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Coppi e Bartali, tra uomini e semidei

Come fosse la domanda più semplice del mondo: “ma tu conosci Bartali? conosci Coppi?” Così inizia l’articolo “Come conosco Gino e Fausto“, che Orio Vergani scrive per la rivista Pirelli n° 4 del 1950. “Una domanda che a tanti può sembrar sciocca”, premette l’autore. Perchè chi non conosce Fausto Coppi e Gino Bartali, al culmine di quella dorata stagione 1950? E invece è probabile che neppure “chi dà loro del tu”, e che li segue pazientemente per ore in gara, conosca poi così a fondo questi campioni del pedale. E’ un mestiere silenzioso il loro, e per il cronista saranno al massimo venti parole per gara, qualche occhiata tutt’al più.

Ma Vergani non si dà per vinto: vi sarà pure un modo di “raccontare” Gino e Fausto, i due atleti che in quel momento sono indiscutibilmente le più grandi stelle del ciclismo italiano. E sarà certamente possibile per il grande giornalista del Corriere della Sera farlo in un modo non convenzionale, così come qualche mese prima era riuscito a immortalare un mito della velocità ormai sul viale del tramonto come Tazio Nuvolari. In fondo, un confronto estremamente attento e quasi “scientifico” sui due campioni era già stato fatto da Giuseppe Ambrosini sul numero 3 della stessa Rivista, nel 1949. Un articolo in cui Bartali e Coppi erano stati radiografati fino all’ultimo tendine, studiati nel più profondo della loro psicologia.

E poi c’era il grande Nino Nutrizio che seguiva da anni le loro imprese sportive, traendone meticolosi diari e andando a “spiarli” anche quando era il loro momento del riposo. Insomma, ci si doveva inventare qualcosa d’altro per continuare a raccontare i due campioni. Quando ne scrive in quell’estate del 1950, Vergani conosce Bartali ormai da una quindicina d’anni. E’ “la locomotiva umana”, ma non ha scatto. Il suo talento emerge nella lunga regolarità “forte come la pioggia di novembre e nera come i temporali d’estate”. Un talento che nel Tour de France del 1948 fa dire a Bartali, in enorme ritardo sull’avversario Louison Bobet, “il giro termina a Parigi”. E infatti sarà il campione italiano a vincere il Tour, entrando nella storia con la sua perseveranza anche di fronte all’impossibile. Fausto Coppi è invece “l’uomo che porta sulle spalle il peso e la responsabilità di essere l’atleta più fenomenale che, dopo Binda, mi sia accaduto di vedere”, dice il grande veterano di interviste agli sportivi Orio Vergani.

Coppi è un fenomeno, sa di esserlo e non lo vorrebbe. La malinconia, l’incertezza, il peso della responsabilità sono le cifre della sua vita. Nel racconto di Vergani, Bartali è solare come può esserlo un uomo, mentre Coppi è enigmatico come un superuomo; paragona l’uno ad Ulisse – paziente iroso figlio di mortali – e l’altro ad Achille, figlio degli dei e desideroso di rinunciare ai doni divini. Sì, tutti ma proprio tutti conoscono “Gino e Fausto” in quell’estate del 1950. Ma forse nessuno li conosce come Orio Vergani.

Come fosse la domanda più semplice del mondo: “ma tu conosci Bartali? conosci Coppi?” Così inizia l’articolo “Come conosco Gino e Fausto“, che Orio Vergani scrive per la rivista Pirelli n° 4 del 1950. “Una domanda che a tanti può sembrar sciocca”, premette l’autore. Perchè chi non conosce Fausto Coppi e Gino Bartali, al culmine di quella dorata stagione 1950? E invece è probabile che neppure “chi dà loro del tu”, e che li segue pazientemente per ore in gara, conosca poi così a fondo questi campioni del pedale. E’ un mestiere silenzioso il loro, e per il cronista saranno al massimo venti parole per gara, qualche occhiata tutt’al più.

Ma Vergani non si dà per vinto: vi sarà pure un modo di “raccontare” Gino e Fausto, i due atleti che in quel momento sono indiscutibilmente le più grandi stelle del ciclismo italiano. E sarà certamente possibile per il grande giornalista del Corriere della Sera farlo in un modo non convenzionale, così come qualche mese prima era riuscito a immortalare un mito della velocità ormai sul viale del tramonto come Tazio Nuvolari. In fondo, un confronto estremamente attento e quasi “scientifico” sui due campioni era già stato fatto da Giuseppe Ambrosini sul numero 3 della stessa Rivista, nel 1949. Un articolo in cui Bartali e Coppi erano stati radiografati fino all’ultimo tendine, studiati nel più profondo della loro psicologia.

E poi c’era il grande Nino Nutrizio che seguiva da anni le loro imprese sportive, traendone meticolosi diari e andando a “spiarli” anche quando era il loro momento del riposo. Insomma, ci si doveva inventare qualcosa d’altro per continuare a raccontare i due campioni. Quando ne scrive in quell’estate del 1950, Vergani conosce Bartali ormai da una quindicina d’anni. E’ “la locomotiva umana”, ma non ha scatto. Il suo talento emerge nella lunga regolarità “forte come la pioggia di novembre e nera come i temporali d’estate”. Un talento che nel Tour de France del 1948 fa dire a Bartali, in enorme ritardo sull’avversario Louison Bobet, “il giro termina a Parigi”. E infatti sarà il campione italiano a vincere il Tour, entrando nella storia con la sua perseveranza anche di fronte all’impossibile. Fausto Coppi è invece “l’uomo che porta sulle spalle il peso e la responsabilità di essere l’atleta più fenomenale che, dopo Binda, mi sia accaduto di vedere”, dice il grande veterano di interviste agli sportivi Orio Vergani.

Coppi è un fenomeno, sa di esserlo e non lo vorrebbe. La malinconia, l’incertezza, il peso della responsabilità sono le cifre della sua vita. Nel racconto di Vergani, Bartali è solare come può esserlo un uomo, mentre Coppi è enigmatico come un superuomo; paragona l’uno ad Ulisse – paziente iroso figlio di mortali – e l’altro ad Achille, figlio degli dei e desideroso di rinunciare ai doni divini. Sì, tutti ma proprio tutti conoscono “Gino e Fausto” in quell’estate del 1950. Ma forse nessuno li conosce come Orio Vergani.

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