“Ricomincio da 50”: ecco come non disperdere un patrimonio d’esperienze e competenze
“Ai vecchi insegnerei che la morte non viene con la vecchiaia, ma con l’oblio”. Sono parole tratte dalla “Lettera d’addio ai suoi amici” scritta da Gabriel Garcia Marquez, poco prima della sua scomparsa, nell’aprile del 2014. Una lezione importante. Non solo per gli anziani, ma soprattutto per la società che sta loro attorno. E densa di implicazioni, da parte di chi, già nel suo libro più noto, “Cent’anni di solitudine”, nel 1967, aveva scritto: “Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, e non sospettano nemmeno che la vera felicità sta nel modo in cui si sale la china… Il segreto di una buona vecchiaia è nient’altro che la conclusione di un onorevole patto con la solitudine”. Lo sguardo forte e pacato sulla solitudine, dunque. Ma poi, la paura del ritrovarsi abbandonati, dimenticati. C’è quasi mezzo secolo di distanza, tra una frase e l’altra (Gabo aveva quarant’anni, quando scrisse l’epopea del colonnello Aureliano Buendìa a Macondo). E il cambiamento, naturale, di tono e di prospettiva, aiuta chi vuole leggere in modo più consapevole la relazione tra l’età delle persone e il cambiamento delle relazioni sociali. E’ faticoso, il trascorrere del tempo, quando le ombre del passato alle spalle sono più lunghe del cammino che ancora ci resta. Ma, appunto perché quel tempo è breve e contemporaneamente ricco di memorie e d’esperienze di rilevanza non solo personale, ma anche economico, sociale e civile, non va sprecato nell’inutilità. Gli anziani sono un patrimonio, non un peso o un limite sociale. “Una risorsa, da valorizzare e da non abbandonare”, agevolando l’intollerabile “cultura dello scarto”, ammonisce Papa Francesco, insistendo “sull’alleanza tra anziani e giovani” per un “migliore futuro”.
“Ancora troppo giovani per essere vecchi”, scrivono Giangiacomo Schiari, vicedirettore del Corriere della Sera e Carlo Vergani, gerontologo e geriatra di grande esperienza (all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), in un libro che analizza condizioni e contraddizioni di una società fragile ed egoista, che invecchia e perde il senso della relazione tra memoria e futuro. Sfida complessa, ritrovare quel senso. Ma essenziale. Per il Paese nel suo complesso. Ma anche per il mondo del lavoro e delle imprese, stretto nella contrastante morsa di fenomeni divaricanti: l’allungamento dell’età di permanenza al lavoro e il rinvio della pensione, per giuste esigenze di equilibrio dei sistemi previdenziali e della conseguente spesa pubblica, ma anche la perdita del posto di lavoro da parte di decine di migliaia di “over 50” di difficilissima ricollocazione professionale (nella trappola, dunque, di chi non ha né stipendio né pensione) e, contemporaneamente, i problemi di inserimento al lavoro delle nuove generazioni e le fosche previsioni del loro futuro previdenziale. Un groviglio di questioni. Che chiedono soluzioni politiche, di sistema. Ma sollecitano risposte pure dalla cultura d’impresa e dalle scelte di gestione delle risorse umane da parte delle aziende. Le popolazioni delle società europee invecchiano (Germania e Italia in prima linea). E c’è molto da fare.
Quali risposte? Una sorta di “nuovo patto generazionale” che, grazie a soluzioni fiscali e contributive, utilizzi gli anziani che restano part time al lavoro per fare da maestri delle nuove generazioni in azienda e trasmettere competenze e saperi altrimenti irrecuperabili. E una politica del capitale umano più articolata e sapiente di molte pratiche di gestione del personale tutt’ora in corso.
L’età, infatti, non può essere una tagliola (via gli anziani) né naturalmente un vincolo d’esclusione (non c’è spazio per i giovani, se non con contratti precari, dato che i posti a tempo indeterminato sono tutti occupati). Se, nell’attuale fase della competizione globale e del primato dell’”economia della conoscenza”, la competitività (soprattutto per i paesi più “maturi”) si gioca sul binomio innovazione-inclusione (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana), allora la valorizzazione delle persone deve tenere in gran conto anche l’insieme delle competenze e delle esperienze, dunque il patrimonio storico legato all’età. Il diversity management (le sinergie tra le differenze di genere, scelte sessuali, culture, religioni, nazionalità) deve comprendere anche l’age management e cioè una sofisticata gestione della presenza in azienda delle diverse classi d’età. L’attenzione alle persone si può legare così, virtuosamente, al miglioramento della produttività.
“Ricomincio da 50” è il brillante titolo di un convegno organizzato da Assolombarda, con il contributo della Provincia di Milano, di Aldai e Federmanager (le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti d’azienda e dell’Istud (istituto d’eccellenza per formazione e ricerca economica e sociale) sulla “gestione delle transizioni occupazionali dentro e fuori l’impresa”. Due i progetti di riferimento, nel contesto di un impegno crescente delle istituzioni Ue sulla gestione dell’età di chi lavora (e dunque della ricollocazione di chi il lavoro lo perde): “AiM” e cioè “Age management in Milan” e ASTrO (“Azioni di sostegno alle transizioni occupazionali”). Si parte da un dato: la crisi ha determinato una crescente disoccupazione anche tra quadri e dirigenti d’impresa (dal 2008 al 2013 i manager licenziati, 910mila, sono più numerosi dei manager che ancora lavorano, 769mila: più di uno su due, insomma, ha perso il lavoro e molti non lo hanno più ritrovato) e il fenomeno è particolarmente evidente nella Lombardia luogo centrale dell’industria e dei servizi, con 10mila persone rimaste fuori. I settori più colpiti: informatica, elettronica, telecomunicazioni, industria meccanica e siderurgica, chimica e farmaceutica.
Siamo di fronte, dunque, a un patrimonio che rischia di disperdersi. Con grave danno non solo per le persone colpite e le loro famiglie, ma anche per l’Italia e per il sistema delle imprese. Come salvare la ricchezza di esperienze e competenze? Ci sono scelte aziendali da fare (capire il fenomeno e governarlo, per non “bruciare” capitale umano) e scelte personali (uscire fuori dallo schema tradizionale studio-lavoro-pensione e abituarsi a ragionare su di sé e sul proprio futuro secondo una relazione più complessa tra studio-lavoro-ancora studio-esperienze internazionali-ricollocazione, etc.). Dai percorsi di lavoro e di carriera lineari e ascendenti ai percorsi sinuosi, complessi, densi di diversità. Un grande salto sociale e culturale, che i lavoratori non possono compiere da soli ma su cui vanno sostenuti, educati, promossi, fiscalmente e formativamente aiutati. Una grande sfida imprenditoriale (è un tratto fondamentale della responsabilità sociale d’impresa), sindacale, sociale e politica. E un impegno culturale di rilievo (sulla memoria e il dialogo generazionale la Fondazione Pirelli ha impegnato attenzione e risorse, con attività ancora in corso, come “Il tempo dell’uomo: lavoro e no”).
C’è da costruire, anche in azienda, un nuovo equilibrio tra esperienza e innovazione, dunque tra diverse generazioni. E proprio sull’innovazione l’Italia, appunto, ha un grande bisogno di impegno. Ma non ci sono cambiamenti né miglioramenti di competitività, produttività e sostenibilità sociale delle scelte economiche che possano prescindere, nel “micro” delle imprese e nel “macro” del Paese, da una profonda consapevolezza della nostra storia e delle pagine migliori dello sviluppo italiano. Proprio quel patrimonio di sapienza che gli anziani possono continuare a mettere a disposizione delle nuove generazioni. Nel tempo del lavoro. E nella società.
“Ai vecchi insegnerei che la morte non viene con la vecchiaia, ma con l’oblio”. Sono parole tratte dalla “Lettera d’addio ai suoi amici” scritta da Gabriel Garcia Marquez, poco prima della sua scomparsa, nell’aprile del 2014. Una lezione importante. Non solo per gli anziani, ma soprattutto per la società che sta loro attorno. E densa di implicazioni, da parte di chi, già nel suo libro più noto, “Cent’anni di solitudine”, nel 1967, aveva scritto: “Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, e non sospettano nemmeno che la vera felicità sta nel modo in cui si sale la china… Il segreto di una buona vecchiaia è nient’altro che la conclusione di un onorevole patto con la solitudine”. Lo sguardo forte e pacato sulla solitudine, dunque. Ma poi, la paura del ritrovarsi abbandonati, dimenticati. C’è quasi mezzo secolo di distanza, tra una frase e l’altra (Gabo aveva quarant’anni, quando scrisse l’epopea del colonnello Aureliano Buendìa a Macondo). E il cambiamento, naturale, di tono e di prospettiva, aiuta chi vuole leggere in modo più consapevole la relazione tra l’età delle persone e il cambiamento delle relazioni sociali. E’ faticoso, il trascorrere del tempo, quando le ombre del passato alle spalle sono più lunghe del cammino che ancora ci resta. Ma, appunto perché quel tempo è breve e contemporaneamente ricco di memorie e d’esperienze di rilevanza non solo personale, ma anche economico, sociale e civile, non va sprecato nell’inutilità. Gli anziani sono un patrimonio, non un peso o un limite sociale. “Una risorsa, da valorizzare e da non abbandonare”, agevolando l’intollerabile “cultura dello scarto”, ammonisce Papa Francesco, insistendo “sull’alleanza tra anziani e giovani” per un “migliore futuro”.
“Ancora troppo giovani per essere vecchi”, scrivono Giangiacomo Schiari, vicedirettore del Corriere della Sera e Carlo Vergani, gerontologo e geriatra di grande esperienza (all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), in un libro che analizza condizioni e contraddizioni di una società fragile ed egoista, che invecchia e perde il senso della relazione tra memoria e futuro. Sfida complessa, ritrovare quel senso. Ma essenziale. Per il Paese nel suo complesso. Ma anche per il mondo del lavoro e delle imprese, stretto nella contrastante morsa di fenomeni divaricanti: l’allungamento dell’età di permanenza al lavoro e il rinvio della pensione, per giuste esigenze di equilibrio dei sistemi previdenziali e della conseguente spesa pubblica, ma anche la perdita del posto di lavoro da parte di decine di migliaia di “over 50” di difficilissima ricollocazione professionale (nella trappola, dunque, di chi non ha né stipendio né pensione) e, contemporaneamente, i problemi di inserimento al lavoro delle nuove generazioni e le fosche previsioni del loro futuro previdenziale. Un groviglio di questioni. Che chiedono soluzioni politiche, di sistema. Ma sollecitano risposte pure dalla cultura d’impresa e dalle scelte di gestione delle risorse umane da parte delle aziende. Le popolazioni delle società europee invecchiano (Germania e Italia in prima linea). E c’è molto da fare.
Quali risposte? Una sorta di “nuovo patto generazionale” che, grazie a soluzioni fiscali e contributive, utilizzi gli anziani che restano part time al lavoro per fare da maestri delle nuove generazioni in azienda e trasmettere competenze e saperi altrimenti irrecuperabili. E una politica del capitale umano più articolata e sapiente di molte pratiche di gestione del personale tutt’ora in corso.
L’età, infatti, non può essere una tagliola (via gli anziani) né naturalmente un vincolo d’esclusione (non c’è spazio per i giovani, se non con contratti precari, dato che i posti a tempo indeterminato sono tutti occupati). Se, nell’attuale fase della competizione globale e del primato dell’”economia della conoscenza”, la competitività (soprattutto per i paesi più “maturi”) si gioca sul binomio innovazione-inclusione (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana), allora la valorizzazione delle persone deve tenere in gran conto anche l’insieme delle competenze e delle esperienze, dunque il patrimonio storico legato all’età. Il diversity management (le sinergie tra le differenze di genere, scelte sessuali, culture, religioni, nazionalità) deve comprendere anche l’age management e cioè una sofisticata gestione della presenza in azienda delle diverse classi d’età. L’attenzione alle persone si può legare così, virtuosamente, al miglioramento della produttività.
“Ricomincio da 50” è il brillante titolo di un convegno organizzato da Assolombarda, con il contributo della Provincia di Milano, di Aldai e Federmanager (le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti d’azienda e dell’Istud (istituto d’eccellenza per formazione e ricerca economica e sociale) sulla “gestione delle transizioni occupazionali dentro e fuori l’impresa”. Due i progetti di riferimento, nel contesto di un impegno crescente delle istituzioni Ue sulla gestione dell’età di chi lavora (e dunque della ricollocazione di chi il lavoro lo perde): “AiM” e cioè “Age management in Milan” e ASTrO (“Azioni di sostegno alle transizioni occupazionali”). Si parte da un dato: la crisi ha determinato una crescente disoccupazione anche tra quadri e dirigenti d’impresa (dal 2008 al 2013 i manager licenziati, 910mila, sono più numerosi dei manager che ancora lavorano, 769mila: più di uno su due, insomma, ha perso il lavoro e molti non lo hanno più ritrovato) e il fenomeno è particolarmente evidente nella Lombardia luogo centrale dell’industria e dei servizi, con 10mila persone rimaste fuori. I settori più colpiti: informatica, elettronica, telecomunicazioni, industria meccanica e siderurgica, chimica e farmaceutica.
Siamo di fronte, dunque, a un patrimonio che rischia di disperdersi. Con grave danno non solo per le persone colpite e le loro famiglie, ma anche per l’Italia e per il sistema delle imprese. Come salvare la ricchezza di esperienze e competenze? Ci sono scelte aziendali da fare (capire il fenomeno e governarlo, per non “bruciare” capitale umano) e scelte personali (uscire fuori dallo schema tradizionale studio-lavoro-pensione e abituarsi a ragionare su di sé e sul proprio futuro secondo una relazione più complessa tra studio-lavoro-ancora studio-esperienze internazionali-ricollocazione, etc.). Dai percorsi di lavoro e di carriera lineari e ascendenti ai percorsi sinuosi, complessi, densi di diversità. Un grande salto sociale e culturale, che i lavoratori non possono compiere da soli ma su cui vanno sostenuti, educati, promossi, fiscalmente e formativamente aiutati. Una grande sfida imprenditoriale (è un tratto fondamentale della responsabilità sociale d’impresa), sindacale, sociale e politica. E un impegno culturale di rilievo (sulla memoria e il dialogo generazionale la Fondazione Pirelli ha impegnato attenzione e risorse, con attività ancora in corso, come “Il tempo dell’uomo: lavoro e no”).
C’è da costruire, anche in azienda, un nuovo equilibrio tra esperienza e innovazione, dunque tra diverse generazioni. E proprio sull’innovazione l’Italia, appunto, ha un grande bisogno di impegno. Ma non ci sono cambiamenti né miglioramenti di competitività, produttività e sostenibilità sociale delle scelte economiche che possano prescindere, nel “micro” delle imprese e nel “macro” del Paese, da una profonda consapevolezza della nostra storia e delle pagine migliori dello sviluppo italiano. Proprio quel patrimonio di sapienza che gli anziani possono continuare a mettere a disposizione delle nuove generazioni. Nel tempo del lavoro. E nella società.