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Welfare aziendale, le sfide per la qualità di vita: fabbricare valori anche per migliorare il lavoro

Il welfare aziendale sta conoscendo una straordinaria diffusione. Soprattutto nelle aree in cui l’innovazione nell’industria e nei servizi è un cardine di sviluppo economico e sociale. In Lombardia, in Emilia, in Veneto.

In molte imprese private, oggi, parlare di welfare significa, infatti, guardare dentro una nuova dimensione del lavoro, in cui i contratti aziendali integrativi, grazie anche ai benefici fiscali di recenti provvedimenti di governo, consentono di avere migliori condizioni per l’assistenza sanitaria, la pensione integrativa, il supporto per fare studiare i propri figli e occuparsi dei familiari disabili. Non si tratta di soldi in più. Ma spesso di servizi. O di tempo libero. Un vero vantaggio.

A Milano, Monza e Brianza e Lodi, una delle aree a maggior industrializzazione d’Italia, il welfare aziendale è presente nel 60% dei contratti integrativi, rispetto al 30% della media nazionale, secondo dati presentati di recente dall’Osservatorio sul Welfare dell’Assolombarda e riguarda 25mila lavoratori e le loro famiglie (Corriere della Sera, 5 maggio). Ed è un buon esempio da diffondere. “Sebbene molti paesi europei siano più avanti di noi sul fronte del welfare, sempre più imprese in Italia, grazie anche alle facilitazioni introdotte dalla Legge di Stabilità, stanno affiancando alla retribuzione strumenti non monetari”, commenta Mauro Chiassarini, presidente di Bayer Italia e vicepresidente di Assolombarda, con deleghe per lavoro, sicurezza e, appunto, welfare.

Ci sono esempi storici importanti, da ricordare. Il welfare aziendale in Pirelli, per esempio, già a metà del Novecento, con iniziative di tutela della salute, mense, asili nido e attività per i figli dei dipendenti, sport). O i programmi diffusi in altre medie e grandi imprese, dall’Aem all’Asm, dall’Eni all’Iri (un approfondimento sta negli atti del convegno “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra”, organizzato dalla Fondazione Isec, 13 maggio 2016) . E oggi, grazie anche alle nuove sensibilità sul welfare e i nuovi contratti di lavoro, si fanno importanti passi avanti.

Lo testimoniano altre storie d’attualità. Come l’esperimento avviato alla Siderforgerossi di Arsiero (acciaieria in provincia di Vicenza) di monitorare, su base volontaria, la salute dei propri dipendenti, per prevenire malattie aziendali o generali (colesterolo e stili di vita sotto controllo) per migliorare la qualità della vita, ma anche per prevenire infortuni e assenteismo (“Ecco l’azienda-medico: diete e analisi per gli operai”, ha titolato “la Repubblica”, 1 aprile, commentando positivamente l’iniziativa). O la possibilità di scegliere, nei contratti aziendali, fra aumento della retribuzione e maggior tempo libero, per sè stessi e la famiglia: una scelta fatta dai dipendenti di Ducati, Marposs, Lamborghini e Coesia, nell’Emilia delle medie imprese d’eccellenza. Nuove forme del lavoro, del tempo, della partecipazione e della cittadinanza. Valori. Essenziali, anche per imprese che vogliono continuare a produrre valore.

Il capitalismo italiano, soprattutto nelle sue dimensioni attuali, cresce secondo due direttrici, non sempre ben collegate, ma comunque dinamiche. Imprese medie e piccole solidamente radicate nei territori e, contemporaneamente, abili a essere presenti e farsi valere nelle nicchie globali ad alto valore aggiunto. Un “capitalismo intermedio”, lo definisce Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 8 aprile). Produttività elevata, competitività che regge le sfide. E proprio come fondamento di questa competitività vanno considerate anche le scelte di welfare aziendali, che stimolano sicurezza, senso di appartenenza, intelligente generosità nelle relazioni di lavoro e, dunque, migliore e maggiore produttività.

C’è un passaggio in più da fare, come suggerisce Bonomi, nella relazione tra impresa e territorio: “La promozione di un nuovo modello di welfare community, fatto dall’intreccio tra estensione delle pratiche di welfare aziendale e la trasformazione dei sistemi di welfare territoriali e del diffuso mondo del privato sociale, oggi sempre più portato ad assumere una configurazione imprenditiva e impegnato nel definire un proprio modus vivendi con la potenza della finanza, interessata a sviluppare forme di investimento ‘paziente’ sui temi della coesione sociale”.

Sono processi innovativi, in movimento. Che si situano all’incrocio tra impresa produttiva, servizi, sistemi di relazione, cure per le comunità e le persone, life sciences e salute. Vanno oltre l’idea tradizionale del “terzo settore”. Trovano nelle “società benefit” (introdotte finalmente anche in Italia da una legge del 2016) un punto di riferimento, per valorizzare “un servizio alla società” e non solo per dare un reddito ai propri azionisti (dando attuazione al monito di un grande economista americano, E.M. Dodd, sulla “Harvard Law Review” del 1932). E possono avere un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’economia di mercato, nell’impegno di “rilegittimazione” di un buon capitalismo d’impresa in cerca di un migliore futuro.

I processi di cui parliamo, infatti, impongono riflessioni originali e creative sui rapporti tra competitività e inclusione sociale: un tema particolarmente avvertito a Milano, nel bresciano di robusta cultura cattolica, nell’Emilia in cui valori d’impresa e valori cooperativi si sono incrociati con esperienze di buon governo regionale e locale, nel Veneto in cui, tanto per fare un solo esempio, la Confindustria di Vicenza ha avviato un importante progetto di responsabilità sociale delle imprese il cui nome è già tutto un programma: “Fabbricare valori”. C’è un mondo in movimento, anche se ancora non visibile agli occhi della grande opinione pubblica, come meriterebbe. Un mondo di straordinaria qualità, con forti valenze economiche, sociali, culturali, se cultura vuol dire appunto innovazione anche sociale, sensibilità, inclusività, cittadinanza responsabile, valori di comunità e civiltà.

Sono processi che interpellano pure la politica. E chiedono un ripensamento critico della concezione e dell’attrazione del welfare, con riforme intelligenti e responsabili che non appesantiscano il carico sulla spesa pubblica ma migliorino comunque le prestazioni sociali. Come? L’incrocio tra welfare aziendale e welfare di territorio di cui abbiamo parlato è appunto un’utile indicazione.

Per capire ancora meglio, si possono riprendere utilmente in mano le categorie dell’”economia civile”, magari ristudiandone l’origine, nelle lezioni di Antonio Genovesi, considerato “maestro” da Adam Smith e sostenitore di un’economia che sia fonte di benessere per persone e società (ne abbiamo parlato nel blog del 20 marzo scorso) e quelli dell’”economia circolare”, aggiornando la lezione di comunità operosa e solidale che discende dall’esperienza di Adriano Olivetti (nel 1908, giusto 110 anni fa, nasceva l’azienda di Ivrea, un laboratori e una vera e propria “fabbrica” d’innovazione economica e sociale, un paradigma di cultura, relazioni industriali e tecnologie d’avanguardia che ancora oggi hanno molto da dire). E ricordando, perché no?, due indicazioni storiche che suonano d’attualità.

La prima è quella di Carlo Cattaneo, gran lombardo, studioso originale d’economia e politica, scritta nel 1864: “Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza”.

La seconda è di Ferdinando Galiani, abate, ascoltato alla corte di Napoli nelle purtroppo effimera stagione dell’Illuminismo riformista a metà del Settecento e apprezzatissimo nei salotti di Parigi frequentati da Montesquieu e Diderot: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Felicità pubblica e privata e benessere, intelligenza e lavoro, oggi diremmo cultura d’impresa e welfare nelle dimensioni aziendali e territoriali. Una sfida, appunto, politica, culturale e imprenditoriale.

Parlare dunque di welfare, con lo sguardo lungo sulle trasformazioni economiche e sociali, significa anche affrontare in pieno la questione della sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerandola una chiave fondamentale della competitività delle imprese. Come confermano due autorevoli studiosi, Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo (“L’Economia – Corriere della Sera”, 3 aprile): “Imprese più responsabili per il bene sociale (e dei profitti”: “Una spinta inedita verso comportamenti e istanze largamente condivise, che non guardano solo al conto economico ma dedicano maggiore attenzione ai diritti umani e ai temi ambientali”.

Il welfare aziendale sta conoscendo una straordinaria diffusione. Soprattutto nelle aree in cui l’innovazione nell’industria e nei servizi è un cardine di sviluppo economico e sociale. In Lombardia, in Emilia, in Veneto.

In molte imprese private, oggi, parlare di welfare significa, infatti, guardare dentro una nuova dimensione del lavoro, in cui i contratti aziendali integrativi, grazie anche ai benefici fiscali di recenti provvedimenti di governo, consentono di avere migliori condizioni per l’assistenza sanitaria, la pensione integrativa, il supporto per fare studiare i propri figli e occuparsi dei familiari disabili. Non si tratta di soldi in più. Ma spesso di servizi. O di tempo libero. Un vero vantaggio.

A Milano, Monza e Brianza e Lodi, una delle aree a maggior industrializzazione d’Italia, il welfare aziendale è presente nel 60% dei contratti integrativi, rispetto al 30% della media nazionale, secondo dati presentati di recente dall’Osservatorio sul Welfare dell’Assolombarda e riguarda 25mila lavoratori e le loro famiglie (Corriere della Sera, 5 maggio). Ed è un buon esempio da diffondere. “Sebbene molti paesi europei siano più avanti di noi sul fronte del welfare, sempre più imprese in Italia, grazie anche alle facilitazioni introdotte dalla Legge di Stabilità, stanno affiancando alla retribuzione strumenti non monetari”, commenta Mauro Chiassarini, presidente di Bayer Italia e vicepresidente di Assolombarda, con deleghe per lavoro, sicurezza e, appunto, welfare.

Ci sono esempi storici importanti, da ricordare. Il welfare aziendale in Pirelli, per esempio, già a metà del Novecento, con iniziative di tutela della salute, mense, asili nido e attività per i figli dei dipendenti, sport). O i programmi diffusi in altre medie e grandi imprese, dall’Aem all’Asm, dall’Eni all’Iri (un approfondimento sta negli atti del convegno “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra”, organizzato dalla Fondazione Isec, 13 maggio 2016) . E oggi, grazie anche alle nuove sensibilità sul welfare e i nuovi contratti di lavoro, si fanno importanti passi avanti.

Lo testimoniano altre storie d’attualità. Come l’esperimento avviato alla Siderforgerossi di Arsiero (acciaieria in provincia di Vicenza) di monitorare, su base volontaria, la salute dei propri dipendenti, per prevenire malattie aziendali o generali (colesterolo e stili di vita sotto controllo) per migliorare la qualità della vita, ma anche per prevenire infortuni e assenteismo (“Ecco l’azienda-medico: diete e analisi per gli operai”, ha titolato “la Repubblica”, 1 aprile, commentando positivamente l’iniziativa). O la possibilità di scegliere, nei contratti aziendali, fra aumento della retribuzione e maggior tempo libero, per sè stessi e la famiglia: una scelta fatta dai dipendenti di Ducati, Marposs, Lamborghini e Coesia, nell’Emilia delle medie imprese d’eccellenza. Nuove forme del lavoro, del tempo, della partecipazione e della cittadinanza. Valori. Essenziali, anche per imprese che vogliono continuare a produrre valore.

Il capitalismo italiano, soprattutto nelle sue dimensioni attuali, cresce secondo due direttrici, non sempre ben collegate, ma comunque dinamiche. Imprese medie e piccole solidamente radicate nei territori e, contemporaneamente, abili a essere presenti e farsi valere nelle nicchie globali ad alto valore aggiunto. Un “capitalismo intermedio”, lo definisce Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 8 aprile). Produttività elevata, competitività che regge le sfide. E proprio come fondamento di questa competitività vanno considerate anche le scelte di welfare aziendali, che stimolano sicurezza, senso di appartenenza, intelligente generosità nelle relazioni di lavoro e, dunque, migliore e maggiore produttività.

C’è un passaggio in più da fare, come suggerisce Bonomi, nella relazione tra impresa e territorio: “La promozione di un nuovo modello di welfare community, fatto dall’intreccio tra estensione delle pratiche di welfare aziendale e la trasformazione dei sistemi di welfare territoriali e del diffuso mondo del privato sociale, oggi sempre più portato ad assumere una configurazione imprenditiva e impegnato nel definire un proprio modus vivendi con la potenza della finanza, interessata a sviluppare forme di investimento ‘paziente’ sui temi della coesione sociale”.

Sono processi innovativi, in movimento. Che si situano all’incrocio tra impresa produttiva, servizi, sistemi di relazione, cure per le comunità e le persone, life sciences e salute. Vanno oltre l’idea tradizionale del “terzo settore”. Trovano nelle “società benefit” (introdotte finalmente anche in Italia da una legge del 2016) un punto di riferimento, per valorizzare “un servizio alla società” e non solo per dare un reddito ai propri azionisti (dando attuazione al monito di un grande economista americano, E.M. Dodd, sulla “Harvard Law Review” del 1932). E possono avere un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’economia di mercato, nell’impegno di “rilegittimazione” di un buon capitalismo d’impresa in cerca di un migliore futuro.

I processi di cui parliamo, infatti, impongono riflessioni originali e creative sui rapporti tra competitività e inclusione sociale: un tema particolarmente avvertito a Milano, nel bresciano di robusta cultura cattolica, nell’Emilia in cui valori d’impresa e valori cooperativi si sono incrociati con esperienze di buon governo regionale e locale, nel Veneto in cui, tanto per fare un solo esempio, la Confindustria di Vicenza ha avviato un importante progetto di responsabilità sociale delle imprese il cui nome è già tutto un programma: “Fabbricare valori”. C’è un mondo in movimento, anche se ancora non visibile agli occhi della grande opinione pubblica, come meriterebbe. Un mondo di straordinaria qualità, con forti valenze economiche, sociali, culturali, se cultura vuol dire appunto innovazione anche sociale, sensibilità, inclusività, cittadinanza responsabile, valori di comunità e civiltà.

Sono processi che interpellano pure la politica. E chiedono un ripensamento critico della concezione e dell’attrazione del welfare, con riforme intelligenti e responsabili che non appesantiscano il carico sulla spesa pubblica ma migliorino comunque le prestazioni sociali. Come? L’incrocio tra welfare aziendale e welfare di territorio di cui abbiamo parlato è appunto un’utile indicazione.

Per capire ancora meglio, si possono riprendere utilmente in mano le categorie dell’”economia civile”, magari ristudiandone l’origine, nelle lezioni di Antonio Genovesi, considerato “maestro” da Adam Smith e sostenitore di un’economia che sia fonte di benessere per persone e società (ne abbiamo parlato nel blog del 20 marzo scorso) e quelli dell’”economia circolare”, aggiornando la lezione di comunità operosa e solidale che discende dall’esperienza di Adriano Olivetti (nel 1908, giusto 110 anni fa, nasceva l’azienda di Ivrea, un laboratori e una vera e propria “fabbrica” d’innovazione economica e sociale, un paradigma di cultura, relazioni industriali e tecnologie d’avanguardia che ancora oggi hanno molto da dire). E ricordando, perché no?, due indicazioni storiche che suonano d’attualità.

La prima è quella di Carlo Cattaneo, gran lombardo, studioso originale d’economia e politica, scritta nel 1864: “Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza”.

La seconda è di Ferdinando Galiani, abate, ascoltato alla corte di Napoli nelle purtroppo effimera stagione dell’Illuminismo riformista a metà del Settecento e apprezzatissimo nei salotti di Parigi frequentati da Montesquieu e Diderot: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Felicità pubblica e privata e benessere, intelligenza e lavoro, oggi diremmo cultura d’impresa e welfare nelle dimensioni aziendali e territoriali. Una sfida, appunto, politica, culturale e imprenditoriale.

Parlare dunque di welfare, con lo sguardo lungo sulle trasformazioni economiche e sociali, significa anche affrontare in pieno la questione della sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerandola una chiave fondamentale della competitività delle imprese. Come confermano due autorevoli studiosi, Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo (“L’Economia – Corriere della Sera”, 3 aprile): “Imprese più responsabili per il bene sociale (e dei profitti”: “Una spinta inedita verso comportamenti e istanze largamente condivise, che non guardano solo al conto economico ma dedicano maggiore attenzione ai diritti umani e ai temi ambientali”.

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