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Rileggere il passato e il presente di una grande multinazionale. I volumi sulla storia della Pirelli conservati nella Biblioteca della Fondazione

È il 1922 e la Pirelli compie 50 anni di attività. Sono molte le iniziative per celebrare questo importante traguardo. Tra queste, anche la pubblicazione “Pirelli & C. nel suo cinquantenario”, stampata dalle Arti grafiche Alfieri e Lacroix di Milano con fotografie e illustrazioni a colori. Il volume ripercorre il mezzo secolo di attività dell’impresa illustrandone il valore nel panorama industriale italiano dell’epoca e in rapporto alla coeva industria della gomma negli altri paesi, rilevando l’importanza dei prodotti in gomma, diventati ormai indispensabili nella vita quotidiana come in quella industriale, citando i primati conseguiti dalla Pirelli e le dimensioni assunte dal Gruppo in Italia e all’estero. Pur trattandosi di una “house celebration”, il volume resta una fonte preziosa sullo sviluppo raggiunto dalla Pirelli all’indomani della prima guerra mondiale, e la prima storia dell’azienda esistente. Oggi questa pubblicazione è conservata nella Biblioteca della Fondazione Pirelli insieme ad altre monografie sull’impresa.

Nel 1946 l’avvicinarsi di un altro anniversario, quello dei 75 anni, è l’occasione per una nuova pubblicazione sulla storia della Pirelli, dal titolo “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale”. A scriverla è lo stesso Alberto Pirelli, amministratore delegato del gruppo e figlio del fondatore Giovanni Battista, che ripercorre la storia dell’azienda dalle origini, soffermandosi in particolare sulla formazione del Gruppo estero, sulle materie prime e le piantagioni di gomma, sull’organizzazione aziendale.

Dopo una pubblicazione promossa dalla Ires Lombardia nel 1985 sulla storia del Gruppo Pirelli dalla prima guerra mondiale agli anni Ottanta, dal titolo “Pirelli 1914-1980. Strategia aziendale e relazioni industriali nella storia di una multinazionale” (composta da due volumi, il primo dedicato alle strategie aziendali e il secondo focalizzato sulle relazioni industriali), bisogna arrivare ai giorni nostri per una nuova monografia del Gruppo Pirelli, scritta da Carlo Bellavite Pellegrini basandosi sulle fonti dell’Archivio Storico conservato dalla Fondazione Pirelli. Il libro dal titolo “Pirelli. Innovazione e passione, 1872-2017”, ripercorre la storia del Gruppo arrivando fino alle sue vicende più recenti.

Tra gli altri volumi sulla storia della Pirelli conservati nella Biblioteca della Fondazione, vanno poi sicuramente citati alcuni studi su specifici momenti della storia aziendale: il viaggio di istruzione all’estero del fondatore Giovanni Battista Pirelli, e le origini dell’impresa, analizzate da Francesca Polese nei due volumi editi da Marsilio nel 2003 e 2004 che contengono, l’uno la pubblicazione commentata del diario di viaggio di Giovanni Battista, l’altro le origini della Pirelli nel contesto dell’economia lombarda di fine Ottocento; la vita di Alberto Pirelli nella biografia di Nicola Tranfaglia edita da Einaudi nel 2010, che comprende anche la storia della sua attività nel campo della politica e della finanza in Italia e all’estero; o ancora le relazioni industriali alla Pirelli, caso di studio tra i più interessanti del capitalismo italiano, indagate da Piero Bolchini nel 1967 in “La Pirelli: operai e padroni” e, più recentemente, da Edmondo Montali nel volume “1968: l’autunno caldo della Pirelli”, edito da Ediesse nel 2009; infine, il volume “Voci del Lavoro” (Laterza, 2012) curato da Roberta Garruccio, che analizza la fabbrica di Settimo Torinese dagli anni Settanta a oggi, basandosi su 30 interviste a operai, impiegati, tecnici, dirigenti dello stabilimento. Pagine di storia – e attualità – di una grande impresa.

È il 1922 e la Pirelli compie 50 anni di attività. Sono molte le iniziative per celebrare questo importante traguardo. Tra queste, anche la pubblicazione “Pirelli & C. nel suo cinquantenario”, stampata dalle Arti grafiche Alfieri e Lacroix di Milano con fotografie e illustrazioni a colori. Il volume ripercorre il mezzo secolo di attività dell’impresa illustrandone il valore nel panorama industriale italiano dell’epoca e in rapporto alla coeva industria della gomma negli altri paesi, rilevando l’importanza dei prodotti in gomma, diventati ormai indispensabili nella vita quotidiana come in quella industriale, citando i primati conseguiti dalla Pirelli e le dimensioni assunte dal Gruppo in Italia e all’estero. Pur trattandosi di una “house celebration”, il volume resta una fonte preziosa sullo sviluppo raggiunto dalla Pirelli all’indomani della prima guerra mondiale, e la prima storia dell’azienda esistente. Oggi questa pubblicazione è conservata nella Biblioteca della Fondazione Pirelli insieme ad altre monografie sull’impresa.

Nel 1946 l’avvicinarsi di un altro anniversario, quello dei 75 anni, è l’occasione per una nuova pubblicazione sulla storia della Pirelli, dal titolo “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale”. A scriverla è lo stesso Alberto Pirelli, amministratore delegato del gruppo e figlio del fondatore Giovanni Battista, che ripercorre la storia dell’azienda dalle origini, soffermandosi in particolare sulla formazione del Gruppo estero, sulle materie prime e le piantagioni di gomma, sull’organizzazione aziendale.

Dopo una pubblicazione promossa dalla Ires Lombardia nel 1985 sulla storia del Gruppo Pirelli dalla prima guerra mondiale agli anni Ottanta, dal titolo “Pirelli 1914-1980. Strategia aziendale e relazioni industriali nella storia di una multinazionale” (composta da due volumi, il primo dedicato alle strategie aziendali e il secondo focalizzato sulle relazioni industriali), bisogna arrivare ai giorni nostri per una nuova monografia del Gruppo Pirelli, scritta da Carlo Bellavite Pellegrini basandosi sulle fonti dell’Archivio Storico conservato dalla Fondazione Pirelli. Il libro dal titolo “Pirelli. Innovazione e passione, 1872-2017”, ripercorre la storia del Gruppo arrivando fino alle sue vicende più recenti.

Tra gli altri volumi sulla storia della Pirelli conservati nella Biblioteca della Fondazione, vanno poi sicuramente citati alcuni studi su specifici momenti della storia aziendale: il viaggio di istruzione all’estero del fondatore Giovanni Battista Pirelli, e le origini dell’impresa, analizzate da Francesca Polese nei due volumi editi da Marsilio nel 2003 e 2004 che contengono, l’uno la pubblicazione commentata del diario di viaggio di Giovanni Battista, l’altro le origini della Pirelli nel contesto dell’economia lombarda di fine Ottocento; la vita di Alberto Pirelli nella biografia di Nicola Tranfaglia edita da Einaudi nel 2010, che comprende anche la storia della sua attività nel campo della politica e della finanza in Italia e all’estero; o ancora le relazioni industriali alla Pirelli, caso di studio tra i più interessanti del capitalismo italiano, indagate da Piero Bolchini nel 1967 in “La Pirelli: operai e padroni” e, più recentemente, da Edmondo Montali nel volume “1968: l’autunno caldo della Pirelli”, edito da Ediesse nel 2009; infine, il volume “Voci del Lavoro” (Laterza, 2012) curato da Roberta Garruccio, che analizza la fabbrica di Settimo Torinese dagli anni Settanta a oggi, basandosi su 30 interviste a operai, impiegati, tecnici, dirigenti dello stabilimento. Pagine di storia – e attualità – di una grande impresa.

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Pneumatici sostenibili e strategie aziendali: ritornano i work-shop dedicati agli studenti

Con Pirelli lo pneumatico si fa strada a scuola

Le sfide per il nuovo governo: rilanciare la produttività ferma da vent’anni e creare più innovazione e lavoro

“Green new deal”, taglio del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, salario minimo ma “collegato alla contrattazione collettiva”, misure per l’innovazione delle imprese. Ci sono impegni per rimettere in moto l’economia italiana, nel programma di governo del presidente del Consiglio Conte, al suo bis. Nel contesto dei conti pubblici sotto controllo e del legame stretto con una Ue di cui, comunque, rivedere regole e vincoli (secondo il suggerimento che autorevolmente arriva dal Quirinale e che è condiviso anche dalla Commissione di Bruxelles, presieduta da Ursula von der Leyen, con l’italiano Paolo Gentiloni agli Affari Economici). Bene, dunque, dopo la stagione del precedente governo giallo-verde (sempre Conte al vertice, ma meno protagonista) tutto concentrato su assistenzialismo, pensioni anticipate e strapi alle regole Ue per fare spesa pubblica amplificando deficit e debito.

Eppure, a leggere attentamente discorsi, programmi e dichiarazioni dei vertici dei partiti neo-alleati (Pd, M5Stelle e Leu) risaltano le carenze programmatiche e l’assenza d’una vera e propria strategia di politica economica in grado di fare ripartire la crescita. Di una serie di scelte, cioè, capaci di affrontare uno dei nodi essenziali dell’economia: la bassa produttività, sia quella generale del sistema sia la produttività per ora lavorata.

Il punto di partenza è la presa d’atto d’essere un Paese in stagnazione (lo ha documentato l’Istat il 6 settembre, con “crescita zero” anche nel primo semestre 2019 e con “una debolezza dei ritmi produttivi che si è riflessa sull’andamento dell’occupazione). Siamo in coda ai paesi Ue, anche di quelli (Spagna, Portogallo) un tempo in crisi. Risentiamo fortemente delle difficoltà dell’economia tedesca e dei problemi del settore dell’auto, pagando anche un alto prezzo, come paese esportatore, per le tensioni commerciali e valutarie tra Ua e Cina. Ma subiamo anche profondi limiti nostri, interni, di qualità del sistema amministrativo e produttivo.

La produttività italiana – ecco il nodo – è ferma da vent’anni. Anzi, peggio, arretra. Eurostat documenta che la produttività per addetto nell’area dell’euro (19 paesi), facendo base 100 nel 2010, è salita a 105,1 nel 2018, mentre quella italiana è scesa a 98. Perdiamo competitività. Viviamo un invecchiamento e un peggioramento dell’apparato produttivo nrel suo complesso, proprio mentre stanno radicalmente cambiando le ragioni della competitività internazionale, sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalla diffusione del “digitale” e dai grandi passi in avanti della cosiddetta “economia della conoscenza”.
Senza affrontare questi temi – produttività e competitività – non c’è crescita possibile, non ci sono opportunità per creare né benessere né lavoro. Gli stessi stimoli ai redditi e ai consumi e le politiche che portano a tassi bassi non possono avere effetti significativi in termini di sviluppo. L’esperienza di questi anni ne è riprova.

Serve dunque una politica economica orientata allo sviluppo. Come? Le indicazioni possibili sono note da tempo, ma inapplicate, soprattutto da chi ha preferito la propaganda della spesa “facile” e dell’assistenza alla ludicità lungimirante delle riforme. Infrastrutture immateriali (quelle hi tech, digitali) e materiali per comunicazione e servizi (ferrovie ad alta velocità, porti, aeroporti, la Gronda di Genova, le autostrade, etc: proprio quelle ostacolate da uno dei partiti che era ed è ancora al governo). Pubblica amministrazione efficiente (e comunque non “svuotata” e semiparalizzata da “quota 100” per le pensioni). Formazione diffusa, di qualità e per corsi lunghi oltre i normali cicli scolastici. Ricerca. Incentivi fiscali per le imprese che innovano e crescono, sulla scia di quanto di buono era stato già fatto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni. Un ambizioso programma di investimenti pubblici e di stimolo agli investimenti privati, anche con gli “euro bond” per rinnovare e rafforzare, in quantità e qualità, l’apparato produttivo italiano (è questo, il “green new deal” annunciato da Conte?).
Un punto dev’essere chiaro: non c’è ripresa senza impresa. E non c’è crescita d’impresa se non in un orizzonte di fiducia, di sicurezza, di stabilità.

Negli anni, molte imprese italiane hanno fatto bene il loro mestiere, investendo per innovare, crescere, conquistare mercati nel mondo e creando benessere e lavoro. Sono la leva essenziale della politica economica per la crescita. In molti settori l’Italia continua a essere avanguardia europea: meccatronica, farmaceutica, chimica, gomma-plastica, ma anche le “tre A” della tradizione del made in Italy, alimentare, arredamento e abbigliamento. E ha ragione un economista competente come Marco Fortis quando (“Il Foglio”, 16 luglio) parla di un “Pil1” (quello privato e delle industrie del Nord) e di un “Pil2” (quello pubblico e del Mezzogiorno), d’una produttività dinamica e competitiva e, invece, d’una incapacità di produrre ricchezza e di continuare con “i fallimenti”. Non si tratta, naturalmente, di giocare con le contrapposizioni geografiche o di rivendicare spazi per “il partito del Nord” contro il Sud. Ma di parlare seriamente di sviluppo. Di definire politiche che, facendo leva sulla centralità delle imprese e di quelle manifatturiere soprattutto, riavvii il ciclo virtuoso di crescita e nuovo lavoro.

Le ragioni della scarsa produttività, insomma, stanno nell’apparato pubblico e anche in quell’industria privata (di dimensioni piccole e piccolissime) che non ha saputo innovare e crescere e chiede protezioni, sussidi, aiuti. Tutto quello che una buona politica economica per lo sviluppo non deve fare.

“Green new deal”, taglio del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, salario minimo ma “collegato alla contrattazione collettiva”, misure per l’innovazione delle imprese. Ci sono impegni per rimettere in moto l’economia italiana, nel programma di governo del presidente del Consiglio Conte, al suo bis. Nel contesto dei conti pubblici sotto controllo e del legame stretto con una Ue di cui, comunque, rivedere regole e vincoli (secondo il suggerimento che autorevolmente arriva dal Quirinale e che è condiviso anche dalla Commissione di Bruxelles, presieduta da Ursula von der Leyen, con l’italiano Paolo Gentiloni agli Affari Economici). Bene, dunque, dopo la stagione del precedente governo giallo-verde (sempre Conte al vertice, ma meno protagonista) tutto concentrato su assistenzialismo, pensioni anticipate e strapi alle regole Ue per fare spesa pubblica amplificando deficit e debito.

Eppure, a leggere attentamente discorsi, programmi e dichiarazioni dei vertici dei partiti neo-alleati (Pd, M5Stelle e Leu) risaltano le carenze programmatiche e l’assenza d’una vera e propria strategia di politica economica in grado di fare ripartire la crescita. Di una serie di scelte, cioè, capaci di affrontare uno dei nodi essenziali dell’economia: la bassa produttività, sia quella generale del sistema sia la produttività per ora lavorata.

Il punto di partenza è la presa d’atto d’essere un Paese in stagnazione (lo ha documentato l’Istat il 6 settembre, con “crescita zero” anche nel primo semestre 2019 e con “una debolezza dei ritmi produttivi che si è riflessa sull’andamento dell’occupazione). Siamo in coda ai paesi Ue, anche di quelli (Spagna, Portogallo) un tempo in crisi. Risentiamo fortemente delle difficoltà dell’economia tedesca e dei problemi del settore dell’auto, pagando anche un alto prezzo, come paese esportatore, per le tensioni commerciali e valutarie tra Ua e Cina. Ma subiamo anche profondi limiti nostri, interni, di qualità del sistema amministrativo e produttivo.

La produttività italiana – ecco il nodo – è ferma da vent’anni. Anzi, peggio, arretra. Eurostat documenta che la produttività per addetto nell’area dell’euro (19 paesi), facendo base 100 nel 2010, è salita a 105,1 nel 2018, mentre quella italiana è scesa a 98. Perdiamo competitività. Viviamo un invecchiamento e un peggioramento dell’apparato produttivo nrel suo complesso, proprio mentre stanno radicalmente cambiando le ragioni della competitività internazionale, sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalla diffusione del “digitale” e dai grandi passi in avanti della cosiddetta “economia della conoscenza”.
Senza affrontare questi temi – produttività e competitività – non c’è crescita possibile, non ci sono opportunità per creare né benessere né lavoro. Gli stessi stimoli ai redditi e ai consumi e le politiche che portano a tassi bassi non possono avere effetti significativi in termini di sviluppo. L’esperienza di questi anni ne è riprova.

Serve dunque una politica economica orientata allo sviluppo. Come? Le indicazioni possibili sono note da tempo, ma inapplicate, soprattutto da chi ha preferito la propaganda della spesa “facile” e dell’assistenza alla ludicità lungimirante delle riforme. Infrastrutture immateriali (quelle hi tech, digitali) e materiali per comunicazione e servizi (ferrovie ad alta velocità, porti, aeroporti, la Gronda di Genova, le autostrade, etc: proprio quelle ostacolate da uno dei partiti che era ed è ancora al governo). Pubblica amministrazione efficiente (e comunque non “svuotata” e semiparalizzata da “quota 100” per le pensioni). Formazione diffusa, di qualità e per corsi lunghi oltre i normali cicli scolastici. Ricerca. Incentivi fiscali per le imprese che innovano e crescono, sulla scia di quanto di buono era stato già fatto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni. Un ambizioso programma di investimenti pubblici e di stimolo agli investimenti privati, anche con gli “euro bond” per rinnovare e rafforzare, in quantità e qualità, l’apparato produttivo italiano (è questo, il “green new deal” annunciato da Conte?).
Un punto dev’essere chiaro: non c’è ripresa senza impresa. E non c’è crescita d’impresa se non in un orizzonte di fiducia, di sicurezza, di stabilità.

Negli anni, molte imprese italiane hanno fatto bene il loro mestiere, investendo per innovare, crescere, conquistare mercati nel mondo e creando benessere e lavoro. Sono la leva essenziale della politica economica per la crescita. In molti settori l’Italia continua a essere avanguardia europea: meccatronica, farmaceutica, chimica, gomma-plastica, ma anche le “tre A” della tradizione del made in Italy, alimentare, arredamento e abbigliamento. E ha ragione un economista competente come Marco Fortis quando (“Il Foglio”, 16 luglio) parla di un “Pil1” (quello privato e delle industrie del Nord) e di un “Pil2” (quello pubblico e del Mezzogiorno), d’una produttività dinamica e competitiva e, invece, d’una incapacità di produrre ricchezza e di continuare con “i fallimenti”. Non si tratta, naturalmente, di giocare con le contrapposizioni geografiche o di rivendicare spazi per “il partito del Nord” contro il Sud. Ma di parlare seriamente di sviluppo. Di definire politiche che, facendo leva sulla centralità delle imprese e di quelle manifatturiere soprattutto, riavvii il ciclo virtuoso di crescita e nuovo lavoro.

Le ragioni della scarsa produttività, insomma, stanno nell’apparato pubblico e anche in quell’industria privata (di dimensioni piccole e piccolissime) che non ha saputo innovare e crescere e chiede protezioni, sussidi, aiuti. Tutto quello che una buona politica economica per lo sviluppo non deve fare.

Nuove tecnologie alla prova d’impresa

Una tesi discussa al Politecnico di Torino ragiona sul modello 4.0 e le PMI

Si fa presto a dire “trasformazione digitale” oppure “Impresa 4.0”. Perché se il paradigma delle nuove tecnologie appare essere ormai piuttosto chiaro ai molti – almeno nelle sue linee essenziali – la sua attuazione operativa è, invece, assolutamente caratterizzata da una serie di difficoltà, freni, distorsioni che esemplificano bene quanta sia la distanza fra futuro (prossimo) e realtà dell’oggi.
Capire a che punto si è del percorso verso la piena e consapevole adozione delle nuove tecnologie, è quindi importante per comprendere la distanza ancora da coprire, il grado di penetrazione reale del 4.0 e, soprattutto, cosa occorra fare per poter affermare che le nuove tecnologie sono ormai il presente e non il futuro.
Serve quindi leggere il lavoro di tesi di Antonio Pellerino – “La trasformazione digitale nelle Piccole e Medie Imprese” – presentato recentemente al Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria Gestionale della produzione.
Tema centrale della ricerca è infatti la trasformazione digitale che ha modificato significativamente l’industria nel suo complesso: ciò che (anche sbrigativamente), viene identificato con il termine Industria 4.0. In particolare, inoltre, Pellerino si concentra sulla situazione delle PMI, viste come “spina dorsale” dell’industria italiana, ma soprattutto come anello debole della catena che parte dalle nuove tecnologie e arriva nelle fabbriche.
L’indagine segue un percorso lineare e per questo efficace. Nella prima parte ci si dedica ad un’analisi approfondita della letteratura riguardante la digitalizzazione e le tecnologie abilitanti Industria 4.0; nella seconda parte l’autore si concentra sulle PMI e in particolare sulle difficoltà concrete della loro trasformazione digitale, così da comprendere come queste stiano affrontando tale passaggio evolutivo e cosa necessitino per gestirlo.
Scrive l’autore nelle conclusioni di come sia “di fondamentale importanza non solo pianificare una strategia di trasformazione digitale univoca e coerente ma soprattutto che la figura responsabile di tale processo”, debba “essere capace di coinvolgere l’impresa nel suo complesso facendo da ponte tra le diverse possibilità offerte dalla digitalizzazione e un’effettiva” applicazione della stessa.

La trasformazione digitale nelle Piccole e Medie Imprese
Antonio Pellerino
Tesi, Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria Gestionale della produzione, 2019

Clicca qui per scaricare il PDF

Una tesi discussa al Politecnico di Torino ragiona sul modello 4.0 e le PMI

Si fa presto a dire “trasformazione digitale” oppure “Impresa 4.0”. Perché se il paradigma delle nuove tecnologie appare essere ormai piuttosto chiaro ai molti – almeno nelle sue linee essenziali – la sua attuazione operativa è, invece, assolutamente caratterizzata da una serie di difficoltà, freni, distorsioni che esemplificano bene quanta sia la distanza fra futuro (prossimo) e realtà dell’oggi.
Capire a che punto si è del percorso verso la piena e consapevole adozione delle nuove tecnologie, è quindi importante per comprendere la distanza ancora da coprire, il grado di penetrazione reale del 4.0 e, soprattutto, cosa occorra fare per poter affermare che le nuove tecnologie sono ormai il presente e non il futuro.
Serve quindi leggere il lavoro di tesi di Antonio Pellerino – “La trasformazione digitale nelle Piccole e Medie Imprese” – presentato recentemente al Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria Gestionale della produzione.
Tema centrale della ricerca è infatti la trasformazione digitale che ha modificato significativamente l’industria nel suo complesso: ciò che (anche sbrigativamente), viene identificato con il termine Industria 4.0. In particolare, inoltre, Pellerino si concentra sulla situazione delle PMI, viste come “spina dorsale” dell’industria italiana, ma soprattutto come anello debole della catena che parte dalle nuove tecnologie e arriva nelle fabbriche.
L’indagine segue un percorso lineare e per questo efficace. Nella prima parte ci si dedica ad un’analisi approfondita della letteratura riguardante la digitalizzazione e le tecnologie abilitanti Industria 4.0; nella seconda parte l’autore si concentra sulle PMI e in particolare sulle difficoltà concrete della loro trasformazione digitale, così da comprendere come queste stiano affrontando tale passaggio evolutivo e cosa necessitino per gestirlo.
Scrive l’autore nelle conclusioni di come sia “di fondamentale importanza non solo pianificare una strategia di trasformazione digitale univoca e coerente ma soprattutto che la figura responsabile di tale processo”, debba “essere capace di coinvolgere l’impresa nel suo complesso facendo da ponte tra le diverse possibilità offerte dalla digitalizzazione e un’effettiva” applicazione della stessa.

La trasformazione digitale nelle Piccole e Medie Imprese
Antonio Pellerino
Tesi, Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria Gestionale della produzione, 2019

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Mondo automato, impresa automata

Un filosofo affronta le ultime frontiere delle nuove tecnologie

Impresa 4.0, ma non solo. Digitalizzazione, ma anche altro e di più. Rete, non una ma tante. Automazione, sempre più complessa, pervasiva, importante. Sono alcune delle sollecitazioni che arrivano al moderno sistema della produzione – e a chi in esso vive e lavora – dal complesso e ribollente insieme delle nuove tecnologie. Qualcosa in continuo cambiamento e sempre più presente. Qualcosa che c’è e ci sarà e del quale occorre tenere sempre di più conto. Per questo serve – e molto – leggere “Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione” scritto da Cosimo Accoto (filosofo di formazione, e attualmente research affiliate al MIT di Boston con anni di esperienza di analisi attorno a questioni come la filosofia del codice, la scienza dei dati, l’intelligenza artificiale, la logica delle piattaforme e la tecnologia della blockchain).
Il libro di Accoto è un viaggio intorno ad alcuni effetti delle nuove tecnologie che di volta in volta prendono forma come intelligenza artificiale e deep learning, ma anche come droni e robot, e poi come blockchain e smart contract, oppure ancora come cybersicurezza. Tutti aspetti della (vita lavorativa e non) che hanno a che fare con le macchine e, appunto, le tecnologie che le fanno funzionare.
L’autore, partendo dalla constatazione di quanto il mondo, e soprattutto il futuro, siano automati, ragiona sul fatto che queste nuove frontiere tecnologiche sono da un lato potenzialmente gravide di opportunità per la costruzione di un sistema più trasparente, equo e sicuro, ma, dall’altro, anche non prive di vulnerabilità. Pur tenendo conto di questo duplice aspetto, è l’idea di Accoto, è un fatto che l’automatizzazione stia ridisegnando le nostre idee e categorie concettuali, le attività professionali e le relazioni umane, le pratiche cognitive e disciplinari, l’etica e la politica. Una processo complesso, che coinvolge non solo la cultura personale ma anche la cultura del produrre. Con tutte le conseguenze del caso.
Prospettiva complessa, dunque, quella delineata da Accoto che, per meglio condurre il lettore, organizza il proprio viaggio attraversi una serie di tappe chiare di quello che le nuove tecnologie consentono: conoscere, lavorare, organizzare, distruggere, governare.
Il libro di Accoto non si legge certamente con uno sguardo rapido: necessita di attenzione e occhio criticamente concentrato su ogni passaggio. Non è un libro facile da affrontare, ma arrivati alla fine della sua lettura, certamente ci si sentirà culturalmente più capaci di porsi davanti a quel “mondo automato” che ci circonda.
Scrive nelle conclusioni l’autore: “Se vogliamo superare una visione salvifica macchino-centrica e avviare un discorso costruttivo maturo, dobbiamo tornare a leggere culturalmente e filosoficamente la tecnologia, facendola uscire dalla marginalità in cui viene di solito relegata”.

Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione
Cosimo Accoto
Egea, 2019

Un filosofo affronta le ultime frontiere delle nuove tecnologie

Impresa 4.0, ma non solo. Digitalizzazione, ma anche altro e di più. Rete, non una ma tante. Automazione, sempre più complessa, pervasiva, importante. Sono alcune delle sollecitazioni che arrivano al moderno sistema della produzione – e a chi in esso vive e lavora – dal complesso e ribollente insieme delle nuove tecnologie. Qualcosa in continuo cambiamento e sempre più presente. Qualcosa che c’è e ci sarà e del quale occorre tenere sempre di più conto. Per questo serve – e molto – leggere “Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione” scritto da Cosimo Accoto (filosofo di formazione, e attualmente research affiliate al MIT di Boston con anni di esperienza di analisi attorno a questioni come la filosofia del codice, la scienza dei dati, l’intelligenza artificiale, la logica delle piattaforme e la tecnologia della blockchain).
Il libro di Accoto è un viaggio intorno ad alcuni effetti delle nuove tecnologie che di volta in volta prendono forma come intelligenza artificiale e deep learning, ma anche come droni e robot, e poi come blockchain e smart contract, oppure ancora come cybersicurezza. Tutti aspetti della (vita lavorativa e non) che hanno a che fare con le macchine e, appunto, le tecnologie che le fanno funzionare.
L’autore, partendo dalla constatazione di quanto il mondo, e soprattutto il futuro, siano automati, ragiona sul fatto che queste nuove frontiere tecnologiche sono da un lato potenzialmente gravide di opportunità per la costruzione di un sistema più trasparente, equo e sicuro, ma, dall’altro, anche non prive di vulnerabilità. Pur tenendo conto di questo duplice aspetto, è l’idea di Accoto, è un fatto che l’automatizzazione stia ridisegnando le nostre idee e categorie concettuali, le attività professionali e le relazioni umane, le pratiche cognitive e disciplinari, l’etica e la politica. Una processo complesso, che coinvolge non solo la cultura personale ma anche la cultura del produrre. Con tutte le conseguenze del caso.
Prospettiva complessa, dunque, quella delineata da Accoto che, per meglio condurre il lettore, organizza il proprio viaggio attraversi una serie di tappe chiare di quello che le nuove tecnologie consentono: conoscere, lavorare, organizzare, distruggere, governare.
Il libro di Accoto non si legge certamente con uno sguardo rapido: necessita di attenzione e occhio criticamente concentrato su ogni passaggio. Non è un libro facile da affrontare, ma arrivati alla fine della sua lettura, certamente ci si sentirà culturalmente più capaci di porsi davanti a quel “mondo automato” che ci circonda.
Scrive nelle conclusioni l’autore: “Se vogliamo superare una visione salvifica macchino-centrica e avviare un discorso costruttivo maturo, dobbiamo tornare a leggere culturalmente e filosoficamente la tecnologia, facendola uscire dalla marginalità in cui viene di solito relegata”.

Il mondo ex machina. Cinque brevi lezioni di filosofia dell’automazione
Cosimo Accoto
Egea, 2019

Photo bike tour “Scatta la Bicocca”.
La Fondazione Pirelli a Archivi Aperti 2019

«La Bicocca degli anni Novanta non dovrà essere uno spazio chiuso e inaccessibile ai cittadini, ma al contrario un luogo aperto, ricco di possibilità di comunicazione e di interscambio economico sociale e culturale. Un’area dove nuove tecnologie “parleranno il linguaggio degli uomini” restituendo una valenza urbana alla vecchia-città fabbrica della Bicocca.» Con queste parole Leopoldo Pirelli, nel 1986, descriveva il Progetto Bicocca, il più grande progetto di riqualificazione urbana in Europa che allora interessava un’area di 700.000 mq a nord di Milano e che dal 1908 era sede dello stabilimento Pirelli che produceva pneumatici, cavi e articoli diversificati in gomma. La riqualificazione stava per ridisegnare il volto del quartiere Bicocca, trasformandolo in un’area dedicata alle nuove tecnologie, ai servizi, al terziario avanzato. Oggi, dopo un lungo processo di trasformazione che ancora continua, accanto a Pirelli — presente con la sede centrale, i laboratori di Ricerca e Sviluppo, la Fondazione Pirelli — il quartiere ospita l’Università Statale di Milano-Bicocca, centri di ricerca, diverse aziende, residenze private, luoghi deputati alla cultura. Le testimonianze del passato di cui parlava l’Ingegner Pirelli sono disseminate nell’odierno quartiere Bicocca, concepito dall’Architetto Vittorio Gregotti, vincitore con il suo studio del concorso internazionale per la riqualificazione dell’area con un progetto “ispirato a criteri di semplicità e di rispetto del sito e della sua tradizione”. Ma il luogo che più di ogni altro conserva le tracce della storia dell’area è la Fondazione Pirelli che custodisce l’Archivio Storico dell’Azienda. Qui documenti, progetti e soprattutto fotografie consentono di ricostruire la mappa dell’area e delle sue trasformazioni. Luoghi più volte immortalati anche dall’obiettivo di grandi fotografi, con i quali da sempre Pirelli collabora per documentare la propria attività e le proprie evoluzioni: Gabriele BasilicoToni NicoliniFrancesco Radino, per citarne solo alcuni. Questo ricco patrimonio sarà valorizzato in particolare domenica 27 ottobre con un’iniziativa rivolta ad appassionati di fotografia e di storia di Milano all’interno della quinta edizione di “Archivi Aperti”, promossa da Rete Fotografia. I partecipanti potranno ripercorrere l’area in sella alle e-bike Pirelli – biciclette a pedalata assistita di ultima generazione – individuando le tracce e gli echi del passato che sopravvivono nel presente e scattando fotografie dagli stessi punti di vista dei grandi fotografi. Il tour partirà dalla Fondazione Pirelli per proseguire tra le strade del quartiere: dall’Headquarters Pirelli al Borgo Pirelli, costruito  negli anni Venti del Novecento, passando per l’edificio della Deutsche Bank disegnato dall’architetto Gino Valle, fino alla stazione ferroviaria di Greco Pirelli e al Teatro degli Arcimboldi, nato nel 2001. E poi l’Università, con il primo palazzo riqualificato dal Progetto Bicocca, il fabbricato 184. Un continuo dialogo tra passato e presente, in una delle aree più interessanti della città di Milano.

Gli scatti più evocativi saranno pubblicati accanto a quelli storici sui canali digitali della Fondazione Pirelli: per partecipare all’iniziativa invia il tuo profilo social e raccontaci i tuoi interessi legati al mondo della fotografia e della città di Milano, indicando il turno di preferenza all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org e sarai ricontattato al più presto.

Scarica la locandina

«La Bicocca degli anni Novanta non dovrà essere uno spazio chiuso e inaccessibile ai cittadini, ma al contrario un luogo aperto, ricco di possibilità di comunicazione e di interscambio economico sociale e culturale. Un’area dove nuove tecnologie “parleranno il linguaggio degli uomini” restituendo una valenza urbana alla vecchia-città fabbrica della Bicocca.» Con queste parole Leopoldo Pirelli, nel 1986, descriveva il Progetto Bicocca, il più grande progetto di riqualificazione urbana in Europa che allora interessava un’area di 700.000 mq a nord di Milano e che dal 1908 era sede dello stabilimento Pirelli che produceva pneumatici, cavi e articoli diversificati in gomma. La riqualificazione stava per ridisegnare il volto del quartiere Bicocca, trasformandolo in un’area dedicata alle nuove tecnologie, ai servizi, al terziario avanzato. Oggi, dopo un lungo processo di trasformazione che ancora continua, accanto a Pirelli — presente con la sede centrale, i laboratori di Ricerca e Sviluppo, la Fondazione Pirelli — il quartiere ospita l’Università Statale di Milano-Bicocca, centri di ricerca, diverse aziende, residenze private, luoghi deputati alla cultura. Le testimonianze del passato di cui parlava l’Ingegner Pirelli sono disseminate nell’odierno quartiere Bicocca, concepito dall’Architetto Vittorio Gregotti, vincitore con il suo studio del concorso internazionale per la riqualificazione dell’area con un progetto “ispirato a criteri di semplicità e di rispetto del sito e della sua tradizione”. Ma il luogo che più di ogni altro conserva le tracce della storia dell’area è la Fondazione Pirelli che custodisce l’Archivio Storico dell’Azienda. Qui documenti, progetti e soprattutto fotografie consentono di ricostruire la mappa dell’area e delle sue trasformazioni. Luoghi più volte immortalati anche dall’obiettivo di grandi fotografi, con i quali da sempre Pirelli collabora per documentare la propria attività e le proprie evoluzioni: Gabriele BasilicoToni NicoliniFrancesco Radino, per citarne solo alcuni. Questo ricco patrimonio sarà valorizzato in particolare domenica 27 ottobre con un’iniziativa rivolta ad appassionati di fotografia e di storia di Milano all’interno della quinta edizione di “Archivi Aperti”, promossa da Rete Fotografia. I partecipanti potranno ripercorrere l’area in sella alle e-bike Pirelli – biciclette a pedalata assistita di ultima generazione – individuando le tracce e gli echi del passato che sopravvivono nel presente e scattando fotografie dagli stessi punti di vista dei grandi fotografi. Il tour partirà dalla Fondazione Pirelli per proseguire tra le strade del quartiere: dall’Headquarters Pirelli al Borgo Pirelli, costruito  negli anni Venti del Novecento, passando per l’edificio della Deutsche Bank disegnato dall’architetto Gino Valle, fino alla stazione ferroviaria di Greco Pirelli e al Teatro degli Arcimboldi, nato nel 2001. E poi l’Università, con il primo palazzo riqualificato dal Progetto Bicocca, il fabbricato 184. Un continuo dialogo tra passato e presente, in una delle aree più interessanti della città di Milano.

Gli scatti più evocativi saranno pubblicati accanto a quelli storici sui canali digitali della Fondazione Pirelli: per partecipare all’iniziativa invia il tuo profilo social e raccontaci i tuoi interessi legati al mondo della fotografia e della città di Milano, indicando il turno di preferenza all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org e sarai ricontattato al più presto.

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Peter Lindbergh e Pirelli: il Calendario e la fabbrica bella

Quattro immagini del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese: il nostro omaggio a Peter Lindbergh, il grande fotografo tedesco scomparso oggi a 74 anni. Tratte dal nostro volume Il canto della fabbrica, (Mondadori 2018), le immagini documentano il lavoro di Lindbergh nello stabilimento di Settimo nell’ambito del progetto che ha portato alla realizzazione del Calendario Pirelli 2017. Il suggestivo scatto in bianco e nero è stato presentato in anteprima all’interno della mostra Pirelli in cento immagini. La bellezza, l’innovazione, la produzione, curata dalla Fondazione e inaugurata nel gennaio 2017 presso la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese per raccontare gli oltre 140 anni di storia dell’azienda attraverso i molti aspetti del suo mondo.


Sopra:
Uno degli scatti realizzati dal grande fotografo tedesco presso lo Stabilimento di Settimo Torinese nel 2016
Nella gallery:
Peter Lindbergh durante il servizio fotografico realizzato presso il Polo Industriale di Settimo Torinese, 2016 (foto di Alessandro Scotti)

Quattro immagini del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese: il nostro omaggio a Peter Lindbergh, il grande fotografo tedesco scomparso oggi a 74 anni. Tratte dal nostro volume Il canto della fabbrica, (Mondadori 2018), le immagini documentano il lavoro di Lindbergh nello stabilimento di Settimo nell’ambito del progetto che ha portato alla realizzazione del Calendario Pirelli 2017. Il suggestivo scatto in bianco e nero è stato presentato in anteprima all’interno della mostra Pirelli in cento immagini. La bellezza, l’innovazione, la produzione, curata dalla Fondazione e inaugurata nel gennaio 2017 presso la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese per raccontare gli oltre 140 anni di storia dell’azienda attraverso i molti aspetti del suo mondo.


Sopra:
Uno degli scatti realizzati dal grande fotografo tedesco presso lo Stabilimento di Settimo Torinese nel 2016
Nella gallery:
Peter Lindbergh durante il servizio fotografico realizzato presso il Polo Industriale di Settimo Torinese, 2016 (foto di Alessandro Scotti)

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L’autunno dell’economia mondiale fra timori di recessione e impegni per la green economy

L’autunno dell’economia mondiale comincia con un doppio segno. Quello dei timori d’una nuova recessione globale. E quello, del tutto opposto, carico di fiducia, dell’attenzione crescente ai temi ambientali espressa sia dal mondo economico che dai governi del G7, preoccupati per i roghi che devastano Siberia, Amazzonia ed Africa e il contemporaneo scioglimento dei ghiacciai e ben intenzionati, dunque, a ragionare concretamente di “sviluppo sostenibile”.

Ci si può fare ironia, come il tagliente Altan (“La recessione è un fatto transitorio”, dice uno dei suoi omini un po’ truci. “Poi andrà peggio”, replica l’altro). Ma anche ragionare positivamente su quella che sembra una svolta etica delle imprese: il documento della Business Roundtable (il club delle principali 180 multinazionali azionali Usa) che mette in secondo piano il principio dello shareholder value (profitto e valore delle azioni) per lasciare uno spazio essenziale agli interessi e ai valori degli stakeholders (dipendenti, consumatori, fornitori, persone delle comunità coinvolte dall’attività delle imprese).

Per dirla in sintesi: entriamo in un autunno in cui il tema centrale è la crescita economica, ma d’una qualità e d’un equilibrio molto migliori che nel passato.

L’economia globale sta rallentando, sostengono i principali banchieri mondiali riuniti, alla fine d’agosto, tra le montagne del Wyoming, negli Usa. S’avverte l’ombra della recessione, conferma la Bce, ben consapevole della crisi dell’economia tedesca (bloccata soprattutto dalle difficoltà del settore dell’auto) e della stagnazione italiana, che dura oramai da cinque trimestri (l’Istat, venerdì, ha confermato per l’Italia crescita zero per il 2019) e della fragilità di tutta l’area Ue (crescita prevista dell’1,1%). Le guerre dei dazi e delle valute scatenate dal sovranismo irresponsabile di Triumph, verso la Cina e l’Europa stanno amplificando le conseguenze negative per tutto il commercio internazionale. La Brexit aggrava il quadro. Le tensioni politiche in Cina (Hong Kong), India, Iran e Africa tengono un po’ tutto il mondo in grande tensione.

C’è dunque da essere preoccupati, seriamente. Eppure, chi osserva con attenzione i fenomeni economici, non può non nutrire anche alcune fondate speranze sulle ipotesi di radicali e positivi cambiamenti del contesto. Quali? Quelli che potremmo riassumere sotto il cappello della green economy.

Guardiamo meglio, allora, al documento della Business Roundtable. Firmato nel cuore d’agosto da più di 180 top manager (quelli di Amazon, Apple, Accenture, BlackRock, IBM, JP Morgan, Goldman Sachs, Coca Cola, General Motors, At&T e delle altre grandi aziende della Corporate America, con 15milioni di dipendenti), rovescia la shareholder theory di Milton Friedman (“La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”) che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta a oggi e sostiene che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dai Chicago Boys liberisti di Friedman alla rilettura di Keynes, liberale con forte sensibilità sociale, si potrebbe dire in una sola frase di sintesi.

Guardiamo meglio. È una svolta opportunistica, per cercare di salvare con una riverniciata green gli interessi di un business che incontra crescenti critiche etiche e sociali, dicono gli osservatori più sospettosi e disincantati. Una vera e propria “sterzata nella filosofia degli imprenditori”, s’entusiasma invece The Wall Street Journal. Anche The Economist è positivamente orientato, parlando di impegno sociale delle imprese, per un capitalismo “civile” o ancora più precisamente “collettivo”, attento alle esigenze della società. “La svolta etica del capitalismo”, titola il Corriere della Sera. Opportunista o meno che sia la svolta, le dichiarazioni formali dei documenti hanno una loro forza, una certa solennità. E queste risentono comunque degli orientamenti di un’opinione pubblica che, soprattutto tra i millennials (i nati tra il 1981 e il 1996), come manager ma anche come consumatori, mostra una crescente sensibilità per il temi ambientali e gli equilibri sociali (lo ha ben documentato su IlSole24Ore del 30 agosto Giorgio Barba Navaretti, economista impegnato tra l’Università Statale di Milano e SciencePo di Parigi). E possono avere un ruolo importante nel miglioramento del clima economico e nella costruzione di un nuovo e più equilibrato paradigma di crescita e contribuire a una “economia civile” e “circolare” nel segno della responsabilità d’uno sviluppo “sostenibile e inclusivo”, capace di legare competitività e sostenibilità ambientale e sociale.

Come? C’è una crescente letteratura economica e sociale, sul tema. E indicazioni interessanti si ritrovano anche nelle pagine di  “Responsabili”, il nuovo libro di Stefano Zamagni (edito da Il Mulino), un autorevole economista attento alle questioni sociali e, appunto, all’economia civile, adesso presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, molto ascoltato da Papa Francesco sui temi dell’”economia giusta”. Keynes, appunto (e i suoi nuovi interpreti, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Crouch). E un rilancio contemporaneo della dottrina sociale della Chiesa, in originale dialogo, che s’aggiorna con il miglior ambientalismo.

La svolta green e sostenibile della Corporate America, peraltro, arriva dopo le impegnative prese di posizione di imprese e associazioni imprenditoriali in Francia e in Germania, oltre che naturalmente in Italia, con la scelta di Confindustria che aveva reso pubblico, già nel 2018, il “Manifesto per la responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0”, legando innovazione hi tech e sostenibilità (una strada già percorsa da tempo, con successo, da parecchie delle migliori imprese italiane, come abbiamo raccontato spesso in questo blog). E sono molte le associazioni e le fondazioni d’impresa che sostengono le battaglie e le ricerche di Symbola, guidata da Ermete Realacci, una delle personalità più autorevoli dell’ambientalismo italiano e le attività dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta da Enrico Giovannini e impegnata a tradurre in prativa i principi dei Sustainable Development Goals degli accordi Onu di Parigi 2015.

Ecco dunque la leva essenziale della green economy. Può ispirare i programmi e le iniziative della nuova commissione Ue guidata da Ursula von del Leyen (ci sono già impegnative dichiarazioni in questo senso). Ma anche le attività del nuovo governo italiano, che sul legame tra competitività e sostenibilità può giocare molte carte positive.

L’autunno dell’economia mondiale comincia con un doppio segno. Quello dei timori d’una nuova recessione globale. E quello, del tutto opposto, carico di fiducia, dell’attenzione crescente ai temi ambientali espressa sia dal mondo economico che dai governi del G7, preoccupati per i roghi che devastano Siberia, Amazzonia ed Africa e il contemporaneo scioglimento dei ghiacciai e ben intenzionati, dunque, a ragionare concretamente di “sviluppo sostenibile”.

Ci si può fare ironia, come il tagliente Altan (“La recessione è un fatto transitorio”, dice uno dei suoi omini un po’ truci. “Poi andrà peggio”, replica l’altro). Ma anche ragionare positivamente su quella che sembra una svolta etica delle imprese: il documento della Business Roundtable (il club delle principali 180 multinazionali azionali Usa) che mette in secondo piano il principio dello shareholder value (profitto e valore delle azioni) per lasciare uno spazio essenziale agli interessi e ai valori degli stakeholders (dipendenti, consumatori, fornitori, persone delle comunità coinvolte dall’attività delle imprese).

Per dirla in sintesi: entriamo in un autunno in cui il tema centrale è la crescita economica, ma d’una qualità e d’un equilibrio molto migliori che nel passato.

L’economia globale sta rallentando, sostengono i principali banchieri mondiali riuniti, alla fine d’agosto, tra le montagne del Wyoming, negli Usa. S’avverte l’ombra della recessione, conferma la Bce, ben consapevole della crisi dell’economia tedesca (bloccata soprattutto dalle difficoltà del settore dell’auto) e della stagnazione italiana, che dura oramai da cinque trimestri (l’Istat, venerdì, ha confermato per l’Italia crescita zero per il 2019) e della fragilità di tutta l’area Ue (crescita prevista dell’1,1%). Le guerre dei dazi e delle valute scatenate dal sovranismo irresponsabile di Triumph, verso la Cina e l’Europa stanno amplificando le conseguenze negative per tutto il commercio internazionale. La Brexit aggrava il quadro. Le tensioni politiche in Cina (Hong Kong), India, Iran e Africa tengono un po’ tutto il mondo in grande tensione.

C’è dunque da essere preoccupati, seriamente. Eppure, chi osserva con attenzione i fenomeni economici, non può non nutrire anche alcune fondate speranze sulle ipotesi di radicali e positivi cambiamenti del contesto. Quali? Quelli che potremmo riassumere sotto il cappello della green economy.

Guardiamo meglio, allora, al documento della Business Roundtable. Firmato nel cuore d’agosto da più di 180 top manager (quelli di Amazon, Apple, Accenture, BlackRock, IBM, JP Morgan, Goldman Sachs, Coca Cola, General Motors, At&T e delle altre grandi aziende della Corporate America, con 15milioni di dipendenti), rovescia la shareholder theory di Milton Friedman (“La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”) che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta a oggi e sostiene che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dai Chicago Boys liberisti di Friedman alla rilettura di Keynes, liberale con forte sensibilità sociale, si potrebbe dire in una sola frase di sintesi.

Guardiamo meglio. È una svolta opportunistica, per cercare di salvare con una riverniciata green gli interessi di un business che incontra crescenti critiche etiche e sociali, dicono gli osservatori più sospettosi e disincantati. Una vera e propria “sterzata nella filosofia degli imprenditori”, s’entusiasma invece The Wall Street Journal. Anche The Economist è positivamente orientato, parlando di impegno sociale delle imprese, per un capitalismo “civile” o ancora più precisamente “collettivo”, attento alle esigenze della società. “La svolta etica del capitalismo”, titola il Corriere della Sera. Opportunista o meno che sia la svolta, le dichiarazioni formali dei documenti hanno una loro forza, una certa solennità. E queste risentono comunque degli orientamenti di un’opinione pubblica che, soprattutto tra i millennials (i nati tra il 1981 e il 1996), come manager ma anche come consumatori, mostra una crescente sensibilità per il temi ambientali e gli equilibri sociali (lo ha ben documentato su IlSole24Ore del 30 agosto Giorgio Barba Navaretti, economista impegnato tra l’Università Statale di Milano e SciencePo di Parigi). E possono avere un ruolo importante nel miglioramento del clima economico e nella costruzione di un nuovo e più equilibrato paradigma di crescita e contribuire a una “economia civile” e “circolare” nel segno della responsabilità d’uno sviluppo “sostenibile e inclusivo”, capace di legare competitività e sostenibilità ambientale e sociale.

Come? C’è una crescente letteratura economica e sociale, sul tema. E indicazioni interessanti si ritrovano anche nelle pagine di  “Responsabili”, il nuovo libro di Stefano Zamagni (edito da Il Mulino), un autorevole economista attento alle questioni sociali e, appunto, all’economia civile, adesso presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, molto ascoltato da Papa Francesco sui temi dell’”economia giusta”. Keynes, appunto (e i suoi nuovi interpreti, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Crouch). E un rilancio contemporaneo della dottrina sociale della Chiesa, in originale dialogo, che s’aggiorna con il miglior ambientalismo.

La svolta green e sostenibile della Corporate America, peraltro, arriva dopo le impegnative prese di posizione di imprese e associazioni imprenditoriali in Francia e in Germania, oltre che naturalmente in Italia, con la scelta di Confindustria che aveva reso pubblico, già nel 2018, il “Manifesto per la responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0”, legando innovazione hi tech e sostenibilità (una strada già percorsa da tempo, con successo, da parecchie delle migliori imprese italiane, come abbiamo raccontato spesso in questo blog). E sono molte le associazioni e le fondazioni d’impresa che sostengono le battaglie e le ricerche di Symbola, guidata da Ermete Realacci, una delle personalità più autorevoli dell’ambientalismo italiano e le attività dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta da Enrico Giovannini e impegnata a tradurre in prativa i principi dei Sustainable Development Goals degli accordi Onu di Parigi 2015.

Ecco dunque la leva essenziale della green economy. Può ispirare i programmi e le iniziative della nuova commissione Ue guidata da Ursula von del Leyen (ci sono già impegnative dichiarazioni in questo senso). Ma anche le attività del nuovo governo italiano, che sul legame tra competitività e sostenibilità può giocare molte carte positive.

Luoghi d’impresa

Condensato in un libro il ragionamento sul valore dei luoghi nei quali comunità e produzione si fanno un tutt’uno

Luoghi d’impresa. E quindi luoghi di comunità di donne e uomini accomunati da uno stesso destino (seppur solamente produttivo). Luoghi d’intenti condivisi, di visioni imprenditoriali e non solo, che si fanno organizzazioni della produzione e che si animano con il lavoro di molti. È una delle constatazioni, apparentemente paradossali, che è possibile fare osservando i sistemi produttivi dell’oggi. Nell’era della globalizzazione, della digitalizzazione, dell’immateriale produttivo, si torna a valorizzare il luogo di produzione. E non si tratta solamente del risultato di mode passeggere legate a particolari comparti produttivi. Si riscoprono, invece, anche i luoghi delle fabbriche. Torna a farsi sentire l’importanza della dimensione territoriale e comunitaria della produzione.

È attorno a questo nodo di idee che ruota “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” scritto a quattro mani da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, rispettivamente direttore di AICCON, Centro Studi sul non profit e la cooperazione dell’Università di Bologna, e sociologo che si occupa da oltre vent’anni di terzo settore e impresa sociale.
La tesi del libro è semplice: sono i territori, i quartieri e le periferie, i luoghi privilegiati dove si sperimentano le innovazioni sociali da cui provengono gli impulsi più significativi allo sviluppo e al benessere. Anzi, mai come adesso la creazione di valore si gioca a livello territoriale e il destino delle imprese è legato a quello del contesto in cui operano. È la manifestazione di quella cultura del produrre radicata in ben determinati luoghi geografici, che trova il suo momento d’oro.
Secondo Venturi e Zandonai, ovviamente, mettere insieme luoghi fisici, persone, mercati, aziende e grandi movimenti globali, non è cosa semplice ma una sfida nella quale contano visioni, relazioni sociali, prodotti materiali e risorse immateriali, condizioni infrastrutturali e regole politiche. Il “dove” vivere e produrre viene così creato, racconta il libro, dall’insieme di apertura e coesione che fanno la differenza perché agiscono come meccanismi generativi di nuove infrastrutture sociali capaci di trasformare gli spazi in luoghi e ricreare quella che gli autori chiamano “ecologia delle relazioni” indispensabile alla vita in comune e allo sviluppo economico.

Un cammino che non è automatico, ma che va aiutato. Per questo gli autori arrivano a proporre un manifesto in tre punti (o tre manifesti come viene indicato nel libro), rivolti rispettivamente al mondo delle imprese (viste come comunità educanti), ai decisori politici (che sono chiamati a produrre misure in favore delle comunità) e al terzo settore.
Quando delineato da Venturi e Zandonai è un quadro complesso, non facile, con il quale molti dovranno fare i conti e altri non saranno pienamente d’accordo. Ma quanto descritto nel libro è certamente da considerare con attenzione.
Scrivono i due autori: “È (…) intorno alla rigenerazione dei luoghi che si gioca la partita decisiva: una sfida che chiama in causa quei beni intangibili come la partecipazione dei cittadini nei processi deliberativi e la coesione sociale che oggi è sotto attacco a causa delle crescenti disuguaglianze e della tendenza al ripiegamento delle comunità stesse. Oggi a dominare infatti sono comunità rancorose, che preferiscono investire il loro capitale di relazioni e fiducia internamente (bonding) e non per ampliare la propria connettività (bridging). E infatti è proprio intorno a un carattere aperto e connesso dei legami sociali che oggi si gioca la partita del «locale»: non solo per imprese e istituzioni ma anche per la società civile”.

Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società
Paolo Venturi, Flaviano Zandonai
Egea, 2019

Condensato in un libro il ragionamento sul valore dei luoghi nei quali comunità e produzione si fanno un tutt’uno

Luoghi d’impresa. E quindi luoghi di comunità di donne e uomini accomunati da uno stesso destino (seppur solamente produttivo). Luoghi d’intenti condivisi, di visioni imprenditoriali e non solo, che si fanno organizzazioni della produzione e che si animano con il lavoro di molti. È una delle constatazioni, apparentemente paradossali, che è possibile fare osservando i sistemi produttivi dell’oggi. Nell’era della globalizzazione, della digitalizzazione, dell’immateriale produttivo, si torna a valorizzare il luogo di produzione. E non si tratta solamente del risultato di mode passeggere legate a particolari comparti produttivi. Si riscoprono, invece, anche i luoghi delle fabbriche. Torna a farsi sentire l’importanza della dimensione territoriale e comunitaria della produzione.

È attorno a questo nodo di idee che ruota “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” scritto a quattro mani da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, rispettivamente direttore di AICCON, Centro Studi sul non profit e la cooperazione dell’Università di Bologna, e sociologo che si occupa da oltre vent’anni di terzo settore e impresa sociale.
La tesi del libro è semplice: sono i territori, i quartieri e le periferie, i luoghi privilegiati dove si sperimentano le innovazioni sociali da cui provengono gli impulsi più significativi allo sviluppo e al benessere. Anzi, mai come adesso la creazione di valore si gioca a livello territoriale e il destino delle imprese è legato a quello del contesto in cui operano. È la manifestazione di quella cultura del produrre radicata in ben determinati luoghi geografici, che trova il suo momento d’oro.
Secondo Venturi e Zandonai, ovviamente, mettere insieme luoghi fisici, persone, mercati, aziende e grandi movimenti globali, non è cosa semplice ma una sfida nella quale contano visioni, relazioni sociali, prodotti materiali e risorse immateriali, condizioni infrastrutturali e regole politiche. Il “dove” vivere e produrre viene così creato, racconta il libro, dall’insieme di apertura e coesione che fanno la differenza perché agiscono come meccanismi generativi di nuove infrastrutture sociali capaci di trasformare gli spazi in luoghi e ricreare quella che gli autori chiamano “ecologia delle relazioni” indispensabile alla vita in comune e allo sviluppo economico.

Un cammino che non è automatico, ma che va aiutato. Per questo gli autori arrivano a proporre un manifesto in tre punti (o tre manifesti come viene indicato nel libro), rivolti rispettivamente al mondo delle imprese (viste come comunità educanti), ai decisori politici (che sono chiamati a produrre misure in favore delle comunità) e al terzo settore.
Quando delineato da Venturi e Zandonai è un quadro complesso, non facile, con il quale molti dovranno fare i conti e altri non saranno pienamente d’accordo. Ma quanto descritto nel libro è certamente da considerare con attenzione.
Scrivono i due autori: “È (…) intorno alla rigenerazione dei luoghi che si gioca la partita decisiva: una sfida che chiama in causa quei beni intangibili come la partecipazione dei cittadini nei processi deliberativi e la coesione sociale che oggi è sotto attacco a causa delle crescenti disuguaglianze e della tendenza al ripiegamento delle comunità stesse. Oggi a dominare infatti sono comunità rancorose, che preferiscono investire il loro capitale di relazioni e fiducia internamente (bonding) e non per ampliare la propria connettività (bridging). E infatti è proprio intorno a un carattere aperto e connesso dei legami sociali che oggi si gioca la partita del «locale»: non solo per imprese e istituzioni ma anche per la società civile”.

Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società
Paolo Venturi, Flaviano Zandonai
Egea, 2019

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