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Fare impresa è fare cultura: i dibattiti su valori e crisi tra i convegni di Confindustria e i “Dialoghi di Trani”

In tempi di radicali cambiamenti sociali, politici ed economici, è indispensabile scrivere nuove mappe, ricostruire una geografia delle relazioni e delle speranze, “ridisegnare le forme del mondo e dell’umano”, per dirla con le parole di Aldo Schiavone, storico, davanti a una platea affollata di ragazzi ai “Dialoghi di Trani”, domenica scorsa. Indagare sulla “crisi”, nella doppia accezione del pericolo e dell’opportunità. Provare, con la passione e la fatica indispensabili ai mestieri intellettuali, a dare a parole dense come “individuo”, “democrazia”, “lavoro”, “uguaglianza”, “diversità” significati adatti a raccontare fratture, trasformazioni, metamorfosi.

“La grande età del lavoro, il lavoro libero come merce in cambio di salario, come strumento di libertà e dignità è alle nostre spalle, la rivoluzione tecnologica l’ha distrutta”, insiste Schiavone. E ancora: “Viviamo in un’epoca che ha sempre più tecnologia e sempre meno lavoro, almeno di quel lavoro con un minimo significato di costruttore di legami sociali”.
L’analisi, così netta, può non essere del tutto condivisibile. Ma pone questioni profonde e reali che investono anche il mondo delle imprese, i loro sistemi di valori, la loro cultura. Perché proprio le imprese sono nel cuore della trasformazione tecnologica, la promuovono e la subiscono, ne vivono limiti e possibilità e ne devono sperimentare forme e strumenti di governo per ridefinire la propria competitività sui mercati locali e globali, ma anche per ricostruire la loro legittimazione sociale, la loro accettabilità come soggetti positivi, protagonisti di un migliore futuro.

Resta, per le imprese e le loro organizzazioni più aperte e sensibili, la centralità del lavoro. Si tratta, semmai, di scriverne una nuova mappa (sulle indicazioni, per esempio, delle analisi e delle previsioni d’un economista come Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, con il suo libro “La nuova geografia del lavoro”, Mondadori). E di saper coniugare gli strumenti digital da “Industria 4.0” e le opportunità offerte dalle innovazioni ad alta tecnologia (a cominciare dal 5G) con una originale cultura del lavoro, della conoscenza e dell’organizzazione, fondata su competenze, capacità, ricerca continua, nuove relazioni tra diritti e doveri nel segno della responsabilità, non solo degli imprenditori, dei lavoratori e dei manager, ma dell’intero universo degli stakeholders (“responsabilità” è stata appunto la parola d’ordine trasversale a tutti i “Dialoghi di Trani”).
Cambieranno, infatti, le caratteristiche di molti lavori, parecchi spariranno (le mansioni più seriali e a basso contenuto professionale) e altri ne nasceranno (di molti non sappiamo oggi neanche nome e ruolo). Ma quel cambiamento va pensato e progettato: l’intelligenza dell’uomo, tutto sommato, costruisce e governa l’intelligenza artificiale, senza cadere nella trappola della “tecnofobia”, come ammonisce un sindacalista colto e intelligente, Marco Bentivogli, in “Contrordine compagni”, Rizzoli) ma provando semmai a rispondere, proprio sul piano della cultura d’impresa, alle questioni poste da un lucido filosofo, Remo Bodei, in “Dominio e sottomissione – Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, Il Mulino.
Le politiche di formazione e di sostegno sociale devono accompagnare questo difficile processo: è una responsabilità delle politiche pubbliche (anche su scala europea) su cui le imprese stesse vanno chiamate a collaborare.
L’orizzonte, insomma, è quello di una “impresa riformista” capace di coniugare produttività, redditività e sostenibilità ambientale e sociale, capacità competitiva e valorizzazione delle persone, valori da “economia circolare e civile”, con la rapidità indispensabile per cogliere il senso e la direzione dei cambiamenti. In sintesi: serve una nuova e migliore “civiltà del lavoro”, una riscrittura di quella “civiltà delle macchine” che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta di impetuoso sviluppo economico e sociale in Italia e in Europa (per usare, qui, come paradigma, l’efficace testata d’una delle più sapide riviste aziendali degli anni Cinquanta, redatta per la Finmeccanica dell’Iri da Leonardo Sinisgalli, un ingegnere-poeta già responsabile, con Arturo Tofanelli e Vittorio Sereni, della “Rivista Pirelli”, esempio ancora oggi ricco di stimoli da “umanesimo industriale”).

Il nome di Sinisgalli è risuonato, sempre negli scorsi giorni, anche nel corso di un altro appuntamento dedicato alle imprese e alla loro cultura: il convegno di Confindustria a Matera intitolato “Cultura, comunità, impresa: i valori dell’Europa”. Sinisgalli era lucano, di Montemurro (dove è molto attiva una Fondazione intitolata al suo nome) e aveva avuto successo, come manager, prima all’Olivetti di Ivrea e poi alla Pirelli, alla Finmeccanica e all’Eni di Mattei. Umanesimo e scienza, poesia e meccanica, persone e macchine. Un intenso lavoro letterario e industriale, costruendo sintesi originali, da vera e propria “cultura politecnica”.

Eccola, la chiave per parlare di cultura d’impresa: la cultura serve alle imprese, come strumento di innovazione, ma le imprese stesse sono dinamiche produttrici di cultura scientifica e tecnologica, di cultura del lavoro, della bellezza, della qualità. Una sintesi tra scienza e umanesimo, appunto quell’“umanesimo industriale” di cui abbiamo appena detto. Una straordinaria cultura dello sviluppo, fondata anche sui valori dell’inclusione e della sostenibilità ambientale e sociale, come cardini stessi della propria competitività.
La fabbrica, l’industria, i laboratori di ricerca e sviluppo sono luoghi di cultura (lo ha raccontato benissimo un grande maestro di letteratura e di vita, Primo Levi, chimico e uomo d’industria, in due libri essenziali: “La chiave a stella” e “Il sistema periodico”, entrambi pubblicati da Einaudi). Le relazioni collaborative tra le persone, impegnate nell’innovazione, costruiscono un ricco tessuto culturale. L’impegno a stimolare e seguire i cambiamenti di consumi e costumi è una strategia culturale. La decodifica delle complessità per tenere attivi i processi produttivi e di mercato ha bisogno di robusti strumenti culturali e produce nuova cultura. E proprio l’impresa contemporanea, attiva e aperta, ci suggerisce la necessità di passare dal binomio “impresa e cultura” alla sintesi “impresa è cultura”. Una realtà già presente, in molte imprese. E tocca innanzitutto alle imprese rendersene conto, costruendo un nuovo e migliore racconto di sé.

In tempi di radicali cambiamenti sociali, politici ed economici, è indispensabile scrivere nuove mappe, ricostruire una geografia delle relazioni e delle speranze, “ridisegnare le forme del mondo e dell’umano”, per dirla con le parole di Aldo Schiavone, storico, davanti a una platea affollata di ragazzi ai “Dialoghi di Trani”, domenica scorsa. Indagare sulla “crisi”, nella doppia accezione del pericolo e dell’opportunità. Provare, con la passione e la fatica indispensabili ai mestieri intellettuali, a dare a parole dense come “individuo”, “democrazia”, “lavoro”, “uguaglianza”, “diversità” significati adatti a raccontare fratture, trasformazioni, metamorfosi.

“La grande età del lavoro, il lavoro libero come merce in cambio di salario, come strumento di libertà e dignità è alle nostre spalle, la rivoluzione tecnologica l’ha distrutta”, insiste Schiavone. E ancora: “Viviamo in un’epoca che ha sempre più tecnologia e sempre meno lavoro, almeno di quel lavoro con un minimo significato di costruttore di legami sociali”.
L’analisi, così netta, può non essere del tutto condivisibile. Ma pone questioni profonde e reali che investono anche il mondo delle imprese, i loro sistemi di valori, la loro cultura. Perché proprio le imprese sono nel cuore della trasformazione tecnologica, la promuovono e la subiscono, ne vivono limiti e possibilità e ne devono sperimentare forme e strumenti di governo per ridefinire la propria competitività sui mercati locali e globali, ma anche per ricostruire la loro legittimazione sociale, la loro accettabilità come soggetti positivi, protagonisti di un migliore futuro.

Resta, per le imprese e le loro organizzazioni più aperte e sensibili, la centralità del lavoro. Si tratta, semmai, di scriverne una nuova mappa (sulle indicazioni, per esempio, delle analisi e delle previsioni d’un economista come Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, con il suo libro “La nuova geografia del lavoro”, Mondadori). E di saper coniugare gli strumenti digital da “Industria 4.0” e le opportunità offerte dalle innovazioni ad alta tecnologia (a cominciare dal 5G) con una originale cultura del lavoro, della conoscenza e dell’organizzazione, fondata su competenze, capacità, ricerca continua, nuove relazioni tra diritti e doveri nel segno della responsabilità, non solo degli imprenditori, dei lavoratori e dei manager, ma dell’intero universo degli stakeholders (“responsabilità” è stata appunto la parola d’ordine trasversale a tutti i “Dialoghi di Trani”).
Cambieranno, infatti, le caratteristiche di molti lavori, parecchi spariranno (le mansioni più seriali e a basso contenuto professionale) e altri ne nasceranno (di molti non sappiamo oggi neanche nome e ruolo). Ma quel cambiamento va pensato e progettato: l’intelligenza dell’uomo, tutto sommato, costruisce e governa l’intelligenza artificiale, senza cadere nella trappola della “tecnofobia”, come ammonisce un sindacalista colto e intelligente, Marco Bentivogli, in “Contrordine compagni”, Rizzoli) ma provando semmai a rispondere, proprio sul piano della cultura d’impresa, alle questioni poste da un lucido filosofo, Remo Bodei, in “Dominio e sottomissione – Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, Il Mulino.
Le politiche di formazione e di sostegno sociale devono accompagnare questo difficile processo: è una responsabilità delle politiche pubbliche (anche su scala europea) su cui le imprese stesse vanno chiamate a collaborare.
L’orizzonte, insomma, è quello di una “impresa riformista” capace di coniugare produttività, redditività e sostenibilità ambientale e sociale, capacità competitiva e valorizzazione delle persone, valori da “economia circolare e civile”, con la rapidità indispensabile per cogliere il senso e la direzione dei cambiamenti. In sintesi: serve una nuova e migliore “civiltà del lavoro”, una riscrittura di quella “civiltà delle macchine” che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta di impetuoso sviluppo economico e sociale in Italia e in Europa (per usare, qui, come paradigma, l’efficace testata d’una delle più sapide riviste aziendali degli anni Cinquanta, redatta per la Finmeccanica dell’Iri da Leonardo Sinisgalli, un ingegnere-poeta già responsabile, con Arturo Tofanelli e Vittorio Sereni, della “Rivista Pirelli”, esempio ancora oggi ricco di stimoli da “umanesimo industriale”).

Il nome di Sinisgalli è risuonato, sempre negli scorsi giorni, anche nel corso di un altro appuntamento dedicato alle imprese e alla loro cultura: il convegno di Confindustria a Matera intitolato “Cultura, comunità, impresa: i valori dell’Europa”. Sinisgalli era lucano, di Montemurro (dove è molto attiva una Fondazione intitolata al suo nome) e aveva avuto successo, come manager, prima all’Olivetti di Ivrea e poi alla Pirelli, alla Finmeccanica e all’Eni di Mattei. Umanesimo e scienza, poesia e meccanica, persone e macchine. Un intenso lavoro letterario e industriale, costruendo sintesi originali, da vera e propria “cultura politecnica”.

Eccola, la chiave per parlare di cultura d’impresa: la cultura serve alle imprese, come strumento di innovazione, ma le imprese stesse sono dinamiche produttrici di cultura scientifica e tecnologica, di cultura del lavoro, della bellezza, della qualità. Una sintesi tra scienza e umanesimo, appunto quell’“umanesimo industriale” di cui abbiamo appena detto. Una straordinaria cultura dello sviluppo, fondata anche sui valori dell’inclusione e della sostenibilità ambientale e sociale, come cardini stessi della propria competitività.
La fabbrica, l’industria, i laboratori di ricerca e sviluppo sono luoghi di cultura (lo ha raccontato benissimo un grande maestro di letteratura e di vita, Primo Levi, chimico e uomo d’industria, in due libri essenziali: “La chiave a stella” e “Il sistema periodico”, entrambi pubblicati da Einaudi). Le relazioni collaborative tra le persone, impegnate nell’innovazione, costruiscono un ricco tessuto culturale. L’impegno a stimolare e seguire i cambiamenti di consumi e costumi è una strategia culturale. La decodifica delle complessità per tenere attivi i processi produttivi e di mercato ha bisogno di robusti strumenti culturali e produce nuova cultura. E proprio l’impresa contemporanea, attiva e aperta, ci suggerisce la necessità di passare dal binomio “impresa e cultura” alla sintesi “impresa è cultura”. Una realtà già presente, in molte imprese. E tocca innanzitutto alle imprese rendersene conto, costruendo un nuovo e migliore racconto di sé.

Perchè il successo

In un libro la spiegazione scientifica dei motivi e dei percorsi che conducono al riconoscimento collettivo dei buoni risultati

Il successo si costruisce con un percorso – non sempre razionale –, che conduce al traguardo del riconoscimento da parte degli altri di quello che si è fatto e che si è. Vale per tutti, anche per gli imprenditori e le loro creature – le aziende –, così come per la gente di spettacolo e per quella di scienza, per gli artisti e gli uomini d’affari. E’ uno dei messaggi dell’ultima impresa di ricerca (e poi anche letteraria) di Albert-László Barabási tradotta e pubblicata in Italia da poche settimane. “La formula. Le leggi universali del successo” è un libro che solo in apparenza è comune a tanti altri scritti sul tema delle molte strade che si possono intraprendere per arrivare al successo e che, invece, ha dietro una importante e lunga indagine fondata sull’applicazione del metodo scientifico (e dei modelli matematici) all’agire umano. Barabási è infatti un esperto di reti oltre che essere responsabile del Center for Complex Network Research della Northeastern University. Proprio partendo dal lavoro svolto nel Center, Barabási analizzando una poderosa serie di dati arriva a formulare cinque “leggi” che regolano il raggiungimento del successo.
L’autore parte dalla constatazione che spesso, troppo spesso, un buon risultato raggiunto non è sufficiente per ottenere un successo. Barabási quindi sottolinea che il talento e una forte etica del lavoro sono importanti, raramente però questi si traducono in risultati tangibili. Ciò che manca al “successo” è cioè l’apprezzamento e il riconoscimento pubblico nei confronti di un lavoro realizzato con impegno. C’è, in altre parole, uno sfuggente nesso fra risultato raggiunto e riconoscimento dello stesso da parte della comunità. È attorno a questo nesso che si dipana tutto il libro di Barabási che è organizzato sostanzialmente in cinque capitoli che corrispondono ad altrettante leggi che, come si è detto, regolano il raggiungimento del successo. Emerge così che per quest’ultimo è fondamentale un insieme complesso fatto di prestazioni e reti, di preferenze e diffusione delle informazioni, di casualità e perseveranza. A fare da contorno e ad arricchire il racconto di Barabási è una fitta serie di esempi tratti dall’attualità così come dalla storia. Passano quindi nelle circa duecento pagine del racconto personaggi come il Barone Rosso, Albert Einstein, Miles Davis, Marcel Duchamp, Tiger Woods ma anche Steve Jobs con la sua Apple oltre che altre aziende come Kellogg, Amazon, la Ferrari e molte altre.
Il libro di Barabási si legge d’un fiato, è scritto bene e non contiene solo una serie di precetti ma, piuttosto, un vivace insieme di osservazioni della realtà sostenute da un solido metodo d’indagine.

La formula. Le leggi universali del successo

Albert-László Barabási

Einaudi, 2019

In un libro la spiegazione scientifica dei motivi e dei percorsi che conducono al riconoscimento collettivo dei buoni risultati

Il successo si costruisce con un percorso – non sempre razionale –, che conduce al traguardo del riconoscimento da parte degli altri di quello che si è fatto e che si è. Vale per tutti, anche per gli imprenditori e le loro creature – le aziende –, così come per la gente di spettacolo e per quella di scienza, per gli artisti e gli uomini d’affari. E’ uno dei messaggi dell’ultima impresa di ricerca (e poi anche letteraria) di Albert-László Barabási tradotta e pubblicata in Italia da poche settimane. “La formula. Le leggi universali del successo” è un libro che solo in apparenza è comune a tanti altri scritti sul tema delle molte strade che si possono intraprendere per arrivare al successo e che, invece, ha dietro una importante e lunga indagine fondata sull’applicazione del metodo scientifico (e dei modelli matematici) all’agire umano. Barabási è infatti un esperto di reti oltre che essere responsabile del Center for Complex Network Research della Northeastern University. Proprio partendo dal lavoro svolto nel Center, Barabási analizzando una poderosa serie di dati arriva a formulare cinque “leggi” che regolano il raggiungimento del successo.
L’autore parte dalla constatazione che spesso, troppo spesso, un buon risultato raggiunto non è sufficiente per ottenere un successo. Barabási quindi sottolinea che il talento e una forte etica del lavoro sono importanti, raramente però questi si traducono in risultati tangibili. Ciò che manca al “successo” è cioè l’apprezzamento e il riconoscimento pubblico nei confronti di un lavoro realizzato con impegno. C’è, in altre parole, uno sfuggente nesso fra risultato raggiunto e riconoscimento dello stesso da parte della comunità. È attorno a questo nesso che si dipana tutto il libro di Barabási che è organizzato sostanzialmente in cinque capitoli che corrispondono ad altrettante leggi che, come si è detto, regolano il raggiungimento del successo. Emerge così che per quest’ultimo è fondamentale un insieme complesso fatto di prestazioni e reti, di preferenze e diffusione delle informazioni, di casualità e perseveranza. A fare da contorno e ad arricchire il racconto di Barabási è una fitta serie di esempi tratti dall’attualità così come dalla storia. Passano quindi nelle circa duecento pagine del racconto personaggi come il Barone Rosso, Albert Einstein, Miles Davis, Marcel Duchamp, Tiger Woods ma anche Steve Jobs con la sua Apple oltre che altre aziende come Kellogg, Amazon, la Ferrari e molte altre.
Il libro di Barabási si legge d’un fiato, è scritto bene e non contiene solo una serie di precetti ma, piuttosto, un vivace insieme di osservazioni della realtà sostenute da un solido metodo d’indagine.

La formula. Le leggi universali del successo

Albert-László Barabási

Einaudi, 2019

Beni culturali e cultura d’impresa sociale

Una tesi discussa alla LUISS, ordina i termini che legano azione pubblica e mano privata in un ambito importante della società

Cooperare per il bene del territorio e delle comunità che ospita. L’indicazione di un nuovo modo di concepire i rapporti fra dimensioni economico-produttive e dimensioni sociali e umane dei luoghi, è ormai chiara da tempo. Che poi questo approccio sia per davvero messo in pratica fino in fondo, è però altra cosa. Gli spazi per fare bene, tuttavia, ci sono. A delinearne alcuni ci pensa Alice Di Giovine con la sua tesi discussa alla Università LUISS (Dipartimento di Economia).

“Crescita e creazione di valore attraverso la conservazione dei beni culturali. Ruolo dei privati e del terzo settore” è un ordinato ragionamento sui rapporti fra iniziativa privata, impresa  sociale, mantenimento e conservazione dei beni culturali. L’autrice, cioè, ha tessuto un filo che unisce alcuni elementi (Stato, privato e cultura) che insistono in un determinato luogo e che, se ben gestiti, possono utilmente cooperare fra di loro.

Il lavoro prende le mosse da un esame attento dell’azione dello Stato in relazione alla gestione e tutela dei beni culturali, per poi passare ad esaminare l’atteggiamento delle imprese del terzo settore sempre in relazione ai beni culturali ma anche in quanto imprese; infine, il lavoro approfondisce il ruolo delle fondazioni viste come strumenti di supporto ad entrambi i capi della questione (con un esempio fornito dal FAI).

Scrive Di Giovine: “Gli ultimi anni sono stati interessati dalla tendenza delle istituzioni pubbliche a lasciare ampio spazio anche ad attori privati, in particolare il Terzo Settore si è fatto protagonista di numerose iniziative economiche a sostegno di siti culturali. Molti siti sono stati così riportati in vita grazie all’intervento di fondazioni esperte e restituiti con entusiasmo a turisti e cittadini. Queste iniziative possono quindi essere considerate strumenti di innovazione sociale applicata alla gestione del patrimonio culturale”. Si tratta, a ben vedere, di una finestra aperta su un modo diverso dal consueto di intendere anche la cultura d’impresa sociale. Scrive ancora l’autrice: “Potrebbe essere interessante identificare questo trend come un tramonto del tradizionale Welfare State, il quale apre le porte a un ‘Welfare civile’, in cui lo Stato, i privati e gli organismi senza fini di lucro concorrono all’offerta di servizi alla persona. In questo modo si delinea un sistema moderno e innovativo che apre le porte alla partecipazione diretta dei cittadini alla gestione dei beni collettivi”.

Il lavoro di Alice Di Giovine non apporta forse particolari novità all’argomento, ma ha il merito di ordinarne i termini e di rendere più chiaro il tutto.

Crescita e creazione di valore attraverso la conservazione dei beni culturali. Ruolo dei privati e del terzo settore

Alice Di Giovine

Università LUISS, Dipartimento di Economia Laurea in: Economia e Management, 2018

Clicca qui per scaricare il PDF

Una tesi discussa alla LUISS, ordina i termini che legano azione pubblica e mano privata in un ambito importante della società

Cooperare per il bene del territorio e delle comunità che ospita. L’indicazione di un nuovo modo di concepire i rapporti fra dimensioni economico-produttive e dimensioni sociali e umane dei luoghi, è ormai chiara da tempo. Che poi questo approccio sia per davvero messo in pratica fino in fondo, è però altra cosa. Gli spazi per fare bene, tuttavia, ci sono. A delinearne alcuni ci pensa Alice Di Giovine con la sua tesi discussa alla Università LUISS (Dipartimento di Economia).

“Crescita e creazione di valore attraverso la conservazione dei beni culturali. Ruolo dei privati e del terzo settore” è un ordinato ragionamento sui rapporti fra iniziativa privata, impresa  sociale, mantenimento e conservazione dei beni culturali. L’autrice, cioè, ha tessuto un filo che unisce alcuni elementi (Stato, privato e cultura) che insistono in un determinato luogo e che, se ben gestiti, possono utilmente cooperare fra di loro.

Il lavoro prende le mosse da un esame attento dell’azione dello Stato in relazione alla gestione e tutela dei beni culturali, per poi passare ad esaminare l’atteggiamento delle imprese del terzo settore sempre in relazione ai beni culturali ma anche in quanto imprese; infine, il lavoro approfondisce il ruolo delle fondazioni viste come strumenti di supporto ad entrambi i capi della questione (con un esempio fornito dal FAI).

Scrive Di Giovine: “Gli ultimi anni sono stati interessati dalla tendenza delle istituzioni pubbliche a lasciare ampio spazio anche ad attori privati, in particolare il Terzo Settore si è fatto protagonista di numerose iniziative economiche a sostegno di siti culturali. Molti siti sono stati così riportati in vita grazie all’intervento di fondazioni esperte e restituiti con entusiasmo a turisti e cittadini. Queste iniziative possono quindi essere considerate strumenti di innovazione sociale applicata alla gestione del patrimonio culturale”. Si tratta, a ben vedere, di una finestra aperta su un modo diverso dal consueto di intendere anche la cultura d’impresa sociale. Scrive ancora l’autrice: “Potrebbe essere interessante identificare questo trend come un tramonto del tradizionale Welfare State, il quale apre le porte a un ‘Welfare civile’, in cui lo Stato, i privati e gli organismi senza fini di lucro concorrono all’offerta di servizi alla persona. In questo modo si delinea un sistema moderno e innovativo che apre le porte alla partecipazione diretta dei cittadini alla gestione dei beni collettivi”.

Il lavoro di Alice Di Giovine non apporta forse particolari novità all’argomento, ma ha il merito di ordinarne i termini e di rendere più chiaro il tutto.

Crescita e creazione di valore attraverso la conservazione dei beni culturali. Ruolo dei privati e del terzo settore

Alice Di Giovine

Università LUISS, Dipartimento di Economia Laurea in: Economia e Management, 2018

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Fondazione Pirelli tra cultura e cucina

Pirelli, serata di cibo e cultura per il compleanno delle biblioteche aziendali

Le biblioteche Pirelli celebrano il primo anno di successi

Le biblioteche Pirelli: dove i libri entrano in fabbrica

Pirelli rilancia le biblioteche per i dipendenti

Pirelli con il ‘Canto della fabbrica’ unisce industria e cultura

La buona cultura d’impresa raccontata ai giovani

Una recente tesi indaga sugli strumenti più efficaci da applicare alla vicenda Olivetti

La buona cultura d’impresa come sintesi di principi di vita e realizzazioni concrete. Esempio per tutti. È quanto accade quando l’organizzazione della produzione prende vita sotto le mani di donne e uomini d’ingegno, capaci di coniugare il traguardo del profitto con altri obiettivi fatti di socialità e territorio. Paradigmi tutti da approfondire e studiare. Come è quello dell’esperienza Olivetti. È quindi interessante e utile leggere “Il Patrimonio Mondiale UNESCO di Ivrea, città industriale del XX secolo: analisi di un sistema integrato per la divulgazione dei valori Olivetti nell’età scolare”, lavoro di tesi di Martina Bosica discusso al Politecnico di Torino.

Bosica affronta il tema della cultura d’impresa olivettiana dal particolare punto di vista dei legami fra l’azienda, il territorio e i principi dell’Unesco: recentemente, infatti, Ivrea e il suo territorio sono stati riconosciuti come patrimonio dell’umanità. Ma non solo. Martina Bosica, infatti, legge l’intreccio di temi appena accennato con un occhio particolare agli strumenti più adatti per raccontarli con attenzione ai giovani. Il senso del lavoro è chiaro: studiare come comunicare ai giovani i principi dell’imprenditorialità olivettiana facendoli comprendere, gustare e, se possibile, tradurre in una consapevolezza lavorativa più matura.
La tesi, quindi, prende le mosse da una duplice presentazione: da un lato il design dei beni culturali (disciplina che può fornire “gli attrezzi” utili all’operazione), dall’altro il senso e il significato dell’UNESCO in relazione all’Olivetti. La ricerca quindi prende in considerazione il territorio del Canavese, Ivrea e la Olivetti per tornare poi al nucleo operativo dell’indagine: l’individuazione dei migliori strumenti per comunicare efficacemente lo spirito olivettiano ai più giovani.
Il lavoro di Martina Bosica è interessante perché riesce ad affrontare un ragionamento composito – come quello attorno alla cultura d’impresa e ai giovani –, in modo analiticamente importante ma leggibile e fruibile.

Il Patrimonio Mondiale UNESCO di Ivrea, città industriale del XX secolo: analisi di un sistema integrato per la divulgazione dei valori Olivetti nell’età scolare.
Martina Bosica
Tesi, Politecnico di Torino, Dipartimento di Architettura e Design, 2019

Clicca qui per scaricare il PDF

Una recente tesi indaga sugli strumenti più efficaci da applicare alla vicenda Olivetti

La buona cultura d’impresa come sintesi di principi di vita e realizzazioni concrete. Esempio per tutti. È quanto accade quando l’organizzazione della produzione prende vita sotto le mani di donne e uomini d’ingegno, capaci di coniugare il traguardo del profitto con altri obiettivi fatti di socialità e territorio. Paradigmi tutti da approfondire e studiare. Come è quello dell’esperienza Olivetti. È quindi interessante e utile leggere “Il Patrimonio Mondiale UNESCO di Ivrea, città industriale del XX secolo: analisi di un sistema integrato per la divulgazione dei valori Olivetti nell’età scolare”, lavoro di tesi di Martina Bosica discusso al Politecnico di Torino.

Bosica affronta il tema della cultura d’impresa olivettiana dal particolare punto di vista dei legami fra l’azienda, il territorio e i principi dell’Unesco: recentemente, infatti, Ivrea e il suo territorio sono stati riconosciuti come patrimonio dell’umanità. Ma non solo. Martina Bosica, infatti, legge l’intreccio di temi appena accennato con un occhio particolare agli strumenti più adatti per raccontarli con attenzione ai giovani. Il senso del lavoro è chiaro: studiare come comunicare ai giovani i principi dell’imprenditorialità olivettiana facendoli comprendere, gustare e, se possibile, tradurre in una consapevolezza lavorativa più matura.
La tesi, quindi, prende le mosse da una duplice presentazione: da un lato il design dei beni culturali (disciplina che può fornire “gli attrezzi” utili all’operazione), dall’altro il senso e il significato dell’UNESCO in relazione all’Olivetti. La ricerca quindi prende in considerazione il territorio del Canavese, Ivrea e la Olivetti per tornare poi al nucleo operativo dell’indagine: l’individuazione dei migliori strumenti per comunicare efficacemente lo spirito olivettiano ai più giovani.
Il lavoro di Martina Bosica è interessante perché riesce ad affrontare un ragionamento composito – come quello attorno alla cultura d’impresa e ai giovani –, in modo analiticamente importante ma leggibile e fruibile.

Il Patrimonio Mondiale UNESCO di Ivrea, città industriale del XX secolo: analisi di un sistema integrato per la divulgazione dei valori Olivetti nell’età scolare.
Martina Bosica
Tesi, Politecnico di Torino, Dipartimento di Architettura e Design, 2019

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