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“Viaggio nel patrimonio industriale italiano”

Viaggio nel patrimonio industriale italiano

Fondazione Pirelli con Fondazione ISEC e musil, in collaborazione con ERIH Italia e Museimpresa organizzano una serie di appuntamenti per il ciclo “Viaggio nel patrimonio industriale italiano“, con presentazioni di libri dedicati al patrimonio industriale italiano.

Di seguito il programma dei prossimi appuntamenti

Venerdì 26 marzo ore 18:00

Le fabbriche che costruirono l’Italia“, di Giuseppe Lupo (Il Sole 24 Ore, 2020)
Dialogano con l’autore: Antonio Calabrò, Fondazione Pirelli | Museimpresa e Marcello Zane, musil

Venerdì 9 aprile ore 18:00

Storie del grattacielo“, a cura di Fondazione Pirelli e Alessandro Colombo (Marsilio, 2020)
Dialogano con il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò: Uliano Lucas, fotografo
Serena Maffioletti, Università Iuav di Venezia

(scarica la locandina qui)

Gli incontri saranno trasmessi in diretta streaming sulle pagine Facebook di Fondazione ISEC e musil.

L’iniziativa è organizzata nell’ambito del progetto PIC (Piani Integrati per la Cultura) “Matrice Lavoro Lombardia” finanziato da Regione Lombardia.

Fondazione Pirelli con Fondazione ISEC e musil, in collaborazione con ERIH Italia e Museimpresa organizzano una serie di appuntamenti per il ciclo “Viaggio nel patrimonio industriale italiano“, con presentazioni di libri dedicati al patrimonio industriale italiano.

Di seguito il programma dei prossimi appuntamenti

Venerdì 26 marzo ore 18:00

Le fabbriche che costruirono l’Italia“, di Giuseppe Lupo (Il Sole 24 Ore, 2020)
Dialogano con l’autore: Antonio Calabrò, Fondazione Pirelli | Museimpresa e Marcello Zane, musil

Venerdì 9 aprile ore 18:00

Storie del grattacielo“, a cura di Fondazione Pirelli e Alessandro Colombo (Marsilio, 2020)
Dialogano con il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò: Uliano Lucas, fotografo
Serena Maffioletti, Università Iuav di Venezia

(scarica la locandina qui)

Gli incontri saranno trasmessi in diretta streaming sulle pagine Facebook di Fondazione ISEC e musil.

L’iniziativa è organizzata nell’ambito del progetto PIC (Piani Integrati per la Cultura) “Matrice Lavoro Lombardia” finanziato da Regione Lombardia.

Come si cambia, perché si cambia

Appena tradotto in Italia un buon libro che racconta il cambiamento delle organizzazioni sociali

Cambiare. Condizione ineludibile di ogni organizzazione sociale (e quindi a ben vedere di ogni impresa). Condizione che ha sue determinanti, propri motori, specifici percorsi. Che è necessario conoscere per comprendere motivazioni e direzioni del cambiamento. A questo serve leggere “Come avviene il cambiamento”, ultimo libro di Cass R. Sunstein da poco tradotto in Italia.

L’autore – che è Robert Walmsley University Professor presso la Harvard Law School, dove è fondatore e direttore del Program on Behavioral Economics and Public Policy -, analizza i processi attraverso i quali avviene il cambiamento sociale. E cioè, per esempio, si chiede quando decollano i movimenti sociali, ma anche cosa induce le persone ad assumere determinate opinioni e particolari atteggiamenti di fronte ai temi del dibattito sociale ed economico, così come davanti alle scelte da compiere a livello personale e collettivo.

Per rispondere agli interrogativi che si è posto, Sunstein usa tutto il vasto apparato a disposizione di chi studia la società e le organizzazioni sociali, partendo però dalla potenza dell’economia comportamentale e di altre discipline. In particolare, l’autore si concentra sul ruolo cruciale delle norme sociali e sul loro frequente collasso. Quando le norme spingono le persone a tacere – è una delle tesi -, anche uno status quo impopolare persiste, ma un giorno qualcuno sfida la norma: un bambino esclama che il re è nudo; una donna dichiara “Me too”. Con l’autorevolezza e l’acume concettuale di sempre, Cass Sunstein porta nuova luce sui diversi modi in cui il cambiamento avviene: dall’imposizione al “nudge” (la semplice “spinta”), alla reazione a catena.

Obiettivo finale dell’autore è quello di fornire a chi legge non solo gli elementi per conoscere meglio il cambiamento ma anche per governarlo e a farne buon uso. Chi legge, vene prima introdotto nell’ambito delle definizioni di cosa sono le norme e i valori per un’organizzazione sociale, per passare poi ad approfondire le numerose sfaccettature dei “nudge” e quindi per arrivare a comprendere meglio aspetti del cambiamento sociale come il partitismo e i diritti, la trasparenza e le precauzioni da adottare in ogni processo.

Il libro di Sunstein affronta un argomento certamente non facile, ma lo fa con attenzione e chiarezza: è un racconto, non una analisi accademica. Per questo si fa leggere e va letto.

Come avviene il cambiamento

Cass R. Sunstein

Einaudi, 2021

Appena tradotto in Italia un buon libro che racconta il cambiamento delle organizzazioni sociali

Cambiare. Condizione ineludibile di ogni organizzazione sociale (e quindi a ben vedere di ogni impresa). Condizione che ha sue determinanti, propri motori, specifici percorsi. Che è necessario conoscere per comprendere motivazioni e direzioni del cambiamento. A questo serve leggere “Come avviene il cambiamento”, ultimo libro di Cass R. Sunstein da poco tradotto in Italia.

L’autore – che è Robert Walmsley University Professor presso la Harvard Law School, dove è fondatore e direttore del Program on Behavioral Economics and Public Policy -, analizza i processi attraverso i quali avviene il cambiamento sociale. E cioè, per esempio, si chiede quando decollano i movimenti sociali, ma anche cosa induce le persone ad assumere determinate opinioni e particolari atteggiamenti di fronte ai temi del dibattito sociale ed economico, così come davanti alle scelte da compiere a livello personale e collettivo.

Per rispondere agli interrogativi che si è posto, Sunstein usa tutto il vasto apparato a disposizione di chi studia la società e le organizzazioni sociali, partendo però dalla potenza dell’economia comportamentale e di altre discipline. In particolare, l’autore si concentra sul ruolo cruciale delle norme sociali e sul loro frequente collasso. Quando le norme spingono le persone a tacere – è una delle tesi -, anche uno status quo impopolare persiste, ma un giorno qualcuno sfida la norma: un bambino esclama che il re è nudo; una donna dichiara “Me too”. Con l’autorevolezza e l’acume concettuale di sempre, Cass Sunstein porta nuova luce sui diversi modi in cui il cambiamento avviene: dall’imposizione al “nudge” (la semplice “spinta”), alla reazione a catena.

Obiettivo finale dell’autore è quello di fornire a chi legge non solo gli elementi per conoscere meglio il cambiamento ma anche per governarlo e a farne buon uso. Chi legge, vene prima introdotto nell’ambito delle definizioni di cosa sono le norme e i valori per un’organizzazione sociale, per passare poi ad approfondire le numerose sfaccettature dei “nudge” e quindi per arrivare a comprendere meglio aspetti del cambiamento sociale come il partitismo e i diritti, la trasparenza e le precauzioni da adottare in ogni processo.

Il libro di Sunstein affronta un argomento certamente non facile, ma lo fa con attenzione e chiarezza: è un racconto, non una analisi accademica. Per questo si fa leggere e va letto.

Come avviene il cambiamento

Cass R. Sunstein

Einaudi, 2021

Non solo “risorse umane”

Una tesi discussa all’Università dell’Aquila sintetizza efficacemente il tema della valorizzazione del lavoro in azienda

 

Risorse umane. E cioè donne e uomini con i loro pensieri, le loro aspirazioni, il loro vissuto dentro e fuori l’azienda. Anche “risorse produttive”, certo, ma anche molto altro. Ed è dell’insieme di queste due condizioni che l’impresa deve tenere conto. Traguardo solo in apparenza naturale, quello della valorizzazione totale delle persone che negli uffici e nelle fabbriche lavorano, è in realtà una conquista prima di tutto culturale e poi organizzativa che probabilmente non si è ancora completata.

L’indagine che Angela De Angelis ha condotto nell’ambito del Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita e dell’ambiente dell’università dell’Aquila, è un buon strumento per fare ordine in questo tema.

L’obiettivo dichiarato di “Psicologia e organizzazione delle risorse umane: produttività nel lavoro, motivazione, competenze, valutazione e comunicazione”, è quello di “illustrare l’importanza del valore delle risorse umane all’interno di un contesto aziendale” con particolare attenzione a due aspetti cruciali come la motivazione e le competenze visti – giustamente -, come in grado di influire notevolmente sulla produzione. A questi, De Angelis aggiunge anche un’attenzione particolare alla comunicazione nell’ambito aziendale assunta come “elemento distintivo per lo sviluppo e la competitività” d’impresa.

Il lavoro di ricerca si svolge quindi attraverso cinque passaggi che portano ad una conclusione. Prima di tutto viene inquadrato il tema del lavoro nelle aziende moderne, poi vengono approfonditi i motivi peculiari della motivazione e delle competenze di chi viene coinvolto in azienda, successivamente il complesso argomento della comunicazione viene affrontato partendo dalla sua funzione di valorizzazione delle risorse umane in vista della loro partecipazione alla gestione d’impresa.

La ricerca di Angela De Angelis costituisce una limpida sintesi di un argomento complesso e scivoloso: un buon modo per capire di più.

Psicologia e organizzazione delle risorse umane: produttività nel lavoro, motivazione, competenze, valutazione e comunicazione

Angela De Angelis, Tesi, Università degli Studi dell’Aquila Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita e dell’ambiente Corso di laurea in Scienze dell’Investigazione, 2020

Una tesi discussa all’Università dell’Aquila sintetizza efficacemente il tema della valorizzazione del lavoro in azienda

 

Risorse umane. E cioè donne e uomini con i loro pensieri, le loro aspirazioni, il loro vissuto dentro e fuori l’azienda. Anche “risorse produttive”, certo, ma anche molto altro. Ed è dell’insieme di queste due condizioni che l’impresa deve tenere conto. Traguardo solo in apparenza naturale, quello della valorizzazione totale delle persone che negli uffici e nelle fabbriche lavorano, è in realtà una conquista prima di tutto culturale e poi organizzativa che probabilmente non si è ancora completata.

L’indagine che Angela De Angelis ha condotto nell’ambito del Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita e dell’ambiente dell’università dell’Aquila, è un buon strumento per fare ordine in questo tema.

L’obiettivo dichiarato di “Psicologia e organizzazione delle risorse umane: produttività nel lavoro, motivazione, competenze, valutazione e comunicazione”, è quello di “illustrare l’importanza del valore delle risorse umane all’interno di un contesto aziendale” con particolare attenzione a due aspetti cruciali come la motivazione e le competenze visti – giustamente -, come in grado di influire notevolmente sulla produzione. A questi, De Angelis aggiunge anche un’attenzione particolare alla comunicazione nell’ambito aziendale assunta come “elemento distintivo per lo sviluppo e la competitività” d’impresa.

Il lavoro di ricerca si svolge quindi attraverso cinque passaggi che portano ad una conclusione. Prima di tutto viene inquadrato il tema del lavoro nelle aziende moderne, poi vengono approfonditi i motivi peculiari della motivazione e delle competenze di chi viene coinvolto in azienda, successivamente il complesso argomento della comunicazione viene affrontato partendo dalla sua funzione di valorizzazione delle risorse umane in vista della loro partecipazione alla gestione d’impresa.

La ricerca di Angela De Angelis costituisce una limpida sintesi di un argomento complesso e scivoloso: un buon modo per capire di più.

Psicologia e organizzazione delle risorse umane: produttività nel lavoro, motivazione, competenze, valutazione e comunicazione

Angela De Angelis, Tesi, Università degli Studi dell’Aquila Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita e dell’ambiente Corso di laurea in Scienze dell’Investigazione, 2020

Il Sud e le riforme necessarie allo sviluppo, tra i fondi Ue e la cultura d’impresa

Sud, progetti per ripartire”. E’ il titolo, senza enfasi, di due giorni di incontri, promossi da Mara Carfagna, ministra per il Mezzogiorno e la coesione territoriale, il 23 e il 24, per discutere su come usare le risorse del Recovery Plan e gli altri fondi Ue per rinnovare profondamente l’Italia e dunque provare anche a sanare il divario Nord-Sud. Apertura del presidente del Consiglio Mario Draghi, conclusioni del ministro dell’Economia Daniele Franco. Presenti, oltre ai membri del governo, ai politici e agli amministratori locali, la Banca d’Italia e l’Istat, per ragionare sulla base di dati approfonditi e aggiornati. E proprio le indicazioni strategiche del Recovery Plan della Ue (ambiente, innovazione, economia digitale, formazione) sono il contesto più opportuno per capire bene cosa fare cosa per il Sud e nel Sud. “Chiudere l’epoca delle lamentazioni e avviare un approccio più combattivo, per aggredire i problemi antichi e recenti di quest’area del Paese”, dice la ministra Carfagna (“La Stampa”, 20 marzo). Dunque, “più progettualità e meno conflittualità e rivendicazionismo”.

Le scelte d’investimento e la loro realizzazione tempestiva, le riforme sul lavoro (a cominciare da quello delle donne), le infrastrutture, gli stimoli all’impresa, la qualità della formazione scolastica, universitaria e professionale, la riduzione del divario digitale (sono nel Sud gran parte di quei 16 milioni di famiglie, il 60% del totale italiano, che non hanno internet su rete fissa o una connessione da almeno 30 Mbit/s) diranno se stavolta si sarà andati davvero oltre l’abitudine antica degli annunci.

Di sicuro, questa è un’occasione irripetibile per uscire dalla crisi scatenata da pandemia e recessione con un profondo, radicale rinnovamento del Paese, con un Mezzogiorno finalmente attivo, saldamente europeo e dunque compiutamente mediterraneo.

Viviamo stagioni di ricorrenze, i 160 anni dall’Unità d’Italia. E di dibattiti storici sulle responsabilità della carente integrazione e del mancato abbattimento del divario economico e sociale (36 mila euro, nel 2018, il Pil pro capite nel Nord Est, 35mila nel Nord Ovest, 31mila nel Centro e solo 19mila nel Sud, segnato da una grande e distorcente diffusione dell’economia sommersa). Fiorisce, da tempo, una rancorosa letteratura neo-borbonica (per sapere di più su quel che davvero è successo, vale la pena leggere “Italiani per forza” di Dino Messina, Solferino, una solida inchiesta storica e giornalistica su “le leggende contro l’Unità d’Italia che è l’ora di sfatare”). E tutto il Paese è percorso da spinte centripete che danneggiano profondamente, con gli egoismi e i particolarismi localistici, le prospettive di sviluppo equilibrato e sostenibile dell’Italia.

E’ opportuno, dunque, ragionare con intelligenza e competenza di “globale” e “locale”, usando tutte le leve possibili per fare uscire il Sud dalla “lamentazione”, dalle tendenze all’assistenzialismo, dalle tentazioni delle clientele antiche e nuove.

Il Sud, infatti, non è riducibile soltanto a un bel paesaggio o al più banale turismo come enfatico folklore. Né lo si può emarginare come territorio a dominio criminale (ben sapendo come mafia siciliana, ‘ndrangheta, camorra e “sacra corona unita” sono ancora forti e radicate e dal Sud si sono diffuse verso il Nord e il resto d’Europa e dunque vanno combattute con impegno e severità).

Il Sud, infatti, è anche altro, di straordinaria vitalità: imprenditoria che cresce nonostante il clima ostile e gli ostacoli della cattiva pubblica amministrazione, cultura in cerca di protagonismo responsabile, ambizioni di giovani generazioni che vogliono poter scommettere sul futuro. Il Sud non è “irredimibile”, come temeva il pessimismo razionale di Leonardo Sciascia. Ha semmai un “cuore di cactus”, perché, nonostante tutto, conserva al suo interno l’acqua e la vita, pure nelle condizioni più disperate. E va letto con intelligenza non solo in quello che dice protestando, ma soprattutto in quello che fa, pur se con riserbo parlando poco (gli esempi di politici, magistrati, uomini e donne dello Stato, imprenditori vittime della mafia, come Piersanti Mattarella, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, ne sono testimonianza).

Il Sud, senza retorica, si può leggere e capire nei versi essenziali di un grande poeta, come Lucio Piccolo: “Pure il rovo ebbe la sua piegatura di dolcezza/ anche il pruno il suo candore”. Un territorio, molto italiano e tutt’altro che provinciale, fuori dagli eccessi della luce e dalle cupezze del lutto, da rimettere sulla strada dello sviluppo europeo.

Buona amministrazione, dunque. Investimenti produttivi. Riforme. E cultura d’impresa. Proprio perché l’impresa è tessuto connettivo forte, capitale sociale positivo, struttura portante di comunità in crescita, nelle relazioni tra tutti i soggetti che ne fanno parte, gli imprenditori, i finanziatori, gli operai, i tecnici, i manager, i ricercatori, i fornitori, i clienti, la fitta rete di stakeholders. L’impresa come lievito di crescita sostenibile. Nel rapporto con i territori in cui affondano le radici le attitudini al “fare, e fare bene”. Anche nel Mezzogiorno. Seguendo la lezione di Carlo M. Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

Proprio al Sud serve questo tessuto connettivo, per uscire dalle secche delle povertà sociali, culturali e materiali dell’assistenzialismo, del clientelismo e del degrado dell’economia sommersa su cui fa leva la criminalità. E ridare speranza a un territorio operoso d’incontro e di sintesi tra l’Europa continentale e il Mediterraneo.

Sud, progetti per ripartire”. E’ il titolo, senza enfasi, di due giorni di incontri, promossi da Mara Carfagna, ministra per il Mezzogiorno e la coesione territoriale, il 23 e il 24, per discutere su come usare le risorse del Recovery Plan e gli altri fondi Ue per rinnovare profondamente l’Italia e dunque provare anche a sanare il divario Nord-Sud. Apertura del presidente del Consiglio Mario Draghi, conclusioni del ministro dell’Economia Daniele Franco. Presenti, oltre ai membri del governo, ai politici e agli amministratori locali, la Banca d’Italia e l’Istat, per ragionare sulla base di dati approfonditi e aggiornati. E proprio le indicazioni strategiche del Recovery Plan della Ue (ambiente, innovazione, economia digitale, formazione) sono il contesto più opportuno per capire bene cosa fare cosa per il Sud e nel Sud. “Chiudere l’epoca delle lamentazioni e avviare un approccio più combattivo, per aggredire i problemi antichi e recenti di quest’area del Paese”, dice la ministra Carfagna (“La Stampa”, 20 marzo). Dunque, “più progettualità e meno conflittualità e rivendicazionismo”.

Le scelte d’investimento e la loro realizzazione tempestiva, le riforme sul lavoro (a cominciare da quello delle donne), le infrastrutture, gli stimoli all’impresa, la qualità della formazione scolastica, universitaria e professionale, la riduzione del divario digitale (sono nel Sud gran parte di quei 16 milioni di famiglie, il 60% del totale italiano, che non hanno internet su rete fissa o una connessione da almeno 30 Mbit/s) diranno se stavolta si sarà andati davvero oltre l’abitudine antica degli annunci.

Di sicuro, questa è un’occasione irripetibile per uscire dalla crisi scatenata da pandemia e recessione con un profondo, radicale rinnovamento del Paese, con un Mezzogiorno finalmente attivo, saldamente europeo e dunque compiutamente mediterraneo.

Viviamo stagioni di ricorrenze, i 160 anni dall’Unità d’Italia. E di dibattiti storici sulle responsabilità della carente integrazione e del mancato abbattimento del divario economico e sociale (36 mila euro, nel 2018, il Pil pro capite nel Nord Est, 35mila nel Nord Ovest, 31mila nel Centro e solo 19mila nel Sud, segnato da una grande e distorcente diffusione dell’economia sommersa). Fiorisce, da tempo, una rancorosa letteratura neo-borbonica (per sapere di più su quel che davvero è successo, vale la pena leggere “Italiani per forza” di Dino Messina, Solferino, una solida inchiesta storica e giornalistica su “le leggende contro l’Unità d’Italia che è l’ora di sfatare”). E tutto il Paese è percorso da spinte centripete che danneggiano profondamente, con gli egoismi e i particolarismi localistici, le prospettive di sviluppo equilibrato e sostenibile dell’Italia.

E’ opportuno, dunque, ragionare con intelligenza e competenza di “globale” e “locale”, usando tutte le leve possibili per fare uscire il Sud dalla “lamentazione”, dalle tendenze all’assistenzialismo, dalle tentazioni delle clientele antiche e nuove.

Il Sud, infatti, non è riducibile soltanto a un bel paesaggio o al più banale turismo come enfatico folklore. Né lo si può emarginare come territorio a dominio criminale (ben sapendo come mafia siciliana, ‘ndrangheta, camorra e “sacra corona unita” sono ancora forti e radicate e dal Sud si sono diffuse verso il Nord e il resto d’Europa e dunque vanno combattute con impegno e severità).

Il Sud, infatti, è anche altro, di straordinaria vitalità: imprenditoria che cresce nonostante il clima ostile e gli ostacoli della cattiva pubblica amministrazione, cultura in cerca di protagonismo responsabile, ambizioni di giovani generazioni che vogliono poter scommettere sul futuro. Il Sud non è “irredimibile”, come temeva il pessimismo razionale di Leonardo Sciascia. Ha semmai un “cuore di cactus”, perché, nonostante tutto, conserva al suo interno l’acqua e la vita, pure nelle condizioni più disperate. E va letto con intelligenza non solo in quello che dice protestando, ma soprattutto in quello che fa, pur se con riserbo parlando poco (gli esempi di politici, magistrati, uomini e donne dello Stato, imprenditori vittime della mafia, come Piersanti Mattarella, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, ne sono testimonianza).

Il Sud, senza retorica, si può leggere e capire nei versi essenziali di un grande poeta, come Lucio Piccolo: “Pure il rovo ebbe la sua piegatura di dolcezza/ anche il pruno il suo candore”. Un territorio, molto italiano e tutt’altro che provinciale, fuori dagli eccessi della luce e dalle cupezze del lutto, da rimettere sulla strada dello sviluppo europeo.

Buona amministrazione, dunque. Investimenti produttivi. Riforme. E cultura d’impresa. Proprio perché l’impresa è tessuto connettivo forte, capitale sociale positivo, struttura portante di comunità in crescita, nelle relazioni tra tutti i soggetti che ne fanno parte, gli imprenditori, i finanziatori, gli operai, i tecnici, i manager, i ricercatori, i fornitori, i clienti, la fitta rete di stakeholders. L’impresa come lievito di crescita sostenibile. Nel rapporto con i territori in cui affondano le radici le attitudini al “fare, e fare bene”. Anche nel Mezzogiorno. Seguendo la lezione di Carlo M. Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

Proprio al Sud serve questo tessuto connettivo, per uscire dalle secche delle povertà sociali, culturali e materiali dell’assistenzialismo, del clientelismo e del degrado dell’economia sommersa su cui fa leva la criminalità. E ridare speranza a un territorio operoso d’incontro e di sintesi tra l’Europa continentale e il Mediterraneo.

I musei d’impresa narrano il saper fare su Instagram

Vincenzo Aragozzini: dai reportage di fabbrica al racconto fotografico della modernità

Vincenzo Aragozzini (1891-1974) è stato un fotografo molto attivo a Milano tra gli anni Dieci e gli anni Sessanta del Novecento. È stato fotografo del Touring Cub Italiano, fotografo ufficiale della famiglia reale e anche uno dei più apprezzati fotografi industriali, richiesto da numerose aziende come Pirelli, Fiera di Milano, Montecatini, Edison, AEM, SNIA Viscosa, Dalmine. Di famiglia modesta, Vincenzo Aragozzini a 13 anni viene subito avviato al lavoro e dopo una breve esperienza presso una legatoria milanese, nel 1905 entra nello studio di Luca Comerio come garzone. Proprio in quell’anno Comerio realizza per Pirelli la celebre fotografia di gruppo delle maestranze all’uscita dallo stabilimento di via Ponte Seveso, il cui ingrandimento, realizzato per l’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, è oggi conservato nella nostra Fondazione. Da Luca Comerio Aragozzini apprende la tecnica fotografica e nel 1913, a soli 22 anni, apre un proprio studio in Galleria De Cristoforis e inizia a collaborare con il Touring Club Italiano.

Presumibilmente grazie a Comerio o attraverso il Touring, di cui Giovan Battista Pirelli era socio fin dalla fondazione, negli anni Venti inizia la collaborazione di Aragozzini con Pirelli, che durerà fino agli anni Cinquanta. Per l’azienda Aragozzini realizza principalmente fotografie di architettura, documentando il lavoro in fabbrica con reportage di interni ed esterni degli stabilimenti produttivi. Il primo lavoro per Pirelli documentato risale al 1922, quando Aragozzini realizza una serie di scatti all’interno dello stabilimento di Milano-Bicocca, nelle sale dedicate alla produzione di cavi, poi confluiti all’interno dell’album celebrativo del cinquantenario della ditta dal titolo “Gli stabilimenti della società Pirelli nel 1922”. A metà degli anni Trenta Aragozzini entra nello studio Fototecnica Crimella, dove resterà fino al 1948. E sono infatti firmate “Aragozzini della S. A. Crimella” alcune foto degli esterni e degli interni dello stabilimento Pirelli di via Ponte Seveso, scattate nel luglio 1943. Di lì a poco, la città viene pesantemente bombardata e lo stabilimento distrutto. Gli stessi luoghi sono documentati dopo il bombardamento, sempre dallo studio Crimella, e le fotografie vanno a formare due interessanti album che mostrano la sede prima e dopo l’incursione aerea.

Nel dopoguerra Aragozzini è chiamato a documentare due importanti strutture legate ai servizi di welfare aziendali:  la colonia marina di Pietra Ligure per i figli dei dipendenti, inaugurata nel 1947, e la casa di riposo per dipendenti Pirelli in pensione, a Induno Olona, in provincia di Varese, nella quale Aragozzini realizza un servizio tra il 1950 e il 1951. Dopo l’esperienza presso la Fototecnica Crimella, nel 1950 Aragozzini apre il suo secondo studio a Milano, in via Borsieri 29, e negli anni Cinquanta è tra i fotografi interpellati per illustrare gli articoli della Rivista Pirelli. Alcuni suoi scatti risultano tra quelli raccolti per l’articolo di Carlo Vigoni “Convertirsi alla gommapiuma”, pubblicato sul numero 2 del 1952, così come il suo reportage sulla “Mostra Atomica” itinerante organizzata dall’USIS (United States Information Service), di cui si parla nella rubrica “Il mondo nuovo” sul numero 4 del 1954.

Quella di Aragozzini con Pirelli è dunque una collaborazione che parte da lontano, e che contribuisce a documentare i molteplici aspetti dell’attività dell’azienda: dalla produzione in fabbrica alle iniziative di welfare, fino alle innovazioni di un mondo che, alle soglie del boom economico, si affacciava nel dopoguerra alla modernità.

Vincenzo Aragozzini (1891-1974) è stato un fotografo molto attivo a Milano tra gli anni Dieci e gli anni Sessanta del Novecento. È stato fotografo del Touring Cub Italiano, fotografo ufficiale della famiglia reale e anche uno dei più apprezzati fotografi industriali, richiesto da numerose aziende come Pirelli, Fiera di Milano, Montecatini, Edison, AEM, SNIA Viscosa, Dalmine. Di famiglia modesta, Vincenzo Aragozzini a 13 anni viene subito avviato al lavoro e dopo una breve esperienza presso una legatoria milanese, nel 1905 entra nello studio di Luca Comerio come garzone. Proprio in quell’anno Comerio realizza per Pirelli la celebre fotografia di gruppo delle maestranze all’uscita dallo stabilimento di via Ponte Seveso, il cui ingrandimento, realizzato per l’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, è oggi conservato nella nostra Fondazione. Da Luca Comerio Aragozzini apprende la tecnica fotografica e nel 1913, a soli 22 anni, apre un proprio studio in Galleria De Cristoforis e inizia a collaborare con il Touring Club Italiano.

Presumibilmente grazie a Comerio o attraverso il Touring, di cui Giovan Battista Pirelli era socio fin dalla fondazione, negli anni Venti inizia la collaborazione di Aragozzini con Pirelli, che durerà fino agli anni Cinquanta. Per l’azienda Aragozzini realizza principalmente fotografie di architettura, documentando il lavoro in fabbrica con reportage di interni ed esterni degli stabilimenti produttivi. Il primo lavoro per Pirelli documentato risale al 1922, quando Aragozzini realizza una serie di scatti all’interno dello stabilimento di Milano-Bicocca, nelle sale dedicate alla produzione di cavi, poi confluiti all’interno dell’album celebrativo del cinquantenario della ditta dal titolo “Gli stabilimenti della società Pirelli nel 1922”. A metà degli anni Trenta Aragozzini entra nello studio Fototecnica Crimella, dove resterà fino al 1948. E sono infatti firmate “Aragozzini della S. A. Crimella” alcune foto degli esterni e degli interni dello stabilimento Pirelli di via Ponte Seveso, scattate nel luglio 1943. Di lì a poco, la città viene pesantemente bombardata e lo stabilimento distrutto. Gli stessi luoghi sono documentati dopo il bombardamento, sempre dallo studio Crimella, e le fotografie vanno a formare due interessanti album che mostrano la sede prima e dopo l’incursione aerea.

Nel dopoguerra Aragozzini è chiamato a documentare due importanti strutture legate ai servizi di welfare aziendali:  la colonia marina di Pietra Ligure per i figli dei dipendenti, inaugurata nel 1947, e la casa di riposo per dipendenti Pirelli in pensione, a Induno Olona, in provincia di Varese, nella quale Aragozzini realizza un servizio tra il 1950 e il 1951. Dopo l’esperienza presso la Fototecnica Crimella, nel 1950 Aragozzini apre il suo secondo studio a Milano, in via Borsieri 29, e negli anni Cinquanta è tra i fotografi interpellati per illustrare gli articoli della Rivista Pirelli. Alcuni suoi scatti risultano tra quelli raccolti per l’articolo di Carlo Vigoni “Convertirsi alla gommapiuma”, pubblicato sul numero 2 del 1952, così come il suo reportage sulla “Mostra Atomica” itinerante organizzata dall’USIS (United States Information Service), di cui si parla nella rubrica “Il mondo nuovo” sul numero 4 del 1954.

Quella di Aragozzini con Pirelli è dunque una collaborazione che parte da lontano, e che contribuisce a documentare i molteplici aspetti dell’attività dell’azienda: dalla produzione in fabbrica alle iniziative di welfare, fino alle innovazioni di un mondo che, alle soglie del boom economico, si affacciava nel dopoguerra alla modernità.

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Welfare “forzato” ma rinnovato

Pubblicato un articolo che ragiona sulle origini e sull’evoluzione del benessere d’impresa”

 

 Welfare prima di tutto, o quasi. Il tema è ormai di assoluta attualità (e non solo per la pandemia Ciovid19 che certamente ne ha accresciuto ruolo e importanza). E, come sempre accade, c’è bisogno di un ordine nei punti principali dell’argomento. Una bussola, con la quale orientarsi per meglio agire. E’ il ruolo svolto, con efficacia, dall’intervento di Veronica Pagan e Claudia Peiti apparso sul terzo fascicolo del 2020 di Economia Pubblica.

“Il welfare aziendale come comunità d’impresa” si propone di analizzare gli attuali strumenti di welfare aziendale e le azioni introdotte dai diversi livelli di regolazione. Una sorta di “punto della situazione” che cerca di unire forme di welfare aziendale, regole in vigore e prospettive di sviluppo soprattutto tenendo conto del complesso periodo vissuta dall’economia e dalle imprese in particolare.

La ricerca presenta – come viene spiegato dagli stessi autori -, le diverse accezioni di welfare aziendale: il cosiddetto secondo welfare, gli elementi di conciliazione vita-lavoro, i beni e i servizi che attengono più alla cultura aziendale (fringe o flexible benefit) e infine gli strumenti più innovativi e che si identificano con un concetto di welfare più recente (welfare allargato alla comunità esterna).

Dopo la fotografia delle diverse declinazioni di welfare, Pagan e Peiti ragionano sul ruolo della contrattazione, osservando naturalmente la crescita del significato di questa, così come degli accordi aziendali e del ruolo degli istituti negoziali collettivi.

Arriva quindi la parte dedicata al confronto tra welfare d’azienda e situazione contingente. Tutto con particolare attenzione al settore delle public utility, anche alla luce della recente emergenza sanitaria.

La diffusione del Covid19, è la constatazione di Pagan e Peiti, ha “accelerato forzatamente” l’adozione di strumenti già presenti nel ventaglio delle politiche di welfare aziendale, ma precedentemente relegati a quote minoritarie di imprese. La raccomandazione che scaturisce dall’indagine, è infine quella di continuare a tenere sotto osservazione l’evoluzione della realtà del welfare d’impresa, per seguirne la crescita e per agevolarne il ruolo di strumento capace di disegnare un nuovo modo di lavorare e di essere parte di una comunità d’impresa.

Il welfare aziendale come comunità d’impresa

Veronica Pagan, Claudia Peiti

Economia Pubblica, 2020 Fascicolo3

Pubblicato un articolo che ragiona sulle origini e sull’evoluzione del benessere d’impresa”

 

 Welfare prima di tutto, o quasi. Il tema è ormai di assoluta attualità (e non solo per la pandemia Ciovid19 che certamente ne ha accresciuto ruolo e importanza). E, come sempre accade, c’è bisogno di un ordine nei punti principali dell’argomento. Una bussola, con la quale orientarsi per meglio agire. E’ il ruolo svolto, con efficacia, dall’intervento di Veronica Pagan e Claudia Peiti apparso sul terzo fascicolo del 2020 di Economia Pubblica.

“Il welfare aziendale come comunità d’impresa” si propone di analizzare gli attuali strumenti di welfare aziendale e le azioni introdotte dai diversi livelli di regolazione. Una sorta di “punto della situazione” che cerca di unire forme di welfare aziendale, regole in vigore e prospettive di sviluppo soprattutto tenendo conto del complesso periodo vissuta dall’economia e dalle imprese in particolare.

La ricerca presenta – come viene spiegato dagli stessi autori -, le diverse accezioni di welfare aziendale: il cosiddetto secondo welfare, gli elementi di conciliazione vita-lavoro, i beni e i servizi che attengono più alla cultura aziendale (fringe o flexible benefit) e infine gli strumenti più innovativi e che si identificano con un concetto di welfare più recente (welfare allargato alla comunità esterna).

Dopo la fotografia delle diverse declinazioni di welfare, Pagan e Peiti ragionano sul ruolo della contrattazione, osservando naturalmente la crescita del significato di questa, così come degli accordi aziendali e del ruolo degli istituti negoziali collettivi.

Arriva quindi la parte dedicata al confronto tra welfare d’azienda e situazione contingente. Tutto con particolare attenzione al settore delle public utility, anche alla luce della recente emergenza sanitaria.

La diffusione del Covid19, è la constatazione di Pagan e Peiti, ha “accelerato forzatamente” l’adozione di strumenti già presenti nel ventaglio delle politiche di welfare aziendale, ma precedentemente relegati a quote minoritarie di imprese. La raccomandazione che scaturisce dall’indagine, è infine quella di continuare a tenere sotto osservazione l’evoluzione della realtà del welfare d’impresa, per seguirne la crescita e per agevolarne il ruolo di strumento capace di disegnare un nuovo modo di lavorare e di essere parte di una comunità d’impresa.

Il welfare aziendale come comunità d’impresa

Veronica Pagan, Claudia Peiti

Economia Pubblica, 2020 Fascicolo3

Benessere individuale, benessere collettivo

La storia dello Stato sociale in Italia tra pubblico e privato e tra individui e imprese

Stato sociale. E cioè quel sistema complesso e delicato che un’organizzazione statale costruisce per garantire un “insieme diritti sociali, libertà individuali e principi di uguaglianza sostanziale”, come scrivono Chiara Giorgi e Ilaria Pavan nel loro interessante libro “Storia dello Stato sociale in Italia”, da poco pubblicato e che costituisce una buona lettura per chi voglia aver chiari i tratti essenziali dell’argomento non solo nel loro excursus storico ma anche nella loro attualità. Stato sociale che, in qualche modo, va di pari passo con la costruzione e la crescita di quel welfare aziendale che appare essere una novità dell’oggi ma che, in versioni e termini differenti, fa ugualmente parte della storia del Paese da molti decenni.

Giorgi e Pavan hanno scritto un libro che è davvero uno strumento di conoscenza e che parte da una constatazione: principale strumento di tutela dei diritti di cittadinanza in risposta a rischi e bisogni individuali e collettivi, lo Stato sociale è da anni al centro di un dibattito che tende a ignorarne la storia. Ma, come sempre accade, è dalla storia che occorre partire per comprendere il presente. Anche in fatto di Stato sociale e di welfare  in generale.

Nel libro, le autrici raccontano quindi la storia dello Stato sociale per tutto il Novecento e fino ad oggi. Impresa di non poco conto, che racconta le vicende dello Stato sociale visto nei suoi tre pilastri: la previdenza, la sanità e l’assistenza. Tutto con un approccio che combina i processi politici e istituzionali, come quelli sociali, economici e culturali. Si inizia quindi dall’età liberale dello Stato italiano per passare al ventennio fascista e poi all’età repubblicana e quindi all’oggi.

Il libro di Giorgi e Pavan non ha conclusioni definitive oppure ricette da proporre per il miglioramento dello Stato sociale italiano nelle sue relazioni con la modernità e con il welfare privato e d’impresa, ma è un libro che ha un grande pregio: riesce a sintetizzare con chiarezza un argomento complesso, e a fornire così una base di conoscenza indispensabile per tutti gli attori pubblici e privati del welfare  in Italia.

Storia dello Stato sociale in Italia

Chiara Giorgi, Ilaria Pavan

il Mulino, 2021

La storia dello Stato sociale in Italia tra pubblico e privato e tra individui e imprese

Stato sociale. E cioè quel sistema complesso e delicato che un’organizzazione statale costruisce per garantire un “insieme diritti sociali, libertà individuali e principi di uguaglianza sostanziale”, come scrivono Chiara Giorgi e Ilaria Pavan nel loro interessante libro “Storia dello Stato sociale in Italia”, da poco pubblicato e che costituisce una buona lettura per chi voglia aver chiari i tratti essenziali dell’argomento non solo nel loro excursus storico ma anche nella loro attualità. Stato sociale che, in qualche modo, va di pari passo con la costruzione e la crescita di quel welfare aziendale che appare essere una novità dell’oggi ma che, in versioni e termini differenti, fa ugualmente parte della storia del Paese da molti decenni.

Giorgi e Pavan hanno scritto un libro che è davvero uno strumento di conoscenza e che parte da una constatazione: principale strumento di tutela dei diritti di cittadinanza in risposta a rischi e bisogni individuali e collettivi, lo Stato sociale è da anni al centro di un dibattito che tende a ignorarne la storia. Ma, come sempre accade, è dalla storia che occorre partire per comprendere il presente. Anche in fatto di Stato sociale e di welfare  in generale.

Nel libro, le autrici raccontano quindi la storia dello Stato sociale per tutto il Novecento e fino ad oggi. Impresa di non poco conto, che racconta le vicende dello Stato sociale visto nei suoi tre pilastri: la previdenza, la sanità e l’assistenza. Tutto con un approccio che combina i processi politici e istituzionali, come quelli sociali, economici e culturali. Si inizia quindi dall’età liberale dello Stato italiano per passare al ventennio fascista e poi all’età repubblicana e quindi all’oggi.

Il libro di Giorgi e Pavan non ha conclusioni definitive oppure ricette da proporre per il miglioramento dello Stato sociale italiano nelle sue relazioni con la modernità e con il welfare privato e d’impresa, ma è un libro che ha un grande pregio: riesce a sintetizzare con chiarezza un argomento complesso, e a fornire così una base di conoscenza indispensabile per tutti gli attori pubblici e privati del welfare  in Italia.

Storia dello Stato sociale in Italia

Chiara Giorgi, Ilaria Pavan

il Mulino, 2021

La cultura d’impresa e i racconti digitali liberano l’Angelus Novus, tra storia e futuro

C’è un’immagine dalla straordinaria forza simbolica che connota il lungo e drammatico Novecento: l’Angelus Novus, dipinto da Paul Klee, con lo sguardo rivolto all’indietro, verso le macerie della Storia. Walter Benjamin, intelligenza inquieta e visionaria, critica e profondamente malinconica, ha scritto pagine intense, che vale la pena rileggere, per riflettere su come legare la conoscenza storica alla necessità di progettare il futuro, cioè su come rimemorare e, contemporaneamente, costruire migliori equilibri civili, sociali, economici. Scrive Benjamin: nel quadro di Klee c’è “un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

Oggi, sotto la spinta dei drammatici eventi contemporanei (la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’aggravarsi dei problemi legati al Climate Change, la pandemia da Covid19 e la grave recessione mondiale conseguente), ci tocca insistere sull’urgenza del “cambio di paradigma” dello sviluppo economico e sociale e, dunque, rileggere criticamente l’idea di “progresso” (lo fa, per esempio, con grande efficacia, Aldo Schiavone, in un libro pubblicato alcuni mesi fa da Il Mulino) ma anche riconsiderare scelte politiche, economiche, culturali legate alle prospettive dello sviluppo. Proprio quello sviluppo che, per uscire dalla crisi del Covid19, la Ue ci sollecita a progettare come sostenibile, lavorando per il Recovery Plan su green economy e digital economy e guardando soprattutto alle nuove generazioni: scuola, formazione di lungo periodo, conoscenza.

Proprio da questo punto di vista, c’è un’altra pagina che vale la pena rileggere, per cercare, nel “classici” del secolo appena trascorso, stimoli di riflessione. L’ha scritta John Maynard Keynes nel 1926, in “The end of Laussez-Faire”: “Penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualunque sistema alternativo finora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé esso sia per molti versi estremamente criticabile. Il nostro problema è quello di mettere in piedi un’organizzazione sociale che sia in sommo grado efficiente senza pregiudicare la nostra idea di uno stile di vita soddisfacente”.

L’immaginario evocativo dell’Angelus Novus di Klee interpretato da Benjamin e la strategia del riformismo alla Keynes, come fondamento di una migliore cultura d’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, sono risuonate, la scorsa settimana, nel corso del seminario organizzato da Museimpresa sull’heritage aziendale e sulle trasformazioni digitali (con le relazioni di James M. Bradburne, direttore generale della Pinacoteca di Brera, Eleonora Lorenzini, direttrice dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle attività culturali del Politecnico di Milano, Samanta Isaia, direttrice operativa del Museo Egizio di Torino, Marco Amato, direttore del Museo Lavazza e Paola Dubini, professoressa di Management all’Università Bocconi).

L’idea di fondo: usare tecniche e linguaggi del mondo digitale in rafforzamento delle esperienze museali e culturali dal vivo (appena la diffusione dei vaccini, dall’autunno in poi, ci permetteranno di tornare agli incontri, ai viaggi, alle frequentazioni di musei e teatri, luoghi della musica e centri della cultura) e valorizzare dunque con sempre maggior efficacia il patrimonio culturale, sia pubblico che privato, delle istituzioni e delle imprese, come motore potente d’uno sviluppo economico e sociale di qualità. Legando memoria e innovazione, eredità del “bello e ben fatto”, ricerca scientifica e cambiamenti tecnologico per un profondo rinnovamento della qualità della vita e del lavoro.

Una sintesi originale tra l’Angelus Novus che cambi il verso dello sguardo verso il futuro e la lezione keynesiana di un liberalismo da “società aperta” con una solida sensibilità sociale.

C’è appunto tutto questo – s’è detto nel corso del seminario di Museimpresa, ricco di rappresentazioni di esperienze tecnicamente innovative e di indicazioni di strategie culturali – nell’esperienza e nella progettualità delle imprese italiane, che della cultura e della sostenibilità fanno un pilastro portante della loro competitività. E sono proprio i musei e gli archivi d’impresa a darne un’aggiornata testimonianza.

L’Italia, infatti, è creatività, spirito d’intraprendenza, senso di comunità aperta e inclusiva. Partecipazione. E ha rivelato, anche in queste stagioni di malattia e dolore, un capitale sociale di straordinario valore, in cui le radici nella tradizione, il genius loci della bellezza e del “fare bene”, s’incrociano con un forte spirito d’innovazione. Il nostro dovere, oggi, è “Fare memoria”, per usare parole care al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, impegnato a insistere su “serietà, responsabilità, solidarietà”. E dunque è necessario costruire futuro. Un futuro migliore per la Next Generation. Una sfida generale di cultura.

Il fare, il produrre, il custodire e l’innovare hanno tutti un minimo comune denominatore: una cultura quale autentico filo conduttore del sistema Italia, un punto di forza della nostra identità aperta e dialettica e della nostra competitività internazionale, un patrimonio che ci viene invidiato nel mondo e che oggi, mai come prima, è leva di ricostruzione e di sviluppo.

Cultura politecnica. Scienza. Ricerca di valore mondiale. E imprese sanitarie e farmaceutiche, robotiche e meccatroniche, università e società di servizi hi tech tutte impegnate nella tutela di beni pubblici, come la salute e la conoscenza, declinati in una cultura civile in cui istituzioni pubbliche, imprese private e strutture sociali del volontariato e, più in generale, del terzo settore camminano insieme.

Fare. E fare sapere. Serve, appunto, una nuova capacità di racconto dell’impresa che va rilanciata anche e soprattutto con la valorizzazione dei nostri musei e archivi, tutti ricchi di storie capaci di appassionare anche le giovani generazioni. Lo abbiamo sperimentato in questi mesi di lockdown. E proprio grazie alle tecnologie e ai linguaggi digitali è stato possibile continuare a fare vivere i patrimoni di memoria aziendale e a sostituire, con la rappresentazione digitale, quello che è stato impossibile fare di presenza. Una svolta culturale, di forma e contenuto, che non va affatto persa ma deve costituire, per tutti gli attori culturali e per le imprese, un nuovo territorio di collaborazione.

Proprio il Recovery Plan, come suggerisce anche Federculture, può esserne strumento essenziale. Facendo leva appunto sulla cultura d’impresa, intesa come rigore, capacità di “fare, e fare bene” e di affrontare le sfide generate da pandemia e recessione. E come visione di ampio respiro come quella degli imprenditori che hanno fatto grande l’Italia, a partire da Adriano Olivetti, dall’Eni di Enrico Mattei, dalla Pirelli e da una lunga serie di medie e piccole imprese. Meno parole e comitati e più “produrre”, “trasformare”, “raccontare”.

La cultura d’impresa, appunto, è estranea alla vuota retorica. Ed è, concretamente, attore fondamentale per il riscatto morale e civile del Paese. Le idee di progresso e di sviluppo possono trarne nuova forza. L’Angelus Novus può avere finalmente più libere le sue ali, verso il futuro.

C’è un’immagine dalla straordinaria forza simbolica che connota il lungo e drammatico Novecento: l’Angelus Novus, dipinto da Paul Klee, con lo sguardo rivolto all’indietro, verso le macerie della Storia. Walter Benjamin, intelligenza inquieta e visionaria, critica e profondamente malinconica, ha scritto pagine intense, che vale la pena rileggere, per riflettere su come legare la conoscenza storica alla necessità di progettare il futuro, cioè su come rimemorare e, contemporaneamente, costruire migliori equilibri civili, sociali, economici. Scrive Benjamin: nel quadro di Klee c’è “un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

Oggi, sotto la spinta dei drammatici eventi contemporanei (la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’aggravarsi dei problemi legati al Climate Change, la pandemia da Covid19 e la grave recessione mondiale conseguente), ci tocca insistere sull’urgenza del “cambio di paradigma” dello sviluppo economico e sociale e, dunque, rileggere criticamente l’idea di “progresso” (lo fa, per esempio, con grande efficacia, Aldo Schiavone, in un libro pubblicato alcuni mesi fa da Il Mulino) ma anche riconsiderare scelte politiche, economiche, culturali legate alle prospettive dello sviluppo. Proprio quello sviluppo che, per uscire dalla crisi del Covid19, la Ue ci sollecita a progettare come sostenibile, lavorando per il Recovery Plan su green economy e digital economy e guardando soprattutto alle nuove generazioni: scuola, formazione di lungo periodo, conoscenza.

Proprio da questo punto di vista, c’è un’altra pagina che vale la pena rileggere, per cercare, nel “classici” del secolo appena trascorso, stimoli di riflessione. L’ha scritta John Maynard Keynes nel 1926, in “The end of Laussez-Faire”: “Penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualunque sistema alternativo finora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé esso sia per molti versi estremamente criticabile. Il nostro problema è quello di mettere in piedi un’organizzazione sociale che sia in sommo grado efficiente senza pregiudicare la nostra idea di uno stile di vita soddisfacente”.

L’immaginario evocativo dell’Angelus Novus di Klee interpretato da Benjamin e la strategia del riformismo alla Keynes, come fondamento di una migliore cultura d’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, sono risuonate, la scorsa settimana, nel corso del seminario organizzato da Museimpresa sull’heritage aziendale e sulle trasformazioni digitali (con le relazioni di James M. Bradburne, direttore generale della Pinacoteca di Brera, Eleonora Lorenzini, direttrice dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle attività culturali del Politecnico di Milano, Samanta Isaia, direttrice operativa del Museo Egizio di Torino, Marco Amato, direttore del Museo Lavazza e Paola Dubini, professoressa di Management all’Università Bocconi).

L’idea di fondo: usare tecniche e linguaggi del mondo digitale in rafforzamento delle esperienze museali e culturali dal vivo (appena la diffusione dei vaccini, dall’autunno in poi, ci permetteranno di tornare agli incontri, ai viaggi, alle frequentazioni di musei e teatri, luoghi della musica e centri della cultura) e valorizzare dunque con sempre maggior efficacia il patrimonio culturale, sia pubblico che privato, delle istituzioni e delle imprese, come motore potente d’uno sviluppo economico e sociale di qualità. Legando memoria e innovazione, eredità del “bello e ben fatto”, ricerca scientifica e cambiamenti tecnologico per un profondo rinnovamento della qualità della vita e del lavoro.

Una sintesi originale tra l’Angelus Novus che cambi il verso dello sguardo verso il futuro e la lezione keynesiana di un liberalismo da “società aperta” con una solida sensibilità sociale.

C’è appunto tutto questo – s’è detto nel corso del seminario di Museimpresa, ricco di rappresentazioni di esperienze tecnicamente innovative e di indicazioni di strategie culturali – nell’esperienza e nella progettualità delle imprese italiane, che della cultura e della sostenibilità fanno un pilastro portante della loro competitività. E sono proprio i musei e gli archivi d’impresa a darne un’aggiornata testimonianza.

L’Italia, infatti, è creatività, spirito d’intraprendenza, senso di comunità aperta e inclusiva. Partecipazione. E ha rivelato, anche in queste stagioni di malattia e dolore, un capitale sociale di straordinario valore, in cui le radici nella tradizione, il genius loci della bellezza e del “fare bene”, s’incrociano con un forte spirito d’innovazione. Il nostro dovere, oggi, è “Fare memoria”, per usare parole care al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, impegnato a insistere su “serietà, responsabilità, solidarietà”. E dunque è necessario costruire futuro. Un futuro migliore per la Next Generation. Una sfida generale di cultura.

Il fare, il produrre, il custodire e l’innovare hanno tutti un minimo comune denominatore: una cultura quale autentico filo conduttore del sistema Italia, un punto di forza della nostra identità aperta e dialettica e della nostra competitività internazionale, un patrimonio che ci viene invidiato nel mondo e che oggi, mai come prima, è leva di ricostruzione e di sviluppo.

Cultura politecnica. Scienza. Ricerca di valore mondiale. E imprese sanitarie e farmaceutiche, robotiche e meccatroniche, università e società di servizi hi tech tutte impegnate nella tutela di beni pubblici, come la salute e la conoscenza, declinati in una cultura civile in cui istituzioni pubbliche, imprese private e strutture sociali del volontariato e, più in generale, del terzo settore camminano insieme.

Fare. E fare sapere. Serve, appunto, una nuova capacità di racconto dell’impresa che va rilanciata anche e soprattutto con la valorizzazione dei nostri musei e archivi, tutti ricchi di storie capaci di appassionare anche le giovani generazioni. Lo abbiamo sperimentato in questi mesi di lockdown. E proprio grazie alle tecnologie e ai linguaggi digitali è stato possibile continuare a fare vivere i patrimoni di memoria aziendale e a sostituire, con la rappresentazione digitale, quello che è stato impossibile fare di presenza. Una svolta culturale, di forma e contenuto, che non va affatto persa ma deve costituire, per tutti gli attori culturali e per le imprese, un nuovo territorio di collaborazione.

Proprio il Recovery Plan, come suggerisce anche Federculture, può esserne strumento essenziale. Facendo leva appunto sulla cultura d’impresa, intesa come rigore, capacità di “fare, e fare bene” e di affrontare le sfide generate da pandemia e recessione. E come visione di ampio respiro come quella degli imprenditori che hanno fatto grande l’Italia, a partire da Adriano Olivetti, dall’Eni di Enrico Mattei, dalla Pirelli e da una lunga serie di medie e piccole imprese. Meno parole e comitati e più “produrre”, “trasformare”, “raccontare”.

La cultura d’impresa, appunto, è estranea alla vuota retorica. Ed è, concretamente, attore fondamentale per il riscatto morale e civile del Paese. Le idee di progresso e di sviluppo possono trarne nuova forza. L’Angelus Novus può avere finalmente più libere le sue ali, verso il futuro.

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