Conoscere ciò che è avvenuto
L’ultimo libro di Francesco Barbagallo è sintesi efficace della storia del nostro Paese: utile a tutti, anche alle imprese
Avere cognizione del passato per capire il presente e saper affrontare meglio il futuro. Condizione essenziale per tutti. Anche per gli imprenditori avveduti e per i manager che li accompagnano. Condizione che si costruisce anche con letture azzeccate e importanti come lo è “L’Italia nel mondo contemporaneo. Sei lezioni di storia 1943-2018” raccolta di interventi di Francesco Barbagallo, emerito di storia contemporanea all’Università “Federico II” di Napoli ma soprattutto raffinato conoscitore delle vicende italiane negli ultimi decenni.
Nelle “sei lezioni” l’autore riesce efficacemente a sintetizzare in poco meno di duecento pagine scritte con chiarezza, la storia del nostro Paese percorsa a grandi tappe unite dalla considerazione che dalla fine della seconda guerra mondiale tutto è assolutamente incomprensibile se si perde di vista la dimensione internazionale.
Proprio il continuo scambio tra vicende interne all’Italia e influenze dall’esterno, costituisce il filo rosso che lega le sei lezioni di Barbagallo. Dal dopoguerra alla Guerra Fredda, dal boom economico condizionato dalle potenze straniere alla crisi e alle riforme sempre in qualche modo toccate da influssi d’oltre confine. Fino alla stagione drammatica delle stragi e dei terrorismi per arrivare al processo di globalizzazione successivo che pone però il nostro Paese ai margini della nuova fase storica. E fino ad oggi con l’ascesa irresistibile delle potenze asiatiche e il completamento della rivoluzione informatica e finanziaria, con la nostra Penisola posta di fronte ad un lungo declino economico e sociale che pare mettere in crisi anche le stesse pratiche democratiche.
E’ una storia civile ed economica quella che scrive Barbagallo, una storia nella quale i passaggi politici si intrecciano con quelli sociali e produttivi, di costume e culturali.
Tutto viene raccontato e non declamato, spiegato e non con supponenza dichiarato. Le “Sei lezioni di storia 1943-2018” di Barbagallo costituiscono così una sintesi preziosa proprio per comprendere meglio il presente e restituire prospettiva al futuro. Francesco Barbagallo ha scritto un libro bello e utile, da leggere tutto e da tenere sul tavolo di lavoro.
L’Italia nel mondo contemporaneo. Sei lezioni di storia 1943-2018
Francesco Barbagallo
Laterza, 2020






L’ultimo libro di Francesco Barbagallo è sintesi efficace della storia del nostro Paese: utile a tutti, anche alle imprese
Avere cognizione del passato per capire il presente e saper affrontare meglio il futuro. Condizione essenziale per tutti. Anche per gli imprenditori avveduti e per i manager che li accompagnano. Condizione che si costruisce anche con letture azzeccate e importanti come lo è “L’Italia nel mondo contemporaneo. Sei lezioni di storia 1943-2018” raccolta di interventi di Francesco Barbagallo, emerito di storia contemporanea all’Università “Federico II” di Napoli ma soprattutto raffinato conoscitore delle vicende italiane negli ultimi decenni.
Nelle “sei lezioni” l’autore riesce efficacemente a sintetizzare in poco meno di duecento pagine scritte con chiarezza, la storia del nostro Paese percorsa a grandi tappe unite dalla considerazione che dalla fine della seconda guerra mondiale tutto è assolutamente incomprensibile se si perde di vista la dimensione internazionale.
Proprio il continuo scambio tra vicende interne all’Italia e influenze dall’esterno, costituisce il filo rosso che lega le sei lezioni di Barbagallo. Dal dopoguerra alla Guerra Fredda, dal boom economico condizionato dalle potenze straniere alla crisi e alle riforme sempre in qualche modo toccate da influssi d’oltre confine. Fino alla stagione drammatica delle stragi e dei terrorismi per arrivare al processo di globalizzazione successivo che pone però il nostro Paese ai margini della nuova fase storica. E fino ad oggi con l’ascesa irresistibile delle potenze asiatiche e il completamento della rivoluzione informatica e finanziaria, con la nostra Penisola posta di fronte ad un lungo declino economico e sociale che pare mettere in crisi anche le stesse pratiche democratiche.
E’ una storia civile ed economica quella che scrive Barbagallo, una storia nella quale i passaggi politici si intrecciano con quelli sociali e produttivi, di costume e culturali.
Tutto viene raccontato e non declamato, spiegato e non con supponenza dichiarato. Le “Sei lezioni di storia 1943-2018” di Barbagallo costituiscono così una sintesi preziosa proprio per comprendere meglio il presente e restituire prospettiva al futuro. Francesco Barbagallo ha scritto un libro bello e utile, da leggere tutto e da tenere sul tavolo di lavoro.
L’Italia nel mondo contemporaneo. Sei lezioni di storia 1943-2018
Francesco Barbagallo
Laterza, 2020
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Osservare prima di agire
Una tesi discussa all’Università di Padova, pone in luce la necessità di capire bene i mercati prima di lanciarsi alla loro conquista: un aspetto essenziale della buona cultura del produrre
Quando, come e dove entrare in un mercato. Temi all’ordine del giorno per molte imprese. Temi che possono essere affrontati in vario modo e che – quando correttamente intesi -, hanno molto a che fare con quella cultura del produrre che fa la differenza tra le imprese.
Nodo non facile da approcciare, quello dei rapporti tra impresa e mercato è esaminato da Andrea Paggetta con il suo lavoro di tesi “L’uomo saggio impara dai suoi errori, quello più saggio dagli errori degli altri. Le strategie di Netflix, Stadia e Spotify nel mercato dei beni digitali” discusso recentemente nell’ambito del Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.
Paggetta scrive: “La teoria del first mover advantage sostiene che un’impresa che riesce ad entrare per prima in un segmento di mercato, attuando determinati comportamenti strategici, ottiene un vantaggio competitivo. Diverse organizzazioni sono riuscite a conseguire questo tipo di vantaggio, ma ciò non implica che non ci siano dei punti a sfavore o strategie migliori e più efficaci”. È da questa affermazione che inizia il lavoro di ricerca. L’autore spiega come si possa anche “decidere di entrare in un mercato in cui una o più imprese sono già stabilite, decidendo di copiare, in tutto o in parte, la strategia dell’organizzazione migliore”. Oppure ancora, come si possa “carpire un nuovo bisogno all’interno del mercato e decidere di aspettare che sia un’altra organizzazione a fare la prima mossa, perché magari non si hanno i fondi per investire nella ricerca e sviluppo, necessari per creare un prodotto adatto alle esigenze dei consumatori”. Ed è meglio in altri casi “semplicemente aspettare e studiare il comportamento dell’organizzazione first mover per evitare di commettere i suoi stessi errori”. Casi vari di comportamento imprenditoriale che hanno dietro approcci di organizzazione della prodizione e di visione de mercati diversi. Paggetta quindi cerca di dimostrare che non sempre per ottenere un vantaggio competitivo sia sufficiente essere la prima impresa ad entrare in un mercato, così come non è sempre vantaggioso copiare il modello dell’impresa migliore di un determinato settore. Accanto alla teoria, l’autore per far comprendere meglio il tema pone i casi di Netflix, Stadia e Spotify.
L’indicazione finale è chiara. Occorre essere unici per quello che si è. E quindi, prima di intraprendere una decisione strategica, cercare di comprendere quali siano le variabili che possono influenzare un’impresa dal punto di vista della sua struttura e della sua organizzazione. L’avveduta cultura del produrre, quindi, risulta essere sempre il modo migliore per condursi efficacemente nei mercati.
L’uomo saggio impara dai suoi errori, quello più saggio dagli errori degli altri. Le strategie di Netflix, Stadia e Spotify nel mercato dei beni digitali
Andrea Paggetta
Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2020






Una tesi discussa all’Università di Padova, pone in luce la necessità di capire bene i mercati prima di lanciarsi alla loro conquista: un aspetto essenziale della buona cultura del produrre
Quando, come e dove entrare in un mercato. Temi all’ordine del giorno per molte imprese. Temi che possono essere affrontati in vario modo e che – quando correttamente intesi -, hanno molto a che fare con quella cultura del produrre che fa la differenza tra le imprese.
Nodo non facile da approcciare, quello dei rapporti tra impresa e mercato è esaminato da Andrea Paggetta con il suo lavoro di tesi “L’uomo saggio impara dai suoi errori, quello più saggio dagli errori degli altri. Le strategie di Netflix, Stadia e Spotify nel mercato dei beni digitali” discusso recentemente nell’ambito del Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.
Paggetta scrive: “La teoria del first mover advantage sostiene che un’impresa che riesce ad entrare per prima in un segmento di mercato, attuando determinati comportamenti strategici, ottiene un vantaggio competitivo. Diverse organizzazioni sono riuscite a conseguire questo tipo di vantaggio, ma ciò non implica che non ci siano dei punti a sfavore o strategie migliori e più efficaci”. È da questa affermazione che inizia il lavoro di ricerca. L’autore spiega come si possa anche “decidere di entrare in un mercato in cui una o più imprese sono già stabilite, decidendo di copiare, in tutto o in parte, la strategia dell’organizzazione migliore”. Oppure ancora, come si possa “carpire un nuovo bisogno all’interno del mercato e decidere di aspettare che sia un’altra organizzazione a fare la prima mossa, perché magari non si hanno i fondi per investire nella ricerca e sviluppo, necessari per creare un prodotto adatto alle esigenze dei consumatori”. Ed è meglio in altri casi “semplicemente aspettare e studiare il comportamento dell’organizzazione first mover per evitare di commettere i suoi stessi errori”. Casi vari di comportamento imprenditoriale che hanno dietro approcci di organizzazione della prodizione e di visione de mercati diversi. Paggetta quindi cerca di dimostrare che non sempre per ottenere un vantaggio competitivo sia sufficiente essere la prima impresa ad entrare in un mercato, così come non è sempre vantaggioso copiare il modello dell’impresa migliore di un determinato settore. Accanto alla teoria, l’autore per far comprendere meglio il tema pone i casi di Netflix, Stadia e Spotify.
L’indicazione finale è chiara. Occorre essere unici per quello che si è. E quindi, prima di intraprendere una decisione strategica, cercare di comprendere quali siano le variabili che possono influenzare un’impresa dal punto di vista della sua struttura e della sua organizzazione. L’avveduta cultura del produrre, quindi, risulta essere sempre il modo migliore per condursi efficacemente nei mercati.
L’uomo saggio impara dai suoi errori, quello più saggio dagli errori degli altri. Le strategie di Netflix, Stadia e Spotify nel mercato dei beni digitali
Andrea Paggetta
Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2020
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Una seria lotta alla povertà, oltre l’emergenza, significa creare lavoro, soprattutto per le donne
La parola chiave, per cercare di costruire un futuro più equilibrato, è sempre “sostenibilità”. Quella ambientale, naturalmente (dobbiamo lasciare non solo una moneta migliore, ma soprattutto un mondo migliore, per usare l’efficace sintesi di Mario Draghi, capace banchiere e adesso per fortuna presidente del Consiglio). Ma anche quella sociale. E di genere. La pandemia e la recessione hanno aggravato una situazione economica che già risentiva pesantemente della Grande Crisi finanziaria del 2008 e del mancato “cambio di paradigma” dello sviluppo economico (una migliore governance della globalizzazione, un’economia meno distorta nello svantaggio dei ceti deboli, una diversa qualità della crescita). E oggi i dati ci rivelano con drammatica evidenza l’aumento della condizione di povertà, che tocca soprattutto i lavoratori precari, le donne, le giovani generazioni e i bambini, di cui viene compromessa la possibilità di costruire un futuro equo (rompendo ancora una volta il patto generazionale e tradendo le indicazioni della Costituzione). “5 milioni di precari scomparsi”, aveva notato il Censis nel suo Rapporto annuale del dicembre scorso, calcolando i posti di lavoro cancellati dalla pandemia e notando l’incremento allarmante del disagio sociale, ma anche del rancore e della frustrazione in chi si ritrova ai margini della società, per impoverimento progressivo e crollo della fiducia e delle speranze.
E’ una riflessione obbligata, per tutto il mondo politico e per gli attori sociali, proprio nel momento in cui, con i fondi del Recovery Plan Next Generation Ue e con le altre risorse pubbliche derivate dalla sospensione del Patto di Stabilità e dalle garanzie della Bce sui titoli pubblici l’Italia ha a disposizione risorse molto abbondanti per investire sia sui provvedimenti d’emergenza sia sui progetti di lungo periodo per green economy e digital economy sia, ancora, sulle riforme necessarie per ammodernare finalmente il Paese e rafforzare la formazione dei giovani, la ricerca, l’innovazione economica e sociale. Soldi in gran parte a debito, è necessario ricordare: da restituire, quindi, riavviando una macchina economica e sociale bloccata da più di vent’anni e garantendo una robusta crescita economica.
La lotta alla povertà, infatti, ha nella crescita equilibrata e sostenibile la sua molla fondamentale. Il lavoro, dunque, con una maggiore partecipazione, quantitativa e qualitativa, delle donne. La scuola e l’università, per un capitale umano qualificato. La valorizzazione dell’ambiente e della qualità della vita. I beni pubblici, a cominciare da salute e istruzione. Con una robusta convergenza tra investimenti pubblici e investimenti privati.
“Abolire la miseria” era il titolo di un saggio, di grande impatto, scritto nel 1945 da Ernesto Rossi, uno dei più attivi intellettuali italiani dell’epoca, liberale con solidi valori sociali, “grande firma” de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e autore, con Artiero Spinelli ed Eugenio Colorni, del “Manifesto di Ventotene” che fu di grande ispirazione per la nascita dell’Europa Unita. Gli strumenti indicati erano, appunto, gli investimenti per la scuola, la sanità, le case popolari e un sistema di welfare, tra assistenza e previdenza, in grado di compensare gli squilibri sociali dei cicli economici. Era l’Italia in cui, nel 1946, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi sosteneva che “il nostro primo dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. La stagione degli aiuti del Piano Marshall ben impiegati, tra assistenza e investimenti per l’industria e il lavoro. E dell’intesa tra il presidente di Confindustria Angelo Costa e il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio sull’impegno comune così sintetizzato: “Prima le fabbriche, poi le case”, priorità al lavoro per recuperare risorse per tutti gli investimenti sociali.
Da lì, da quella intelligenza strategica sullo sviluppo, pur tra diversità, divergenze e aspri conflitti politici e sociali, sono nati la Ricostruzione, il boom economico, il rafforzamento dei diritti sociali e civili, una lunga stagione di benessere diffuso.
Oggi, in un contesto nazionale e internazionale radicalmente mutato, bisogna ripartire dalla condivisa assunzione di responsabilità per la ripresa. Con un’idea chiara: il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze, sociali, di genere e generazionali, non ha bisogno di slogan da piazze, spiagge, balconi e vocianti schermi Tv e digitali ma di buona e lungimirante politica. E di una sintesi tra misure d’emergenza e scelte d’investimento con lo sguardo lungo e ambizioso del riformismo. Il governo Draghi, sinora, si sta muovendo su questa strada.
Guardiamo bene i dati, allora. “Un milione di italiani piomba nella povertà. E’ allarme per il Nord”, scrive “La Stampa” (5 marzo). “Un milione di poveri in più nonostante la diga dei sussidi”, titola il “Corriere della Sera”. L’indice Istat della povertà assoluta è salito al 9,4% (la soglia è data dalla spesa minima indispensabile per cibo, casa e difesa dal freddo), il che vuol dire che 5,6 milioni di italiani non sono in grado nemmeno di mangiare decentemente (e infatti aumentano le file alla Caritas e negli altri centri di sostegno pubblici e privati per avere almeno un pasto). Tra loro, i minorenni sono 1 milione 346mila, 209mila in più dell’anno precedente.
Le famiglie crollate in povertà assoluta sono aumentate di 209mila unità nel Nord, di 53mila nel Centro e di 186mila nel Sud. Detti così, sono numeri, nell’aridità impietosa delle statistiche. A pensarci bene, sono persone in grandi difficoltà, uomini, donne, ragazzi umiliati e offesi, volti sofferenti, vite ferite dal degrado. Tante. Troppe. Che incontriamo per strada. Che chiedono una risposta, un intervento, una prospettiva che vadano molto oltre il gesto di carità e di solidarietà, la piccola momentanea scelta di assistenza.
Tra i 7 e i 9 milioni sono le persone “in povertà relativa”, che faticano ad arrivare alla fine del mese.
“Il welfare non raggiunge chi soffre e le nostre città si sono sfaldate”, commenta il sociologo Aldo Bonomi, aggiungendo che “con la retorica non si mangia” e che dunque bisogna intervenire rapidamente con riforme dei meccanismi del welfare e degli ammortizzatori sociali: “La cassa integrazione non può più essere solo o prevalentemente operaia: ci sono i precari, le colf, gli autonomi, le partite Iva, i creativi che vivono delle reti urbane ora sfaldate. E c’è bisogno di una medicina e di un welfare territoriale per ricostruire le comunità con figure pubbliche che colgano i segnali, intercettino i bisogni e intervengano”.
Il reddito di cittadinanza, con tutte le sue distorsioni, e il reddito di emergenza hanno alleviato le conseguenze più dure della caduta dei salari e della perdita del lavoro, soprattutto nel Sud. Ma la sfida, adesso, è di creare lavoro e occupare quei posti ancora liberi nelle imprese che sono ripartite ma non trovano persone formate da assumere. Riformare i centri del lavoro e dell’Anpal. Aumentare radicalmente la partecipazione femminile all’occupazione. Legare la formazione, non solo scolastica, ma nel corso di tutta la vita lavorativa, al cambio degli scenari economici e sociali. Considerare l’ambiente come una risorsa da valorizzare.
Ecco un altro punto chiave, nella lotta alla povertà. Il ruolo delle donne. Sotto il titolo “Il lavoro perduto delle donne”, proprio l’8 marzo “la Repubblica ha documentato come la crisi accelerata dalla pandemia abbia provocato la perdita di oltre 300mila posti, di fronte a 100 mila uomini. Sono stati colpiti, infatti, soprattutto i servizi, a prevalente mano d’opera femminile. Il tasso di occupazione è sceso a quota 48,6% (quello degli uomini è del 67,5) e il tasso di inattività (tra i 15 e i 64 anni) è salito al 45,9%, rispetto al 26,3% degli uomini. Un grandissimo capitale umano inattivo. Un mancato aumento del Pil pari a circa 88 miliardi di euro, secondo i calcoli di Eurostat. Ma anche un aggravarsi degli squilibri personali, familiari, sociali.
Dunque, è indispensabile riavviare l’economia e accelerare le riforme. Mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, scuola e servizi. La lotta alla povertà coincide, in gran parte, al di là dell’assistenza d’emergenza, con un nuovo e migliore ciclo dello sviluppo.






La parola chiave, per cercare di costruire un futuro più equilibrato, è sempre “sostenibilità”. Quella ambientale, naturalmente (dobbiamo lasciare non solo una moneta migliore, ma soprattutto un mondo migliore, per usare l’efficace sintesi di Mario Draghi, capace banchiere e adesso per fortuna presidente del Consiglio). Ma anche quella sociale. E di genere. La pandemia e la recessione hanno aggravato una situazione economica che già risentiva pesantemente della Grande Crisi finanziaria del 2008 e del mancato “cambio di paradigma” dello sviluppo economico (una migliore governance della globalizzazione, un’economia meno distorta nello svantaggio dei ceti deboli, una diversa qualità della crescita). E oggi i dati ci rivelano con drammatica evidenza l’aumento della condizione di povertà, che tocca soprattutto i lavoratori precari, le donne, le giovani generazioni e i bambini, di cui viene compromessa la possibilità di costruire un futuro equo (rompendo ancora una volta il patto generazionale e tradendo le indicazioni della Costituzione). “5 milioni di precari scomparsi”, aveva notato il Censis nel suo Rapporto annuale del dicembre scorso, calcolando i posti di lavoro cancellati dalla pandemia e notando l’incremento allarmante del disagio sociale, ma anche del rancore e della frustrazione in chi si ritrova ai margini della società, per impoverimento progressivo e crollo della fiducia e delle speranze.
E’ una riflessione obbligata, per tutto il mondo politico e per gli attori sociali, proprio nel momento in cui, con i fondi del Recovery Plan Next Generation Ue e con le altre risorse pubbliche derivate dalla sospensione del Patto di Stabilità e dalle garanzie della Bce sui titoli pubblici l’Italia ha a disposizione risorse molto abbondanti per investire sia sui provvedimenti d’emergenza sia sui progetti di lungo periodo per green economy e digital economy sia, ancora, sulle riforme necessarie per ammodernare finalmente il Paese e rafforzare la formazione dei giovani, la ricerca, l’innovazione economica e sociale. Soldi in gran parte a debito, è necessario ricordare: da restituire, quindi, riavviando una macchina economica e sociale bloccata da più di vent’anni e garantendo una robusta crescita economica.
La lotta alla povertà, infatti, ha nella crescita equilibrata e sostenibile la sua molla fondamentale. Il lavoro, dunque, con una maggiore partecipazione, quantitativa e qualitativa, delle donne. La scuola e l’università, per un capitale umano qualificato. La valorizzazione dell’ambiente e della qualità della vita. I beni pubblici, a cominciare da salute e istruzione. Con una robusta convergenza tra investimenti pubblici e investimenti privati.
“Abolire la miseria” era il titolo di un saggio, di grande impatto, scritto nel 1945 da Ernesto Rossi, uno dei più attivi intellettuali italiani dell’epoca, liberale con solidi valori sociali, “grande firma” de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e autore, con Artiero Spinelli ed Eugenio Colorni, del “Manifesto di Ventotene” che fu di grande ispirazione per la nascita dell’Europa Unita. Gli strumenti indicati erano, appunto, gli investimenti per la scuola, la sanità, le case popolari e un sistema di welfare, tra assistenza e previdenza, in grado di compensare gli squilibri sociali dei cicli economici. Era l’Italia in cui, nel 1946, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi sosteneva che “il nostro primo dovere è di batterci con tutte le nostre forze per la solidarietà e la ricostruzione nazionale”. La stagione degli aiuti del Piano Marshall ben impiegati, tra assistenza e investimenti per l’industria e il lavoro. E dell’intesa tra il presidente di Confindustria Angelo Costa e il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio sull’impegno comune così sintetizzato: “Prima le fabbriche, poi le case”, priorità al lavoro per recuperare risorse per tutti gli investimenti sociali.
Da lì, da quella intelligenza strategica sullo sviluppo, pur tra diversità, divergenze e aspri conflitti politici e sociali, sono nati la Ricostruzione, il boom economico, il rafforzamento dei diritti sociali e civili, una lunga stagione di benessere diffuso.
Oggi, in un contesto nazionale e internazionale radicalmente mutato, bisogna ripartire dalla condivisa assunzione di responsabilità per la ripresa. Con un’idea chiara: il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze, sociali, di genere e generazionali, non ha bisogno di slogan da piazze, spiagge, balconi e vocianti schermi Tv e digitali ma di buona e lungimirante politica. E di una sintesi tra misure d’emergenza e scelte d’investimento con lo sguardo lungo e ambizioso del riformismo. Il governo Draghi, sinora, si sta muovendo su questa strada.
Guardiamo bene i dati, allora. “Un milione di italiani piomba nella povertà. E’ allarme per il Nord”, scrive “La Stampa” (5 marzo). “Un milione di poveri in più nonostante la diga dei sussidi”, titola il “Corriere della Sera”. L’indice Istat della povertà assoluta è salito al 9,4% (la soglia è data dalla spesa minima indispensabile per cibo, casa e difesa dal freddo), il che vuol dire che 5,6 milioni di italiani non sono in grado nemmeno di mangiare decentemente (e infatti aumentano le file alla Caritas e negli altri centri di sostegno pubblici e privati per avere almeno un pasto). Tra loro, i minorenni sono 1 milione 346mila, 209mila in più dell’anno precedente.
Le famiglie crollate in povertà assoluta sono aumentate di 209mila unità nel Nord, di 53mila nel Centro e di 186mila nel Sud. Detti così, sono numeri, nell’aridità impietosa delle statistiche. A pensarci bene, sono persone in grandi difficoltà, uomini, donne, ragazzi umiliati e offesi, volti sofferenti, vite ferite dal degrado. Tante. Troppe. Che incontriamo per strada. Che chiedono una risposta, un intervento, una prospettiva che vadano molto oltre il gesto di carità e di solidarietà, la piccola momentanea scelta di assistenza.
Tra i 7 e i 9 milioni sono le persone “in povertà relativa”, che faticano ad arrivare alla fine del mese.
“Il welfare non raggiunge chi soffre e le nostre città si sono sfaldate”, commenta il sociologo Aldo Bonomi, aggiungendo che “con la retorica non si mangia” e che dunque bisogna intervenire rapidamente con riforme dei meccanismi del welfare e degli ammortizzatori sociali: “La cassa integrazione non può più essere solo o prevalentemente operaia: ci sono i precari, le colf, gli autonomi, le partite Iva, i creativi che vivono delle reti urbane ora sfaldate. E c’è bisogno di una medicina e di un welfare territoriale per ricostruire le comunità con figure pubbliche che colgano i segnali, intercettino i bisogni e intervengano”.
Il reddito di cittadinanza, con tutte le sue distorsioni, e il reddito di emergenza hanno alleviato le conseguenze più dure della caduta dei salari e della perdita del lavoro, soprattutto nel Sud. Ma la sfida, adesso, è di creare lavoro e occupare quei posti ancora liberi nelle imprese che sono ripartite ma non trovano persone formate da assumere. Riformare i centri del lavoro e dell’Anpal. Aumentare radicalmente la partecipazione femminile all’occupazione. Legare la formazione, non solo scolastica, ma nel corso di tutta la vita lavorativa, al cambio degli scenari economici e sociali. Considerare l’ambiente come una risorsa da valorizzare.
Ecco un altro punto chiave, nella lotta alla povertà. Il ruolo delle donne. Sotto il titolo “Il lavoro perduto delle donne”, proprio l’8 marzo “la Repubblica ha documentato come la crisi accelerata dalla pandemia abbia provocato la perdita di oltre 300mila posti, di fronte a 100 mila uomini. Sono stati colpiti, infatti, soprattutto i servizi, a prevalente mano d’opera femminile. Il tasso di occupazione è sceso a quota 48,6% (quello degli uomini è del 67,5) e il tasso di inattività (tra i 15 e i 64 anni) è salito al 45,9%, rispetto al 26,3% degli uomini. Un grandissimo capitale umano inattivo. Un mancato aumento del Pil pari a circa 88 miliardi di euro, secondo i calcoli di Eurostat. Ma anche un aggravarsi degli squilibri personali, familiari, sociali.
Dunque, è indispensabile riavviare l’economia e accelerare le riforme. Mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, scuola e servizi. La lotta alla povertà coincide, in gran parte, al di là dell’assistenza d’emergenza, con un nuovo e migliore ciclo dello sviluppo.
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Girolamo Bombelli, sulle tracce di una collaborazione nel segno della fotografia industriale
Si è recentemente si è conclusa a San Pietroburgo la mostra dal titolo “L’Italia s’industria 1920-1960“, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura della città e dall’ICCD, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. La mostra, curata da Francesca Fabiani, ha raccontato lo sviluppo industriale italiano dagli anni Venti al 1960 attraverso gli scatti di Girolamo Bombelli e, come spiega la curatrice, “Le fotografie del fondo Bombelli restituiscono l’immagine di un’Italia operosa, alle prese con le prime esperienze di imprenditoria su larga scala che videro l’affermarsi di alcuni “brand” diventati poi leggendari: la Martini & Rossi, la Pirelli, la Bassetti e molti altri”. Nei primi anni Venti la Pirelli era per la verità un’impresa multinazionale già più che affermata che celebrava, nel 1922, i 50 anni di attività.
E proprio alle celebrazioni del cinquantenario è legata gran parte dell’attività svolta da Bombelli per la Pirelli. Un primo studio sulle sue fotografie di soggetto industriale da parte di Valeria Bianconi – sfociato nella tesi di laurea dal titolo “Un esempio concreto di fotografia industriale in Italia: la Pirelli nel suo insediamento Bicocca nel fondo Bombelli-Cattaneo dell’ICCD” – ha consentito di attribuire al fotografo una serie di scatti conservati presso il nostro Archivio Storico. Si tratta di un corpus di fotografie raccolto nel 1922: due album a fogli sciolti dedicati agli stabilimenti e alle produzioni, e due album dedicati alle piantagioni di alberi da caucciù che la Pirelli possedeva in Indonesia. I due album dal titolo “Gli stabilimenti della società Pirelli nel 1922” rappresentano, attraverso stampe fotografiche 18 x 24 cm incollate su cartoncino, alcune vedute esterne e di reparto dei due stabilimenti Pirelli di Milano (via Ponte Seveso e Bicocca) per la produzione di articoli vari, pneumatici e cavi. Un’ultima sezione è dedicata ai “servizi” (magazzino spedizioni, pompieri, infermeria, ecc.). Le fotografie riportano una didascalia sul cartoncino relativa al soggetto ritratto e alcune di queste immagini sono state rintracciate anche nell’archivio del fotografo Spartaco Zampi di Udine, che ha lavorato a Milano tra il 1916 e il 1918.
Purtroppo poco si sa del rapporto di Girolamo Bombelli con la Pirelli. Nato a Milano nel 1882, la sua attività è strettamente legata a quella dello stabilimento grafico Alfieri & Lacroix, fondato nel 1890 da Emilio Alfieri ed Edoardo Lacroix, dal dopoguerra una delle maggiori industrie tipografiche in Italia. Presumibilmente in questo periodo Bombelli apre il suo studio presso la sede della casa editrice e tipografia – come conferma il timbro sul verso di alcune fotografie conservate presso il nostro Archivio Storico, che reca l’indirizzo di via Mantegna n. 6 a Milano – fornendo il materiale fotografico per le pubblicazioni.
La Alfieri & Lacroix, che a partire dagli anni Dieci del Novecento cura la stampa di numerose pubblicazioni della Pirelli & C. (cataloghi, listini, cartoline e opuscoli sulla società), nel 1922 si occupa anche della stampa del volume giubilare “Pirelli & C. nel suo cinquantenario”, che si inserisce tra le iniziative per le celebrazioni, e in cui sono pubblicate alcune fotografie di Bombelli. Il fotografo continua a collaborare con Pirelli nel corso degli anni Venti e Trenta, scattando reportage di interni ed esterni di stabilimenti, filiali e negozi. Immagini che restituiscono la memoria dell’impresa, dei suoi prodotti e del lavoro industriale moderno, rappresentazioni emblematiche del progresso.






Si è recentemente si è conclusa a San Pietroburgo la mostra dal titolo “L’Italia s’industria 1920-1960“, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura della città e dall’ICCD, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. La mostra, curata da Francesca Fabiani, ha raccontato lo sviluppo industriale italiano dagli anni Venti al 1960 attraverso gli scatti di Girolamo Bombelli e, come spiega la curatrice, “Le fotografie del fondo Bombelli restituiscono l’immagine di un’Italia operosa, alle prese con le prime esperienze di imprenditoria su larga scala che videro l’affermarsi di alcuni “brand” diventati poi leggendari: la Martini & Rossi, la Pirelli, la Bassetti e molti altri”. Nei primi anni Venti la Pirelli era per la verità un’impresa multinazionale già più che affermata che celebrava, nel 1922, i 50 anni di attività.
E proprio alle celebrazioni del cinquantenario è legata gran parte dell’attività svolta da Bombelli per la Pirelli. Un primo studio sulle sue fotografie di soggetto industriale da parte di Valeria Bianconi – sfociato nella tesi di laurea dal titolo “Un esempio concreto di fotografia industriale in Italia: la Pirelli nel suo insediamento Bicocca nel fondo Bombelli-Cattaneo dell’ICCD” – ha consentito di attribuire al fotografo una serie di scatti conservati presso il nostro Archivio Storico. Si tratta di un corpus di fotografie raccolto nel 1922: due album a fogli sciolti dedicati agli stabilimenti e alle produzioni, e due album dedicati alle piantagioni di alberi da caucciù che la Pirelli possedeva in Indonesia. I due album dal titolo “Gli stabilimenti della società Pirelli nel 1922” rappresentano, attraverso stampe fotografiche 18 x 24 cm incollate su cartoncino, alcune vedute esterne e di reparto dei due stabilimenti Pirelli di Milano (via Ponte Seveso e Bicocca) per la produzione di articoli vari, pneumatici e cavi. Un’ultima sezione è dedicata ai “servizi” (magazzino spedizioni, pompieri, infermeria, ecc.). Le fotografie riportano una didascalia sul cartoncino relativa al soggetto ritratto e alcune di queste immagini sono state rintracciate anche nell’archivio del fotografo Spartaco Zampi di Udine, che ha lavorato a Milano tra il 1916 e il 1918.
Purtroppo poco si sa del rapporto di Girolamo Bombelli con la Pirelli. Nato a Milano nel 1882, la sua attività è strettamente legata a quella dello stabilimento grafico Alfieri & Lacroix, fondato nel 1890 da Emilio Alfieri ed Edoardo Lacroix, dal dopoguerra una delle maggiori industrie tipografiche in Italia. Presumibilmente in questo periodo Bombelli apre il suo studio presso la sede della casa editrice e tipografia – come conferma il timbro sul verso di alcune fotografie conservate presso il nostro Archivio Storico, che reca l’indirizzo di via Mantegna n. 6 a Milano – fornendo il materiale fotografico per le pubblicazioni.
La Alfieri & Lacroix, che a partire dagli anni Dieci del Novecento cura la stampa di numerose pubblicazioni della Pirelli & C. (cataloghi, listini, cartoline e opuscoli sulla società), nel 1922 si occupa anche della stampa del volume giubilare “Pirelli & C. nel suo cinquantenario”, che si inserisce tra le iniziative per le celebrazioni, e in cui sono pubblicate alcune fotografie di Bombelli. Il fotografo continua a collaborare con Pirelli nel corso degli anni Venti e Trenta, scattando reportage di interni ed esterni di stabilimenti, filiali e negozi. Immagini che restituiscono la memoria dell’impresa, dei suoi prodotti e del lavoro industriale moderno, rappresentazioni emblematiche del progresso.
Capitalismo tra spirito e cultura
Un articolo di I. Iannuzzi (Sapienza), ragiona in modo attento attorno ad uno dei concetti che aiutano a comprendere meglio cosa fa funzionare le imprese
“Spirito del capitalismo”. E quindi natura dell’agire d’impresa e dell’imprenditore. Fino ad arrivare all’etica dell’impresa stessa e al significato vero di profitto. Concetti non nuovi per chi studia la storia e il succo dell’ordinamento dell’economia forse più diffuso. Concetti che, spesso, si confondono fino a perdere quasi i loro tratti essenziali e originali. E’ proprio per una sorta di recupero delle origini he vale leggere “Lo spirito del capitalismo. Un concetto ancora attuale? Spunti di riflessione a partire dall’analisi di Werner Sombart”, intervento di Ilaria Iannuzzi (del Dipartimento di Scienze Politiche, Sapienza Università di Roma), apparso da qualche settimana in imagojournal.it.
Obiettivo della ricerca è quello di condividere, come spiega lo stesso autore alcune riflessioni che “ruotano intorno al concetto di ‘spirito del capitalismo’, alla sua utilità e alla sua attualità nel panorama sociale contemporaneo”. Tutto partendo da quanto fissato dal sociologo tedesco Werner Sombart che tra i primi ha messo a punto il concetto di “spirito del capitalismo”.
L’autrice, quindi, ragiona prima attorno a quanto elaborato da Sombart (sottolineando tra l’altro come il concetto di spirito si avvicini a quello di cultura del capitalismo), per passare all’attuale “spirito del capitalismo” che viene confrontato con il passato e del quale vengono messi a fuoco particolari aspetti (come quello relativo al profitto).
“La dimensione spirituale, seppur in maniera differente, sembra continuare a possedere un ruolo rilevante per quanto concerne l’esistenza e lo sviluppo della sfera economica capitalistica”, scrive quindi nelle sue conclusioni Ilaria Iannuzzi che tuttavia aggiunge: “Resta da indagare, però, in che termini ciò significhi un reale recupero dell’elemento spirituale o, al contrario, non implichi, piuttosto, un suo utilizzo perlopiù strumentale”.
L’intervento di Iannuzzi affronta un tema difficile, ma lo fa con un linguaggio piano e comprensibile pur nelle asperità concettuali che deve superare. Da leggere.
Lo spirito del capitalismo. Un concetto ancora attuale? Spunti di riflessione a partire dall’analisi di Werner Sombart
Number 16 – Year IX / December 2020
www.imagojournal.it
Un articolo di I. Iannuzzi (Sapienza), ragiona in modo attento attorno ad uno dei concetti che aiutano a comprendere meglio cosa fa funzionare le imprese
“Spirito del capitalismo”. E quindi natura dell’agire d’impresa e dell’imprenditore. Fino ad arrivare all’etica dell’impresa stessa e al significato vero di profitto. Concetti non nuovi per chi studia la storia e il succo dell’ordinamento dell’economia forse più diffuso. Concetti che, spesso, si confondono fino a perdere quasi i loro tratti essenziali e originali. E’ proprio per una sorta di recupero delle origini he vale leggere “Lo spirito del capitalismo. Un concetto ancora attuale? Spunti di riflessione a partire dall’analisi di Werner Sombart”, intervento di Ilaria Iannuzzi (del Dipartimento di Scienze Politiche, Sapienza Università di Roma), apparso da qualche settimana in imagojournal.it.
Obiettivo della ricerca è quello di condividere, come spiega lo stesso autore alcune riflessioni che “ruotano intorno al concetto di ‘spirito del capitalismo’, alla sua utilità e alla sua attualità nel panorama sociale contemporaneo”. Tutto partendo da quanto fissato dal sociologo tedesco Werner Sombart che tra i primi ha messo a punto il concetto di “spirito del capitalismo”.
L’autrice, quindi, ragiona prima attorno a quanto elaborato da Sombart (sottolineando tra l’altro come il concetto di spirito si avvicini a quello di cultura del capitalismo), per passare all’attuale “spirito del capitalismo” che viene confrontato con il passato e del quale vengono messi a fuoco particolari aspetti (come quello relativo al profitto).
“La dimensione spirituale, seppur in maniera differente, sembra continuare a possedere un ruolo rilevante per quanto concerne l’esistenza e lo sviluppo della sfera economica capitalistica”, scrive quindi nelle sue conclusioni Ilaria Iannuzzi che tuttavia aggiunge: “Resta da indagare, però, in che termini ciò significhi un reale recupero dell’elemento spirituale o, al contrario, non implichi, piuttosto, un suo utilizzo perlopiù strumentale”.
L’intervento di Iannuzzi affronta un tema difficile, ma lo fa con un linguaggio piano e comprensibile pur nelle asperità concettuali che deve superare. Da leggere.
Lo spirito del capitalismo. Un concetto ancora attuale? Spunti di riflessione a partire dall’analisi di Werner Sombart
Number 16 – Year IX / December 2020
www.imagojournal.it
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Governare la “sostenibilità
Un libro appena pubblicato fa luce sul complesso tema dei fattori ESG
Imprese “sostenibile” e impresa “efficiente”. Binomio non impossibile e, anzi, sempre più realizzabile. A patto che gestione e organizzazione siano attentamente costruite e condotte. E’ attorno a questi temi che ragiona Rita Rolli (ordinario di diritto privato nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna oltre che avvocato), nel suo “L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità”.
La prospettiva del libro è quella di cogliere da una visuale concreta la tensione alla sostenibilità presente nelle imprese e oggi ricondotta all’ormai celebre acronimo ESG (Environmental, Social & Governance). Compito non facile, quello che si è posto l’autrice. Soprattutto perché attorno a questo acronimo ruotano concetti e strumenti operativi ormai interdisciplinari che vanno padroneggiati e che orientano scelte e strategie non solo della grande impresa sotto forma di società per azioni, ma anche della finanza e, entro certi limiti, anche delle realtà produttive più piccole. Tutto, deve poi essere declinato in una cornice che non è solo manageriale e organizzativa, ma anche giuridica secondo l’ordinamento europeo e nazionale e che tocca diversi aspetti legislativi per arrivare addirittura ai grandi temi della tutela dell’ambiente e della attenzione ai risvolti sociali dell’azione d’impresa.
Rolli affronta tutto partendo dall’impatto dei fattori ESG sulla governance
e sulla responsabilità dell’impresa, per passare quindi ad approfondire prima gli aspetti legali e poi quelli organizzativi, e per arrivare poi a toccare il delicato tema delle responsabilità degli amministratori.
Tutto viene affrontato con un linguaggio non sempre facilissimo, dovuto però alla difficoltà e alla complessità del tema.
Dalle pagine di Rita Rolli emergono due aspetti. Da un lato, nuove questioni giuridiche che paiono irradiare di luce nuova istituti tradizionali e suggerire una visione comune tesa a sfumare la contrapposizione tra interessi particolari e interessi generali. Dall’altro, un aspetto particolare e non sufficientemente noto di quella buona cultura d’impresa che sempre di più pare diffondersi in una porzione importante del tessuto industriale italiano.
L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità
Rita Rolli
il Mulino, 2021






Un libro appena pubblicato fa luce sul complesso tema dei fattori ESG
Imprese “sostenibile” e impresa “efficiente”. Binomio non impossibile e, anzi, sempre più realizzabile. A patto che gestione e organizzazione siano attentamente costruite e condotte. E’ attorno a questi temi che ragiona Rita Rolli (ordinario di diritto privato nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna oltre che avvocato), nel suo “L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità”.
La prospettiva del libro è quella di cogliere da una visuale concreta la tensione alla sostenibilità presente nelle imprese e oggi ricondotta all’ormai celebre acronimo ESG (Environmental, Social & Governance). Compito non facile, quello che si è posto l’autrice. Soprattutto perché attorno a questo acronimo ruotano concetti e strumenti operativi ormai interdisciplinari che vanno padroneggiati e che orientano scelte e strategie non solo della grande impresa sotto forma di società per azioni, ma anche della finanza e, entro certi limiti, anche delle realtà produttive più piccole. Tutto, deve poi essere declinato in una cornice che non è solo manageriale e organizzativa, ma anche giuridica secondo l’ordinamento europeo e nazionale e che tocca diversi aspetti legislativi per arrivare addirittura ai grandi temi della tutela dell’ambiente e della attenzione ai risvolti sociali dell’azione d’impresa.
Rolli affronta tutto partendo dall’impatto dei fattori ESG sulla governance
e sulla responsabilità dell’impresa, per passare quindi ad approfondire prima gli aspetti legali e poi quelli organizzativi, e per arrivare poi a toccare il delicato tema delle responsabilità degli amministratori.
Tutto viene affrontato con un linguaggio non sempre facilissimo, dovuto però alla difficoltà e alla complessità del tema.
Dalle pagine di Rita Rolli emergono due aspetti. Da un lato, nuove questioni giuridiche che paiono irradiare di luce nuova istituti tradizionali e suggerire una visione comune tesa a sfumare la contrapposizione tra interessi particolari e interessi generali. Dall’altro, un aspetto particolare e non sufficientemente noto di quella buona cultura d’impresa che sempre di più pare diffondersi in una porzione importante del tessuto industriale italiano.
L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità
Rita Rolli
il Mulino, 2021
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Milano e i motori della ripresa: industria e cultura, università e inclusione sociale
C’è la “Milano in 15 minuti”, la riscoperta dei quartieri, il piacere delle relazioni di prossimità nei piccoli supermercati e nelle botteghe rivalutate e rimodernate, i dialoghi nelle piccole librerie e gli incontri negli spazi di comunità, nei dintorni di piazze tornate a vivere: la versione ambrosiana, tanto cara al sindaco Beppe Sala, dell’affascinante idea lanciata per Parigi dalla fantasiosa sindaco Anne Hidalgo. Ma non può non esserci anche il rilancio della “Milano in un’ora”, con i movimenti di una metropoli di flussi e relazioni, un’ora di treno ad alta velocità con Torino, Bologna, Verona e, si spera presto, anche Genova, un’ora o poco più di aereo per tenere i rapporti con Francoforte e Monaco, Parigi, Londra e Barcellona. E, perché no?, un’ora al massimo di auto per il commuting con le piccole città, i paesi di provincia, i borghi in cui, nell’era post Covid19 che nonostante tutto si prepara, andranno a vivere giovani coppie con figli e young professionals, affascinati dalle possibilità e dalle libertà dello smart working, metà del tempo nella metropoli dinamica e creativa, l’altra metà tra il verde e le piazze antiche di una provincia bella, ricca e colta.
Mentre siamo ancora alle prese con l’alto numero dei contagi, con la paura dell’aggravarsi della malattia e della morte, con la penuria dei vaccini e la pesantezza di una crisi economica e sociale che morde con ferocia intere fasce popolari fragili e precarie, Milano ha ricominciato a interrogarsi sul disegno delle mappe geo-economiche e concettuali del suo futuro prossimo. Senza arroganze da primazia (che avevano antipaticamente segnato la città del post Expo, con il compiacimento pur largamente fondato di essere the place to be, secondo la fortunata definizione di “The New York Times”). Semmai, con la consapevolezza crescente di dovere insistere sulle nuove e migliori condizioni del vivere e del lavorare, rilanciando i valori della sostenibilità ambientale e sociale. Ritrovando e ammodernando, cioè, l’anima storica di uno spazio vivace e civile, competitivo e inclusivo, intraprendente e solidale: Milano molteplice e sensibile, non rampante né rapace.
Da dove ripartire? “Dalla cultura” sostiene l’87,9% degli intervistati, “tra paura e speranze”, in una ricerca del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini (“Corriere della Sera”, 26 febbraio). Un’opinione così diffusa e radicata coglie bene un punto dell’identità metropolitana. La pandemia e il lungo lockdown hanno paralizzato le attività di teatri e musei, cinema e spazi musicali, circoli e centri culturali. Eppure, nonostante le chiusure e le pesanti conseguenze economiche, la Scala e l’Orchestra Verdi, il Piccolo Teatro e il Teatro Parenti, Brera e l’Ambrosiana e tutti gli altri luoghi in cui si produce cultura, compresi i musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, hanno tenuto in piedi parte le loro attività, producendo e rappresentando contenuti nelle forme del “digitale”, sperimentando nuovi linguaggi, tenendo comunque vivo, nonostante tutto, il dialogo con il pubblico. Sono entità vive, anche se ferite. E dunque pronte a ripartire. E la cultura milanese, una cultura aperta e “politecnica”, ha sempre legato le sue sorti con quella delle imprese, sia nella loro dimensione solidale del mecenatismo di sostegno sia in quella, ancora più pertinente, di attori culturali diretti, se la cultura è anche scienza, tecnologia, innovazione, relazioni, ricerca. E racconto.
Ecco un altro motore: la scienza che, proprio qui, si lega ai processi della salute e si afferma come life sciences di valore internazionale, radicandosi nelle università e nei luoghi della ricerca, a cominciare da MIND (Milan Innovation District) centrato sullo Human Technopole, proprio là dove sorgeva l’Expo e dove sono da tempo al lavoro ricercatori e tecnici arrivati da mezzo mondo. Una sinergia forte tra scienza, formazione e impresa, con percorsi molto avanzati lungo le strade delle nuove frontiere dell’Artificial Intelligence.
Il terzo motore: la formazione. Milano resta una grande città universitaria, con 200mila studenti (il 10% internazionali) in una decina di atenei che nel tempo hanno scalato posizioni di prestigio nelle classifiche delle migliori università del mondo. La pandemia ha bloccato i movimenti di studenti e professori. La didattica si è fatta a distanza. Il dinamismo delle conoscenze s’è rallentato. Ma questo patrimonio di conoscenze e competenze è ancora forte, prestigioso, pronto a fare del proprio meglio. E il rapporto tra atenei e imprese, anche in tempi difficili, non è stato compromesso.
Il quarto motore: direttamente le imprese, a cominciare dalla manifattura che, anche in un durissimo 2020 di blocchi, recessione, crisi, non ha perso il proprio posto nelle grandi catene delle forniture internazionali (lo conferma l’aumento dell’export del 3% nell’anno appena trascorso, media nazionale che proprio in Lombardia ha valori particolarmente elevati). Hanno molto sofferto le imprese terziarie, il turismo e il sistema delle fiere, i servizi alle persone, le attività commerciali e creative. E il Pil milanese ne ha risentito (-11%, più del -8,9% della media nazionale). Ma i dati di Assolombarda parlano di un rimbalzo del 5,3% nel 2021 e individuano nel 2023 l’anno della ripresa, oltre i valori del 2019, pre-pandemia, per intravvedere, prudentemente, nel 2025, un robusto aumento di produzione e occupazione.
C’è, a Milano, consapevolezza del peso della crisi, di una forte frattura che ha colpito larga parte dei ceti già disagiati e marginalizzati da anni di crescita economica diseguale, squilibrata (sono aumentati i poveri e le famiglie in difficoltà). E soprattutto grazie agli interventi di sostegno e sussidiarietà del cosiddetto “terzo settore” è stato possibile alleviare difficoltà di vita, reddito, assistenza.
Ma c’è anche, forte, la volontà di ripresa. Assolombarda e Milano&Partners (un’organizzazione voluta dal Comune, con il sostegno della Camera di Commercio e di parecchie imprese pubbliche e private), la scorsa settimana, hanno riunito a convegno studiosi, imprenditori, attori sociali, mettendo in evidenza i punti di crisi ancora taglienti e le opportunità di ripartenza. Una notazione positiva tra le tante: i grandi investimenti immobiliari internazionali progettati e avviati sino alla vigilia della pandemia sono tutti riconfermati. Segno evidente di una diffusa fiducia degli investitori nella ripresa.
Il Recovery Plan che finalmente il governo Draghi sta mettendo a punto, dopo troppo tempo sprecato in discussioni e vaghe promesse dal governo precedente, incrocia bene le attitudini di Milano: ambiente e innovazione, sostenibilità sociale e progetti ambiziosi per il lavoro delle nuove generazioni, economia digitale e formazione di ampio respiro, riforme per la produttività e la competitività. E nuovi e migliori ammortizzatori sociali e scelte di welfare per affrontare la transizione ecologica e digitale, green e blue (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), verso une economia di valore europeo più equilibrata, circolare, civile.
La sostenibilità, come asset di competitività e di migliore qualità della vita, è l’occasione giusta per Milano, non megalopoli squilibrata ma metropoli legata ai territori di riferimento, aperta e dialogante, contemporaneamente europea e mediterranea. Lo dice bene Aldo Bonomi, acuto studioso delle metamorfosi urbane e produttive (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio): “Milano ha come destino non la competizione per risalire la classifica delle città globali, ma l’essere rete di sistemi territoriali per competere innervati da distretti, medie imprese e piattaforme: deve chiedersi se essere capitale della megalopoli padana oppure città che si relaziona in orizzontale con le città intermedie in una logica di servizio, capace di esercitare una funzione larga, mediando tra Europa e Mediterraneo”. Ed è proprio in questa ricostruzione che il valore della prossimità delle piazze e dei quartieri e la robusta vocazione internazionale possono costruire originali sintesi. Per crescere meglio.






C’è la “Milano in 15 minuti”, la riscoperta dei quartieri, il piacere delle relazioni di prossimità nei piccoli supermercati e nelle botteghe rivalutate e rimodernate, i dialoghi nelle piccole librerie e gli incontri negli spazi di comunità, nei dintorni di piazze tornate a vivere: la versione ambrosiana, tanto cara al sindaco Beppe Sala, dell’affascinante idea lanciata per Parigi dalla fantasiosa sindaco Anne Hidalgo. Ma non può non esserci anche il rilancio della “Milano in un’ora”, con i movimenti di una metropoli di flussi e relazioni, un’ora di treno ad alta velocità con Torino, Bologna, Verona e, si spera presto, anche Genova, un’ora o poco più di aereo per tenere i rapporti con Francoforte e Monaco, Parigi, Londra e Barcellona. E, perché no?, un’ora al massimo di auto per il commuting con le piccole città, i paesi di provincia, i borghi in cui, nell’era post Covid19 che nonostante tutto si prepara, andranno a vivere giovani coppie con figli e young professionals, affascinati dalle possibilità e dalle libertà dello smart working, metà del tempo nella metropoli dinamica e creativa, l’altra metà tra il verde e le piazze antiche di una provincia bella, ricca e colta.
Mentre siamo ancora alle prese con l’alto numero dei contagi, con la paura dell’aggravarsi della malattia e della morte, con la penuria dei vaccini e la pesantezza di una crisi economica e sociale che morde con ferocia intere fasce popolari fragili e precarie, Milano ha ricominciato a interrogarsi sul disegno delle mappe geo-economiche e concettuali del suo futuro prossimo. Senza arroganze da primazia (che avevano antipaticamente segnato la città del post Expo, con il compiacimento pur largamente fondato di essere the place to be, secondo la fortunata definizione di “The New York Times”). Semmai, con la consapevolezza crescente di dovere insistere sulle nuove e migliori condizioni del vivere e del lavorare, rilanciando i valori della sostenibilità ambientale e sociale. Ritrovando e ammodernando, cioè, l’anima storica di uno spazio vivace e civile, competitivo e inclusivo, intraprendente e solidale: Milano molteplice e sensibile, non rampante né rapace.
Da dove ripartire? “Dalla cultura” sostiene l’87,9% degli intervistati, “tra paura e speranze”, in una ricerca del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini (“Corriere della Sera”, 26 febbraio). Un’opinione così diffusa e radicata coglie bene un punto dell’identità metropolitana. La pandemia e il lungo lockdown hanno paralizzato le attività di teatri e musei, cinema e spazi musicali, circoli e centri culturali. Eppure, nonostante le chiusure e le pesanti conseguenze economiche, la Scala e l’Orchestra Verdi, il Piccolo Teatro e il Teatro Parenti, Brera e l’Ambrosiana e tutti gli altri luoghi in cui si produce cultura, compresi i musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, hanno tenuto in piedi parte le loro attività, producendo e rappresentando contenuti nelle forme del “digitale”, sperimentando nuovi linguaggi, tenendo comunque vivo, nonostante tutto, il dialogo con il pubblico. Sono entità vive, anche se ferite. E dunque pronte a ripartire. E la cultura milanese, una cultura aperta e “politecnica”, ha sempre legato le sue sorti con quella delle imprese, sia nella loro dimensione solidale del mecenatismo di sostegno sia in quella, ancora più pertinente, di attori culturali diretti, se la cultura è anche scienza, tecnologia, innovazione, relazioni, ricerca. E racconto.
Ecco un altro motore: la scienza che, proprio qui, si lega ai processi della salute e si afferma come life sciences di valore internazionale, radicandosi nelle università e nei luoghi della ricerca, a cominciare da MIND (Milan Innovation District) centrato sullo Human Technopole, proprio là dove sorgeva l’Expo e dove sono da tempo al lavoro ricercatori e tecnici arrivati da mezzo mondo. Una sinergia forte tra scienza, formazione e impresa, con percorsi molto avanzati lungo le strade delle nuove frontiere dell’Artificial Intelligence.
Il terzo motore: la formazione. Milano resta una grande città universitaria, con 200mila studenti (il 10% internazionali) in una decina di atenei che nel tempo hanno scalato posizioni di prestigio nelle classifiche delle migliori università del mondo. La pandemia ha bloccato i movimenti di studenti e professori. La didattica si è fatta a distanza. Il dinamismo delle conoscenze s’è rallentato. Ma questo patrimonio di conoscenze e competenze è ancora forte, prestigioso, pronto a fare del proprio meglio. E il rapporto tra atenei e imprese, anche in tempi difficili, non è stato compromesso.
Il quarto motore: direttamente le imprese, a cominciare dalla manifattura che, anche in un durissimo 2020 di blocchi, recessione, crisi, non ha perso il proprio posto nelle grandi catene delle forniture internazionali (lo conferma l’aumento dell’export del 3% nell’anno appena trascorso, media nazionale che proprio in Lombardia ha valori particolarmente elevati). Hanno molto sofferto le imprese terziarie, il turismo e il sistema delle fiere, i servizi alle persone, le attività commerciali e creative. E il Pil milanese ne ha risentito (-11%, più del -8,9% della media nazionale). Ma i dati di Assolombarda parlano di un rimbalzo del 5,3% nel 2021 e individuano nel 2023 l’anno della ripresa, oltre i valori del 2019, pre-pandemia, per intravvedere, prudentemente, nel 2025, un robusto aumento di produzione e occupazione.
C’è, a Milano, consapevolezza del peso della crisi, di una forte frattura che ha colpito larga parte dei ceti già disagiati e marginalizzati da anni di crescita economica diseguale, squilibrata (sono aumentati i poveri e le famiglie in difficoltà). E soprattutto grazie agli interventi di sostegno e sussidiarietà del cosiddetto “terzo settore” è stato possibile alleviare difficoltà di vita, reddito, assistenza.
Ma c’è anche, forte, la volontà di ripresa. Assolombarda e Milano&Partners (un’organizzazione voluta dal Comune, con il sostegno della Camera di Commercio e di parecchie imprese pubbliche e private), la scorsa settimana, hanno riunito a convegno studiosi, imprenditori, attori sociali, mettendo in evidenza i punti di crisi ancora taglienti e le opportunità di ripartenza. Una notazione positiva tra le tante: i grandi investimenti immobiliari internazionali progettati e avviati sino alla vigilia della pandemia sono tutti riconfermati. Segno evidente di una diffusa fiducia degli investitori nella ripresa.
Il Recovery Plan che finalmente il governo Draghi sta mettendo a punto, dopo troppo tempo sprecato in discussioni e vaghe promesse dal governo precedente, incrocia bene le attitudini di Milano: ambiente e innovazione, sostenibilità sociale e progetti ambiziosi per il lavoro delle nuove generazioni, economia digitale e formazione di ampio respiro, riforme per la produttività e la competitività. E nuovi e migliori ammortizzatori sociali e scelte di welfare per affrontare la transizione ecologica e digitale, green e blue (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), verso une economia di valore europeo più equilibrata, circolare, civile.
La sostenibilità, come asset di competitività e di migliore qualità della vita, è l’occasione giusta per Milano, non megalopoli squilibrata ma metropoli legata ai territori di riferimento, aperta e dialogante, contemporaneamente europea e mediterranea. Lo dice bene Aldo Bonomi, acuto studioso delle metamorfosi urbane e produttive (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio): “Milano ha come destino non la competizione per risalire la classifica delle città globali, ma l’essere rete di sistemi territoriali per competere innervati da distretti, medie imprese e piattaforme: deve chiedersi se essere capitale della megalopoli padana oppure città che si relaziona in orizzontale con le città intermedie in una logica di servizio, capace di esercitare una funzione larga, mediando tra Europa e Mediterraneo”. Ed è proprio in questa ricostruzione che il valore della prossimità delle piazze e dei quartieri e la robusta vocazione internazionale possono costruire originali sintesi. Per crescere meglio.
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Come collaborare e condividere
Una tesi discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università degli studi di Padova, fa ordine nel tema della sharing economy
Collaborare e condividere. Mosse importanti per tutti, anche per le imprese e soprattutto in un periodo complesso come quello che si sta vivendo. Questione anche di cultura del produrre che deve cambiare insieme, spesso, alle regole condivise da tutti. E’ attorno a questi concetti che ragiona il lavoro di ricerca di Gabriele Principe discusso sotto forma di tesi presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università degli studi di Padova.
“Economia collaborativa al tempo del Coronavirus” si occupa in particolare di “indagare il concetto di economia di condivisione all’interno della legislazione europea, di approfondire la problematica dei contratti on line”, oltre a questo Principe studia come la “variazione nella domanda di determinati beni e servizi sia frutto di un cambiamento delle abitudini di consumo e delle condizioni di vita in questo anno di pandemia”.
Principe, quindi, mette a fuoco prima il concetto di economia collaborativa (sharing economy) nelle sue diverse declinazioni e affrontando anche l’analisi dell’attuale apparato di regole di riferimento; poi vengono presi in considerazione alcuni casi studio che mettono in pratica, in modi diversi, la teoria dell’economia collaborativo. Scorrono quindi nelle pagine di Gabriele Principe gli esempi di Uber, Lif, Airbnb e Globe-inc.
Scrive l’autore nelle conclusioni: “A causa dello shock esogeno causato dalla pandemia di COVID-19, la sharing economy si è scoperta estremamente variabile. Alcuni settori hanno goduto di un notevole aumento in termini di fatturato, mentre altri hanno subito un crollo nelle proprie vendite. La crescita esponenziale che si prevedeva in passato, non si è potuta completamente concretizzare. Nel contempo fino ad una dozzina di anni fa tutte queste piattaforme economiche non esistevano, ma esse sono destinate a progredire, a crescere e a riqualificarsi seguendo l’evoluzione della situazione mondiale che ora appare decisamente incerta. La pandemia ha mostrato come la percezione del consumatore rispetto alla sharing economy sia differente rispetto all’economia tradizionale, e per tale motivo alcuni settori sono stati più colpiti di altri. La confusa legislazione da cui sono governate gioca sicuramente un ruolo in tal senso”.
Quanto emerge dallo studio di Principe, è l’immagine variegata di un tema complesso e in evoluzione, certamente non scontato e certamente non esente da problemi ancora da risolvere. “Economia collaborativa al tempo del Coronavirus” è, quindi, uno strumento utile per capire meglio cosa sta accadendo.
Economia collaborativa al tempo del Coronavirus
Gabriele Principe
Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia e management, 2020
Una tesi discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università degli studi di Padova, fa ordine nel tema della sharing economy
Collaborare e condividere. Mosse importanti per tutti, anche per le imprese e soprattutto in un periodo complesso come quello che si sta vivendo. Questione anche di cultura del produrre che deve cambiare insieme, spesso, alle regole condivise da tutti. E’ attorno a questi concetti che ragiona il lavoro di ricerca di Gabriele Principe discusso sotto forma di tesi presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università degli studi di Padova.
“Economia collaborativa al tempo del Coronavirus” si occupa in particolare di “indagare il concetto di economia di condivisione all’interno della legislazione europea, di approfondire la problematica dei contratti on line”, oltre a questo Principe studia come la “variazione nella domanda di determinati beni e servizi sia frutto di un cambiamento delle abitudini di consumo e delle condizioni di vita in questo anno di pandemia”.
Principe, quindi, mette a fuoco prima il concetto di economia collaborativa (sharing economy) nelle sue diverse declinazioni e affrontando anche l’analisi dell’attuale apparato di regole di riferimento; poi vengono presi in considerazione alcuni casi studio che mettono in pratica, in modi diversi, la teoria dell’economia collaborativo. Scorrono quindi nelle pagine di Gabriele Principe gli esempi di Uber, Lif, Airbnb e Globe-inc.
Scrive l’autore nelle conclusioni: “A causa dello shock esogeno causato dalla pandemia di COVID-19, la sharing economy si è scoperta estremamente variabile. Alcuni settori hanno goduto di un notevole aumento in termini di fatturato, mentre altri hanno subito un crollo nelle proprie vendite. La crescita esponenziale che si prevedeva in passato, non si è potuta completamente concretizzare. Nel contempo fino ad una dozzina di anni fa tutte queste piattaforme economiche non esistevano, ma esse sono destinate a progredire, a crescere e a riqualificarsi seguendo l’evoluzione della situazione mondiale che ora appare decisamente incerta. La pandemia ha mostrato come la percezione del consumatore rispetto alla sharing economy sia differente rispetto all’economia tradizionale, e per tale motivo alcuni settori sono stati più colpiti di altri. La confusa legislazione da cui sono governate gioca sicuramente un ruolo in tal senso”.
Quanto emerge dallo studio di Principe, è l’immagine variegata di un tema complesso e in evoluzione, certamente non scontato e certamente non esente da problemi ancora da risolvere. “Economia collaborativa al tempo del Coronavirus” è, quindi, uno strumento utile per capire meglio cosa sta accadendo.
Economia collaborativa al tempo del Coronavirus
Gabriele Principe
Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia e management, 2020
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