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Più sviluppo, meno rigore: adesso anche il G20 ha capito che servono politiche e investimenti per la crescita

Più sviluppo, meno rigore. Anzi, per dirla ancora meglio, una nuova cultura economica che guardi alla quantità e alla qualità della crescita e proprio in questa dimensione trovi la chiave migliore per cercare di fare quadrare la battaglia contro le diseguaglianze e l’equilibrio dei conti pubblici. Miraggi? Illusioni? Favole post keynesiane? Un’ampia letteratura economica dice che “si può fare” (ultimi titoli: “Il nostro futuro” di Alec Ross, un “tech guru” caro ad Obama e ai Clinton, ma anche nel nostro piccolo a Matteo Renzi, pubblicato da Feltrinelli e “La verità sul capitalismo” di John Plender, editorialita del “Financial Times”, edito da Bollati Boringhieri: l’intreccio appassionante tra economia ed etica). Ma anche nel mondo della politica qualcosa d’importante si muove.

Nell’età delle incertezze sempre più profonde e allarmanti, i maggiori paesi dell’economia mondiale, infatti, cominciano finalmente a capire che la via d’uscita da una crisi che ancora continua non sta nel rigore finanziario dei conti pubblici a ogni costo, ma nelle politiche di crescita, negli investimenti pubblici, nella battaglia contro squilibri e diseguaglianze. “Il senso generale è che le prospettive restano incerte. Vi è un ampio consenso che ciò di cui l’economia globale ha bisogno è la crescita, non l’austerity”, sostiene Jacob Lew, segretario del Tesoro Usa. L’uomo di governo americano parla al termine del vertice del G20 a Chengdu, in Cina, alla fine di luglio (presenti i ministri dell’Economia e i governatori delle Banche centrali). E aggiunge: “Le discussioni qui si sono concentrate sul modo migliore per ottenere quel risultato”. “Un altro passo verso l’addio all’era del rigore”, sintetizzano autorevoli commentatori.

Sei anni fa, al G20 di Toronto, s’era pensato che la Grande Crisi esplosa nel 2008 fosse in via di superamento e che dunque, archiviata la congiuntura negativa, si potesse continuare come prima: portare i bilanci in pareggio, ridurre i debiti, lasciar fare alle tradizionali scelte, sintesi di austerity pubblica e dinamiche di mercato. Un grave errore. La crisi era strutturale, non congiunturale. E pur in presenza di un’abbondante autorevole letteratura economica sulla necessità di cambiare radicalmente paradigmi di produzione, consumi, rapporti con l’ambiente, relazioni sociali, i governi non si sono mossi più di tanto. L’austerity è rimasta un dogma, soprattutto nella Ue a trazione tedesca.

La crescita però non è arrivata. Anzi, le prospettive mondiali sono via via peggiorate, anche a causa di fattori non strettamente economici, ma geo-politici: il terrorismo, le gigantesche migrazioni di massa, gli allarmi sul clima. Contro le grandi, diffuse paure che incidono drammaticamente sull’economia, sarebbero state necessarie coraggiose riforme. Non credenze rituali, cattive politiche di bilancio, scarsa attenzione agli investimenti.

La previsione di crescita mondiale per il 2016, secondo il Fmi, è del 3,1%. Poco. E in via di riduzione. I Paesi Ue sono al palo. La Brexit avrà effetti negativi non solo in Gran Bretagna e nell’area della Ue, ma anche sul commercio internazionale (dopo la Brexit il Fmi ha tagliato le sue stime di 0,1%). Servono, appunto, nuove scelte politiche.

Il documento finale del G20 ne riconosce la necessità (un buon segno politico) ma non ne indica i contenuti (pur insistendo sulla necessità di un impegno contro “il protezionismo”, scorciatoia impraticabile, anche se purtroppo molto cara al potente candidato alla Casa Bianca Donald Trump). Gli organismi internazionali perdono peso, a vantaggio di un misero e volgare neo-nazionalismo. L’incertezza generale si aggrava.

Se si guarda a parecchi paesi del G20, Usa e Ue compresi, si deve prendere atto di alcune tendenze oramai chiare: la produttività ristagna, pur in presenza di grandi innovazioni tecnologiche (ne abbiamo parlato sul blog di due settimane fa); le timide “ripresine” non portano nuovi posti di lavoro; l’export (e cioè un vero e proprio “rubare la crescita” ai paesi più fragili dentro l’area Ue, sport in cui la Germania è campione) non è soluzione di ampio respiro; le diseguaglianze economiche e sociali aumentano anche all’interno dei Paesi più ricchi, colpendo i ceti medi; le condizioni di vita di ampi settori popolari peggiorano e le aspettative di benessere vengono deluse (soprattutto tra le nuove generazioni). L’economia ristagna. La politica non sa farla ripartire.

Ma quelle diseguaglianze e quella frustrazione diffusa non sono prive di conseguenze politiche. Le élite di governo e quelle economiche e sociali più in generale perdono la scommessa di fiducia sul futuro. Il “populismo” cresce, con una ferita (tra disinteresse e protesta radicale) ai tradizionali assetti di “governance” della democrazia.

Anche per questo, bisogna tornare a parlare di politiche di crescita. Ampliare, nei singoli Paesi, le svolte del G20. Mettere in soffitta l’ideologia del rigore, dell’austerity (senza comunque coltivare demagogiche inclinazioni al “deficit spending” sulla parte corrente e “assistenziale” della spesa). E passare con decisione a forti “politiche dell’offerta”: investimenti pubblici in innovazione, ricerca, formazione, infrastrutture, energia, ambiente, anche per stimolare gli investimenti privati. Non più le sanzioni su chi non ha “bilanci in regola” (le scelte di Bruxelles di non sanzionare Spagna e Portogallo per i loro squilibri di finanza pubblica vanno nella giusta direzione, ma non le scelte verso la Grecia sempre in ginocchio). Semmai, una lungimirante strategia Ue di sviluppo. Una svolta, appunto. Una sorta di “nuovo Piano Delors”.  Senza dogmi né ortodossie che sinora hanno fallito. Ma con sapienti politiche di “sviluppo sostenibile”. La virtù sta nella crescita, non nel ristagno.

Più sviluppo, meno rigore. Anzi, per dirla ancora meglio, una nuova cultura economica che guardi alla quantità e alla qualità della crescita e proprio in questa dimensione trovi la chiave migliore per cercare di fare quadrare la battaglia contro le diseguaglianze e l’equilibrio dei conti pubblici. Miraggi? Illusioni? Favole post keynesiane? Un’ampia letteratura economica dice che “si può fare” (ultimi titoli: “Il nostro futuro” di Alec Ross, un “tech guru” caro ad Obama e ai Clinton, ma anche nel nostro piccolo a Matteo Renzi, pubblicato da Feltrinelli e “La verità sul capitalismo” di John Plender, editorialita del “Financial Times”, edito da Bollati Boringhieri: l’intreccio appassionante tra economia ed etica). Ma anche nel mondo della politica qualcosa d’importante si muove.

Nell’età delle incertezze sempre più profonde e allarmanti, i maggiori paesi dell’economia mondiale, infatti, cominciano finalmente a capire che la via d’uscita da una crisi che ancora continua non sta nel rigore finanziario dei conti pubblici a ogni costo, ma nelle politiche di crescita, negli investimenti pubblici, nella battaglia contro squilibri e diseguaglianze. “Il senso generale è che le prospettive restano incerte. Vi è un ampio consenso che ciò di cui l’economia globale ha bisogno è la crescita, non l’austerity”, sostiene Jacob Lew, segretario del Tesoro Usa. L’uomo di governo americano parla al termine del vertice del G20 a Chengdu, in Cina, alla fine di luglio (presenti i ministri dell’Economia e i governatori delle Banche centrali). E aggiunge: “Le discussioni qui si sono concentrate sul modo migliore per ottenere quel risultato”. “Un altro passo verso l’addio all’era del rigore”, sintetizzano autorevoli commentatori.

Sei anni fa, al G20 di Toronto, s’era pensato che la Grande Crisi esplosa nel 2008 fosse in via di superamento e che dunque, archiviata la congiuntura negativa, si potesse continuare come prima: portare i bilanci in pareggio, ridurre i debiti, lasciar fare alle tradizionali scelte, sintesi di austerity pubblica e dinamiche di mercato. Un grave errore. La crisi era strutturale, non congiunturale. E pur in presenza di un’abbondante autorevole letteratura economica sulla necessità di cambiare radicalmente paradigmi di produzione, consumi, rapporti con l’ambiente, relazioni sociali, i governi non si sono mossi più di tanto. L’austerity è rimasta un dogma, soprattutto nella Ue a trazione tedesca.

La crescita però non è arrivata. Anzi, le prospettive mondiali sono via via peggiorate, anche a causa di fattori non strettamente economici, ma geo-politici: il terrorismo, le gigantesche migrazioni di massa, gli allarmi sul clima. Contro le grandi, diffuse paure che incidono drammaticamente sull’economia, sarebbero state necessarie coraggiose riforme. Non credenze rituali, cattive politiche di bilancio, scarsa attenzione agli investimenti.

La previsione di crescita mondiale per il 2016, secondo il Fmi, è del 3,1%. Poco. E in via di riduzione. I Paesi Ue sono al palo. La Brexit avrà effetti negativi non solo in Gran Bretagna e nell’area della Ue, ma anche sul commercio internazionale (dopo la Brexit il Fmi ha tagliato le sue stime di 0,1%). Servono, appunto, nuove scelte politiche.

Il documento finale del G20 ne riconosce la necessità (un buon segno politico) ma non ne indica i contenuti (pur insistendo sulla necessità di un impegno contro “il protezionismo”, scorciatoia impraticabile, anche se purtroppo molto cara al potente candidato alla Casa Bianca Donald Trump). Gli organismi internazionali perdono peso, a vantaggio di un misero e volgare neo-nazionalismo. L’incertezza generale si aggrava.

Se si guarda a parecchi paesi del G20, Usa e Ue compresi, si deve prendere atto di alcune tendenze oramai chiare: la produttività ristagna, pur in presenza di grandi innovazioni tecnologiche (ne abbiamo parlato sul blog di due settimane fa); le timide “ripresine” non portano nuovi posti di lavoro; l’export (e cioè un vero e proprio “rubare la crescita” ai paesi più fragili dentro l’area Ue, sport in cui la Germania è campione) non è soluzione di ampio respiro; le diseguaglianze economiche e sociali aumentano anche all’interno dei Paesi più ricchi, colpendo i ceti medi; le condizioni di vita di ampi settori popolari peggiorano e le aspettative di benessere vengono deluse (soprattutto tra le nuove generazioni). L’economia ristagna. La politica non sa farla ripartire.

Ma quelle diseguaglianze e quella frustrazione diffusa non sono prive di conseguenze politiche. Le élite di governo e quelle economiche e sociali più in generale perdono la scommessa di fiducia sul futuro. Il “populismo” cresce, con una ferita (tra disinteresse e protesta radicale) ai tradizionali assetti di “governance” della democrazia.

Anche per questo, bisogna tornare a parlare di politiche di crescita. Ampliare, nei singoli Paesi, le svolte del G20. Mettere in soffitta l’ideologia del rigore, dell’austerity (senza comunque coltivare demagogiche inclinazioni al “deficit spending” sulla parte corrente e “assistenziale” della spesa). E passare con decisione a forti “politiche dell’offerta”: investimenti pubblici in innovazione, ricerca, formazione, infrastrutture, energia, ambiente, anche per stimolare gli investimenti privati. Non più le sanzioni su chi non ha “bilanci in regola” (le scelte di Bruxelles di non sanzionare Spagna e Portogallo per i loro squilibri di finanza pubblica vanno nella giusta direzione, ma non le scelte verso la Grecia sempre in ginocchio). Semmai, una lungimirante strategia Ue di sviluppo. Una svolta, appunto. Una sorta di “nuovo Piano Delors”.  Senza dogmi né ortodossie che sinora hanno fallito. Ma con sapienti politiche di “sviluppo sostenibile”. La virtù sta nella crescita, non nel ristagno.

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