori popolari, cede alla tentazione di dare ascolto alle correnti politiche sovraniste e populiste che proprio nella Ue e nei “poteri forti” di Bruxelles trovano un facile capro espiatorio.

Il sondaggio di Community Group copre tutta la platea delle imprese, le grandi e medio-grandi aperte, competitive e internazionalizzate, ma anche le piccole e piccolissime e quelle artigiane in difficoltà perché più legate a un asfittico mercato interno, quelle che hanno innovato e ben utilizzato i finanziamenti Ue per la digital economy di Horizon2020 e quelle altre che invece hanno vissuto sempre più stentatamente di contributi e ricadute d’una spesa pubblica oramai in contrazione. E se le prime sono essenziali dal punto di vista della crescita del Pil sulla scia dell’export, le seconde, numerose soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree economiche meno dinamiche, hanno un forte peso elettorale.

Ancora un paio di dati, comunque, per riflettere meglio. Il 31% degli imprenditori sostiene che l’euro abbia creato “solo complicazioni” (era il 26% tre anni fa) ma il 50,4% ritiene che l’euro sia comunque necessario nonostante le difficoltà e il 62% è convinto che si starebbe peggio se si tornasse alla lira. Euro ed Europa nonostante tutto, si potrebbe concludere.

Cosa fare per trasformare l’euro in una vera opportunità? Il 78,6% ritiene indispensabile un maggior coordinamento tra le politiche economiche regionali. E coglie un punto essenziale: alle politiche monetarie e alle regole bancarie comuni vanno unite nuove politiche europee che riguardino il fisco, lo sviluppo economico, la ricerca, la formazione, il welfare. Più Europa, dunque, non meno, tenendo conto che tutte le scelte in queste materie sono o nazionali o affidate alle difficili mediazioni in sede di Consiglio d’Europa, là cioè dove contano i governi nazionali.

Quando dall’opinione diffusa rilevata dai sondaggi si passa alle opinioni di chi ha responsabilità nelle associazioni imprenditoriali, i giudizi sono più netti. Il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, sostiene che “il ritorno del sovranismo non è un errore… è un delitto” e, presentando un libro curato dall’associazione, “Il futuro dell’Europa”, in collaborazione con tutti i rettori delle università milanesi, ha aggiunto: “L’Europa non è un ostacolo ma il miglior rappresentante sullo scacchiere mondiale delle nostre idee e di ciò che sappiamo fare, perché ha quel peso che nessuno potrebbe vantare giocando la partita da solo”. La spiegazione è chiara: “Le undici regioni italiane che presentano oggi un tasso di interdipendenza a catene transfrontaliere del valore superiore al 20% della loro manifattura – e ovviamente in posizioni di punta ci sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – pesano da sole per l’80% del valore aggiunto industriale italiano. E i dati ci dicono che le nostre medie e piccole imprese internazionalizzate, a parità di classe dimensionale, negli ultimi anni hanno fatto meglio delle corrispondenti francesi e tedesche”. L’Europa è l’occasione di crescita, la leva di sviluppo.

E’ necessario dunque, anche dal punto di vista, pensare a come fare funzionare meglio l’Europa, rendere più efficace l’utilizzo dei fondi europei, stimolare una maggiore integrazione. Tutto il contrario del nazionalismo tanto propagandato.

Si discute molto delle necessità di un nuovo “piano Marshall” o di un nuovo “piano Delors” per le grandi infrastrutture, sia materiali (la Tav è un esempio) che immateriali, per unificare realmente mercati europei e comunità, dando proprio alle infrastrutture una responsabilità, simbolica e funzionale, di rafforzamento delle relazioni europee (ne abbiamo più volte parlato in questo blog). E’ indispensabile, insomma, andare oltre il pur necessario fiscal compact per insistere sull’economia reale e sugli investimenti pubblici e privati europei necessari per l’ambiente, le comunicazioni, la ricerca, una smart land che, nel segno della qualità della vita e del lavoro, rafforzi l’integrazione. Sugli investimenti, le imprese sono pronte a fare la loro parte, con maggiore impegno: la consapevolezza diffusa è che la sfida economica, con gli Usa e la Cina, si gioca proprio sulle partite più sofisticate della produzione e dei servizi innovativi, di qualità, a maggior valore aggiunto.

La partita delle infrastrutture è un’altra delle grandi sfide del rilancio della Ue: da finanziare anche con l’emissione di eurobond e da affidare a una gestione efficiente e ben coordinata tra strutture di Bruxelles e agenzie Ue e nazionali, con scelte di spesa che evitino il mancato o distorto uso dei fondi. Una vera e propria lungimirante strategia di sviluppo, produttiva e non assistenziale. Non solo un rafforzamento dell’attuale Piano Juncker, ma una nuova definizione dell’Investment Plan for Europa di cui si discute, a Bruxelles e nelle grandi capitali europee più sensibili (a cominciare da Berlino e Parigi) per guardare anche al di là delle prossime elezioni per il Parlamento Europeo ed elaborare idee e proposte nel difficile quadro competitivo internazionale.

In questo contesto, l’Italia non può essere affatto né isolata né marginale. Alle imprese italiane che, con attivismo crescente, continuano a guardare da attori europei al resto del mondo, stanno stretti nazionalismi e protezionismi, incombenti pretese di presenza pubblica nella gestione diretta dell’economia, disattenzioni per l’autonomia dei corpi sociali ma anche per l’indipendenza delle grandi istituzioni di controllo. La migliore economia italiana è ancora fortemente caratterizzata da imprese di mercato, liberali e riformiste, radicate nei territori dell’Italia produttiva, ben attrezzate alla competizione internazionale. L’Europa da rafforzare e rilanciare, per giocare di metafora, è appunto una buona impresa.

Le imprese italiane vivono in Europa, crescono sui suoi mercati aperti e competitivi. E tra gli imprenditori, in maggioranza, resta evidente la convinzione che senza Europa non ci sia sviluppo. Lo dicono le rilevazioni d’una società di comunicazione economica, Community Group, pubblicate di recente da “Il Sole24Ore” (10 maggio), secondo cui il 56,6% degli imprenditori sono convintamente europeisti, una quota maggiore di quella della popolazione in generale, il 50,4%. Dopo i disastri della Brexit, insomma, le ombre d’una eventuale Italexit non convincono affatto gli ambienti dell’industria e del lavoro. Anche se non mancano le preoccupazioni e le critiche su come l’Europa ha finora funzionato, almeno nella percezione diffusa del mondo economico.

Quel 56,6% di favorevoli alla Ue non è una percentuale entusiasmante, naturalmente. Sia a paragone con un’analoga rilevazione di tre anni fa (gli imprenditori pro Ue erano il 69%, i cittadini in generale il 67%), sia a confronto con le opinioni dei principali paesi europei.

Più colpita dalle conseguenze della Grande Crisi, più fragile economicamente e socialmente, più lenta a crescere per quel che riguarda il Pil, la produttività, l’occupazione, l’Italia si rivela ancora una volta come l’anello debole d’una Ue in difficoltà. Bloccato da tempo dall’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di portare a termine con coraggio essenziali riforme di modernizzazione e migliore equità sociale, il Paese, in ampi settori popolari, cede alla tentazione di dare ascolto alle correnti politiche sovraniste e populiste che proprio nella Ue e nei “poteri forti” di Bruxelles trovano un facile capro espiatorio.

Il sondaggio di Community Group copre tutta la platea delle imprese, le grandi e medio-grandi aperte, competitive e internazionalizzate, ma anche le piccole e piccolissime e quelle artigiane in difficoltà perché più legate a un asfittico mercato interno, quelle che hanno innovato e ben utilizzato i finanziamenti Ue per la digital economy di Horizon2020 e quelle altre che invece hanno vissuto sempre più stentatamente di contributi e ricadute d’una spesa pubblica oramai in contrazione. E se le prime sono essenziali dal punto di vista della crescita del Pil sulla scia dell’export, le seconde, numerose soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree economiche meno dinamiche, hanno un forte peso elettorale.

Ancora un paio di dati, comunque, per riflettere meglio. Il 31% degli imprenditori sostiene che l’euro abbia creato “solo complicazioni” (era il 26% tre anni fa) ma il 50,4% ritiene che l’euro sia comunque necessario nonostante le difficoltà e il 62% è convinto che si starebbe peggio se si tornasse alla lira. Euro ed Europa nonostante tutto, si potrebbe concludere.

Cosa fare per trasformare l’euro in una vera opportunità? Il 78,6% ritiene indispensabile un maggior coordinamento tra le politiche economiche regionali. E coglie un punto essenziale: alle politiche monetarie e alle regole bancarie comuni vanno unite nuove politiche europee che riguardino il fisco, lo sviluppo economico, la ricerca, la formazione, il welfare. Più Europa, dunque, non meno, tenendo conto che tutte le scelte in queste materie sono o nazionali o affidate alle difficili mediazioni in sede di Consiglio d’Europa, là cioè dove contano i governi nazionali.

Quando dall’opinione diffusa rilevata dai sondaggi si passa alle opinioni di chi ha responsabilità nelle associazioni imprenditoriali, i giudizi sono più netti. Il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, sostiene che “il ritorno del sovranismo non è un errore… è un delitto” e, presentando un libro curato dall’associazione, “Il futuro dell’Europa”, in collaborazione con tutti i rettori delle università milanesi, ha aggiunto: “L’Europa non è un ostacolo ma il miglior rappresentante sullo scacchiere mondiale delle nostre idee e di ciò che sappiamo fare, perché ha quel peso che nessuno potrebbe vantare giocando la partita da solo”. La spiegazione è chiara: “Le undici regioni italiane che presentano oggi un tasso di interdipendenza a catene transfrontaliere del valore superiore al 20% della loro manifattura – e ovviamente in posizioni di punta ci sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – pesano da sole per l’80% del valore aggiunto industriale italiano. E i dati ci dicono che le nostre medie e piccole imprese internazionalizzate, a parità di classe dimensionale, negli ultimi anni hanno fatto meglio delle corrispondenti francesi e tedesche”. L’Europa è l’occasione di crescita, la leva di sviluppo.

E’ necessario dunque, anche dal punto di vista, pensare a come fare funzionare meglio l’Europa, rendere più efficace l’utilizzo dei fondi europei, stimolare una maggiore integrazione. Tutto il contrario del nazionalismo tanto propagandato.

Si discute molto delle necessità di un nuovo “piano Marshall” o di un nuovo “piano Delors” per le grandi infrastrutture, sia materiali (la Tav è un esempio) che immateriali, per unificare realmente mercati europei e comunità, dando proprio alle infrastrutture una responsabilità, simbolica e funzionale, di rafforzamento delle relazioni europee (ne abbiamo più volte parlato in questo blog). E’ indispensabile, insomma, andare oltre il pur necessario fiscal compact per insistere sull’economia reale e sugli investimenti pubblici e privati europei necessari per l’ambiente, le comunicazioni, la ricerca, una smart land che, nel segno della qualità della vita e del lavoro, rafforzi l’integrazione. Sugli investimenti, le imprese sono pronte a fare la loro parte, con maggiore impegno: la consapevolezza diffusa è che la sfida economica, con gli Usa e la Cina, si gioca proprio sulle partite più sofisticate della produzione e dei servizi innovativi, di qualità, a maggior valore aggiunto.

La partita delle infrastrutture è un’altra delle grandi sfide del rilancio della Ue: da finanziare anche con l’emissione di eurobond e da affidare a una gestione efficiente e ben coordinata tra strutture di Bruxelles e agenzie Ue e nazionali, con scelte di spesa che evitino il mancato o distorto uso dei fondi. Una vera e propria lungimirante strategia di sviluppo, produttiva e non assistenziale. Non solo un rafforzamento dell’attuale Piano Juncker, ma una nuova definizione dell’Investment Plan for Europa di cui si discute, a Bruxelles e nelle grandi capitali europee più sensibili (a cominciare da Berlino e Parigi) per guardare anche al di là delle prossime elezioni per il Parlamento Europeo ed elaborare idee e proposte nel difficile quadro competitivo internazionale.

In questo contesto, l’Italia non può essere affatto né isolata né marginale. Alle imprese italiane che, con attivismo crescente, continuano a guardare da attori europei al resto del mondo, stanno stretti nazionalismi e protezionismi, incombenti pretese di presenza pubblica nella gestione diretta dell’economia, disattenzioni per l’autonomia dei corpi sociali ma anche per l’indipendenza delle grandi istituzioni di controllo. La migliore economia italiana è ancora fortemente caratterizzata da imprese di mercato, liberali e riformiste, radicate nei territori dell’Italia produttiva, ben attrezzate alla competizione internazionale. L’Europa da rafforzare e rilanciare, per giocare di metafora, è appunto una buona impresa.

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