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Ripresa nelle mani delle medie imprese. Serve una politica industriale competitiva  

Vale la pena leggerli, i quotidiani, su carta e on line. Con attenzione e perseveranza. Dedicando tempo a fatti e dati, inchieste e commenti documentati e competenti. Per riuscire ad avere un ritratto serio e attendibile delle reali condizioni economiche e sociali del nostro paese. Ed essere, così, opinione pubblica capace di giudizi critici e consapevoli: la sostanza della democrazia.

Come sta, dunque, l’Italia, in queste prime settimane del 2023? “Svolta in vista, le imprese ripartono”, scrive “IlSole24Ore” (22 gennaio), spiegando che “la caduta dei prezzi del gas rimette in moto le fabbriche” e che “l’economia va meglio delle attese”, anche se “è presto per festeggiare”, perché “l’inflazione resta alta e il rialzo dei tassi penalizza gli investimenti”, mentre “regge il lavoro” con 280mila nuovi posti occupati da gennaio ‘22 (secondo i dati del Centro Studi Confindustria). Per il ‘23 si prevede una crescita dello 0,6%. Poco, certo. Ma comunque in positivo.

Il 2022, sostiene la Banca d’Italia, è andato meglio del previsto, con una crescita del Pil di quasi il 4%, il che porta la crescita cumulata, omunità, tra ‘21 e ‘22, quasi all’11%, roba che non si vedeva dai tempi del “boom” economico degli anni Cinquanta e Sessanta e comunque al meglio nei paesi del G7 dopo la crisi del Covid. L’andamento della Borsa conferma la crescita: gli utili delle imprese quotate in Piazza Affari, sempre nel ‘22, sono andati su del 37%. Dunque, “la recessione è lontana anche per i listini”, commenta “IlSole24Ore” (22 gennaio).

Dopo tanto parlare di recessione in arrivo, con timori diffusi per una caduta dell’economia, europea e globale (caro-energia, inflazione, guerra in Ucraina, rallentamento degli scambi internazionali), sia i grandi protagonisti economici riuniti la scorsa settimana a Davos e i responsabili del Fondo Monetario hanno usato toni più rassicuranti, pur confermando fragilità e preoccupazioni (per il difficile andamento della Cina in caduta demografica e scarsa crescita economica, per esempio; e per i timori d’aggravamento delle tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente). Niente catastrofismo, forse addirittura niente recessione ma, soprattutto in Europa, un semplice “rallentamento”.

Staremo a vedere, ben consapevoli comunque degli effetti degli atteggiamenti psicologici e delle “aspettative” sugli andamenti economici reali: insistere sulle crisi in arrivo le agevola, con il meccanismo delle profezie che si auto-avverano, mentre battere e ribattere sugli elementi di “fiducia” rafforza il pur cauto ottimismo nella ripresa e stimola i consumi e gli investimenti.

“Il Foglio” ne sta facendo oggetto di acuta campagna, leggendo bene anche gli spunti che vengono da autorevoli organi di informazione internazionali, parlando di una “agenda anti catastrofista” (21 gennaio) e facendo pressioni sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché, smentendo i temi cari alla sua propaganda elettorale, sia adesso saldamente legata all’Europa e capace di fare scelte produttive, competitive, non stataliste né protezioniste, mettendo le imprese italiane in condizione di crescere, innovare, lavorare meglio. A cominciare dalle grandi aziende in cui lo Stato è in maggioranza (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Ferrovie, Fincantieri, etc.) e che sono cardini importanti di ampie filiere produttive di spessore internazionale: vanno governate bene, con scelte di competenza ed efficienza e certamente non lottizzate secondo criteri di potere, a discapito della loro stessa competitività.

Ecco il punto: il dinamismo delle imprese. Sono state, quelle manifatturiere soprattutto, il motore della straordinaria ripresa economica testimoniata da quel +11% del Pil di cui abbiamo detto, grazie al fatto che, nel corso di tutto il lungo periodo che va dalla Grande Crisi del 2008 all’inizio del Covid, hanno innovato, investito, esportato, creato stabilimenti e fatto acquisizioni all’estero, usando bene anche gli stimoli fiscali decisi da governi lungimiranti per agevolare le trasformazioni digitali di Industria 4.0 (e ostacolati da governi incompetenti come, soprattutto, la compagine “giallo-verde” guidata da Giuseppe Conte).

Le imprese manifatturiere, in altri termini, hanno recuperato produttività e competitività e hanno saputo fare leva sulle caratteristiche di fondo della nostra industria: l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”. Qualità, design, prodotti “su misura” (dall’abbigliamento alla nautica, dalla robotica alla costruzione di impianti produttivi e macchine utensili, dalla chimica alla farmaceutica), relazione stretta tra high tech e bellezza, originalità nel legame tra radici storiche inimitabili e senso del futuro, sofisticata adattabilità ai mutamenti di esigenze e gusti nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.

Lo conferma il Rapporto Mediobanca sulle “Mid Cap”, le imprese a media capitalizzazione, il cosiddetto “quarto capitalismo”, che hanno avuto nel ‘22 “performances del 20% superiori a quelle delle corrispondenti aziende francesi e tedesche” e che si prevede abbiano nel ‘23 “una crescita aggregata degli utili del 3% a fronte di un -9% delle grandi”. “Le medie imprese italiane al top Ue per produttività”, titola “IlSole24Ore” (19 gennaio). “Medie imprese resilienti, spingeranno la crescita”, conferma il “Corriere della Sera”.

Sono medie imprese impegnate, proprio in questa stagione, nella difficile twin transition, digitale e ambientale. E hanno bisogno di scelte di politica industriale, italiane ed europee (in chiave di sicurezza, energia, materie prime, componentistica high tech: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) che ne rafforzino la competitività, anche rispetto alle altre imprese europee. In mercati selettivi, devono poter continuare a investire su innovazione e sostenibilità ambientale e sociale, stare agganciate alle migliori filiere produttive (torna dunque alla ribalta il ruolo delle grandi imprese come capifila), crescere ancora sui mercati europei e internazionali.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismo, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità.

(Foto: Getty images)

Vale la pena leggerli, i quotidiani, su carta e on line. Con attenzione e perseveranza. Dedicando tempo a fatti e dati, inchieste e commenti documentati e competenti. Per riuscire ad avere un ritratto serio e attendibile delle reali condizioni economiche e sociali del nostro paese. Ed essere, così, opinione pubblica capace di giudizi critici e consapevoli: la sostanza della democrazia.

Come sta, dunque, l’Italia, in queste prime settimane del 2023? “Svolta in vista, le imprese ripartono”, scrive “IlSole24Ore” (22 gennaio), spiegando che “la caduta dei prezzi del gas rimette in moto le fabbriche” e che “l’economia va meglio delle attese”, anche se “è presto per festeggiare”, perché “l’inflazione resta alta e il rialzo dei tassi penalizza gli investimenti”, mentre “regge il lavoro” con 280mila nuovi posti occupati da gennaio ‘22 (secondo i dati del Centro Studi Confindustria). Per il ‘23 si prevede una crescita dello 0,6%. Poco, certo. Ma comunque in positivo.

Il 2022, sostiene la Banca d’Italia, è andato meglio del previsto, con una crescita del Pil di quasi il 4%, il che porta la crescita cumulata, omunità, tra ‘21 e ‘22, quasi all’11%, roba che non si vedeva dai tempi del “boom” economico degli anni Cinquanta e Sessanta e comunque al meglio nei paesi del G7 dopo la crisi del Covid. L’andamento della Borsa conferma la crescita: gli utili delle imprese quotate in Piazza Affari, sempre nel ‘22, sono andati su del 37%. Dunque, “la recessione è lontana anche per i listini”, commenta “IlSole24Ore” (22 gennaio).

Dopo tanto parlare di recessione in arrivo, con timori diffusi per una caduta dell’economia, europea e globale (caro-energia, inflazione, guerra in Ucraina, rallentamento degli scambi internazionali), sia i grandi protagonisti economici riuniti la scorsa settimana a Davos e i responsabili del Fondo Monetario hanno usato toni più rassicuranti, pur confermando fragilità e preoccupazioni (per il difficile andamento della Cina in caduta demografica e scarsa crescita economica, per esempio; e per i timori d’aggravamento delle tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente). Niente catastrofismo, forse addirittura niente recessione ma, soprattutto in Europa, un semplice “rallentamento”.

Staremo a vedere, ben consapevoli comunque degli effetti degli atteggiamenti psicologici e delle “aspettative” sugli andamenti economici reali: insistere sulle crisi in arrivo le agevola, con il meccanismo delle profezie che si auto-avverano, mentre battere e ribattere sugli elementi di “fiducia” rafforza il pur cauto ottimismo nella ripresa e stimola i consumi e gli investimenti.

“Il Foglio” ne sta facendo oggetto di acuta campagna, leggendo bene anche gli spunti che vengono da autorevoli organi di informazione internazionali, parlando di una “agenda anti catastrofista” (21 gennaio) e facendo pressioni sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché, smentendo i temi cari alla sua propaganda elettorale, sia adesso saldamente legata all’Europa e capace di fare scelte produttive, competitive, non stataliste né protezioniste, mettendo le imprese italiane in condizione di crescere, innovare, lavorare meglio. A cominciare dalle grandi aziende in cui lo Stato è in maggioranza (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Ferrovie, Fincantieri, etc.) e che sono cardini importanti di ampie filiere produttive di spessore internazionale: vanno governate bene, con scelte di competenza ed efficienza e certamente non lottizzate secondo criteri di potere, a discapito della loro stessa competitività.

Ecco il punto: il dinamismo delle imprese. Sono state, quelle manifatturiere soprattutto, il motore della straordinaria ripresa economica testimoniata da quel +11% del Pil di cui abbiamo detto, grazie al fatto che, nel corso di tutto il lungo periodo che va dalla Grande Crisi del 2008 all’inizio del Covid, hanno innovato, investito, esportato, creato stabilimenti e fatto acquisizioni all’estero, usando bene anche gli stimoli fiscali decisi da governi lungimiranti per agevolare le trasformazioni digitali di Industria 4.0 (e ostacolati da governi incompetenti come, soprattutto, la compagine “giallo-verde” guidata da Giuseppe Conte).

Le imprese manifatturiere, in altri termini, hanno recuperato produttività e competitività e hanno saputo fare leva sulle caratteristiche di fondo della nostra industria: l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”. Qualità, design, prodotti “su misura” (dall’abbigliamento alla nautica, dalla robotica alla costruzione di impianti produttivi e macchine utensili, dalla chimica alla farmaceutica), relazione stretta tra high tech e bellezza, originalità nel legame tra radici storiche inimitabili e senso del futuro, sofisticata adattabilità ai mutamenti di esigenze e gusti nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto.

Lo conferma il Rapporto Mediobanca sulle “Mid Cap”, le imprese a media capitalizzazione, il cosiddetto “quarto capitalismo”, che hanno avuto nel ‘22 “performances del 20% superiori a quelle delle corrispondenti aziende francesi e tedesche” e che si prevede abbiano nel ‘23 “una crescita aggregata degli utili del 3% a fronte di un -9% delle grandi”. “Le medie imprese italiane al top Ue per produttività”, titola “IlSole24Ore” (19 gennaio). “Medie imprese resilienti, spingeranno la crescita”, conferma il “Corriere della Sera”.

Sono medie imprese impegnate, proprio in questa stagione, nella difficile twin transition, digitale e ambientale. E hanno bisogno di scelte di politica industriale, italiane ed europee (in chiave di sicurezza, energia, materie prime, componentistica high tech: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) che ne rafforzino la competitività, anche rispetto alle altre imprese europee. In mercati selettivi, devono poter continuare a investire su innovazione e sostenibilità ambientale e sociale, stare agganciate alle migliori filiere produttive (torna dunque alla ribalta il ruolo delle grandi imprese come capifila), crescere ancora sui mercati europei e internazionali.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismo, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità.

(Foto: Getty images)

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